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RECENSIONI

AAVV, IL PANE E LE ROSE

AAVV, IL PANE E LE ROSE –  ALEGRE, ROMA 2025

Ho pubblicato la mia prima recensione nel giugno del 1976, su una rivistina universitaria: era dedicata al libro di Ferruccio Brugnaro Vogliono cacciarci sotto, uscito l’anno prima per le edizioni veronesi di Giorgio Bertani nella collana Letteratura operaia. Brugnaro (Mestre 1936) con Luigi di Ruscio (1930-2011) è stato il più noto poeta operaio, e tra i maggiori rappresentanti della letteratura subalterna. In quel suo primo volume, che era accompagnato da una nota di Andrea Zanzotto, dichiarava nell’introduzione: “La poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza… Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto della realtà bruciante quotidiana dell’uomo”.

Negli anni ’80, da Zurigo (dove mi sono occupata per Agorà, un settimanale delle Colonie Libere, anche della scrittura dell’emigrazione) ho iniziato a collaborare con la rivista Abiti-Lavoro, diretta da Sandro Sardella e Giovanni Garancini, che poi ho conosciuto personalmente. Abiti-Lavoro, di cui conservo ancora religiosamente tutti i numeri, è stata una storica rivista di poesia operaia, aperta al contributo di maestranze, sindacalisti, studenti, insegnanti e intellettuali impegnati nel sociale.

Sono quindi tornata indietro di cinquant’anni con la memoria, e con molta emozione, scoprendo alcuni giorni fa che la coraggiosa casa editrice romana Alegre ha inaugurato una collana intitolata Working Class, sotto la direzione di Alberto Prunetti, dedicata alla narrativa prodotta da lavoratori inseriti nel mondo industriale, agricolo, della ristorazione. Dagli anni 60-70, in cui il mondo professionale godeva di una rappresentazione di eccellenza nelle nostre patrie lettere (la rivista Comunità di Adriano Olivetti, le ambientazioni industriali di Ottieri, Volponi, Bianciardi, Calvino, il Menabò numero 4 di Elio Vittorini, la collana di poesia edita da Savelli sotto l’egida di Majorino), l’interesse del mondo editoriale italiano per il tema del lavoro è andato via via scemando, fino quasi a scomparire, nonostante la sua rilevanza sociale e politica continui a essere basilare. Oggi la letteratura sembra più orientata verso l’intrattenimento e il disimpegno, e l’industria del libro riproduce al proprio interno gli squilibri nella distribuzione del capitale culturale, dove le persone di classe operaia – necessarie per la stampa, il magazzinaggio e la logistica del libro – sono indispensabili ma completamente invisibili, e i rari premi letterari sul tema del lavoro vengono sponsorizzati da banche e associazioni come Confindustria, limitandosi a privilegiare momenti di incontro mondano.

Proprio Prunetti introduce Il pane e le rose, volume che raccoglie alcuni racconti operai premiati nelle prime due edizioni del Festival di Letteratura Working Class tenutosi nell’aprile del 2022 e del 2023 al presidio ex Gkn di Campi Bisenzio, collegato al premio omonimo ideato da un gruppo di bibliotecari e lavoratori della cultura del comune di Montelupo Fiorentino. In un progetto di convergenza culturale, il Collettivo di fabbrica degli operai ex Gkn, (protagonisti dell’assemblea permanente più lunga del movimento operaio italiano), la casa editrice Alegre, la Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e l’ARCI di Firenze, hanno creato un evento internazionale di riflessione sull’immaginario letterario della classe lavoratrice, a cui il comune di Campi Bisenzio ha prestato il patrocinio.

Questo festival, ormai alla quarta edizione, ha come obbiettivo di dare centralità e nuova visibilità alla letteratura working class, per produrre effetti pratici nelle mobilitazioni di appoggio alle lotte sindacali contro licenziamenti, delocalizzazioni e speculazioni finanziarie, soffermandosi sul tema del lavoro sfruttato e oppresso. Il Festival è forse il primo tentativo a livello europeo di costruire una forma radicale di literary public sphere, per intervenire con la letteratura nella società, costruendo e mobilitando un pubblico a partire dalla solidarietà popolare attorno a una mobilitazione sindacale: un festival della classe operaia per la classe operaia. Ha sempre ottenuto molto successo in termini di partecipazione, di vendite di libri, con presenze di relatori internazionali e centinaia di volontari, ma è stato anche ferocemente boicottato, con l’utilizzo minaccioso di droni sorvolanti la manifestazione, con la contestazione di interventi solidali come quello di Elio Germano, con un attentato alla cabina elettrica per bloccare la luce.

I racconti antologizzati nel volume Il pane e le rose hanno temi comuni, pur nella diversità delle situazioni rappresentate. Vengono ribaditi il senso di precarizzazione e sfruttamento, la disumanizzazione dei rapporti interpersonali e la difficoltà nel mantenere salde le relazioni familiari, la deresponsabilizzazione e l’egoismo dei vertici aziendali, il timore e la rabbia per il ripetersi di incidenti causati dalla mancanza di sicurezza, le ingiustizie salariali, i turni massacranti, i licenziamenti e i trasferimenti immotivati, e poi la volontà di ritrovare una solidarietà comune nell’organizzazione degli scioperi e dell’occupazione delle fabbriche. Si tratta di esperienze vissute tragicamente sulla propria pelle: una lavoratrice di un’azienda agricola australiana che si ferisce e non viene soccorsa dai responsabili, un operaio anziano che si arrampica come ogni giorno faticosamente su una ciminiera di 100 metri e sventola uno striscione di protesta, il giovane laureato che non riesce a trovare un’occupazione adeguata, lo stabilimento siderurgico di Piombino su cui si diffonde una nube tossica dopo un’esplosione, l’addetto alla cura del verde (matricola 108712) che viene discriminato dai colleghi, il lavoratore che ricostruisce un secolo di storia delle Officine Meccaniche Reggiane… La conclusione di Dario Salvetti – Rsu e portavoce del Collettivo di fabbrica ex Gkn –, rende conto dei due anni di lotta della fabbrica toscana, che non ha avuto e non deve avere solo rivendicazioni economiche, perché “lo scontro passa anche per la capacità di essere soggetto narrante e narrato, di raccontare e di raccontarsi, sapendo scendere nel dettaglio del colore di una tuta, ma tenendolo assieme ai grandi fatti storici della classe operaia e dei movimenti sociali”.

