LALLA ROMANO, LE LUNE DI HVAR, EINAUDI, TORINO 1991

E’ uscito in questi giorni Le lune di Hvar, ultimo libro di Lalla Romano, a pochi mesi dalla consacrazione letteraria dell’autrice come uno dei classici del nostro 900 avvenuta attraverso la pubblicazione delle Opere vol.1 nei Meridiani Mondadori.

«Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso. Io l’ho trovato scritto: da me, ovviamente, ma senza che l’avessi voluto. Non era nemmeno propriamente “scritto”: erano annotate soltanto frasi, parole. E’ un libro privo di testo».

È davvero difficile da definire e da recensire: ne dà prova la quantità di articoli risoltisi poi in interviste all’autrice, un po’ a scansare l’impegno critico di un giudizio letterario, un po’ a mascherare l’imbarazzo derivato da ragioni extra-letterarie. Narra di quattro viaggi fatti dalla Romano in estati diverse, in Jugoslavia, dall’Istria a Spalato (con una particolare predilezione per l’isola di Hvar e i suoi notturni) insieme con un giovane amico, Antonio, e rivissuti in squarci di visioni, in lampi della memoria, con la parzialità assoluta e desiderosa di alibi di ogni rivisitazione affettiva. Protagonista è ovviamente questa coppia fuori dalla norma, lei con il doppio dell’età di lui, ma «questo non ha importanza. Devo aver scritto da qualche parte che per me i numeri sono magia, non cronologia…»: con i capelli e la pelle bianca sotto il cappello di paglia, l’anziana scrittrice; abbronzato, con un berretto da mare e un borsone da fotografo a tracolla, il giovane studioso. Antonio è innamorato del mare, della gente, degli imprevisti: paziente fino a rasentare l’incoscienza di fronte ai molti disagi del viaggio, capace di entusiasmi infantili e di altrettanto estemporanei scoramenti, animato da una dedizione fedele e quasi compiaciuta di sé ai voleri dell’amica, si lascia bistrattare, ammette di essere debole, anche se è il più forte dei due, ma scisso in un continuo «pareggiarsi di mistero e limpidezza». Lei deve fare i conti con la sua età, con i mal di schiena, con il fastidio a volte soffocante che le procurano gli spostamenti, o anche gli involontari atteggiamenti giovani di lui. Lo aspetta, lo aspetta sempre, in macchina, nei bar, nelle hall degli alberghi, sulla spiaggia, mentre lui gira, traffica, incontra: spaventata quasi dalla sua “festosità”, dell’ingenuità delle sue letture e dalle sue esaltazioni. E’ una storia tenera, sofferta, quella che si dipana tra i due: di una sofferenza oggettiva (gli sguardi maliziosi degli altri; la richiesta di spiegazioni del cameriere: («-La mamma?- A.:-Sì-. Cameriere contento») e soggettiva (analisi e autoanalisi, lacrime, ricatti, notti in bianco, gelosie come in qualsiasi altra storia). Evidente appare un certo sottile sadismo di lei, una non camuffata volontà di ferire Antonio con frasi che hanno la spietata durezza della verità: «Non provo piacere: sono una mummia», «A me piacciono i vecchi asciutti, tu sei giovane e umido (sudato)», «Non si può amare la madre», «Non temo di essere abbandonata, ma di essere ingannata». I due escono da questa cattiveria esibita – delle cose, delle circostanze, di loro stessi – più grandi, più drammatici e vivi della miriade di volti e figure inconsistenti che nel libro passano e vengono riassorbiti subito nel loro ruolo di comparse, inchiodati solo allo scampo di una definizione che li accomuna a personaggi famosi (Paolo Stoppa, Fernanda Pivano, Nicola Abbagnano, Ezra Pound, ecc.), osservati dalla narratrice con occhio severo e talvolta stizzito verso le loro debolezze fisiche o intellettuali, specialmente se femminili. Secondo le indicazioni date dalla Romano stessa nel risvolto di copertina, la verità del racconto corrisponde alla sua limpidezza, non alla sua logica. E illogico parrà forse questo rapporto ai più che lo leggeranno con la pruderie o la morbosità di chi ama tenere i conti anche nei sentimenti; ad altri sembrerà una storia grata nella gratuità del suo accadere, insolita nel suo sgomitolarsi imprevedibile e necessario.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 dicembre 1991