SIRO ANGELI, POESIE IN FRIULANO
Siro Angeli (Cavazzo Carnico 1913-Tolmezzo 1991) è stato poeta, sceneggiatore cinematografico e radiofonico, drammaturgo, romanziere. Laureato alla Scuola Normale di Pisa, visse a lungo a Roma (con la funzione di dirigente RAI), e a Zurigo, svolgendovi un’intensa e apprezzata attività culturale. La sua produzione poetica in lingua italiana, più volte premiata a livello nazionale, coniugava la rigorosa tradizione classica e umanistica a un profondo interesse per l’ermetismo. I volumi più rilevanti furono L’ultima libertà (Milano, Mondadori, 1962) e Il grillo della Suburra, con prefazione di Alfonso Gatto, pubblicato a più riprese tra il 1975 (Barulli, Roma) e il 1990 (Scheiwiller, Milano). In friulano scrisse L’Âga dal Tajament, (Roma, Tolmezzo, Udine 1970-1976-1986) e Barba Zef e jò (Tolmezzo, 1981). Per il teatro firmò otto rappresentazioni sceniche, dalla trilogia friulana di argomento sociale (La casa, 1937; Mio fratello il ciliegio, 1937; Dentro di noi, 1939), ad altre più intimistiche (Assurdo, 1942; Male di vivere, 1951; Odore di terra, 1957) e spirituali (Grado Zero, 1977). Nel dopoguerra collaborò alla sceneggiatura di una quindicina di film, soprattutto per il regista Vittorio Cottafavi (La fiamma che non si spegne, Una donna ha ucciso, Traviata ’53, Avanzi di galera), fino all’ultimo Maria Zef (1980), tratto dall’omonimo racconto di Paola Drigo, in cui rivestì anche il ruolo del protagonista. Con le Edizioni Paoline pubblicò nel 1989 il romanzo di argomento teologico Figlio dell’uomo.
I versi in friulano (lingua dell’infanzia, degli affetti familiari e del sogno), ideati e rielaborati da Angeli in diversi momenti, recuperano l’immutato accento della frazione natia, Cesclans, nel comune di Cavazzo Carnico, a cui tornava ogni estate, nel desiderio di disintossicarsi dalle incombenze lavorative e dalle atmosfere romane, ritenute meno autentiche e schiette. Qui è sepolto, e qui è visitabile la casa in cui nacque (figlio di un muratore e di una contadina, in una famiglia di severe radici cristiane), oggi allestita a museo. I ritratti della madre, del padre, dei compaesani, delle acque e delle montagne della sua Carnia, si stagliano nitidi e privi di retorica, appena velati di una nostalgia che comunque mai arriva a essere rimpianto: consapevole di quanto fosse difficile, faticosa e spesso spietata l’esistenza della sua gente, con gli uomini costretti alla guerra o all’emigrazione, e le donne indurite dal lavoro nei campi e nelle stalle, il poeta cercava scampo nel recupero delle parole con cui si era affacciato alla vita e al pensiero: parole bambine (peràulas frutas) che tornarono a trovarlo da adulto (a mi ciàtin massa cressût), fornendogli nuova linfa creativa.
Las scarpas
Cui lu ten, dopo tant / ch’al las spietava, cui / ai las giàvia dai pîs / par puartàlu tal jèt? // Il scriciâ che si sint / a ogni pas pas stradas / tra suèla e pièl, al dîs / a la nèif e a la int // che so pàri compradas / las à propri par lui / chesta volta, nol met / plui chês dal fradi grant.
Le scarpe (Chi lo tiene, dopo tanto / che le aspettava, chi / gliele cava dai piedi / per portarlo a letto? // Lo scricchiolio che si sente / a ogni passo per le strade / tra suola e pelle, dice / alla neve e alla gente // che suo padre comprate / le ha proprio per lui / questa volta, non mette / più quelle del fratello grande.)
Il beciâr
“Chesta volta, da nestra vacia plena, / a osservâla cemût ch’ai ven la panza, / mi samèa ch’a nus nasci una vigela” / a dîs nôna, lavant i plaz da cena. / “Di sigûr a nus cressarà su biela, / l’ûri tant che so mâri sglonf di lat. / No conservâ la razza al è un peciât”. / “Ben, tigninla, se propri a è un câs râr”. “E s’al nasc’ un vigèl?”. Jèi no mi ciala. / “Par lui i decidarìn quant ch’a lu à fat”, / al dîs nôno. A si sint dal cop svuèidât / l’âga scori in ta bûsa dal seglâr. / Mi lu figûri vîf dentri da stala / cul muscìc su la teta, e za mi pâr / si sèi dut scunsumât il timp ch’ai vanza / prima ch’al vegni a ciòlilu il beciâr.