Il titolo della seconda edizione del Festival Working Class citava Mark Fisher: “Non siamo qui per intrattenervi”, sottolineando la volontà di creare un pubblico di lettori capace di trasformare il mondo dei libri fuori dai libri, e aprendo spazi di riflessione per cambiare i rapporti di forza nella società.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 8 aprile 2025

 

RECENSIONI

NEUMAN

ANDRÉS NEUMAN, LE COSE CHE NON FACCIAMO – SUR, ROMA 2017

Dell’argentino, naturalizzato spagnolo, Andrés Neuman (Buenos Aires 1977) – narratore, poeta, traduttore, blogger, docente di letteratura all’Università di Granada –, la casa editrice SUR ha pubblicato nel 2017 il volume di racconti Le cose che non facciamo, arricchito in seconda edizione da un’interessante postfazione sull’arte di scrivere testi brevi. Molto prolifico, pluripremiato e tradotto all’estero, Neuman ha firmato sei romanzi di successo, un volume di versi e due libri di racconti.

Le cose che non facciamo contiene venticinque storie che esplorano soprattutto i rapporti familiari, di coppia o genitoriali, utilizzando misure e registri diversi: si va dal bozzetto flash al racconto più articolato, dal genere intimistico al surreale e al grottesco, con una notevole maestria formale per cui nessuna descrizione risulta indulgente o sbavata, i dialoghi sono serrati, le descrizioni puntuali, il tono anche se commosso mai scadente nella retorica.

Soprattutto il rapporto tra marito e moglie viene indagato con acuta perspicacia, e talvolta con sorniona perplessità, quasi chiamando il lettore a condividere un senso di stupore per come le relazioni coniugali sappiano complicarsi senza reale motivo, rendendo difficile la reciproca comprensione e qualsiasi convivenza. C’è ad esempio l’uomo così affezionato al suo migliore amico da prestargli la sua donna fino a quando sarà riuscito a emularlo nelle qualità fisiche e morali; la moglie che in spiaggia proibisce al marito di avvicinarla tracciando col piede una riga sulla spiaggia; una coppia perfetta e simile anche nei nomi, Elias ed Elisa, sincronizzata e simultanea in tutto, che poi implode inaspettatamente e fragorosamente; un’altra coppia solidale nelle cose non fatte (viaggi immaginati, sane abitudini tralasciate, palestre non frequentate, lingue mai studiate): “Mi piacciono tutti i propositi, dichiarati o segreti, che disattendiamo insieme. È questo che preferisco della vita a due. La meraviglia aperta sull’altrove. Le cose che non facciamo”.

I venticinque racconti sono raggruppati in cinque aree tematiche: oltre alla prima dedicata alla vita in due, particolarmente suggestiva è quella in cui Neuman affronta le relazioni interne alle famiglie, non sempre improntate al confronto ostile o all’indifferenza, ma anche pervase da un’inaspettata tenerezza. Se quindi leggiamo di conflitti irriducibili, possiamo imbatterci al contrario in narrazioni commosse relative ai momenti topici dell’esistenza: la nascita e la morte. In Dare alla luce un padre assiste al parto del primo figlio con una tale partecipazione emotiva da patire in prima persona le doglie, fino all’apparizione rivelatrice e sconvolgente del bambino: scenderà contento o piuttosto sconcertato lungo lo scivolo del tempo? mi accetterà? sarò degno del suo esordio? e cosa fare con tutta la meschinità e la crudeltà che ci trasciniamo dietro quando un figlio ci nasce, quando un figlio ci dà alla luce, cosa fare per sentire che malgrado tutto ci meritiamo un altro inizio?”. In altri testi, sinteticamente essenziali (Madre di spalle, Una sedia per qualcuno, A piedi nudi)), sono i due vecchi genitori a venire accompagnati all’ospedale (“quanto di più simile a una cattedrale in cui noi miscredenti possiamo mettere piede”) prima dell’ultimo saluto, con la consapevolezza di non essere riusciti a ricambiare la generosa dedizione di tutta la loro vita: “ci sono amori che non si possono ripagare. Per quanto un figlio contraccambi i genitori, ci sarà sempre un debito tremante di freddo”. Lo stato di orfano viene addirittura negato mantenendo fittiziamente vivi padre e madre in Juan, José.

Particolare è anche la sezione dedicata a L’ultimo minuto vissuto da diversi protagonisti prima di congedarsi dal mondo: un nonno che annega volontariamente nella vasca da bagno, un prigioniero di fronte a una finta fucilazione, diversi aspiranti suicidi, un pestaggio brutale precedente all’esecuzione. Sono presenti nella raccolta anche testi crudamente feroci, e altri intellettualmente sofisticati, che si servono di uno stile meno tradizionale e affabulatorio per tentare soluzioni più sperimentali. Tra i primi, si esibiscono testi narranti di errori giudiziari, persecuzioni poliziesche, abusi e violazioni nel privato dei cittadini, rese dei conti tra amici-nemici. Invece, nell’ultima sezione del volume, Fine e principio del lessico, cinque brani si misurano con la creazione letteraria, con le aspirazioni e le delusioni di scrittori e poeti, e qui per la prima volta Andrés Neuman si concede qualche puntualizzazione nei nomi dei protagonisti e nelle ambientazioni delle trame. In generale, gli altri racconti si muovono in tempi e luoghi indefiniti, quasi l’autore volesse significare che i sentimenti, i gesti, i pensieri e i dialoghi descritti rimangono gli stessi a qualsiasi latitudine e in ogni periodo storico.

