Silvio Talamo. Un artista napoletano a Berlino
Silvio Talamo è un musicista, producer e cantautore napoletano, oggi residente e operante a Berlino. Il suo repertorio spazia tra musica elettronica e acustica, pop e techno. Come performer di successo si esibisce in teatri, trasmissioni radiotelevisive, club, festival e street stations. Ha pubblicato nel 2017 il disco Living in a Bubble, e quest’anno il libro Poesie/Gedichte in un’elegante versione bilingue delle edizioni ProMosaik.
In quale ambiente familiare e culturale sei cresciuto, e cosa di esso hai assorbito positivamente, cosa invece ti senti di rifiutare o rinnegare come zavorra e ostacolo alla tua crescita umana e professionale?
Per quanto riguarda la mia famiglia, mia madre dipingeva da giovane. Poi ha dovuto lasciare per la vista. Questa è l’unica relazione diretta che io possa trovare con la produzione artistica in famiglia. Ma quando si parla di ambiente io penserei a qualcosa di più vasto, oserei dire anche sociale. Non credo sia un momento facile per le arti e forse non lo era neanche venti anni fa, non so. Uno dei problemi che ho spesso avuto è rientrare in un genere, sembra una cosa importante per poter diffondere i messaggi. Un altro ostacolo lo troverei in una competizione non sempre proficua, anzi addirittura debilitante sul piano della creatività. Le porte è sempre meglio aprirle… Ma se dobbiamo parlare di formazione il mio ambiente è stato più un ambiente di astrazione, con questo intendo dire che non ho fatto altro che creare connessioni tra esperienze culturali anche diverse, lontane, e me le sono portate appresso.
Dagli studi di filosofia a quelli musicali: attraversando quali percorsi, superando quante difficoltà e inseguendo quali miti ed esempi, sei arrivato ai risultati artistici attuali?
Ho iniziato scrivendo poesie verso la fine del liceo e il periodo iniziale dell’università. Poi insieme ad amici aprimmo una piccola associazione culturale, la sede ora a pensarci era molto “underground”, direi. Incominciammo a fare reading e poi, dopo qualche tempo, la cosa finì, ognuno prese la sua strada. Allora studiavo percussione oltre che Filosofia alla Federico II e la cosa che mi colpì fu mettere in relazione la voce, quella dell’allora lettore-performer, con la musica. Approfondii la strada del canto. Si aprirono universi nuovi e tutti risiedevano nel campo dell’oralità anche se in forme lontane. Mi interessai per qualche tempo all’etnologia e al folklore, così come alle produzioni delle avanguardie.
Verso dove si orienta oggi la tua ricerca musicale?
Ho scoperto le potenzialità che le strumentazioni elettroniche possono offrire. Credo che in questo ambito stia succedendo qualcosa di molto importante nel mondo. Per me il nuovo è lì: tra midi, loop, messaggi cc, onde sonore, sintetizzatori, software, sample… È un lato che ha subito proprio negli ultimi anni una evoluzione gigantesca, a patto che il concetto di nuovo sia considerabile come una cosa interessante. Al tempo stesso continuo a usare la mia chitarra e il canto ovviamente, una strada quindi più tradizionale, in un certo senso. Mi piacerebbe sintetizzarle tutte! In fin dei conti è un lavoro sul tempo. Viviamo in un mondo dove non c’è solo compresenza di spazi culturali diversi ma anche di tempi. Il tempo si è spezzato, la sua linea è più simile ai labirinti di Borges o a qualche narrazione di fantascienza che ad un moto progressivo. Poi arriva il ritmo, il cerchio e quindi il nostro rapporto disperato con la natura. Il problema è che quando le cose vanno troppo veloci, la ruota sembra ferma, così come talvolta mi appare il nostro presente: simile a un limbo.
Oltre alla musica, ti dedichi anche alla poesia. Quali sono state le tue letture formative, e in che direzione ti poni dal punto di vista letterario? Più tradizionale o di avanguardia?
La poesia è fondamentale, quasi una salvezza. Nella mia adolescenza rimasi folgorato dal simbolismo francese. Mi piacque un certo romanticismo inglese. Ho letto con interesse le avanguardie, specialmente quella surrealista e poi la neoavanguardia italiana. Anche l’inafferrabile esperienza dell’ermetismo mi incuriosiva. Spesso si tratta di esperienze contrastanti. Ricordo i reading e le interviste che lessi di Allen Ginsberg e Gary Snyder. Mi interessava la lirica giullaresca con il suo carico di istanze antropologiche e para-teatrali. Ma il bello della letteratura è che è una materia illimitata, non finita e che risponde sempre con spessore in qualsiasi epoca o periodo storico si vada a cercare.
Posso dire che negli ultimi tempi, anche durante la stesura del mio libro, ho due autori presenti sulla mia scrivania: Dylan Thomas e le poesie di Friedrich Hölderlin. Ma sono stati importanti anche libri che non hanno direttamente una valenza, diciamo così, letteraria, nel senso proprio di letteratura. Cioè le elaborazioni sul montaggio cinematografico di Sergei Eisenstein, quello passato alla storia nella cultura popolare italiana per altri motivi, e il libro sull’alchimia di Carl Gustav Jung.
Alla questione se “tradizionale” o “avanguardia” però non saprei rispondere, non me lo domando neanche. Certo dall’Ottocento in poi le esperienze letterarie, quelle più tradizionali e quelle più di avanguardia, si sono sempre espresse attraverso una rottura, almeno quelle che interessavano a me.
In cosa Berlino ti ha avvantaggiato rispetto a Napoli, e come giudichi l’interesse e il calore con cui ti segue il pubblico delle due città?
Napoli è in un momento certamente migliore rispetto a quando l’ho lasciata, un buon momento che esprime anche buona volontà nel fare cose; molta vitalità nonostante tutti i problemi. Probabilmente, con il tempo, sarà portata a moltiplicare ancora più gli spazi dedicati all’espressione. Torno a fare cose lì, quando è possibile.
Berlino è una grande città, un centro internazionale come pochi. Qui a Berlino, che mi sembra quasi un’isola, c’è molto interesse sincero per l’arte. C’è una popolazione dove la percentuale di artisti e creativi è altissima, molti spazi per esprimersi e semplicemente la gente ascolta e non è interessata solo al puro intrattenimento. Nessuno si preoccupa se quello che fai è ordinario o no. È molto alternativa, underground. Intendiamoci, ritagliarsi uno spazio non è facile, anzi anche difficile ma al tempo stesso c’è posto per tutto. Io personalmente faccio molto. Vedremo se cambierà… Una cosa importante è che posso incontrare artisti di tutto il mondo e affacciarmi a molteplici linguaggi. Tutti vogliono fare, realizzare libri, registrazioni e spettacoli.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 25 ottobre 2018