BIAGIO MARIN, POESIE – GARZANTI, MILANO 2017
Il volume che Garzanti ha dedicato a Biagio Marin raccoglie un’ampia scelta delle sue poesie, e una serie di contributi critici dei maggiori letterati italiani del ’900: Carlo Bo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Pier Vincenzo Mengaldo, Massimo Cacciari, e dei curatori Edda Serra e Claudio Magris. Secondo quest’ultimo «Il canzoniere di Marin ha la continuità del diario e il respiro dell’eternità: pervaso da un umanissimo senso del sacro e da un’illuminante percezione del cosmo, tocca con limpida e serena naturalezza apici di profondità metafisica».
Biagio Marin (Grado 1891-1985), figlio di un oste, presto orfano di madre, fu allevato dalla nonna paterna. Studiò a Gorizia nel ginnasio di lingua tedesca, quindi alle Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria), allora sotto l’Impero Asburgico. Ventenne si trasferì a Firenze, frequentando l’ambiente letterario della “Voce” di Prezzolini, tra scrittori giuliani come lui (Slataper, Stuparich, Saba, Giotti), e altri importanti intellettuali dell’epoca. Approfondì gli studi filosofici e artistici a Vienna, quindi rientrato a Firenze si sposò con Pina Marini, da cui ebbe quattro figli. Al termine della guerra, che lo aveva visto arruolarsi nonostante fosse malato di tubercolosi, si laureò a Roma in filosofia, e in seguito ottenne vari incarichi scolastici e amministrativi in tutto il Friuli Venezia Giulia. Nel 1968 si stabilì nuovamente a Grado, dove rimase fino alla morte. Dal 1912 pubblicò diverse raccolte di versi, quasi tutte in dialetto gradese: i suoi libri più noti furono Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), I canti de l’isola (1970), La vita xe fiama (1972), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980), La vose de la sera (1985).
Della poesia di Marin tutti i commentatori hanno sottolineato come prima dote la purezza, una sorta di illuminazione disincarnata, che la rende semplice, umanissima e naturale, costantemente uguale a sé stessa dagli anni giovanili alla vecchiaia. Pasolini scrisse che «le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia più o meno vicina alla fonte luminosa (accecante) in cui si forma». L’accusa di monotonia che alcuni hanno rivolto ai suoi versi dipende forse dal fatto che in essi non esistono narrazioni vivaci di eventi, e non c’è traccia di dramma: i personaggi descritti sono poco più che comparse sullo sfondo di una modalità poetica che si nutre esclusivamente di una pulitissima e inalterabile musicalità («solo musica fasso: in ela vivo»). Eppure l’uomo aveva conosciuto tribolazioni, miseria e tragedie, come la morte dell’unico figlio maschio in guerra, e il suicidio di un nipote molto amato: ma era nella dedizione quotidiana alla scrittura, nel «diario sterminato» (C. Bo) in cui ogni giorno appuntava i suoi versi che aveva saputo trovare un’ancora di salvezza: «Màseno versi in ogni ora / comò che fa ’l mulin co’l gran». Non era, la sua, una produzione a-storica, indifferente al rumore del mondo e alle sue sofferenze e ingiustizie, e non era nemmeno un ricorso consolatorio all’idillio: se fedi e ideologie gli rimanevano sostanzialmente estranee, l’unica voce che riteneva doveroso ascoltare era proprio quella, empatica e meravigliata, dell’ispirazione poetica. «Quanto più moro / presenza / al mondo intermitente / e luse che se spenze, de ponente / tanto più de la vita m’inamoro. / E del sol rîe che fa fiurî l’avril / e del miel che l’ha in boca, / la prima neve che za fioca / sia pur lenta e zentil».
Priva di varianti e novità, iterativa in una sua finitezza innocente, anteriore addirittura alla creazione del mondo, la poesia di Marin tende a un continuo slancio verso un altrove, verso un infinito che può essere sia la distesa equorea sia il cielo: tutto azzurro o bianco, tutto limpido, silenziosa e rasserenante promessa di felicità. Utilizzando in maniera reiterata un lessico limitato, sfruttando ossessivamente le rime, fa del microcosmo gradese un universo privo di confini spazio-temporali. E la sua Grado si identifica completamente con il mare, prima fonte di ispirazione e di nutrimento, quasi metafora di madre accogliente e protettiva. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, affermava: «Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. È come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di “soio” e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo… Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio».
«Mar queto mar calmo / no’ vogie no’ brame / respiro de salmo / tra dossi e tra lame»; «La breve riva / spalanca el mar grando: / de quando in quando / ariva un’ola più viva, co’ ‘nbriva»; «E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia»; «El vento za se placa / e la risaca / ariva in saca / ma lenta e straca. // El can del cuor nol bagia / e la passion la tase / el mar stesso nol ragia: / dal siel cala la pase. // Pase me vogio granda / via dei travagi de la tera, / lontan da la bufera / che a pico el bastimento manda».
L’ingenuità espressiva di Marin, lontana da ogni sperimentalismo e intellettualismo, non è affettata; deriva da una «adesione dal basso all’ambiente» (A. Zanzotto): «No son sapiente / e sé poche parole: / le sole / che adopera la zente»; «Trasparensa e durata: / questa la gno ilusion, / questa l’aspirassion / che nel cuor se dilata». Così aveva tentato di spiegare la propria vocazione letteraria: «Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche… La poesia non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perché mi secca svegliarmi, ma altre volte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me».
Poesia sorgiva, quindi, mai adulterata da intenzioni o tentazioni extra-testuali, e via via nel tempo sempre depurata da ogni materialità, tesa a un’astrazione capace di far coincidere «trasparenza assoluta e brama di vivere» (C. Magris), come esemplificano questi versi: «Me son contento d’êsse nato / de longo tenpo d’êsse su la tera, / dopo tanto dolor e tanta guera / son incora beato. // Tanto hè godúo la luse, el sol; / le musiche dei vinti in duti i sieli, / el cantusâ su l’alba dei noveli / e perfin el tramonto che me duol». Tale ribadita estraneità a mode e corruttivi attualismi viene attribuita dai due curatori del volume, Edda Serra e Claudio Magris, all’uso particolarissimo che Marin fa del dialetto: lingua di una tradizione reinventata, che non dà voce a un localismo pittoresco, ma dilata e fluidifica il vocabolario italiano in una musicalità morbida e armoniosa, appoggiata al prevalere delle vocali e alla facilità delle rime, in un ritmo cadenzato che volutamente sembra riecheggiare il moto ondoso del mare.
© Riproduzione riservata «Nazione Indiana», 26 settembre 2018