caproni

 

APPUNTI SULLA POESIA DI CAPRONI – 1976

 

Per parlare della poetica di Giorgio Caproni, ho scelto Il Terzo libro e altre cose, un volumetto edito da Einaudi nel ’68, che ha il pregio di presentare una scelta di versi limitata ma significativa, e, secondo l’autore, indicativa della direzione della ricerca degli anni dal ’44 al ’54, «anni di bianca e quasi forsennata disperazione».
Il Terzo libro è tratto dalle raccolte del ’56, ’59 e ’65, e comprende otto distinte sezioni. Nella prima parte, costituita da I due sonetti e da Gli anni tedeschi (quest’ultima sezione divisa ne I lamenti e Le biciclette), una cosa colpisce subito: l’essenzialità (l’unicità) del tema, che è quello dell’incubo ossessivo nato dal contrasto vita-morte, in cui la presenza di una realtà oscura e tremenda, quella della guerra, costringe l’esistenza quotidiana e la poesia stessa. Qualsiasi presenza di vita – il tram che passa, gli animali, «le giovinette così nude e umane / senza maglia sul fiume», la stessa figura della donna amata (il suo passo, «le ariose collane») – è insidiata da voci di morte, di assenza, di distruzione. L’ambiente fisico è sempre raggelato in una rappresentazione invernale («l’inverno lungo» e il freddo sono i protagonisti di questi anni genovesi). La realtà è fatta di vapori di bar all’alba, di venti che premono nei portoni, di ululati di cani, di pavimenti di pietra, di «tempo di pruni incolori e bruciaticcio», colori grigi che spengono qualsiasi impeto, qualsiasi «vano desiderio del sole», in un ripetersi assiduo di medesime immagini poetiche (il vento, il cane, le porte, il freddo; sassi, gelo, brina, lamenti). E questa scarnità di paesaggio poetico viene sottolineata dalla sapiente utilizzazione degli aggettivi, anch’essi ripetuti e ossessivi (ermo, deserto, distrutto, soffocato, acre, arido: alcuni di impianto e reminiscenza leopardiana. Così scolpiti, e a volte vibranti di sottile arcaicità). Albe indimenticabili, quindi, echi di disastri – fucilazioni lontane, esecuzioni – nei rumori quotidiani. Attacchi pregnanti che hanno nella loro arida luminosità qualcosa di mediterraneo, di gitano, di caldo («Le carrette del latte ahi mentre il sole / sta per pungere i cani», «Una chitarra chi accorda in un bar») e finali freddi di nebbia, di “tremori” e “tremiti” nordici. La guerra «penetrata nell’ossa» ha dissolto e impedito ogni umana e giovane speranza di vita, e resa «senza scampo ogni fede».
Eppure in questa piattezza invernale e in questa distruzione, il poeta (che si interroga – ed è la domanda di sempre – sull’opportunità e l’onestà di fare poesia: «Pastore di parole, la tua voce / che può?») riesce ancora a trovare qualcosa da dire, qualcosa per cui parlare, a cui aggrappare l’immaginazione come ultima salvezza:

Io che via / via sto calando nell’anno che inclina / già alla sua fine, in una conceria / nauseabonda perché trovo la mia / voce – trovo campane d’acqua, e in cima / ai rami assiderati tanta brina?

E tu ancora / chiuso nella tua stanza, inventa l’erba / facile delle parole – fai un’acerba / serra di delicato inganno, all’ora / ch’ opprimendoti viva a un tratto serba / per te il lamento che il petto ti esplora.

