ELIAS CANETTI, IL LIBRO CONTRO LA MORTE – ADELPHI, MILANO 2017
Elias Canetti nacque in Bulgaria nel 1905 da una famiglia ebrea colta e benestante: la sua lingua materna fu il ladino, ma in seguito imparò il tedesco, che utilizzò per scrivere tutte le sue opere, quindi il bulgaro, l’inglese, il francese, lo spagnolo: acquisizioni rese necessarie dalle frequenti peregrinazioni della sua famiglia in tutt’Europa. Visse infatti a Manchester, Vienna, Francoforte, Berlino, Parigi, Londra, Zurigo, dove morì nel 1994 e dove è sepolto, accanto alla tomba di James Joyce. Si laureò in chimica, materia in cui conseguì anche un dottorato, senza mai praticarla a livello professionale. Sposò nel 1934 la scrittrice sefardita Veza Taubner-Calderòn, donna affascinante con cui ebbe un sodalizio affettivo e culturale profondo e tormentato, conclusosi con il suicidio di lei nel 1963. Conobbe e frequentò gli intellettuali più importanti della sua epoca: Brecht, Babel’, Grosz, Musil, Berg, Alma Mahler. Fu traduttore, autore teatrale (Nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza), romanziere (Autodafé), saggista (il fondamentale studio Massa e potere, pubblicato nel 1960, che gli costò quarant’anni di lavoro, e Le voci di Marrakech). Naturalizzato cittadino britannico, nel 1971 Canetti sposò in seconde nozze la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’unica figlia Johanna. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”.
Forse il lavoro più rappresentativo di Canetti fu l’autobiografia divisa in tre parti (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi) e pubblicata fra il 1977 e il 1985. Ma anche il volume da poco uscito presso Adelphi, Il libro contro la morte, riveste un’importanza eccezionale, perché raduna nelle sue pagine in maniera asistematica “frasi sparse e paradossali”, noterelle, riflessioni, emozioni, bozzetti di racconti, satire, aforismi composti nell’arco di tutta l’esistenza, con un unico e ossessivo tema: l’ostilità nei riguardi della morte, la non accettazione della sua inevitabilità, avvertita come una condanna ingiusta, stupida, ingiustificabile, ed espressione massima della sopraffazione di un potere materiale e metafisico.
La stesura dei primi appunti risale al 1942, e durò fino al 1988, occupando in caratteri stenografici decine di taccuini, da cui furono tratte nel corso degli anni pubblicazioni parziali severamente revisionate. L’edizione attuale ha raccolto materiale in gran parte inedito, ricostruito con sapiente attenzione filologica, selezionato sia sulla base della fedeltà al tema della morte, sia privilegiando i toni più pungenti, sarcastici e provocatori. Uscito postumo in Germania nel 2014, con postfazione di Peter von Matt, esaudisce un proposito che Canetti aveva espresso forse già dalla morte prematura del padre, avvenuta quando lui aveva solo sette anni; o più probabilmente dalla scomparsa della madre, a cui era morbosamente attaccato: “Voglio riprendermela dalla bara, dovessi anche allentare ogni singola vite con le labbra. Lo so che è morta. Lo so che è decomposta. Ma non lo accetterò mai. Voglio farla tornare in vita. Dove ritrovo le sue parti? Il più è ancora nei miei fratelli e in me. Ma questo non basta. Voglio ritrovare ogni persona che l’ha conosciuta. Voglio riavere tutte le parole che lei ha pronunciato. Dovrò posare il piede dove lo ha posato lei, odorare le piante che ha odorato lei, i discendenti di quei fiori cui lei ha accostato le sue vigorose narici… Dove sono le sue ombre? Dov’è la sua collera? Io le presto il mio respiro. Lei camminerà con le mie gambe”. Forse a partire da quel tragico e devastante lutto, Canetti decise di diventare un Todfeind, un nemico della morte, uno spregiatore della dissolvenza nel niente: non solo del proprio inevitabile finire, ma dell’annullarsi di qualsiasi fibra vivente, vegetale, animale, umana. E la sua prometeica ribellione ha preso inevitabilmente per oggetto ogni illusoria e ingannatrice religione, ogni divinità di qualsiasi credo, sbeffeggiata e insultata per aver creato la morte, per averla permessa, per non essere stata capace di vincerla.