In effetti, più degli accadimenti concreti in cui si imbattono i personaggi, hanno rilievo nel libro le sfumature della loro interiorità, le emozioni e gli affetti. Di questa propensione allo scavo e all’interpretazione psicologica, Neuman dà testimonianza nelle raccomandazioni finali rivolte a chi volesse cimentarsi con la stesura di racconti: una serie di quattro dodecalogi e un pezzo conclusivo sugli errori da evitare e di suggerimenti da mettere in pratica per meglio catturare l’attenzione dei lettori interessati alla narrativa breve.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 6 aprile 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ROSSI

TIZIANO ROSSI, IL BRUSÍO – EINAUDI, TORINO 2025

Nella Collezione bianca di Einaudi è uscito Brusìo, di Tiziano Rossi (Milano 1935), autore di numerosi libri di poesia confluiti in un unico volume garzantiano nel 2003, e di altri testi successivi in versi e prosa, fino a Gli affaccendati pubblicato lo scorso anno da Moretti & Vitali.

Critico letterario, a lungo professionalmente attivo nell’editoria, vincitore del Premio Viareggio nel 2019, Rossi ha fatto parte tra gli anni 60 e 80 della cosiddetta “scuola lombarda”, mantenendo un coerente e raffinato profilo letterario e culturale di attenzione alla realtà umana nei suoi molteplici aspetti relazionali: di famiglia, di ambienti lavorativi e urbani, di cronache diffuse, e più ampiamente di interesse alla situazione politica e sociale internazionale. In quest’ultima raccolta, le circa cento composizioni sono suddivise in quattro capitoli privi di titolo. Il primo è dedicato alla violenza che “colpisce regolare”, a partire dagli anni della guerra “porcheria mondiale”, ricostruiti recuperando i ricordi infantili, adesso che con la stanchezza dell’età “sparito è il superfluo / e dell’accadere / conta solo l’intero”. Protetto dall’affettuosa trepidazione dei parenti, il ragazzo di allora ubbidiva alle raccomandazioni del padre (“Mai fare lamento!”) e del nonno (“Quando bisogna ballare si balla”), se a luci oscurate aspettavano timorosi il nemico, balbettando “qualche fievole orazione”: il “modesto decoro” in cui viveva la famiglia fungeva da baluardo alla paura delle bombe, perché “occorre / resistere almeno in salute”. Intorno, tremavano i muri della casa, nel cortile erano sparite le galline, e lungo i binari della ferrovia giaceva insepolto per tre giorni il corpo di una ragazza uccisa.

“Miglioreremo? Miglioreremo”, cerca ora di convincersi il poeta, pensando a un futuro pacificato. Al desiderio di un domani più sereno risponde l’ultima sezione del libro, dedicata ai bambini che sono il potenziale dell’umanità, come suggerisce pomposamente un altro nonno osservando i nipotini al parco giochi. Il tempo dei piccoli è segnato dall’incanto, indifferente al “mondo bislacco” dei grandi, alle loro domande difficili e alla prudente esattezza dei calcoli. Le altalene, i tricicli, i peluche, le partite a pallone, le recite a scuola e il gioco della bandiera, descritto con affettuosa nostalgia. Tiziano Rossi novantenne affida ai “sopravvenienti” il germogliare di nuove attese: “Si spera nei loro tantissimi eccetera. / Noi qui restiamo / docile balbuzie”.

Nelle due parti centrali del volume, l’autore transita attraverso alcune allarmate e malinconiche considerazioni sui disastri ambientali degli ultimi decenni e sulla passiva rassegnazione delle persone comuni rispetto al degrado dei rapporti umani. Con più amarezza che sarcasmo così commenta l’attualità: “Avanzano sulla statale / mandrie d’automobili sbuffanti… // Di qua le genti / nel parcheggio deposte / girano in tondo a testa bassa / ansando appena, / poi deboline si disperdono / tra le fabbrichette”, “Il nostro pianeta fabbrica e disfa / e già comincia l’enorme baraonda”, “Svelare il presente? Ma è già / sorpassato… // l’oggi precipita, il cuore indugia, / circospezione, circospezione”.

L’augurio rivolto alla Terra è che dalla catastrofe climatica possa derivare una rigenerazione prepotente, fatta di nuove giungle selvatiche, lussureggiante vegetazione tropicale, risveglio di animalità “con palpitante vena salgariana”. Chi scrive sa che non potrà assistere all’alba di una nuova epoca di ottimistico riscatto: l’età avanzata indebolisce i sensi, e la lentezza nei movimenti va accettata con consapevole tranquillità. “Gli pareva di abitare da tempo / un pallido acquario / forse una bambagia / ma in fondo / sempre era stato il suo sogno / uno zitto dissolversi mite”. L’attesa della fine non provoca disperazione: “Fluire è la cosa che conta”, “E dunque noi con la nostra / stipata valigia / andremo altrove nell’aria: / un nuovo trasloco, come tanti”, perché “mica sei il centro, nessuno lo è”. Saggiamente e con un sorriso spiazzante il poeta ammette: “Esistere è un teso rinviare / e sono necessari un po’ di ghirigori. / Per intanto sulla tavola mi aspetta / una pagnotta”, “Purtroppo eravamo mortali / però la commedia / tanto vivace / non era male, non era male”.