Più complessa delle precedenti è la poesia Le biciclette, composizione in otto strofe di 16 versi endecasillabi dedicata a Libero Bigiaretti. Canzone delicata di rimpianto: «Le biciclette umide» dal «tenue ronzio di raggi e gomme» sono nella loro corsa mattutina «sui bianchi asfalti / al bordo d’un erba millenaria» odore di giovinezza, «sale che corresse la mente», «fughe con le ali!», «nutrita / spinta di giovinezza nella calda / promessa». Ma questa acerba incoscienza giovanile è ormai «tempo diviso», si è fatta coscienza consapevole della fuga del tempo, del disastro che avanza: è l’alba in cui il poeta vede «il sole frantumarsi per sempre», in cui «fu fulminato il suo giorno». Fantasia interrotta, «scialba geografia del mondo»: qualcosa è intervenuto a cambiare la scena. E’ stato «il corpo acido» di Alcina, le sue ginocchia «umide e bianche»? Questa donna che penetra impietosa («acqua appena squillata») diventa «la scoperta improvvisa d’una spinta / perpetua nell’errore», «la china dove il freno si rompe». Oppure è la guerra, per cui «i bicicli ronzano funesti» e «l’uomo s’intana nella notte»? La storia diventa «sommersa», poi «travolta». E’ Alcina stessa, la guerra, un suo presagio? O ne è lo scampo estremo? Comunque, al «corno di guerra» scompaiono Alcina e le biciclette: qui, però. Da noi. O nel cuore del poeta. Altrove, qualcuno pedala ancora, altri visi scolorati promettono nuove illusioni, e il mare ancora rabbrividisce, in una storia che non è davvero «conclusa».
Le seguenti tre sezioni del libro (Stanze della funicolare, All alone e Il passaggio d’Enea) hanno tutte, di nuovo, lo sfondo genovese. Ma uno sfondo quanto mai evidenziato, vivo, con caratteri più personali. Non è la solita città che si offre come compagna alle prime esperienze giovanili, partecipa materna alle prime delusioni: oppure, è anche questo. E’ questo e altro, è:

La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale, / e, su dal porto, risucchi di vita / viva fino a raggiungere il crinale / di lamiera dei tetti

E’ un po’ la Trieste di Saba, una donna da amare, pendii erti, uomini frettolosi e uomini miti, prostitute e ragazze che si bagnano al mare:

e al mare / reca ragazze il cui sciame discende / fresco le scalinate – arde di chiare / maglie la lana e l’acuta profluvie / di capelli e di risa, e gli arrossati / calcagni acri nei sandali tra esuvie / di conchiglie ristora e vetri.

Queste tre sezioni sono costituite ciascuna di tre poesie: l’introduttiva (Interludio o Didascalia), quella centrale, più vasta (Versi) e la finale (Epilogo, che nella prima parte prende il titolo di Sirena). Ma analizziamole singolarmente.
Stanze della funicolare: già nel titolo quelle “stanze” evoca un tipo di poesia di salde e antiche tradizioni nella nostra letteratura. Si tratta effettivamente di stanze di sedici versi, in cui, come nel precedente Le biciclette e nel seguente All alone, ogni stanza termina con le stesse parole, che in questo caso ribadiscono l’impossibilità, l’inutilità, l’incapacità di «chiedere l’alt», di invocare chiarezza, di aspettare una risposta, mentre la funicolare sale, nella notte, prima percorrendo un tunnel, poi all’aperto. E sotto l’immagine poetica è facile scorgere l’evidente analogia con l’epoca stessa del narratore, il nero periodo post-bellico, in cui è necessità procedere al buio, guidati da una tenue illusione di una luce finale che dissipi ogni oscurità. Così dalla domanda iniziale «Una funicolare dove porta, / amici, nella notte?», non si arriva a nessuna risposta, se alla fine c’è

nebbia che acqua / (solo acqua di nebbia) ha nella nebbia / molle del sole in cui vana scompare / l’arca alla vista.

L’arca («la barca a fune») era già all’inizio la funicolare, un mezzo di salvezza, una scialuppa cui aggrapparsi, eppure anch’essa ondeggiante, insicura, pesante su

quella pigra / corda inflessibile che via trascina / de profundis gli utenti e li ha in balia / nei sobbalzi di feltro!

