Le radici erano troppo profonde. Alida Airaghi

 

di Redazione
Gennaio 2025

INTERVISTE www.poetipost68.it
“io custode non di anni ma di attimi”
il collettivo poetipost68 chiede

In che anno della storia del Novecento sei nata? Assume per te un significato privato oltreché pubblico questa data?

Sono nata a Verona nel giugno del 1953, in piena guerra fredda, dunque. Si contrapponevano i due blocchi USA e URSS, proprio in quell’anno segnati da due avvenimenti significativi: la condanna a morte dei coniugi Rosenberg, accusati dagli americani di essere spie russe, e la morte di Stalin in Unione Sovietica. Clima politico internazionale gelido, clima affettuosamente caldo all’interno della mia famiglia cattolica, medioborghese, attenta e partecipe alla crescita di noi tre bambine, ma altrettanto rigorosa nell’educarci. Ambiente ovattato e protetto, per cui mi sono accorta della turbinosa temperie esterna solo alla fine del liceo classico, frequentato nel severo istituto napoleonico del Maffei, quando mi sono iscritta nel 1972 alla facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano. Si respiravano le inquietudini del ’68, era già avvenuta la strage di Piazza Fontana, e poi la morte di Pinelli e Calabresi; iniziavano gli anni di piombo con il terrorismo rosso e nero. Dopo un’adolescenza vissuta cattolicamente tra Gioventù Studentesca, Mani Tese, volontariato, il mito del cristianesimo del dissenso e di Simone Weil, negli anni universitari ho provato a liberarmi dall’educazione formale e religiosa ricevuta sia affrontando diverse esperienze lavorative, anche umili e di fabbrica, sia collaborando alla pagina culturale del Quotidiano dei Lavoratori. Non credo di esserci riuscita, le radici erano troppo profonde, e caramente vincolanti.

Hai avuto delle madri e dei padri in poesia, o nel corso della tua formazione?

Già dalle elementari e alle medie amavo studiare a memoria le poesie imposte a scuola: Gozzano, Pascoli, Ada Negri, Titta Rosa, Pezzani… Affascinata soprattutto dalla musicalità e dalla rima, di cui ancora oggi patisco la dipendenza. Poi c’è stato l’incontro con i cantautori: De André, Gaber, Lauzi e soprattutto Tenco ed Endrigo, di cui imparavo appassionatamente i testi, accompagnandomi con la chitarra, che ho studiato anche nel repertorio classico. Dopo il ginnasio ho iniziato una corrispondenza con il poeta Siro Angeli, scoperto in un’antologia scolastica. Quante lettere? Mille, forse, nel corso di tutto il liceo, l’università, la convivenza, il trasferimento a Zurigo, il matrimonio, fino alla sua morte. La mia cultura letteraria la devo tutta al suo insegnamento, la mia crescita umana al suo esempio morale, il mio amore e il mio dolore alla felicità e alle difficoltà del nostro stare insieme, socialmente stigmatizzato per l’abisso di anni che ci divideva, ma reso più forte dal forte legame affettivo-intellettuale e dalla gioia orgogliosa che ci davano le nostre bambine. Negli anni universitari avevo conosciuto a Milano Giudici e Majorino, e da allora mi sono immersa nella lettura della poesia italiana del ’900. Oggi amo leggere e rileggere Eliot e Rilke.

Esiste a tuo avviso un legame tra Poesia e Storia?

Viviamo di storia e nella storia, come potremmo ritenercene avulsi? Me ne sono occupata in poesia soprattutto nel primo libro pubblicato da Bertani nell’86, Rosa rosse rosa, che risentiva delle atmosfere politicizzate e femministe della Milano degli anni 70-80, e poi negli Omaggi einaudiani del 2017 (con i testi dedicati a Luzi, Zanzotto, Pasolini, Pagliarani) e infine nel volume più recente, Quanto di storia, che ripercorre gli avvenimenti politici che hanno attraversato la mia esistenza a partire dalla giovinezza. Ma, se devo essere proprio sincera, l’osservazione della realtà mi ha sempre fatto soffrire (Eliot scrive “human kind / Cannot bear very much reality”), e amo soprattutto riflettere su ciò che sta “oltre” il reale. In tutti gli altri miei libri prevalgono interessi filosofici e teologici.

Che significato assume, nel tuo orizzonte culturale e artistico, la parola “generazione/i”? E in che modo l’esperienza personale, privata, biologica, influenza l’idea di “generazione”?

Non ho mai dato grande rilievo al concetto di generazione, anzi, mi sono sempre trovata più a mio agio con i bambini e gli anziani che con i miei coetanei. Mi è sembrato di poter imparare di più da loro, dall’ingenuità e dalla libertà di giudizio dei piccoli e degli adolescenti, dalla saggezza dei vecchi. Avverto nel termine “generazione” qualcosa di limitato e artificioso.

Quale idea hai del concetto di trasmissione e di tradizione? E in cosa consiste il tuo “scarto” rispetto ai modelli poetici e letterari a cui è legata la tua formazione?

Essendo stata insegnante, sono consapevole dell’importanza fondamentale di entrambi i concetti. Non so quanto posso trasmettere ai più giovani con la mia scrittura, non credo di avere alcuna autorità o sapienza particolare da esprimere. Mi sento invece totalmente inserita nel solco della tradizione poetica italiana del Novecento, senza aver osato “scarti” originali e innovativi.

Che funzionamento ha la tua memoria come traduzione, invenzione, rimozione, riconsiderazione – rispetto all’automatismo e al controllo formale del linguaggio?

Tendo a non proiettarmi nel futuro, che ovviamente vedo come molto ridotto rispetto al tempo che ho vissuto. La memoria è un’ancora, una miniera di significati e significanti, sia nello scandaglio arricchente, sia nel distanziamento sospettoso. Non mi spaventa l’idea di essere considerata fuori moda o passatista, mi attira poco lo sperimentalismo linguistico.

Quale funzione ha nella tua produzione la prosa (sia essa narrativa, critica e/o teoretica) e quale rapporto intesse con la poesia?

Alterno nella produzione e nella pubblicazione poesia e prosa, ho scritto cinque libri di racconti e tre romanzi brevi, più di 1500 recensioni. In poesia mi sono spesso cimentata nella forma del poemetto narrativo. Mi sembra giusto e produttivo che i diversi stili, le varie strutture formali si intersechino, influenzandosi a vicenda.

Quale rapporto ritieni di avere con le nuove generazioni di poeti, e come percepisci le nuove forme di poesia? Puoi descriverci qual è il tuo sentimento del futuro collettivo?

Sono troppo anziana per apprezzare l’improvvisazione del poetry slam, mi sento ancora molto legata al labor limae, come forma di rispettoso impegno verso il testo scritto e verso chi legge. Dei poeti più giovani apprezzo alcuni nomi, anche se mi dà un po’ fastidio questo raggrupparsi in cementate ed elitarie consorterie, che escludono apporti esterni nei vari blog e riviste, in aggiunta a una propensione esasperata verso l’autopromozione e l’esibizione spettacolare di sé. Devo fare molta attenzione quando provo a recensire i loro libri, sono permalosamente suscettibili anche alla critica più innocua e benevola. Tendo quindi a scrivere solo di poeti stranieri o morti, a scanso di venire sfidata a duello!

 

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