RACHEL BESPALOFF, SULL’ILIADE – ADELPHI, MILANO 2018
Una parabola esistenziale simile, e una simile disposizione emotiva e culturale, unì negli anni ’40 due importanti protagoniste del pensiero novecentesco: Simone Weil e Rachel Bespaloff. Entrambe ebree di lingua francese, entrambe rifugiatesi negli Usa, entrambe studiose della classicità greca, non si conobbero mai: eppure le loro intuizioni sul mondo omerico le accomunano nel tentativo di spiegare le terribili vicende storiche della loro contemporaneità ricorrendo alle origini della civiltà occidentale.
Rachel Pasmanik Bespaloff (nata in Bulgaria, a Nova Zagora, nel 1895, da una colta famiglia di origini ucraine, e morta suicida in America, a South Hadley nel 1949), si trasferì bambina a Ginevra, dove compì studi musicali e letterari. Docente a Parigi dal 1919, sposò l’uomo d’affari Shraga Nissim Bespaloff, da cui ebbe una figlia, e iniziò a occuparsi attivamente di filosofia, frequentando una cerchia di intellettuali illustri, come Gabriel Marcel e Jean Wahl. Nel 1941, per sfuggire alle leggi razziali, fu costretta a emigrare con la famiglia negli Stati Uniti, senza riuscire mai ad adattarsi alla mentalità e al modo di vivere degli americani. Nel 1943 pubblicò il suo lavoro più noto, un volume Sull’Iliade composto da sette saggi, più volte edito in Italia, e da poco riproposto da Adelphi nella traduzione di Simona Mambrini. In esso, è il primo dei contributi che forse esprime al meglio l’indirizzo critico che Rachel Bespaloff diede al suo lavoro, riuscendo, nell’interpretazione di un testo particolare, ad assurgere a una visione universale dell’eterna lotta tra bene e male, sopraffazione e sottomissione, colpa e innocenza.
Nel duello che contrappone Ettore ad Achille, la figura che primeggia gigantesca è quella dello sconfitto: «Ettore ha sofferto tutto, e ha perduto tutto tranne sé stesso… Né superuomo, né semidio, né simile agli dei, ma uomo, e principe tra gli uomini». Ettore sente la pena di dover abbandonare la moglie e il figlio, di cui vorrebbe custodire la vita e la felicità; si riconosce terrorizzato di fronte al guerriero greco, addirittura fugge prima di affrontare il duello (nell’inseguimento del predatore e nella fuga della preda l’autrice riscopre la realtà eterna e cosmica del conflitto tra prepotenza e debolezza), ma sa in cosa consiste il suo dovere, accetta infine il destino che gli è stato assegnato: «Non voglio morire senza lotta né senza gloria, bensì facendo qualcosa di grande, che anche i posteri ricorderanno». Achille, assetato di rancore e di vendetta, è invece «nutrito di scontento e di ombrosa irritazione».
Sono entrambi giovani, valorosi, belli: perché nel mondo di Omero la bellezza consiste nella forza, l’immortalità è data dalla gloria, e combattere è l’unico modo per redimere la banalità inerme dell’esistenza. Gli errori e le ingiustizie della storia non trovano riparazione se non nella poesia: «Essa sola restituisce al mondo ottenebrato la fierezza oltraggiata dalla superbia dei vincitori, il silenzio dei vinti». Poiché vincitori e vinti sono ugualmente vittime, degli avversari e di sé stessi, delle loro passioni e delle loro viltà, eternamente in guerra: Polemos è il padre di tutte le cose, recita un frammento eracliteo. La guerra, in Omero e nella Bespaloff che lo legge, è inevitabile; la furia di Achille, la sua ira funesta, la sua folle sete di distruzione, sono l’essenza stessa della vita: «Senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace. Senza Achille, l’umanità si rattrappirebbe, si addormenterebbe congelata dalla noia ben prima del raffreddamento del pianeta».
Ci sono però alcune figure femminili che nel poema salvano la possibilità della tenerezza, della premura, della comprensione. C’è Teti, giovane e trepidante madre di Achille, che sola sa trattenerne la furia, accarezzandolo, parlandogli con affetto. E Andromaca, che con serena tranquillità porge il frumento ai cavalli del marito prima della battaglia. C’è Elena, «che attraversa l’Iliade come una penitente, con la maestà che le conferisce la perfezione della sua sventura, della sua bellezza». Elena, come Anna Karenina vittima di un sogno infranto, colpevole di un’illusione, riesce a trovare delicate parole di conforto e gratitudine per Ettore e Priamo, gli unici in Troia a non esserle ostili: e accusa sé stessa quando in realtà responsabile della guerra è «la beata spensieratezza degli Immortali». Quegli dei, «Agenti provocatori, scaltri propagandisti… causa di tutto senza essere responsabili di nulla», secondo Rachel Bespaloff si meritano lo scherno di Omero, che ne deride le «commedie coniugali», le collere, i dispettucci, le gelosie: egoisti tormentatori del genere umano, «non disdegnano l’odore della carneficina, lo strepito delle passioni tragiche». Nella sua visione e descrizione del mondo, e del rapporto tra terra e cielo, l’Iliade ha molto in comune con la Bibbia e con Guerra e pace di Tolstoj.
Esistono infatti parallelismi tra Omero e le Sacre Scritture, perché il sentimento di colpevolezza collettiva dell’epica greca corrisponde al peccato originale della Bibbia, il concetto cristiano di redenzione e resurrezione trova un riscontro nell’azione eroica e nella ricerca della gloria immortale dei combattenti antichi: «Vi è, e sempre vi sarà, un certo modo di dire la verità, di proclamare la giustizia, di cercare Dio, di onorare l’uomo, che ci è stato insegnato al principio e che Omero e la Bibbia continuano di nuovo a insegnarci». Una lezione essenzialmente etica, di resistenza umana di fronte alle catastrofi, al dolore, all’ingiustizia.
Bespaloff ravvisa poi una correlazione anche tra Omero e Tolstoj, i quali «hanno in comune l’amore virile, l’orrore virile della guerra. Né pacifisti né guerrafondai, entrambi conoscono, raccontano la guerra quale essa è», in grado di travolgere le singole esistenze vulnerabili, così come di celebrare la grandezza di un popolo. «La guerra la si fa, la si subisce, la si maledice o la si celebra; come il destino, non la si giudica». Omero nell’Iliade osserva gli avvenimenti e i suoi protagonisti con equanimità, con uno sguardo calmo, dall’alto, superando qualsiasi angusta prospettiva in una visione cosmica, che abbraccia le vicende umane e quelle celesti, e riscatta sia ogni storia individuale sia le colpe della Storia universale, attraverso la funzione della poesia.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 11 dicembre 2018