La luce che all’uscita dal tunnel disorienta («dentro gli occhi / d’improvviso feriti»), la brezza che scompiglia i capelli, e «un’urbe / cui i marciapiedi deserti già i primi / fragori di carrette urgono», sono tutte immagini dirompenti, che squassano la «lieve nausea», che coi loro colori rompono la monotonia dell’attesa («a un tratto al sole / ahi quale orchestra frange fresca il mare / col suo respiro di plettri»). Ma chiedere l’alt è sempre impossibile (c’è buio, c’è caos, fugge l’ora: scuse tenui, appigli discutibili. Sembra quanto basti a rimandare, a dilazionare una probabile resa dei conti. C’è il rifugio nella poesia che offre la città, lo scampo di una traversata in funicolare quasi inghiottiti tra altre presenze, e sopra i primi brulichii di esistenza). La minaccia di una realtà oscura è però sempre incombente («la mano corallina che saluta / trasparente di sangue»): i casamenti grigi di un rione popolare, «la frigida erbata / fra il pietrisco e i bucati», per cui il poeta si chiede «o forse è l’ora / fra i panni scialbi di chiedere l’alt? // Forse qui è l’urto…Ma no!».
Quindi, la funicolare avanza, «dolce», «bagnata e celeste», in una pioggia minuta che rinfresca l’aria, che apre il petto al viaggiatore. Avanza fino ad approdare finalmente alla banchina, al lungomare dove si stagliano i «magri bar» di cui «una donna che in ciabatte / lava la soglia». E’ la fine, o l’inizio, l’erebo in cui inoltrarsi, in un’alba che «non ha calore di figure e di suoni». E la donna «che sciacqua / i nebbiosi bicchieri» è Proserpina forzata a restare in quell’inferno di cui conosce ormai ogni andito, è la stessa Proserpina di Interludio, Alcina de Le biciclette, Euridice del Passaggio d’Enea. Presenza ingiustificata ma giustificante, da lei si aspetta il gesto che illumina («la mattina / è lei che apre alla nebbia»), anche se compiuto con ottusità inconsapevole e incolpevole («e nebbia ha / nella cornea la donna che in ciabatte»).
Passando alle tre poesie di All alone si rimane però nello stesso ambito: sempre Genova che incombe. Fondamentale nella Didascalia e nell’Epilogo, l’iniziazione del giovane alla vita:

Era un portone in tenebra, / di scivolosa arenaria: / era, nell’umida aria / promiscua, il mio ingresso a Genova.

E notiamo qui come Genova si sovrapponga nella mente del poeta alla ragazza che per prima l’ha “iniziato” all’amore («e a aprirmi / veniva sempre (impura / e agra) una figura / di donna lunga e magra / nella sua veste discinta»): con evidenti – per quanto magari non meditati, inconsci – richiami sessuali (vedi il «portone in tenebra, di scivolosa arenaria» in cui entra; l’ «andito buio e salino», ecc.). Eppure Genova ritrovata nella sua pulitezza, nel suo candore marino ritorna a lui solo dopo che egli ha respinto l’amore “impuro” oltre la porta stretta in cima alle scale, «la porta verde da poco tinta»:

e, solo, nella tromba / delle scale, indietro / mi ritorsi, la tomba / riaprendo della porta / già scattatami dietro. // Che fresco odore di vita / mi punse sulla salita! / Ragazze ormai aperte e vere / in vivi abiti chiari / (ragazze come bandiere, / già estive, balneari)

Sempre Genova, dunque, e sempre il mare, che freme di una esistenza quasi animale:

e il mare / io lo sentivo bagnare / la mia mano

il nero umidore del mare / o il fiato della mia compagna. // Avevo infatti una cagna

I Versi centrali della raccolta sono ancora stanze strutturate come le precedenti: questa volta però non sono le battute finali a costituire la cadenza ripetuta a ogni strofa. Qui è l’inizio che si ripete sempre uguale: «Uomini miti…», storie piccole di uomini innocui che tornano a casa la sera, immersi in una solitudine patetica in cui unici rumori sono:

un umano / fragile strappo di catarro /…i tondi scalzi dei topi // … i flebili docili suoni / d’insetto che la lunga serratura / d’angelo ha nei suoi scatti // … il colpo del portone / …ovattato di polvere

Rumori domestici, che sottolineano l’immobile silenzio che pervade l’ambiente. Uomini che per farsi compagnia modulano sull’ocarina «una leggera / Napoli d’acqua», e che «cauti una Venere / tolgono dalla borsa», la foto di una ragazza (e in quel “cauti” c’è tutto l’uomo mite, nella sua timidezza, che si teme spiato anche nella sua stanza; che vigila fedele su un sentimento); creando così un’atmosfera in cui fingere immagini d’amore, lasciare campo a fantasie:

via trasporta a Margellina / fra collane di risa e di coralli / salini, sulle barche ove la prima / ragazza scalza del cuore ha di falli / tinnuli intorno al collo nudo una / mandolinata celeste.

