THIERRY METZ, SULLA TAVOLA INVENTATA – EDIZIONI DEGLI ANIMALI, ROMA 2018
Di Thierry Metz sono state pubblicate poche cose in italiano. Una sorta di diario a frammenti degli ultimi mesi di vita da lui trascorsi nella clinica di Cadillac per disintossicarsi dall’alcol e guarire da una forte depressione, e ‒ lo scorso anno ‒ una scelta di versi a cura di Riccardo Corsi, per le Edizioni degli Animali. Tutte le poesie (che gli valsero il Premio Voronca nel 1988 e il Premio Froissart nel 1989) sono state raccolte nel volume Poésies (1978-1997), edito in Francia da Pierre Mainard nel 2017.
Poeta intenso e disperato, ebbe un’esistenza tormentata da difficoltà economiche e lavorative, da pesanti lutti e da problematici rapporti ambientali, acuiti dalla sua particolare fragilità emotiva. Nato a Parigi nel 1956, sposatosi ventenne con una compagna di scuola da cui ebbe tre figli, si trasferì nei dintorni di Agen, sulle rive della Garonna. Qui trascorse un breve periodo di serenità, presto funestato dalla morte del secondogenito Vincent, a otto anni schiacciato da un’automobile davanti ai suoi occhi. Per mantenere la famiglia, lavorava saltuariamente come muratore e sterratore, e da questa faticosa esperienza trasse materiale per un volume edito da Gallimard nel 1990, Il diario di un manovale, in cui narrava senza retorica o autocompatimenti la quotidianità della vita in un cantiere edilizio. La sua dipendenza dall’alcol, gli improvvisi accessi di aggressività, il dolore per la morte del suo bambino lo condussero a reiterati ricoveri in ospedali psichiatrici e a pesanti trattamenti farmaceutici, che lo portarono a suicidarsi poco più che quarantenne.
L’uomo che pende (Via del Vento, Pistoia 2001) è una raccolta di un centinaio di piccoli brani narrativi (riflessioni, illuminazioni poetiche, descrizioni di luoghi e personaggi), appuntati tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, durante il suo ricovero al centro ospedaliero di Cadillac, nel padiglione Charcot. Metz racconta in uno stile sobrio e quasi documentaristico la sua degenza tra medici, infermieri, malati psichici impegnati in diverse maniere al recupero di una parvenza di vita sana e socialmente reintegrata. Con questo proponimento apre il suo diario: “È l’alcol. Sono qui per svezzarmi, ridiventare un uomo di acqua e di tè. Considero i giorni che vengono con tranquillità, da lontano, ma attento. Devo uccidere qualcuno dentro di me, anche se non sono troppo sicuro di farcela. Tutta la questione è di non perdere il filo. Di legarlo a ciò che si è, a ciò che sono, scrivendo”. Consapevole della problematicità della disintossicazione, registra i suoi fallimenti, le ricadute, le paure: “Lentezza, confusione talvolta, dovute al trattamento che ricevo. Ne ho coscienza come un tuffatore o un alpinista. E ne ho bisogno. Mi sbarazzo di un’ebbrezza con un’altra, di una morte con un’altra morte, del vuoto con il vuoto. La mia voce contraddetta non passa, per il momento, che attraverso queste vie contrastate d’eclissi”. E ancora: “Ogni parola mi affanna”. Registra amaramente lo scandire di ore tutte uguali, tutte sorvegliate e amorfe: “Ogni mattina è l’inventario, il giro delle camere. Ci si saluta, si cambiano le lenzuola, le fodere, danno del decoroso e del pulito. Si rifà il letto. L’erba cresce, gli uccelli passano ma tutto quello che è detto non offre alcun passaggio. Allora si aspetta il caffè e il pane davanti a una porta. Solo gli orologi hanno il tempo di avere tempo”. La sua consapevolezza del baratro in cui sta per precipitare rimane lucida, disincantata, come la cognizione filosofica dell’irriducibilità del reale all’espressione verbale: “Il linguaggio non ha senza dubbio d’accessibile che l’indicibile. E l’indecifrabile. L’accesso non è dentro né fuori. Introvabile e tuttavia qui. L’impercettibile è la nostra sorridente complicità”. Si ucciderà a Bordeaux il 16 aprile del 1997.
I versi antologizzati nell’elegante volumetto Sulla tavola inventata risalgono all’inverno 1986-1987, e ancora riflettono sprazzi di luminosa e innocente grazia, per quanto presaghi a volte di una minaccia futura. Vibrano di una reiterata invocazione, rivolta a sé stesso o a un imprecisato “Uomo”, presenza amicale o angelica, promessa di soccorso solidale e salvezza: “Guarda”, ripetono, ed è un invito celaniano (“Smetti di leggere, guarda!”), a schiudersi verso un fuori benefico, positivo, aperto.
Il fuori verdeggiante di alberi e prati, il cielo attraversato dal volo di uccelli (ghiandaie, pettirossi, merli): osservandolo il poeta dimentica noia e delusioni (“che importa questo / io”), nell’attesa di una qualsiasi epifania, sia essa parola, incontro, amore. O magari una “tavola inventata” intorno a cui sedersi, cercando una comunicazione fraterna, non intellettuale, non libresca: “Scrivi / non nella scrittura / ma nell’intimità del pozzo / dove il più chiaro si nasconde”, “Poche parole per raggiungerti / ma ascolta: / se non hai niente da dire allo storno / alla ghiandaia / perché discutere con la sentinella / che ha fatto il nido / nel libro”, “Vecchia orsa minore / vieni a vedere: / sorge un giardino / nel respiro dell’albero / è questo il luogo / dove uomo e uccello / si meravigliano”. Una pagina interrotta, quella di Thierry Metz, che con le sue grandi mani da campione di sollevamento pesi, ruvide mani di muratore, sapeva scrivere con delicatezza di foglie, di ali, di speranze negate.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 7 febbraio 2019