Lo scarso ossequio tributato alla metrica e ad altre figure retoriche (rime, assonanze, anafore, ellissi ecc.), lo stile piano e colloquiale, il lessico mai ricercato, e l’utilizzo composto e intelligente del registro ironico, fanno della poesia di Tiziano Rossi un bell’esempio di originalità formale. A livello contenutistico appare poi rilevante il suo richiamo alle responsabilità individuali verso la storia collettiva nell’intrecciarsi a quella personale, riletta con affettuosa sensibilità.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese» n. IV, aprile 2025

RECENSIONI

COLLIN

DOMINIQUE COLLIN, LA FEDE È ANCORA POSSIBILE? – QIQAJON, BOSE 2024

 

Il testo di Dominique Collin pubblicato nella collana Sentieri di senso delle edizioni Qiqajon è apparso con il titolo originale La foi est-elle encore possible? nella rivista Études 4 del 2020. Collin (1975), teologo domenicano, insegna alla Facoltà di teologia del Centre Sèvres d Parigi, ed è autore di numerosi volumi, alcuni dei quali tradotti anche in italiano (Il Cristianesimo non esiste ancora, Credere nel mondo a venire, Il Vangelo inaudito).

In queste venticinque pagine riflette sull’insignificanza del discorso cristiano nella realtà contemporanea, chiedendosi cosa sia credere, oggi, quando l’indifferenza verso ogni fede rivelata viene esibita platealmente sui media internazionali e nei social da artisti, scienziati, filosofi e persone comuni. Sembra infatti che attualmente il credere in qualcosa abbia perso significanza, anche riferito alla vita individuale di ciascuno. Secondo Gilles Deleuze “noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà”. In questo stato generalizzato di scetticismo e indifferenza, quale ascolto può pretendere il richiamo alla fede religiosa?

Già il Vangelo di Luca (Lc 18,8) si poneva questa tormentosa domanda: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” E che fede potrebbe trovare, se non quella caratterizzata da una funzione puramente decorativa, poiché non ha più una realtà dove operare? Il mondo su cui vorrebbe agire la disconosce, e la rifiuta proprio nel momento in cui essa reclama di essere accolta. Il mondo attuale, nella propria vanità e arroganza, pensa sé stesso come sufficiente, confidando di produrre effetti attesi e predicibili. Non l’inatteso, il possibile, il “senza senso”: ma solo il fatto compiuto, che non inquieta, non disturba, ed è appunto favorevolmente prevedibile.

La fede invece crede nell’evento che accade al di là della prevedibilità e del calcolo, e spera nell’inatteso che si presenta senza ragione “sufficiente”. Secondo Kierkegaard, la fede consiste nel “tener ferma la possibilità”: è la speranza che offre significanza alla fede, aprendo a un futuro di novità, alla libertà assoluta del possibile. I vangeli lo ripetono, ribadendo la fiducia all’affidabilità di una promessa: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), “Tutto è possibile a Dio” (Mc 10, 27), “Nessun evento sarà impossibile a Dio” (Lc I, 37).

Qui la fede diventa “un’ipotesi viva”: trasgredisce ogni limite alienante, trasportando la potenza del “fuori del senso” in questo mondo. Ed è la speranza che crea il possibile, l’imprevedibile. Credere è sperare, chi non spera si priva della possibilità di credere. Collin afferma che “la fede consiste nello sperare affinché il possibile avvenga e perché è già avvenuto, fatto che rende il possibile ancora più sperabile”. Bisogna dare fiducia non alla possibilità del miracolo, ma al miracolo della possibilità. Infatti, se il possibile è accaduto, ciò significa che può ancora accadere. La fede sposta le montagne (Mt 17, 20), indica il passaggio dal regime della necessità (ciò che è) a quello del possibile (ciò che può essere).

Se l’eccesso di razionalità e criticismo ha minato le credenze cristiane, la fede può sfidare la tracotanza della sufficienza del mondo, suggerendo la speranza come antidoto alla rassegnazione, la possibilità di credere all’impossibile e all’impensabile per uscire dal soffocamento imposto dall’insignificanza. Il “credo quia absurdum” di Tertulliano torna quindi a declamare con forza la sua provocazione. Si può vivere diversamente, anche nella realtà attuale vuota di significati, affidandosi alla speranza irragionevole, eccedente, paradossale “fuori dal senso”: movimento verso l’infinito che apre a un nuovo modo di esistere.

 

© Riproduzione riservata         «Mosaico di pace», aprile 2025

 

RECENSIONI

VAGLIO

LUCA VAGLIO, IL VUOTO – MORELLINI, MILANO 2019

Con un titolo che nella sua inflessibile durezza ricorda atmosfere esistenzialistiche, Luca Vaglio ha firmato Il vuoto, romanzo scandito in sette giornate comprese tra la fine del 2009 e l’inizio del nuovo anno, il cui protagonista Mattia Ventura si racconta in prima persona, svelando senza alcuna indulgenza, ma anche senza ironia, l’inanità in cui trascina la propria esistenza.

Trentaseienne, single, figlio unico e viziato di due apprensivi genitori che lo sorvegliano da lontano, Mattia è un giornalista in cassa integrazione, che gode della propria improvvisa e comunque ben retribuita disoccupazione per concedersi un anno di disimpegno e pigrizia, “lontano da vincoli e contingenze, da obblighi e necessità”.