Il macellaio (Questa volta, dalla nostra mucca gravida, a osservarla come le viene la pancia, / mi sembra che ci nasca una vitella”, / dice nonna, lavando i piatti della cena. / “Di sicuro ci crescerà su bella, / le mammelle quanto sua madre gonfie di latte. / Non conservare la razza è un peccato”. / “Bene, teniamola, se proprio è un caso raro”. / “E se nasce un vitello?”. Lei non mi guarda. / “Per lui decideremo quando lo avrà fatto”, / dice nonno. Si sente dal ramaiolo vuotato / l’acqua scorrere nella buca dell’acquaio. / Me lo raffiguro vivo dentro la stalla / con il muso sulla poppa, e già mi pare / si sia tutto consumato il tempo che gli avanza / prima che venga a prenderlo il macellaio.)
Ban
Chel che si clama Ban / ancimò al si cunsuma / la bîl cuintra il destin / sassin, cuintra la blava // dai bastàrz che lu àn / scartât da fa l’alpin. / A nol bandona mai / nancia quant ch’al durmisc’ / il ciapièl cu la pluma / ch’al si è rangiàt, e guài / se qualchidun jàl giava: / al cierza il so curtisc’.
Ban (Quello che si chiama Ban / ancora si consuma / la bile contro il destino / assassino, contro la genìa / dei bastardi che lo hanno / scartato dal fare l’alpino. / Non abbandona mai / nemmeno quando dorme / il cappello con la piuma / che si è arrangiato, e guài / se qualcuno glielo toglie; / assaggia il suo coltello.)
Tal cûr da Ciargna
Propri culì, s’j’ vess / jò podùt sciegli il puest / dulà nasci, in tal cûr / da Ciargna il gno paîs // al saress, propri chest / como ch’al è, plui pôr / ancia, como ch’al era / una volta, stentàt // a alzàsci su di mûr / in mûr framiez un grîs / di cret e un vert di prât / a fuarza di clap dûr, / malta e sudôr; l’istess che in sort al mi è tociât…
Nel cuore della Carnia (Proprio qui, se avessi / potuto scegliere il posto / dove nascere, nel cuore / della Carnia il mio paese / sarebbe, proprio questo / com’è, più povero / ancora, come era / una volta, stentato / ad alzarsi su di muro / in muro, fra un grigio / di rupe e un verde di prato, / a forza di sasso duro, / calce e sudore lo stesso / che in sorte mi è toccato…)
Il mistîr
Gno pâri muradôr / tâl e quâl che so pâri, / al à doprât madòn, / pièra, malta, ziment, / par alzâ simpri dret / il mûr, al pâr da vita. // Tal gno mistîr da lôr / doi al sarà ch’j’ impari, / se un qualchi alc di bon / al mi ven indiment / in ta fadìa ch’j’ met / su la pagina scrita.
Il mestiere (Mio padre, muratore / tale e quale suo padre, / ha adoperato mattone / pietra, malta, cemento, / per alzare sempre diritto / il muro, al pari della vita. // Nel mio mestiere da loro / due sarà che imparo, / se qualche cosa di buono / mi viene alla mente / nella fatica che metto / sulla pagina scritta.)
Un grande amore per la sua terra, quindi, in Siro Angeli, e per il paesaggio scabro sconvolto dal terremoto del 1976, che aveva provocato lutti e sofferenza, svelandone però anche la forza e la fierezza nella volontà di ricostruzione degli abitanti. Un ricordo grato del paese abbandonato dopo il liceo, dapprima per la Toscana degli studi universitari, quindi per la Roma della professione e degli impegni culturali, poi per una Zurigo in cui ricreò, dopo molti anni di vedovanza, una nuova e giovane famiglia. Ma la Carnia rimaneva per lui rifugio affettivo e mentale, come si evince dal commento che il professor Rienzo Pellegrini gli ha dedicato nel Dizionario biografico dei friulani, III vol. (Forum Edizioni, 2011):
“Una Carnia aspra, con i suoi miti (la casa, che trascina con sé la legge della fatica, della parsimonia: con il fascino categorico di una vita disumana nella sua durezza) e il corollario doloroso delle partenze, tra accettazione e gesto ribelle… Negli ultimi versi friulani la chiave della memoria (comunque ruvida, mai placata) evolve ulteriormente, svincolandosi dagli itinerari collaudati, esorcizzando ogni barriera, senza timori per la dimensione cosmica: “Mai fidâsci di quant / che il pinsîr al cunfin / das Galassias si spuarz / fin dulà che las Quasars / a si strenzin al cûr…” (Mai fidarsi di quando / il pensiero al confine / delle Galassie si sporge / fin dove le Quasar / si stringono al cuore…). Il lessico si apre al tecnicismo duro, straniante, in uno schema metrico che non rinuncia alla rima… ma senza farsi cantabile: big bang, implodere, Quasars, in un tessuto (e in un gioco combinatorio) inedito, a far reagire il perimetro contadino con un universo senza confini”.
© Riproduzione riservata «La poesia e lo spirito», 28 luglio 2019