INGEBORG BACHMANN, TRE SENTIERI PER IL LAGO – ADELPHI 1980-2012
Uno dei racconti di Ingeborg Bachmann compresi nel volume adelphiano Tre sentieri per il lago si intitola Occhi felici, e narra in poche mirabili pagine la miopia astigmatica (in rapido sviluppo e volutamente trascurata) di Miranda, metafora di un voluto, programmatico distanziamento della protagonista dalla vita e dall’amore.
«Sul confine della cecità… nel suo mondo di nebbia … mondo velato», Miranda «si stupisce come gli altri uomini riescano a sopportare quotidianamente le cose che vedono e che sono costretti a vedere», quindi sceglie di non curarsi, di non portare gli occhiali: dimentica ovunque quelli che ha, li perde, li distrugge, li lascia cadere. E così va a sbattere contro passanti e vetrate, inciampando su ogni ostacolo, rischiando di venire investita per strada e di incendiare il suo appartamento con i mozziconi accesi dimenticati qua e là (triste presagio della orribile morte che attenderà l’autrice del racconto nel 1973). «Poiché non tollera la realtà», Miranda «se la dipinge a modo suo», e sceglie di non guardare l’inferno che la circonda: «un ammasso di facce infelici, cattive, maledette, segnate dalle umiliazioni e dal delitto, volti inimmaginabili». Preferisce addirittura non osservarsi allo specchio, ritenendosi imperfetta o quasi brutta; e nemmeno vuole scrutare l’espressione del suo compagno, l’adorato Josef che forse le sta mentendo, la sta tradendo con la loro migliore amica, si prepara a lasciarla. «Di più non vuole sapere». In lei tutto è tenero, «dalla voce fino ai piedi incerti, ivi compresa la sua funzione nel mondo. Che dovrebbe essere la tenerezza tout court». Così, per evitare a Josef l’imbarazzo della fuga, la crudeltà di un abbandono, decide di fingere lei il disamore, anzi simula un pubblico abboccamento con un ex fidanzato, risolvendosi a soffrire in prima persona piuttosto di fare soffrire l’amante. Perciò, scappando da tutti e da sé stessa, con i suoi felici occhi accecati, finisce per urtare violentemente contro un portone, e piomba a terra insanguinata, in una caduta che ovviamente non è solo materiale.
Tutta la vita di Ingeborg Bachmann è stata un continuo abbassarsi e rialzarsi (come ha ben sottolineato Giannina Longobardi in un suo saggio del 2016) per un susseguirsi di successi e incomprensioni, amori e abbandoni, trasferimenti e desideri di radicamento ambientale e sentimentale. Nata in Carinzia, a Klagenfurt, nel 1926, dopo gli studi di giurisprudenza e germanistica in diverse università austriache, iniziò la sua attività giornalistica come redattrice radiofonica, in seguito dedicandosi alla poesia, alla narrativa e alla drammaturgia, e partecipando attivamente al Gruppo 47, di cui facevano parte scrittori austriaci e tedeschi (Heinrich Bōll, Hans Magnus Enzensberger, Gunter Grass, Peter Handke, Peter Bichsel…), impegnati a riscattare la letteratura tedesca dal passato nazista. La Bachmann visse molto all’estero, a Londra, Parigi, Berlino ma soprattutto a Roma, dove si trasferì definitivamente nel 1965 trovandovi la morte a 47 anni, in seguito alle ustioni riportate in un incendio provocato dalla sua sigaretta, nella casa di via Giulia. Ebbe lunghe e tormentate relazioni con Paul Celan e Max Frisch, e fu più volte ricoverata in cliniche psichiatriche per curare una dolorosa dipendenza dall’alcol e dagli psicofarmaci. Tuttavia mantenne sempre una sua lucida capacità di analisi e di intervento critico nei riguardi della società contemporanea, massificante e brutale.
In un altro dei cinque racconti inclusi in Tre sentieri per il lago, è ancora una donna indifesa e innocua a subire l’ingiustificabile prepotenza del mondo. In questo caso si tratta di un’anziana vedova ‒mortificata dall’unico figlio, famoso psichiatra ‒ che trova conforto nelle premure della giovane nuora, fino a quando anche quest’ultima verrà umiliata e allontanata dal marito egoista. Se negli Occhi felici era la vista il senso attraverso cui Miranda si difendeva dal mondo, ne Il latrato è l’udito che con le sue allucinazioni acustiche accompagna l’impaurita esistenza della vecchia signora Jordan.
È poi la protagonista di una terza storia, Nadja, interprete simultanea viennese, a subire nuovamente la tracotante ed egoistica indifferenza di un uomo. In compagnia di lui, facoltoso diplomatico in servizio alla Fao, casualmente conosciuto ad un convegno internazionale, passa alcuni giorni in un lussuoso hotel a Maratea, con la speranza di approfondire un rapporto per lo meno amicale. Ma al momento di lasciare la stanza, alla malinconica aspettativa di lei, lui risponde distratto di rimpiangere solamente la pesca subacquea e la mancata cattura di una cernia.
