TAHAR BEN JELLOUN, LE PARETI DELLA SOLITUDINE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2017
Un grido di rabbia e di dolore che sembra uscire dai precordi dell’anima e dalle viscere, quello che Tahar Ben Jelloun, nato in Marocco nel 1944 e residente in Francia da moltissimi anni, autore acclamato di molti romanzi, ha lanciato dalle pagine di questo romanzo, Le pareti della solitudine. Scritto nel 1975, quando l’autore lavorava come psicologo in un centro di medicina psicosomatica a Parigi, osservando e ascoltando più di un centinaio di pazienti nordafricani sofferenti di disturbi sessuali o affettivi. Supportato dall’esperienza medica di uno psichiatra, che prescriveva ai pazienti psicofarmaci, Jelloun intuiva che il rapporto da stabilire con queste persone (allora quasi tutti uomini giovani e soli, poiché ancora non si prevedeva il ricongiungimento familiare) doveva utilizzare altri strumenti esplorativi e curativi, basati sul colloquio, sulla solidarietà e sulla comprensione. «Ero al centro di un disperato disagio, che non si poteva sospettare incontrando quegli uomini grigi e un po’ stanchi che passavano la domenica a sognare il paese lontano o a fare la coda davanti a un sordido albergo, dove qualche prostituta accettava di alleviare un po’ la loro solitudine».
Per raccontare questa esperienza, vissuta sulla sua pelle di studioso ma anche di immigrato marocchino, immagina allora una persona in carne e ossa, un giovane frustrato che avverte ostile e indifferente l’ambiente che lo circonda. Diventa lui, diventa Momo, ricostruisce il suo passato attraverso squarci di malinconica nostalgia, oppure urla la sua protesta e le sue rivendicazioni (economiche, sindacali e sessuali), con tutto l’odio e il rancore di chi si vede privato di ogni dignità e di ogni futuro. Momo lavora in fabbrica o nei cantieri, vive in una camera stretta come un baule, dorme in un letto a castello in un condominio fatiscente adibito ad ospitare extracomunitari; sulle pareti sono appesi elenchi di regole da rispettare, divieti e prescrizioni, multe e minacce di sfratto: «Il mio letto è sfondato. La mia schiena è rotta dalla fatica. Preparo da mangiare nel baule. Mangio e parlo ai miei stivali. Canto nei miei stivali. Urlo nei miei stivali. Piscio anche negli stivali».
Jelloun non conosce remore nel descrivere in prima persona l’abbruttimento fisico a cui Momo si riduce: la scarsa pulizia, i rapporti promiscui, la masturbazione, le fantasie malate. Lo fa alternando monologhi e descrizioni poetiche, dialoghi surreali, brani di giornali e di lettere, favole riemerse da ricordi dell’infanzia, utilizzando anche gli strumenti della retorica e delle immagini più abusate, per rendere esplicita quale e quanta sia l’angoscia di chi si riduce a vivere come una larva: «Sapevate forse; o lo saprete adesso: passo il tempo cosiddetto libero a fare piani per la demenza, per riuscire a trattenere il grido in corpo, perché il suicidio non arrivi dopo un accesso di febbre, perché la morte, cominciata da un pezzo, non sia un semplice incidente sul lavoro».
Nelle due lunghe e meditate introduzioni al romanzo, l’autore si sofferma sulla questione tormentata dell’immigrazione africana in Europa, sulle derive prive di qualsiasi prospettiva politica del razzismo: lo fa con la pacatezza di chi ha meditato per anni sul fenomeno, e con l’empatia dello psicologo e dell’artista. Sapendo che per il mondo occidentale non c’è altra prospettiva di salvezza che questa: «L’avvenire sarà nel meticciato, nella mescolanza dei colori, delle spezie e delle immaginazioni»: respingimenti e muri non fermeranno l’ondata planetaria di chi fugge dalla disperazione.
© Riproduzione riservata www.sololibri.net/Le-pareti–della–solitudine-Ben-Jelloun.html 2 dicembre 2017