Si alza tardi la mattina ed è perennemente in ritardo a ogni appuntamento, per un’insopprimibile tendenza alla dilazione. Vive, insomma, in uno stato di accidiosa solitudine, tranquillamente accettata per i suoi vantaggiosi aspetti di indipendenza: legge, va al cinema, ascolta musica, trascorre ore su Facebook e YouTube, bighellona attraverso la città, frequenta molti bar e si concede qualche esperienza sessuale a pagamento, rimanendone generalmente insoddisfatto e umiliato. Abita a Milano, in un bilocale nella zona di Città Studi regalatogli dal padre, che ha provveduto anche a pagargli un posto macchina nel garage sotto casa.

Il rapporto più esclusivo che Mattia nutre con l’esterno è infatti quello con la propria Alfa Romeo 147 nera metallizzata, che guida a folle velocità per le strade cittadine, contravvenendo a ogni regola, sfidando i semafori, occupando parcheggi riservati e rasentando investimenti: “ne apprezzo la linea essenziale e aggressiva, la chiusura a spigolo del piccolo finestrino posteriore e la fiancata che si allarga, cresce, si gonfia tra il faro posteriore e il montante, a suggerire l’idea dei muscoli, della forza, dello scatto rapinoso di un’Alfa Romeo”. Le pagine narranti queste folli corse in macchina sono tra le più vivaci e riuscite del volume, insieme ai ritratti dei vari bar e caffè frequentati, con la descrizione puntuale di camerieri e avventori: l’Albatros, il Giulia, l’Arcadia, l’Hemingway, il Maya, il Milano, nomi che Luca Vaglio ci aveva già fatto conoscere nei suoi libri di versi, Milano dalle finestre dei bar (2013) e Cosmologie (2022).

Improvvisamente, nella “vita labile e inutile, a bassa intensità” del protagonista, uno strano episodio arriva a sconvolgerne lo stato emotivo, catalizzando i suoi pensieri verso timori prima trascurati. Un carrozziere a cui fa controllare uno pneumatico sgonfio gli rivela che la gomma era stata forata e poi malamente riparata con una bomboletta spray. Mattia sospetta che uno dei tre dipendenti del garage di cui è cliente, abbia nottetempo utilizzato la sua auto senza permesso, incappando in un incidente. Inizia così a indagare sull’accaduto, tormentando i garagisti, i propri genitori e i rari conoscenti con le ipotesi più fantasiose. Questa ossessione finisce per riempirgli giorni e notti di fine dicembre, in una Milano sempre più fredda e deserta, scenario corrispondente al suo vuoto interiore: “Manca poco a Capodanno, e sono da solo, come mi capita quasi sempre in questo momento dell’anno. Eppure ho degli amici. Un numero variabile dai tre ai sei, che nella mia mente oscilla di settimana in settimana, più o meno in base al mio umore. E conosco e vedo molte persone. Frequento alcuni cineforum, aperitivi in lingua straniera e ritrovi delle comunità letterarie milanesi, più o meno vivaci e in polemica aperta o strisciante tra loro”.

A distoglierlo dalla fissazione del furto arriva inaspettata una convocazione della Questura, in cui la Polizia gli contesta due telefonate che lo metterebbero in relazione con l’assassinio di una prostituta. Mattia si difende negando qualsiasi responsabilità, in maniera confusa, mentalmente sospeso nella spessa nube bianca che ha inghiottito tutta la sua esistenza. Rilasciato in attesa di nuove prove che lo scagionino, ripara come è solito fare in un bar dei paraggi, cercando un sollievo protettivo e confortante tra le sue pareti. “Non penso a nulla. Sono immerso in una specie di meditazione, il corpo quasi inerte… Guardo le persone che camminano sul marciapiede e sono lontano da ogni cosa, come inabissato dentro me stesso”. Il romanzo si chiude con quest’ ultima riflessione del protagonista, lasciando il lettore in dubbio sulla reale consistenza delle azioni e dei pensieri da lui raccontati, galleggianti in un’impalpabile ambivalenza, nel vuoto giustamente richiamato dal titolo.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 31 marzo 2025

RECENSIONI

MESSORI

GIORGIO MESSORI, IL PIANETA SUL TAVOLO. GIORGIO MORANDI E LUIGI GHIRRI. CASAGRANDE, BELLINZONA 2025.

Tre emiliani di grande spessore umano e culturale sono i protagonisti dell’(ormai museali)incontro letterario celebrato nel piccolo volume edito da Casagrande Il pianeta sul tavolo. Si tratta del pittore Giorgio Morandi (1890-1964), del fotografo Luigi Ghirri (1943-1992), dello scrittore Giorgio Messori (1955-2006). Ho conosciuto personalmente quest’ultimo nel 1985, quando per un anno è arrivato a Zurigo come supplente negli stessi corsi in cui insegnavo come dipendente del Ministero degli Esteri. Ospite qualche volta a cena da noi, io e mio marito ne avevamo apprezzato non solo i molteplici interessi intellettuali, ma anche la discrezione e la sensibilità con cui sapeva rapportarsi alle persone, pur nell’intensità dei suoi silenzi e degli sguardi. Ritrovo ora la sua gentilezza di allora in queste pagine uscite a quasi vent’anni dalla sua prematura scomparsa, che raccolgono due saggi già pubblicati nel 1992 e nel 2005, e sette fotografie di Luigi Ghirri.

Proprio con il conterraneo Ghirri, che aveva iniziato a frequentare negli anni 80, con sempre maggiore familiarità e amicizia, Messori aveva deciso di rendere omaggio al pittore bolognese Giorgio Morandi nel 1990, visitando le sue due abitazioni-atelier (ormai museali) in Via Fondazza, in centro città, e nella residenza di campagna nel paese di Grizzana, per produrre un reportage fotografico in intensa e fattiva collaborazione.

