ÁGOTA KRISTÓF, CHIODI – CASAGRANDE, BELLINZONA 2018
L’editore ticinese Casagrande propone, con la traduzione di Fabio Pusterla e Vera Gheno, le poesie che Ágota Kristóf scrisse in ungherese prima del suo forzato esilio a Neuchâtel, andate perdute in quel tragico frangente. Ricostruite successivamente nella memoria, ad esse furono aggiunti nuovi versi, composti sia nella lingua materna sia direttamente in francese durante gli anni trascorsi in Svizzera.
Ágota Kristóf (1935-2011), conosciuta da noi soprattutto come autrice di romanzi e racconti (splendida e terribile la sua Trilogia della città di K.), nacque a Csikvánd, un villaggio dell’Ungheria “privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”. Nel 1956, in seguito all’intervento sovietico, fu costretta a lasciare il suo paese con il marito e la prima figlia di pochi mesi, riparando a Neuchâtel, dove visse fino alla morte. In Svizzera per cinque anni lavorò come operaia in una fabbrica di orologi, studiando il francese senza riuscire mai a dominarlo completamente. In questa lingua, avvertita come straniera ed estraniante, scrisse tutte le sue opere, in uno stile forzatamente asciutto, essenziale, severo. Il senso di inappartenenza a una lingua e a una nazione, l’esclusione affettiva dal mondo circostante, la chiusura emotiva in una dimensione di desolazione e rimpianto, si rispecchiavano nei suoi personaggi, costretti a vivere nell’assenza totale di una prospettiva di riscatto, nello squallore di un’esistenza espropriata di dignità e speranza, rassegnati a una quotidianità di sudditanza materiale e intellettuale. Lo smarrimento della conoscenza di sé, il disorientamento, il sentirsi persi, si riflettono anche nelle poesie di Chiodi, in cui tornano i temi propri della narrativa: l’esilio, l’attesa, il desiderio, la paura, l’isolamento, lo sconcerto, la rabbia, il rancore.
La voce di Ágota Kristóf, che nella postfazione Fabio Pusterla definisce “contemporaneamente atroce e struggente”, si esprime in una lingua che occupa uno spazio intermedio tra due culture: quella nativa, della memoria e del dolore, dell’abbandono e del tradimento, e quella franco-elvetica, avvertita sempre come alterata e condizionante, imposta da necessità esteriori. Così, sospesa tra due tradizioni letterarie mai del tutto assimilate, la sua poesia rivela uno stile assolutamente personale, secco, ridotto all’essenziale, privo di punteggiatura e con scarsa aggettivazione. Molti dei caratteri, delle immagini e delle situazioni tratteggiate nei versi di Chiodi ispirarono alcuni dei magistrali racconti successivi, inseriti in due raccolte edite da Einaudi ‒ Ieri e La vendetta ‒, che ne riproponevano addirittura i titoli, nonché le atmosfere, inclementi nel resoconto della sofferenza. In una dichiarazione, l’autrice aveva affermato: «Un libro, per quanto triste sia, non può essere così triste come una vita»: di questa sua tristezza (risalente non solo all’esilio, ma agli anni difficili dell’adolescenza in collegio, all’arresto del padre per motivi politici e al conseguente disfacimento familiare) si nutrono le poesie qui presentate. I titoli stessi manifestano mortificazione e avvilimento (Non mangio più, Solitari, I sopravvissuti, L’umiliato, Giorni perduti, Senza ali, Su campi freddi, Commiato…); i colori prevalenti sono il bianco e il grigio; la stagione più descritta è l’autunno, con la nebbia, la pioggia, il fango delle pozzanghere.
Vuoto, abbandono, squallore caratterizzano ogni ambiente: finestre e porte chiuse, corridoi bui, panchine azzoppate, giardini deserti, vie polverose. La natura, vegetale e animale, nasconde qualcosa di minaccioso e violento («monti rabbiosi crebbero tra noi // … erano calate le cavallette sul campo / e gli avvoltoi sugli alberi oscillanti»). Anche le allusioni alla morte, e in particolare al suicidio sono frequenti: «E amo gli amici morti che / non sono riusciti a sopportare / la lontananza e bella è la corda / quando culla corpi freddi / e bello è il veleno il gas il coltello», «domani uscirò in strada morti camminano / per queste vie anche io sarò pallida se solo sapessi / dove andare da chi e perché», «chiodi / puntuti e smussati / chiudono porte montano grate / tutt’attorno sulle finestre / così si edificano così si edifica / la morte».