Tutta qui, la loro vita, ad accarezzare amori nuovi che non vengono, fino a quando torna l’ora di riconsegnarsi al lavoro, ai loro «minimi traffici». Modesti, sostituibilissimi, senza importanza:

Uomini miti che di soprassalto / sobbalzati dal letto, con la borsa / sgusciano nell’albume – di soppiatto/ scantonano dai vicoli, e in rincorsa / scandendo il primo tram la cui campana / già ha squillato sui selci, parlottando / soli raggiungono l’area lontana / dei loro minimi traffici.

Ancora dal finestrino del tram «battono vanamente altra speranza», si illudono sempre di un amore intravedendo una figura: né si arrendono alla loro mitezza, anche se «la loro stanza / sanno che nella notte umida è». O proprio per questo. Così All alone, alla luce di questa parte centrale, si spiega come un insistere sulla solitudine che è di tutti (di un ragazzo in una città amica-nemica, della donna che è impura ma si lascia amare, degli uomini miti) e che il mare raccoglie, annacqua, nutre.
Credo che la sezione Il passaggio d’Enea (anch’essa suddivisa in Prologo-Versi-Epilogo) fosse parte centrale nel libro omonimo, per dirla con Caproni, «ben più folto». Il significato fondamentale che assume agli occhi del poeta questo mitico “passaggio”, è quello del viaggio verso una salvezza, che non si sa bene quale sia e quanto, in effetti, salvi; è il viaggio verso una risposta da tanto attesa e cercata. Questo mitico Enea che fugge portando in salvo padre e figlio, che cerca uno scampo da Troia che brucia, che brama un rifugio sicuro:

Enea un pontile / cerca che al lancinante occhio via mare / possa offrire altro suolo – possa offrire / al suo cuore di vedovo (di padre, / di figlio – al cuore dell’ottenebrato / principe d’Aquitania), oltre le magre / torri abolite l’imbarco sperato / da chiunque non vuol piegarsi

è un po’ tutti gli uomini costretti a un esilio non volontario, a lasciare un luogo certo e caro per una meta vaga e insicura; è l’emigrante che fugge per necessità, non Ulisse che viaggia per “canoscenza”. Questo Enea può essere quindi anche il Caproni dell’epilogo, che in «una sera di tenebra» si allontana da Genova («nel sangue i miei rancori / bruciavano, come amori»), verso Pegli o Sestri, verso un appiglio che lo salvi e che è, ancora una volta, il mare. Eppure, anche il raggiungimento della meta non riesce a tradursi in meritata consolazione e calma:

ma sentivo / già prossimo ventilare / anche il respiro del mare. //…Avevo raggiunto la rena, / ma senza avere più lena. / Forse era il peso, nei panni, / dell’acqua dei miei anni.

Questo Enea è anche tutti «gli ammotorati viandanti» che di notte, illuminando coi fari la strada, si dirigono, in lunga processione speranzosa, al mare, in un uguale desiderio di salvezza, di riscatto. Di notte, i fari giocano scherzi di luce-ombra sul soffitto («di lunari / vampe fanno spettrali le ramaglie / e tramano di scheletri di luce / i soffitti imbiancati»), le gomme delle macchine scivolano sull’asfalto, producono «lievi stritolii / lucidi del ghiaino che gremisce / le giunture dell’ossa», le foglie secche, fuori, scricchiolano, e tutto insomma contribuisce ad aumentare un senso di mistero, di paura o sconforto, che si veste di immagini spettrali: «silenzio mortale», «il rumore / di tenebra, in cui il battito del cuore / ti ferma in petto il fruscio delle streghe!»,

al paesaggio / di siero, lungo i campi dei Cimmeri / del tuo occhio disfatto, riconosci / il tuo lèmure magro (il familiare / spettro della tua scienza)

Nell’avvampo / funebre d’una fuga su una rena / che scotta ancora di sangue

Ma alla fine, a Enea che vaga, alla processione di automobili che rombano verso le spiagge, a sé stesso che fugge Genova cercando un altro mare, una domanda crudele, spietata, impone la riflessione, l’indagine sulle cause, e l’umile confessione del fallimento:

che scampo / può mai esserti il mare (la falena / verde dei fari bianchi) se con lui / senti di soprassalto che nel punto, d’estrema solitudine, sei giunto / più esatto e incerto dei nostri anni bui? //…E, / con l’alba già spuntata a cancellare / sul soffitto quel transito, non è / certo un risveglio la luce che appare / timida sulla calce – il tremolio / scialbo del giorno in erba, in cui già un sole / che stenta a alzarsi allontana anche in cuore / di quei motori il perduto ronzio.

