ISABELLA LEARDINI, UNA STAGIONE D’ARIA – DONZELLI, ROMA 2017
Isabella Leardini, nata a Rimini nel 1978, presente in diverse antologie italiane e straniere, nel 2002 ha pubblicato il volume di poesie La coinquilina scalza, premiato e bene accolto da importanti critici. Con questa seconda prova si cimenta in un canzoniere amoroso che ambisce a mettere in scena non solo la sua tensione e sofferenza individuale, ma anche la condizione generazionale di tante giovani donne italiane, bloccate tra un’educazione tradizionale soffocante (fatta di aspirazioni limitate e di docile accettazione del proprio destino) e un desiderio di autonomia difficile da raggiungere.
Le cinque sezioni che compongono Una stagione d’aria mantengono una coerenza stilistica rigorosa, lontana da qualsiasi volontà di sperimentalismo, e anzi fedele alla musicalità del metro più classico della nostra letteratura, l’endecasillabo, con cui si aprono quasi tutte le composizioni, richiamato anche all’interno di esse. Sembra quasi che il rumore costante del mare (così presente in questi versi) abbia dettato la sua cadenza, cullante e regolare, alla voce poetica dell’autrice. E risulta di non poco contrasto la moderazione pacata e dolce della resa formale, con la durezza rassegnata e quasi affranta del narrato. Lo scenario su cui si dipana la rappresentazione è quello della riviera romagnola che ha nutrito la vicenda umana di Isabella, e la stagione raccontata è ovviamente quella estiva, che nell’immaginario collettivo si ricollega al turismo e alle vacanze, alla musica, ai flirt da spiaggia. Un’esistenza che mantiene in sé qualcosa di irreale e sospeso, lusinga di distrazione inesauribile, specchio di superficialità esibita, di disimpegno e piacevole futilità.
Paradossalmente, invece, l’ambiente riminese diventa per chi ci vive una sorta di trappola, una condanna all’insegna della precarietà e di promesse intraviste ma continuamente rinviate. Non suona strano, quindi, l’ossessivo ripetersi nelle poesie di verbi quali “restare”, “rimanere”, “piantare”, “tenere”, declinati in tutti i tempi e modi; di sostantivi che rimandano a un impedimento (blocco, muro, ringhiera, chiodi), di immagini che indicano l’impossibilità di una fuga liberatoria, ma insieme la necessità di ancorarsi e radicarsi a un terreno che si teme instabile e inghiottente: «E noi restiamo qui come le radio / dimenticate accese in piena notte, / insegne che hanno perso qualche luce / ma cercano lo stesso di brillare», «Rimango nel disordine, l’estate / ritorna con le sue mattine sole».
La parabola di crescita dell’autrice, la sua giovinezza sognante avviata ora a un’età adulta che inizia a tracciare un bilancio del vissuto, pare tutta racchiusa nella dimensione di un amore sofferto e deludente, di un progetto futuro mai realizzato, di un’attesa perpetua. “Vuoto” e “buio” sono termini che si rincorrono spesso, e rinviano a una storia di solitudine e di fiducia tradita: «Non sai qual è il buio dei passi / di chi continua a cadere dal nido / e credere che l’aria sarà un volo», «Noi due restiamo appesi alle pareti / come quadri che aspettano solo / il giorno in cui cadranno all’improvviso», «Resto sospesa come le tende / che aspettano che il vento le apra», «Come una pianta che con poca luce / sappia fiorire molte volte senza cure / ho deciso di aspettarti ancora», «Sono quella che rimane a letto / dentro un buio di parole buie».
Un destino, quindi, di abbandono che sembra riflettere quello della sua stessa città di mare, impazzita di gioia e di vivacità nei pochi mesi dell’estate, e rassegnata al silenzio e all’isolamento nel resto dell’anno. Nella sua storia privata, Isabella Leardini riscrive quella della famiglia, titolare per decenni della pensione “Irene”, affollata di ospiti nella stagione balneare, e poi contesa dagli eredi, per venire infine venduta ad estranei. Le spiagge deserte, gli ombrelloni chiusi, il mare che lascia sulla battigia conchiglie e rifiuti, aspettando un nuovo inizio, una rinascita con i primi tepori di maggio: «Sono una stagione che si rivolta / ce l’ho in faccia come un inganno / quest’aria aperta da città di mare». Il destino di giovane donna sola, con «l’aria di chi ha perso ancora prima / che inizi la partita», è lo stesso di molte altre ragazze della sua riviera, «le gelose, le mai abbastanza amate», «le mogli dell’ombra… // Ferme come le sedie in una casa / dove in fondo non si siede mai nessuno»: una sorte che accomuna nella malinconia, in una rassegnata e antica remissività, un’intera generazione di donne fuori tempo, non più giovani e non ancora mature, in un disagio esistenziale e sentimentale di cui la poetessa si fa sirena: «Siamo una razza che non esiste più / quelle ragazze con la lanterna accesa / che non vogliono, non sanno addormentarsi».
© Riproduzione riservata «Nazione Indiana», 20 gennaio 2018