“A cento dèi mi sono avvicinato e ciascuno di essi ho guardato dritto negli occhi, odiandolo per la morte degli uomini”, “Dio, il tuo carnefice”, “Dio leva il braccio per l’ultimo colpo”, “D’improvviso i risorti, in tutte le lingue, accusano Dio. Il vero Giudizio Universale”, “Dio, il paranoico che annienta gli uomini perché dagli uomini si sente perseguitato”, “E Dio sta a guardare come dalla morte un uomo venga rapito all’altro”, “Prima o poi troverò frasi che faranno vergognare Dio al mio cospetto. A quel punto non morirà più nessuno”.
L’impotenza e l’indifferenza del cielo fa sì che si crei una solidale alleanza tra le creature, legate affettuosamente tra loro da vincoli di amore e amicizia: alle persone, amiche e sconosciute, lo scrittore guarda con rimpianto e pietà, proprio perché consapevole della loro indifesa transitorietà: “Questa convulsa tenerezza per gli uomini, quando si sa che potrebbero morire fra poco; questo disprezzo per tutto ciò che prima si è trovato in loro, di buono e di cattivo, questo amore irresponsabile per la loro vita, il loro corpo, i loro occhi, il loro respiro!”. Amore per gli esseri umani e per ogni aspetto dell’esistenza, passione viscerale per l’attimo presente, il passato da recuperare, il futuro da attendere: “C’è in me, fortissimo e potentissimo, il senso della santità di ogni vita, davvero di ogni singola vita… Io non ammetto la morte di nessuno…Tutte le morti che finora sono avvenute altro non sono che migliaia di omicidi legali che io non posso autorizzare”.
Non sono perdonabili le estinzioni di massa dei popoli, gli eccidi razziali, gli attentati, le guerre, le stragi, gli assassinii, che Canetti patisce come uno sfregio irreparabile e mai giustificabile alla sacralità dell’esserci, un’esibizione sopraffattrice del potere contro cui è doveroso ribellarsi: con improperi e maledizioni, e quando non fossero bastanti, con sarcasmo e irrisione. Ma imperdonabili sono anche le morti private, quelle della gente comune e quelle dei maestri: ne vengono raccontate alcune (Buddha, Molière, Pascal, Tommaso Moro…), insieme alle ultime parole pronunciate (che bella la frase finale di Rabelais: “Vado alla ricerca di un grande forse”!). Nemmeno trascurabili paiono le agonie delle formiche, delle api, il cadere delle foglie, il marcire delle erbe: tutta la sofferenza inutile e innocente del mondo. Chi non vive più ci salva, quando ci immergiamo nel suo ricordo, concedendoci di continuare a esistere: nella stessa misura in cui noi permettiamo ai morti di tornare a vivere nella nostra memoria, unica reale forma di sopravvivenza: “Improvvisamente, repentinamente si sa di nuovo su di loro ciò che si credeva dimenticato, si odono i loro discorsi, si sfiorano i loro capelli e si fiorisce nel fulgore dei loro occhi… È possibile che adesso tutto sia in loro più intenso di una volta, è possibile che solo in questo improvviso apparire diventino interamente se stessi. È possibile che ogni morto aspetti la sua perfezione in questo risorgere che un superstite gli offre”.
Il libro contro la morte è stato per Canetti il «libro per antonomasia», una testimonianza contro la rassegnazione, un lascito programmatico perseguito per cinquant’anni, lavoro in costante divenire, proposito mai abbandonato eppure mai rifinito del tutto, quasi a voler dimostrare che anche la scrittura non deve accettare la conclusione, ma sempre rinnovarsi, proseguire rinascendo da se stessa, farsi dono gratuito e irricambiabile: resistenza.
«Il Pickwick», 30 novembre 2017