L’appartamento cittadino in cui Morandi aveva vissuto in affitto per quasi tutta la vita, insieme alla madre e tre sorelle, era sobrio e ordinato: il pittore ne occupava un’unica stanza che fungeva da camera da letto e da laboratorio, a cui accedeva da una piccola porta che lo costringeva ad abbassarsi, nel suo metro e novanta di altezza, con un movimento che suggeriva umiltà e dedizione. Davanti al letto si trovava il tavolo su cui erano disposti gli oggetti privilegiati della sua pittura: “brocche, bottiglie, tazze, scatole, vasi, barattoli, teiere”, che per il loro utilizzo quotidiano implicavano una totale confidenza dello sguardo. Materiali semplici e domestici, a cui Morandi consacrava lunghi momenti di paziente contemplazione prima di accingersi a riprodurli.

Messori dedica parole commosse al lavoro artigianale del pittore, alla sua volontà di confrontarsi con le cose, che abitano non solo lo spazio ma anche il tempo. Fedele a una vocazione all’immobilità e al silenzio, Morandi secondo Messori era un artista “che sceglie l’esercizio costante del lavoro per entrare nell’intima realtà delle cose. Il silenzio, di cui Morandi ha voluto circondare la sua vita, è quello di uno sguardo contemplativo che testimonia l’apparizione stessa del mondo, il suo costruirsi in uno spazio visibile che si forma davanti agli occhi”. Questo processo metodico di concentrazione sugli oggetti attivava sensorialmente in lui una prassi di conoscenza creativa, permettendogli di avvicinarsi alla loro enigmatica purezza e realizzando l’assenza dal sé, dal soggetto che guarda, e l’immersione estatica nella natura più intima del reale.

Messori individua nell’arte di Morandi alcune caratteristiche fondamentali: la luce, in primo luogo, che dà sostanza anche al colore, senza eclissarlo ma rendendolo più impalpabile. E poi la ripetizione di temi sempre uguali, ripresi secondo infinite modalità, “rifuggendo da un’ansiosa ricerca espressiva del nuovo, che finirebbe soltanto per ritrovare l’identico sotto le apparenze più svariate”.

Questa necessarietà “dell’esserci” intuito dalla pittura di Morandi era stata ben compresa dall’occhio fotografico di Luigi Ghirri, per il quale vedere coincideva con il fotografare, secondo “un progetto di amplificazione delle percezioni e non di una indiscriminata moltiplicazione degli oggetti”. Tale rigorosa pulizia dello sguardo accomunava la pittura di Morandi alla fotografia di Ghirri, e Messori ne offre una preziosa testimonianza nel commentare una foto che viene riprodotta anche nel volume. Il letto della casa di campagna di Grizzana “ha un solo colore, il bianco, così anche il volume e il disegno delle cose vengono dati da lievissime sfumature di bianco, che certo non cancella ma comunque fa sì che il mondo fisico degli oggetti, delle cose, quasi si smaterializzi in un soffio di luce”.

La stima e l’affetto che univa Messori a Ghirri è ben esemplificato in quanto scrive nel secondo saggio del libro: “A differenza di molti altri fotografi, Ghirri non chiudeva il mondo nell’obbiettivo di una macchina fotografica, come se il mondo fosse semplicemente qualcosa da mettere dentro un’inquadratura. Semplicemente guardava, con insaziabile curiosità, e andare in giro con lui si traduceva nell’esperienza di vedere nel mondo tante immagini che poi, solo in alcuni casi, finivano in una stampa fotografica. Perciò la cosa sorprendente ed emozionante era scoprire, attraverso di lui, quante immagini popolassero il mondo, che così finiva di essere quel tutto indistinto in cui normalmente ci muoviamo… E così è riuscito a farmi a capire, meglio di tutti, che dal mondo è anche stupido difendersi. Tanto non siamo che passanti, siamo stranieri anche alla strada che percorriamo ogni giorno”.

La sintonia con gli oggetti che Morandi e Ghirri esperivano, permetteva loro di “varcare la soglia che normalmente separa chi guarda dalla cosa guardata”, annullando la distinzione tra esteriorità e interiorità in un momento epifanico capace di restituire l’anima a ciò che è inanimato. Il tragitto poetico si risolveva per entrambi in un percorso mistico in direzione della luce, della chiarezza, dell’essenzialità ontologica.

In questi due brevi testi Giorgio Messori è riuscito a amalgamare in un’unica visione spirituale le esperienze creative di due grandi artisti, arricchendo le pagine con qualche appena accennata e pudica nota biografica, e con appropriate interpretazioni critiche di filosofi, sociologi, psicanalisti (Bateson, Bachelard, Merleau-Ponty, Fachinelli…), e con citazioni tratte da poeti e scrittori come Rilke, Kafka. Bousquet e Holan. Tra queste, la più in sintonia con il dettato del libro è forse l’affermazione ammonitrice di Cézanne: “Bisogna sbrigarsi a guardare le cose perché tutto sta scomparendo”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 31 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MULLER-COLARD

MARION MULLER-COLARD, COME FUNAMBOLI – QIQAJON, BOSE 2025

Una lunga lettera d’amore (inteso non come passione, ma nel senso più esteso – di benevolenza, premura e delicatezza –, che i greci definivano filìa o agàpe) quella che Marion Muller-Colard indirizza a Jeanne, la figlia neonata di un’amica carissima morta di cancro pochi mesi dopo il parto. Una lettera che si rivela testimonianza di fede, non solo in termini cristiani, bensì di fiducia e apertura verso l’esistenza, così come può venire esperita anche dai laici, dagli agnostici, dagli atei. Marion Muller-Colard (Marsiglia 1978) è teologa protestante e scrittrice. Autrice di numerosi saggi e romanzi, ha fatto parte della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella chiesa e dal 2017 è membro del Comitato consultivo nazionale di etica.