Le quattro poesie che compongono la sezione Sul cantino eseguono, secondo Caproni,

temi più leggeri e più personali, da accennare appunto sul cantino, quasi ad adombrare, chissà, che gli altri potrebbero essere i temi sulla Quarta corda: i temi di maggior pompa, o prosopopea, o importance.

La prima poesia risale agli anni ’40, ma la data non è precisata con esattezza: si rimane nel vago anche riguardo alla situazione che l’ha prodotta. Un soggiorno a Bari – quindi ancora in una città di mare e di gabbiani -, il padre malato, Caproni giovane e insofferente (o sofferente), di un’ansia inspiegabile: «il cuore sbigottito / in un silenzio inaudito //…Ma io ero da me via, / e di passaggio, a Bari»; il sentirsi altro da tutto, estraneo a tutto, rifiutato dalla città e dal suo cielo («piangevo in quell’albania / di gabbiani – di ali». La poesia (Albania, e se il titolo può significare un puro riferimento geografico, richiama anche l’alba, a ribadire un gioco di chiaroscuri e di colori, che rimane nella composizione l’intuizione più interessante) riprende certi temi e parole – ormai chiave – in Caproni: il cuore che “urla”, “gli squittii rotti”, la rima (baciata o alternata) sempre attentamente ricercata.
La seconda composizione, molto più lunga, è L’ascensore, ed è ancora un lamento per il tempo passato, per Genova, per il mare, per la madre morta, per il tempo che non è l’attuale, di Roma, con la moglie e i figli, con il lavoro adulto. La poesia era là (l’amore era là), là era il paradiso da raggiungere. Così:

Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto, nelle ore / notturne, rubando un poco / di tempo al mio riposo.

Un ascensore – come quello di allora di Castelletto – per salire (tornare) in paradiso. E questo paradiso è il luogo già visto, si sovrappone nell’immaginazione alla beata scenografia della giovinezza. Per salirvi, il poeta deve tornare bambino tra i bambini («Ci andrò rubando (forse / di bocca) dei pezzettini / di pane ai miei due bambini»), giovane accanto alla madre, in versi che sono tra i più belli del libro:

Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al brivido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se ne andrà lontana: / la voce le si farà di cera / nel buio che la assottiglia / dicendo: “Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia”. // E io dovrò ridiscendere, / forse tornare a Roma. / Dovrò tornare ad attendere / (forse) che una paloma / blanca da una canzone / per radio, sulla mia stanca / spalla si posi.

La terza poesia, più tarda, è Il becolino, ancora una lirica di rimpianto e desolazione. Forse troppe lacrime e troppi tremori in certi versi di Caproni. Anche in questa:

Piangevo in una grande casa / piena di stanze morte // …Piangevo la patria mia / disertata, ed anche / piangevo la donna dalle anche / ladre // …Piangevo in costernazione / il giorno della trasmutazione. / Piangevo la latteria / dove con lei la mia anima debole // …Piangevo senza saper dire / il seme del mio morire.

E’ un dolore che non ha ragioni attuali e definibili, ma nasce da sintomi di oscuro avvenire, e coglie presagi sinistri intorno: «Scuotevano le impennate / violente, le ventate»; «Sentivo alla catena / abbaiare più forte / la cagna».
L’insicurezza e la tragedia di questi anni trovano altri penetranti e accorati accenni nell’ultima poesia di Sul cantino: A Giannino. Che è una poesia d’amore: «…perché il mio amore (il mio amore) / l’ho conosciuto tardi: / l’amore mio che stava ad aspettarmi / solo su una panchina». Incuriosisce la frequenza con cui Caproni inserisce nei versi ripetizioni parentetiche di brevi frasi o avverbi: credo che questa caratteristica – una novità di cui non mi tornano in mente precedenti nella nostra poesia – si metta sullo stesso piano dell’uso sistematico delle rime, della ripetizione regolare di intere strofe: cioè miri ad accentuare un ritmo della poesia, a “renderla musica”. Come certe ballate popolari in cui i ritornelli scandiscono il tempo, sottolineano gli spazi e le pause, così le liriche di Caproni che sempre narrano di fatti e situazioni intime, personali, suggerite piano al lettore, riescono attraverso questi accorgimenti (tecnici?) essenziali, a farsi più corali, più cantate e cantabili (dove l’aggettivo perde completamente il senso negativo che generalmente gli si attribuisce). In tal modo una poesia che è raffinata, che è squisita eleganza, sa diventare (anche) poesia “popolare”. Allora, questa tenerissima A Giannino è un esempio riuscito di musica in versi, e di immagini in versi (il tram vuoto, la brina, la ragazza sola che si scalda le mani col fiato): è una poesia di amore accennato, accarezzato col pensiero. Sembra una poesia di gratitudine e di stupore, per la vita buona.
Con l’ultima sezione del libro, Altre cose, scopriamo il nuovo Caproni (alcune poesie sono tratte dal Congedo del viaggiatore cerimonioso, le ultime tre entreranno nel Muro della terra), un Caproni ironico, che sa sferzare e ferire: il Caproni del Gibbone, ad esempio, che si estrania in un isolamento che è metà profetico e metà da paria:

