GIANFRANCO RAVASI, LA VOCE DEL SILENZIO – EDB, BOLOGNA 2018
Partendo da una rivisitazione di alcune pagine bibliche, il Cardinale Gianfranco Ravasi ci offre una riflessione in sei brevi capitoli sul significato e l’importanza morale e culturale della parola. L’Antico Testamento è la sorgente ispiratrice (orizzonte, punto di riferimento, codice) di tutta la cultura occidentale, nella letteratura e nelle arti: lo è stato per scrittori, filosofi e intellettuali di ogni epoca e credo, se è vero che, come scrisse Blaise Pascal, «La Scrittura sacra ha passi atti a consolare tutte le condizioni, ma ha passi adatti anche a inquietare tutte le condizioni». Fonte di conforto e di tormento, quindi, ma anche di altissima poesia, se si leggono le pagine dei Salmi, del Libro di Giobbe, del Cantico dei Cantici, del Qoèlet. Eppure, questa miniera di sapienza e di poesia della Bibbia è racchiusa in un vocabolario limitato, formato soltanto «da 5.750 parole ebraiche, compresi gli avverbi, i segni dell’accusativo e alcuni segni marginali». Un lessico ristretto, formulato «in lingua pietrosa come il deserto da cui proveniva, una lingua di pastori, espressione di una civiltà nomadica», che tuttavia riesce a comunicare la trascendenza, l’infinito, l’eternità e il mistero.
Privilegiando più la parola che l’immagine, la cultura ebraico-cristiana è riuscita ad esaltare la potenza del linguaggio: è il verbo di Dio (“Dio disse”) che dà inizio alla creazione. Ma il Logos divino per farsi comprendere si deve affidare alla voce umana, fioca, esile, simile a un bisbiglìo (Isaia 29,4). È talmente fragile e inadeguata, la parola degli uomini, che nell’Antico Testamento non può nemmeno proferire il nome del Signore, scritto in quattro impronunciabili consonanti: YHWH. Il nome di Dio per il popolo ebraico va taciuto. Il primo dei profeti biblici, Elia, quando – perseguitato e in fuga, anche da se stesso – teme di avere perso la protezione del cielo, sul Sinai si illude di trovare Dio in una rivelazione prodigiosa, violenta, sensazionale, come nel fulmine incandescente, nel terremoto, nella tempesta: lo trova invece in «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).
Partendo da questo ossimoro, La voce del silenzio di Gianfranco Ravasi si interroga sul rapporto misterioso e fecondo che lega la parola al tacere, quando la comunicazione più intima e arricchente non necessita d verbalizzazione. È probabilmente la poesia la forma letteraria che, attraverso il suo simbolismo e la sua musicalità, con le sue pause, i ritmi e gli spazi bianchi del verso, meglio riesce a rendere l’enorme potenzialità espressiva della parola, donandoci un’esperienza sensoriale che mette in relazione silenzio e significato, come nella musicalità del Cantico dei Cantici che esprime la tenerezza del dono reciproco dell’amore tra due giovani amanti. Anche la pittura, nell’arco dei secoli, ha sempre innalzato l’osservatore alla trascendenza, spesso utilizzando il repertorio della narrazione biblica, come nel quadro di Paul Gauguin riprodotto nella copertina del volume di cui parliamo, La visione dopo il sermone, del 1888. Marc Chagall scriveva: «La Bibbia è l’alfabeto colorato della speranza, nel quale hanno intinto il loro pennello per secoli i pittori». Arte figurativa, musica, saggistica traggono tutte ispirazione dal sontuoso immaginario biblico, attraverso le modalità dell’attualizzazione, della degenerazione, della trasfigurazione. Ravasi elogia quindi la potenzialità dell’espressione umana, per quanto essa sia labile e manchevole, quando in ogni ambito sappia esaltare la spiritualità, superando «i territori della superficialità, della banalità, della volgarità» della comunicazione contemporanea. Forse da lui e dal titolo del suo libro ci saremmo aspettati un più esplicito elogio del valore del silenzio, così come viene sottolineato da molte splendide pagine bibliche (Pr 10,19; Is 30,15; Mt 5,37-6,7-12,36…): voce sottile che si oppone alla forza del tuono, in una resistenza discretamente attiva.
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https://www.sololibri.net/La-voce-del-silenzio-Ravasi.html 8 ottobre 2018