In numerose composizioni è evidente il contrasto tra un passato di estrema miseria economica, ma nutrito di affetti e amicizie, e vissuto in simbiosi con ciò che è intorno, e un presente più solido e sicuro, eppure arido, sconfortato: «Ieri era tutto più bello il canto / tra le fronde degli alberi / tra i miei capelli il vento // …Ora nevica sulle mie palpebre / il mio corpo / è pesante come roccia / e non c’è motivo di cambiare marciapiede / e non c’è motivo per / andare alle montagne». A questa desolazione non ci si può ribellare, se non rifugiandosi nel sarcasmo, nella violenza rabbiosa, come avviene in una poesia dedicata ai professori, ottusi e ignoranti, a cui la poetessa bambina opponeva un’insonnolita resistenza, mangiandosi poi il gessetto che le veniva lanciato addosso: «amavo i professori e il gessetto / a causa della mia carenza di calcio / all’epoca mi mangiavo molti gessetti / ciò mi faceva venire una leggera febbre ma mai saltavo / la scuola per questo / dal momento che amavo i professori specialmente / il talentuoso insegnante di letteratura / perciò per pietà / dopo l’assassinio di una poesia / a mezzogiorno alle dodici e mezza / sulla strada di casa / nel parco / posi fine alle sue sofferenze». L’odio di classe è percepibile nei versi dedicati agli operai, agli emigranti, ai diseredati, solidali tra loro nella pretesa di rivendicazioni sociali, quasi presaga però di una futura inevitabile sconfitta. Ad essa ci si prepara con la stessa rassegnata indifferenza rivolta a qualsiasi altro aspetto dell’esistenza: Fa lo stesso è il titolo di una poesia ripreso poi da uno dei racconti de La vendetta (in francese, C’est egal, a significare l’imperturbabilità a cui è opportuno ricorrere contro l’angoscia): «qualcuno canta qualcosa / fa lo stesso tanto non è bella / è una canzone vecchia vecchia // e domani ti alzi dove vai / da nessuna parte oppure sì / magari vado da qualche parte / fa lo stesso tanto non c’è posto dove si stia bene».
Nel racconto citato la Kristof ribadiva: «Fa lo stesso. In ogni caso si sta male ovunque». Anche nella narrativa, quello che i protagonisti patiscono o infliggono non è tanto desiderio di rivalsa, esigenza di giustizia riparatrice, esplicitazione di rancore insopprimibile. La cattiveria dei gesti e dei pensieri è vissuta ed espressa senza particolare emozione, senza effettiva partecipazione. Risiede immodificabile e irredimibile nella natura delle cose e degli animi: nella moglie che uccide con una scure il marito che russa («ci sono una quantità di cose che accadono così, stupidamente»), o nell’alunno che sevizia e impicca l’insegnante per ammirazione e «immenso affetto», o nella crudeltà di numeri di telefono sbagliati apposta. Come nelle poesie, i personaggi sembrano tutti assolutamente spaesati, privi di riferimenti spazio-temporali: vagano in strade deserte, allucinate in un silenzio che le rende simili a paesaggi metafisici. Strade che non portano in nessun posto, oppure a case del passato distrutte, a treni che non partono, a incontri destabilizzanti, in un’atmosfera da incubo perenne: «Qualche giorno più tardi se ne andò senza dire nulla a nessuno. Da un posto all’altro, da una città all’altra, prendeva aerei, navi, treni. Sempre altrove, là dove niente gli assomigliava», «è smarrito, non riconosce più i luoghi, non riesce a ritrovare la propria strada, la propria casa». Il destino della Kristof, esule politica costretta a reinventarsi un’esistenza in Svizzera, si riflette prepotentemente accusatorio in ogni riga della sua scrittura, in versi e in prosa: condizione esistenziale dell’erranza, di un risarcimento impossibile.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 7 maggio 2018
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