Qua / – fra tanta gente che viene, / tanta gente che va – / io sono lontano e solo / (straniero) come / l’angelo in chiesa dove / non c’è Dio. Come / allo zoo, il gibbone.

O in Arpeggio, che ritrova l’intensità del desiderio religioso («Cristo ogni tanto torna, / se ne va, chi l’ascolta…»), mescolata ad un evidente fastidio per la gente ottusa che fa invece dell’irreligione la sua bandiera. Ritroviamo lo stesso motivo nella parte finale di quella cosa perfetta che è Lamento (o boria) del preticello deriso:

Capii a quali danni / portassero gli immondi affanni. / E mi sentii morire, / credetemi, con un’irreligione / che, senza fare eccezione, / pone nell’arricchire / (e nel riuscire) il solo / scopo delle sue mire. // Rimasi, come dire? / stranito. Come un usignolo. / Mi feci piccolo. Solo. / In disparte. E se l’arte / posso ancora ammirare / vostra, che con le carte / in regola a costruire / v’indaffarate un presente / che non guarda al domani / (io, vi giuro: le mani / mi tremano) non so più agire / e prego; prego non so ben dire / chi e per cosa; ma prego: / prego (e in ciò consiste / – unica! – la mia conquista) / non come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista.

L’esistenza di Dio – la sua inesistenza, sono i temi che torneranno più insistentemente ne Il muro della terra: la passione di credere, la voglia di un trascendente che tutto giustifichi, l’impossibilità di rassegnarsi al nulla che ci aspetta, e dall’altra parte l’esigenza del razionale, la coscienza della nostra totale solitudine e ingiustificazione. Non può dare risposte («Che mai volete / da me – da questa mia / miseria senza teologia?»), il preticello che non crede in Dio e che ha preso i voti per troppo amore, è un’alternativa concreta alla disumanità della gente che ha «il piede / saldamente posato / sulle cose concrete», e degli altri che per troppo credere finiscono per dimenticare il mondo.
Ultime due liriche: Oss’Arsgian, una poesia tutta colorata, dedicata a un paese che pare dipinto, e a «gente da malta / e da mattoni». Poesia che termina con un azzardo linguistico, non nuovo in Caproni («acqua che acqua / vacua nel vacuo e sterpi / porta in questi burroni»). E la conclusiva Palo, descrizione di un’attesa di qualcosa di indefinito, fuori dal tempo:

Sapevo che non si trattava / di partenza, e nemmeno / d’arrivo; né sapevo / se cane fosse o treno / o cuore (o la rosa, forse, della mia inesplosa / domanda) l’avventura / morta che mi legava al palo / morto della mia paura.

Dove ancora una volta tutto è vago, la stazione è circondata da nebbia «vuota», una «lunga figura nera» segnala con la lanterna al treno, e tutto insomma non è che un’avventura morta, senza senso, kafkiana.
Questo minuzioso studio esplicativo, che numera poesia per poesia le pagine de Il Terzo Libro, per arrivare a concludere che Caproni è uno di quei poeti da conoscere assolutamente, perché insegna come si fa poesia nella forma e nei contenuti. Perché salva forma e essenza, suonando e dipingendo. Perché recupera atmosfere di primo novecento (l’ansia sottile, la paura di un pericolo incombente), restituendole moderne al lettore.

 

«Quinta Generazione» n. 25-26, luglio-agosto 1976