JULIEN GRACQ, ACQUE STRETTE ‒ L’ORMA, ROMA 2018
Trascurato da noi, ma celebrato in patria (tradotto in una trentina di lingue, e pubblicato ancora in vita nella Bibliothèque de la Pléiade) Julien Gracq negli ultimi anni è stato meritoriamente riproposto ai lettori italiani dalle giovani ed eleganti edizioni romane de L’orma. Nato in una cittadina della Loira nel 1910, dopo la laurea si iscrisse al Partito Comunista Francese, e nel corso della seconda guerra mondiale partecipò alla battaglia di Dunkerque, finendo imprigionato in Slesia per più di un anno. Tornato alla vita civile, si dedicò all’insegnamento nei licei parigini. Fortemente influenzato dal surrealismo, e refrattario alla letteratura d’impegno esistenzialista, rifiutò il Premio Goncourt assegnato nel 1951 al suo romanzo La rivage des Syrtes, in polemica con la scena culturale francese. Scrisse di teatro, di poesia e di critica, ma il suo nome rimane legato alla produzione narrativa, segnata da una profonda sensibilità simbolica e metafisica, ricca di riferimenti culturali lontani dalle ideologie contemporanee, stilisticamente raffinata e rigorosa. Morì novantasettenne nel 2007 ad Angers, nella regione nativa dove si era ritirato dopo il pensionamento.
Acque strette (1976) è il resoconto di un’escursione in barca sull’Evre, affluente della Loira. Una gita priva di avvenimenti o novità esteriori, che l’autore ha più volte ripetuto nel corso degli anni, senza attendersi particolari sorprese o rivelazioni, ma abbandonandosi sempre al piacere gratuito delle associazioni mentali, delle fantasticherie, delle memorie letterarie.
«Per quale motivo si è presto radicata in me la sensazione che, se soltanto il viaggio – il viaggio che non preveda l’idea di un ritorno – è in grado di aprirci le porte e cambiarci davvero l’esistenza, un altro tipo di sortilegio, più nascosto, come originato da una bacchetta magica, si leghi invece alla passeggiata prediletta fra tutte, all’escursione senza avventure né imprevisti che dopo poche ore ci riconduce all’attracco da cui partimmo, alla cinta familiare di casa?» Una passeggiata, quindi, un’immersione nell’ambiente e nel paesaggio come ne abbiamo lette altre nella letteratura mondiale: da Petrarca a Rousseau, da Schiller a Stendhal, da Nerval a Thoureau, da Walser a Benjamin, da Handke ai nostri Dino Campana e Gianni Rodari. Non un viaggio iniziatico, non la scoperta dell’ignoto o la sfida ai propri limiti materiali: piuttosto un dialogo sommesso con l’interiorità, il recupero visionario di ricordi e sensazioni legate al passato e innescate da rievocazioni di pagine amate.
In una prosa elegante, ricercata, sinuosa, a tratti compiaciuta di sé, quasi l’autore amasse ascoltare la propria voce confusa con lo sciacquio delle acque dell’Evre, siamo invitati ad abbandonarci alla sua sapiente guida in territori più familiari che esotici, e forse per questo più affascinanti. La narrazione della placida navigazione sul fiume riattiva in Gracq, come la madeleine proustiana, odori e sapori adolescenziali, e immagini di scampagnate domenicali (i tuffi, la pesca, i picnic sull’erba) in compagnia di vocianti coetanei, tra gli argini verdeggianti di frassini, pioppi, castagni e salici.
«Ci si imbarcava – lo si fa tuttora, immagino – ai piedi di una scalinata d’assi che ruzzolava per l’alta sponda argillosa; un intreccio di ramature incombeva sopra lo stretto canale d’acqua nera; si scivolava a un tratto in una zona di silenzio sottile, quasi in allerta, amico dell’acqua quanto la foschia, rotto soltanto dal piatto e liquido sgocciolare della pale sospese dei remi». Lo scafo era uno «scalcinato burchiello centenario, un barchino traballante, tarlato, scatramato, a volte anche privo di timone», scivolante sulla lenta corrente come il cigno del Lohengrin in un percorso «sovrannaturale», «attirato da una calamita invisibile». Il percorso sull’Evre, illustrato anche graficamente nel volume, si snoda dall’ormeggio presso il Mulino di Coulènes, affiancando il Castello della Guérinière fino al Ponte di pietra e alla Cattedrale du Marillais, in un itinerario che nasconde in sé qualcosa di magico, poiché del corso d’acqua non si raggiunge né la fonte né la foce, nascoste da cataste di sassi o vegetazione impenetrabile.
L’esperienza estetica vissuta da Gracq nel suo viaggio acquatico assume sfumature quasi di estasi mistica, attraverso l’immersione a volte lucente a volte tenebrosa nel silenzio, nella solitudine, nei colori della natura intorno, quasi il tempo sospendesse la sua corsa inclemente: «In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda, anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti». Il vagare della mente e della memoria in assoluta libertà associativa predispone un’emozionante esperienza affettiva, quando si sofferma su visi e parole amate, e sui versi, le descrizioni e le musiche che hanno nutrito le «costellazioni fisse» della formazione dell’autore: Nerval, Rimbaud, Balzac, Poe, Valery, Wagner, astri numinosi del suo percorso artistico.
È pura poesia, quella percepita in un cortocircuito emotivo che produce energia spirituale, resuscitando «fantasmi addormentati» capaci di far riaccadere tutto il vissuto: «le care e a lungo oscurate immagini – tutte le immagini – si infiammano e si riaccendono l’un l’altra; un tracciato pirotecnico zigzaga come un lampo attraverso il mondo assopito, ne segue le segrete fenditure, gli spigoli, le crepe, tutte la fratture che, anno dopo anno – da un’esperienza all’altra, da una lettura all’altra, da un incontro fondamentale all’altro ‒ l’hanno solcato per me rendendolo irrimediabilmente mio. È questa la virtù dell’unico, vero, ritrovato contatto con ciò che un tempo mi ha in qualche maniera avvinto, rapito: rianimare, risvegliare e congiungere attraverso un percorso di fulmine tutto ciò che ho mai amato». Poesia dell’occhio e dell’anima, miracolo inspiegabile su cui nessuna interpretazione critica, nessuna analisi filologica e semiologica può gettare alcuna luce, se presume di limitare il valore del testo a puri meccanismi di costruzione linguistica, quando invece ciò che vediamo, sentiamo e leggiamo genera «una sorta di tranquilla eccedenza; niente più di quanto può pacificamente traboccare dopo essersi riempiti di una giornata senza nubi».
Un plauso agli editori de L’orma, che ci regalano libri importanti e sapientemente curati, belli tutti, dalle copertine alla grafica, e un elogio alla traduzione sensibile e intelligente di Lorenzo Flabbi.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 19 novembre 2018