Come funamboli è il titolo con cui le edizioni Qiqajon presentano il testo, a indicare la particolare e vertiginosa condizione umana, in equilibrio perenne tra i due momenti basilari e imprescindibili della vita e della morte. La fune su cui gli acrobati volteggiano, lontani dall’appoggio sicuro del terreno e sospesi nell’alto, privi di una rete di protezione, diventa evidente metafora dello stare umano, costantemente in bilico nei momenti decisivi di ogni scelta, azione, pensiero, sentimento. L’epigrafe di Friedrich Hölderlin, “Dove è il pericolo, cresce /anche ciò che dà salvezza”, bene esprime l’ambivalenza della corda tesa tra minaccia e riparo, rischio e difesa, su cui ciascuno di noi si muove.

A Jeanne, bambina che non avrà vicino la propria madre, che non potrà nemmeno ricordarne il viso e la voce, Muller-Colard non rivolge parole di retorica consolazione, né di impietosita compassione, ma di forza e incoraggiamento, addirittura di composta serenità.

Osservando la foto della puerpera e della piccola appena nata, l’autrice intuisce “il segno d’una vulnerabilità piena e raccolta”, su cui aleggia la luminosità dell’evento miracoloso che le ha viste protagoniste, insieme all’ombra che oscura l’inizio e la fine del loro rapporto.

Nell’arco di un anno, la vita della sua giovane amica era stata attraversata da avvenimenti turbinosi, felici e tragici: un matrimonio intensamente desiderato e festoso, seguito subito dopo dalla diagnosi di un tumore incurabile, e infine la nascita di Jeanne. Dodici mesi in cui il tempo è stato misurato da tutti i protagonisti nella sua profondità, più che nella lunghezza, vissuto e percepito come un susseguirsi di attimi nel presente, mentre il futuro assumeva contorni bui. “Tua madre ha il coraggio di rivolgere la parola all’ignoto. E l’ignoto le risponde”, scrive alla bimba, augurandole la stessa generosa fierezza materna.

Quando non si riesce a fornire una giustificazione a una condanna immeritata, si dovrebbe rinunciare a porsi domande, e accontentarsi di rimanere al livello delle sensazioni, imparare a godere di ogni istante di bellezza, riconoscendo nel proprio essere vulnerabili la possibilità di una risorsa. Rinunciare ai “perché”, preferendo i “come”.

La teologa Isabella Guanzini nella prefazione al volume afferma: “Chi deve presto morire mostra ai vivi come si può vivere: ossia come funamboli amanti della propria incertezza, con lo sguardo dritto, la percezione del proprio corpo fino alle punte delle dita e moltissimo affetto per i vivi che ci sono dati, di tutte le generazioni”.

L’imprevedibilità della sorte che ci aspetta provoca ovviamente timore, ma indica anche una possibilità: l’ignoto presuppone sempre un “forse”, un “poter-essere”, e il confronto con la nostra finitudine apre  tuttavia alla grazia di una nascita, di “un’irruzione pugnace e inaspettata della vita”.

Quando Marion Muller-Colard chiedeva all’amica malata come stesse, lei rispondeva “In trasformazione”, oppure “Così è”, riferendosi alla realtà del momento presente che dura senza durata, del kairós (istante) che vince sul chrónos (tempo). E scrivendo alla bambina che avrebbe letto la lettera una volta cresciuta, così conclude: “Tua madre è morta quattro settimane dopo il tuo battesimo, Jeanne… La sua vita è passata nelle nostre, per dirla con le parole di Rilke. È passata nella tua. Questo, lungi dall’incatenarti, ti renda infinitamente libera, Jeanne”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 29 marzo 2025

 

RECENSIONI

PATARO

LORENZO PATARO, AMULETI – ENSEMBLE, ROMA 2022

Lorenzo Pataro nato a Castrovillari nel 1998, viveva a Laino Borgo, un piccolo paese del Pollino calabrese; si era laureato in Lettere a Salerno e collaborava a quotidiani e riviste, impegnato a diffondere con passione la parola poetica tra i lettori. Alla sua prima raccolta di versi, Bruciare la sete pubblicata nel 2018, era seguita Amuleti, arrivata tra le opere finaliste del Premio Strega Poesia nel 2023 e del Premio Pontedilegno Poesia 2024.

Se il libro d’esordio, da lui chiamato “il primo sogno”, raccontava di un amore “bruciante” tra due adolescenti in termini letterariamente ancora acerbi, è nella dedica iniziale e nei ringraziamenti finali del volume che possiamo intuire la scalfibile delicatezza e il candido entusiasmo di un ragazzo che scopre nella poesia la modalità espressiva capace di metterlo in contatto non solo con l’amata, ma con tutto il mondo che lo circonda, a cui si sente debitore di bellezza, in uno scambio di amicizia e appoggio ribadito nei cinque versi conclusivi della raccolta: “Siamo soli. / Per riflettere / dobbiamo rifletterci, / bruciare la sete / per dissetare l’altro”.

Decisamente più matura e formalmente meditata è la seconda prova di Lorenzo, che in pochi anni aveva saputo affinare la propria competenza critica, grazie anche all’intenso confronto e alla collaborazione con altri poeti, nella redazione di riviste settoriali e nell’avvicinamento a nuove esperienze di scrittura. Al punto che il prefatore Elio Pecora riconosce in Amuleti “un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati”.

