GUGLIELMO APRILE, APPUNTI EOLIANI – FARA, RIMINI 2024

Scandita in sette sezioni, la raccolta Appunti eoliani di Guglielmo Aprile (Napoli 1978) si offre al lettore in una scabra e severa verità, assunta dalla durezza dell’argomento affrontato, e dalla sua originale consistenza. Quanto di più duro e durevole, infatti, della roccia? Della sua costante stabilità, e persistente indifferenza? Al mondo minerale sono dedicati i versi del poeta, che a esso si adeguano

in ponderata classicità, scalpellati in un lessico privo di stratagemmi o virtuosismi sperimentali, e in una metrica sostanzialmente tradizionale che però affida alla spietatezza dei continui enjambements il suo ritmo accanito.

Guglielmo Aprile si confronta con l’immutabilità dei sassi, degli scogli, con l’eternità di cielo e mare nel paesaggio solenne ed essenziale delle isole Eolie, e ne assimila l’austera segretezza. Delle rocce intuisce vibrazioni nascoste, vita palpabile che le rende simili alle creature animate, e in primo luogo a se stesso, al suo corpo “che si fa alga o pomice”, alla sua memoria, al suo interrogarsi sul destino umano e non umano: “io levo con lo sguardo un muto appello / e ad uno ad uno i vostri volti interrogo: / chi siete e chi sono io, qual è l’essenza / del vento, della pioggia, come nacquero / le lune, le montagne, i boschi; e a tratti / ho l’illusione che nei blocchi inerti / quasi un sussulto, un fremito si agiti / e che, dentro la pietra, delle bocche / si disegnino, a poco a poco: bocche / che stiano per parlarmi, che potrebbero / sciogliere un qualche oracolo, concedere / solo a me una risposta, rinnegando / il silenzio, il divieto che le tiene / da millenni nel sonno imprigionate”.

La personalizzazione del mondo minerale inizia già dal titolo della prima sezione, “Ha un’anima la pietra”, in cui sassi rocce scogli vengono osservati con stupefatta tensione, riconoscendo nelle loro grinze, negli squarci, negli ammassi i lineamenti di facce familiari: bocche si animano, occhi si spalancano con l’intenzione di comunicare qualcosa di essenziale, un segreto o forse un’ammonizione, l’avvertimento di un pericolo che sovrasta l’inconsapevole regno animale, l’innocente regno vegetale. Le pietre hanno anime e volti, “volti” citati ben diciassette volte nella raccolta, “sfigurati… esangui, stremati”, nati dal moto ondoso e subito costretti in forme immobili, “convertiti / in capricciose sculture che ostentano / fiere posture michelangiolesche”, “statue di calcare…immobili erme mute”. Rocce nate dal movimento del mare, affiorate da vortici di sabbia, che dai loro profili scolpiti in millenni di vento, pioggia, salsedine, fanno emergere sagome di titani, musi equini, erinni scomposte, opliti precipitati da alte rupi, danzatrici sacre, forzati rinchiusi nelle stive di una galea che sta per affondare. Migliaia di corpi vivi in un passato lontano sono rimasti bloccati in pose immutabili per chissà quale ingiusta sentenza, diventando fossili, pareti o dirupi incapaci di urlare la loro rabbia, la loro sofferenza: “Macigni condannati – è in voi che tutto / il dolore del mondo si è rappreso:/ nei vostri volti di tufo si è fatto / universale archetipo e ci parla”.  L’idea di una crudele violazione patita dai minerali inerti, viene ribadita in maniera ossessiva in moltissime poesie ad amplificarne la valenza emotiva, con il rischio tuttavia di renderla meno drammatica e pregnante, pur nella sua innegabile seduzione.

La terminologia a cui ricorre Aprile nella descrizione dell’arcipelago eoliano è consapevolmente puntuale (falesia calanchi frane calcare tufo magma granito basalto silice pomice megaliti obelischi bastioni) anche quando si apre a scenari meno materiali e concreti, più legati alla meteorologia, alla cosmologia e alla paesaggistica, o si infiamma in visioni mitologiche e leggendarie, in ricostruzioni storiche. Il poeta si fa archeologo, cartografo, esploratore e insieme veggente, illusionista. Affascinato dalle architetture naturali degli scogli, vede in esse draghi ed eserciti, asceti e divinità zoomorfe, re barbari e vestali, testimoni di un passato irrecuperabile, da cui sono stati strappati con cieca e ingiusta violenza. In attesa di venire di nuovo distrutte da qualche rovinosa forza naturale (un’eruzione, un diluvio o un sisma che le ridurrà a polvere, sprofondandole nel mare), le pietre appaiono fisse in espressioni corrucciate o furenti, desiderose di riscatto e di vendetta. Chi le osserva, scheggiate e percosse da marosi e turbini di vento, le paragona a mostruose figure di vegliardi sofferenti: “Sono mani di vecchi, certi scogli: / butterate da lividi e da nodi, / serrate a pugno, in atto di colpire, / rattrappite in posture innaturali / dall’artrosi, ustionate dalla lava / o corrose da un acido; monconi / deformati, dalle falangi rigide / come tese in un urlo o in uno spasmo, / dalle nocche che sporgono, rigonfie, / dalle palme spellate”.

Nelle sue estati siciliane, Guglielmo Aprile raggiunge le isole perlustrando in solitudine, lontano dal chiassoso consesso dei mortali, spiagge e anfratti (“vado in cerca / di luoghi ignorati dall’uomo, vergini:/ a piedi o a nuoto, a rischio di smarrirmi”, “cerco un angolo in cui sparire al mondo”, “Quasi un’ebbrezza, immergermi in queste acque: / non mi importa più di tornare a riva, / non ho più nessun vincolo con gli uomini”), in una segreta fratellanza con gli elementi naturali. Attratto dalla natura selvaggia e misteriosa di Stromboli e Vulcano, avverte nel frequentarle un silenzioso ammonimento a non offendere la loro scontrosa riservatezza, superando la soglia minacciosa di una potenza infera che potrebbe risucchiarlo e trasformarlo in materia sconosciuta.

L’animismo di cui il poeta riveste i minerali, i vegetali, il paesaggio terrestre e cosmico, rimanda filosoficamente alla teoria delle corrispondenze universali, “in cui credevano Swedenborg e gli alchimisti rinascimentali”, secondo quanto da lui stesso dichiarato. “Hanno, al pari degli uomini, pensieri / anche la pietra e il vento, anche l’olivo / e la ginestra, ha ogni cosa un’anima / e la esprime in un codice segreto”.

Al regno minerale che nasconde nel profondo un cuore pulsante, nel testo finale esprime un ringraziamento e una preghiera, insieme al vivo sentimento di sacralità e meraviglia per il gratuito regalo della benevolenza divina: “Pietre guerriere, insegnatemi voi / a resistere ai venti e al loro oltraggio, / voi più longeve del mio breve sangue; / e che mi sia il vostro orgoglio da esempio, / infondete anche in me un po’ del coraggio / con cui sf idano i vostri corpi il tempo”.

Rispetto alla nostra produzione poetica attuale, così spesso angusta nelle sue narcisistiche e tormentanti ambasce, e nelle tanto applaudite pubblicazioni in cui un ecologismo di maniera si risolve in filastrocche cantilenanti, il libro di Guglielmo Aprile indica un percorso originale di pensiero e illuminazione, proponendo una visionarietà immaginosa, intensa, sapiente.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 4 novembre 2024