Ancora, in Problemi problemi Beatrix, ingenua e gioiosa ventenne che adora unicamente dormire e andare dal parrucchiere, costituisce per il suo amante Erich (un funzionario sposato, più anziano di lei, fiero della dedizione di «questa bambina così paziente e senza pretese»), «un raggio di sole… un’oasi di pace».
Infine, nel lungo racconto che dà il titolo al volume, Tre sentieri per il lago, Elisabeth torna cinquantenne a trovare l’anziano padre nella casa che l’ha vista crescere, e da cui è fuggita per salvarsi dalla claustrofobica atmosfera austriaca (in questa malsopportazione per la madrepatria, provinciale e reazionaria, l’autrice si accomuna al compatriota e contemporaneo Thomas Bernhard). Gira il mondo come fotografa di successo, si sposa con Hugh, omosessuale newyorkese, e vive una serie di amori e relazioni sfortunate, al limite del masochismo, dettate non solo da un forte complesso di inferiorità, ma anche dal bisogno compulsivo di riconoscente protezione, attiva e passiva: «Se in quasi trent’anni non aveva incontrato un solo uomo che potesse significare tutto per lei, che le fosse diventato indispensabile, una persona che avesse in sé la forza e il mistero che lei aveva sempre atteso, qualcuno che fosse veramente un uomo, e non un qualche essere bizzarro, sperduto, un debole o uno di quelli che hanno bisogno di aiuto, il mondo ne era pieno, allora voleva dire che un uomo così non esisteva proprio». Elisabeth viene abbandonata da tutti i suoi amanti, giovani e vecchi, intellettuali e ignoranti, di qualsiasi nazionalità, e nella stordente frenesia del lavoro cerca di dimenticare sé stessa e le sue delusioni: «Non è nulla, non è nulla, ormai non può succedermi più nulla. Qualcosa mi può succedere, ma non deve».
I personaggi emblematici che la Bachmann sembra prediligere in questi racconti sono donne che patiscono il disinteresse degli uomini; se non si tratta di violenza fisica subita, è comunque la durezza di un’empatia negata, quella che le avvilisce: l’alzata di spalle con cui tutti rispondono alla loro generosa e disinteressata profferta d’amore.
Anche nei versi, Ingeborg Bachmann ribadisce la sua visione di una società opprimente, ossessiva, crudele, a cui solo la gratuità della poesia può opporre resistenza. Una tra le sue composizioni più note, A voi, parole, è indicativa non solo del suo stile intellettualisticamente ricercato, ma anche della sua ferrea convinzione che non sia possibile un’interpretazione fideistica della realtà, né una spiegazione scientificamente razionale di essa, perché “Non vi è schiarita”: quindi, esclusivamente alle parole può spettare il compito di tendere all’autenticità, sfidando la tenebra dell’indicibile, in uno slancio utopico verso la realizzazione di rapporti interpersonali più giusti e non sopraffatori:
«A voi, parole, orsù seguitemi! / Anche se già ci siamo spinti avanti, / fin troppo avanti, ancora si va / più avanti, si va senza fine. // Non vi è schiarita. // La parola / non farà / che tirarsi dietro altre parole, / le frasi altre frasi. / Così il mondo intende / definitivamente / imporsi, / esser già detto. / Non lo dite. // Seguitemi, parole, / che non diventi definitiva / ‒ questa ingordigia di parole / e detti e contraddetti! // Lasciate adesso per un poco / ammutolire ogni sentimento: / che il muscolo cuore / si eserciti altrimenti. // Lasciate, vi dico, lasciate. // Non sussurrate nulla, / nulla, dico, all’orecchio supremo, / che per la morte nulla / ti venga in mente: / lascia stare, seguimi, / né mite né amara, / non consolatrice / né significativamente / sconsolante, / ma nemmeno priva di significato ‒ // E soprattutto niente immagini / tessute nella polvere, vuoto rotolare / di sillabe, parole di morte. // Nemmeno una, / o parole!»
Nessuna immagine, nessuna falsa consolazione, nessun vuoto sperimentalismo ci si può pemettere scrivendo; in Domande e pseudodomande, così infatti Ingeborg Bachmann dichiarava: «La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé». Nel mondo ostile che circonda chi è inerme o vittima, l’impegno etico e linguistico della scrittrice consiste nel far emergere la verità dalle falsificazioni imposte dalle convenzioni sociali, la bellezza e la perfezione dall’impurità e dalle brutture, e può essere demandato solo alla produzione letteraria: l’unica in grado di ricreare miticamente l’innocenza primigenia.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 14 novembre 2018