Nelle quattro sezioni di cui si compone il libro, oggetto di esplorazione è di nuovo l’amore, ma qui con una chiara consapevolezza della sua temibilità: “Ancora ritorna lo sparviero / il nibbio a piantare l’urlo nella schiena / a percorrere il dolore come un dito / che tocca la ferita e la ripara // la stagione degli amori ritorna / e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia”. Ma si tratta di un amore scorporato, di un tu femminile che appare e scompare, a promettere rifugio e soccorso come un albero frondoso, come acqua nel deserto: “fammi semina e raccolto / fammi fungo che cresce sul tuo ceppo / fammi nascere germoglio e gemma pura / cadi dal mio stelo come fossi la rugiada”.

Tuttavia, più di qualsiasi presenza umana, nel prosieguo delle pagine risulta preziosa e rassicurante la scoperta della sacralità insita negli oggetti, negli animali (pecore, tassi, volpi, cani, e soprattutto uccelli: passeri, merli, rondoni, allodole, falchi…) e nella vegetazione (rovi, querce, muschi, fichi, meli, uva, pioppi…), in un ambiente caratterizzato dalla campagna, da stalle, fienili, masserizie rurali. Niente di urbano, nessun cosmopolitismo in queste poesie, ma il ritmo calmo che si adegua al trascorrere naturale delle stagioni, ed è il solo a proteggere dall’insonnia e dalla febbre, promettendo guarigione e salvezza: “Potremmo dirci salvi soltanto / tra il freddo delle mura nella casa / di campagna, nell’aperto grido dello spazio // salvi soltanto nel vecchio pagliaio”. L’aspirazione alla quiete che risana non si risolve però nell’idillio romantico di visioni bucoliche, in stereotipi paesaggistici di consolante retorica: è invece reale desiderio di liberazione e di grazia, simboleggiato dalla frequente metafora del volo, e insieme scampo dal male, dalle ferite che incidono corpo e anima. Ferite, crepe, tagli, aghi, schegge, oggetti puntuti che trafiggono, graffiano, squarciano: il poeta si aggrappa ad amuleti e talismani, ad antichi riti contadini, a salmi più pagani che cristiani, a voci e apparizioni che esorcizzano gli spettri seduttivi del nulla.

C’è la consapevolezza filosofica, heideggeriana, del destino feroce che condanna l’essere umano alla solitudine del Geworfenheit (“Siamo nati. / Gettati in un nome verso un nome”), ma anche la speranza che il recupero di tradizioni storiche non adulterate, della sapienza produttiva della terra, della ritualità di gesti antichi possa farci riacquistare “la miniera di ciò che abbiamo perso”. Tra i brani in prosa che inframezzano le poesie, non si legge la volontà di razionalizzare il sentimento, ma semmai un più convinto insistere sui motivi che innervano i versi: lo stupore per la bellezza, “il doloroso mistero glorioso” di una rivelazione, la cura per tutto ciò che è vivo e respira, l’attesa di una rinascita: “fuori avvampa / ogni vigilia e resta solo il desiderio / di chi ha visto la luce e la rivuole”.

Sono temi che rasentano una spiritualità laica, formulati – come scrive giustamente Elio Pecora – “in un ritmo denso e pacato con la tenerezza che è pura nostalgia di un esistere senza confini e strutture”. Ma in questo sconfinarsi era presente in Lorenzo Pataro sia un’idea di continua metamorfosi in altre strutture fisiche (“Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo / del riccio di castagna ad accogliere / il respiro dei dispersi nella luce, / le mani-radici nella terra, i palmi-catini / colmi d’acqua, la fronte che è un viale / in attesa delle foglie. Quanti corpi / attraversiamo, in quante forme migriamo / braccati come lupi nella notte”), sia il costante interrogarsi sulla morte, quella altrui (le tombe trascurate nel cimitero del paese, gli insepolti, i cancellati da ogni memoria), sia la propria: “Un giorno sarò terra concimata, solco da irrigare. Le mani avranno forma di scodella. E la pelle becchime per gli uccelli. Un giorno avrò dimora dove tutte le dimore hanno dimora. Il sangue sarà linfa per le querce, ossigeno degli olmi. Un giorno sarò vivo e sarò morto. L’anca sarà vaso per le rose. La lingua tappeto per i vermi. Un giorno sarò terra concimata”.

E questa ossessiva idea di trasformazione in altro da sé, fosse buio o sperabilmente luce, provocava in lui “Qualcosa di simile a un dolore. Forse meno lancinante di un dolore. Se ti volti senti solo la chiamata. E se ti chiami ogni cosa dice addio a ogni cosa”.

 

© Riproduzione riservata      «Nazione Indiana», 21 marzo 2025

 

 

RECENSIONI

FOSSE

JON FOSSE, ASCOLTERÒ GLI ANGELI ARRIVARE – CROCETTI, MILANO 2024

Nella motivazione del Premio Nobel assegnato a Jon Fosse nel 2023, leggiamo: “per i suoi drammi e la prosa innovativi che danno voce all’indicibile”. Nato nel 1959 a Haugesund, Fosse crebbe a Strandebarm, un piccolo villaggio adagiato lungo il maestoso fiordo Hardanger, in una famiglia di fede pietista. L’intera sua opera rimane ancorata al Vestland, la costa orientale della Norvegia, al suo clima freddo e grigio, ai paesaggi incontaminati, al mare e alle campagne aperte, alla vegetazione.

Se la sua produzione più nota è quella narrativa e teatrale, anche alla poesia sono stati riservati spazi creativi che hanno accompagnato costantemente la sua scrittura, a partire dal 1986 fino al 2016, con un totale di nove raccolte. L’editore Crocetti ha pertanto ritenuto opportuno illuminare questo suo lato creativo rimasto un po’ in ombra, soprattutto in Italia, pubblicando un’antologia di liriche con il titolo Ascolterò gli angeli arrivare.

Secondo Andrea Romanzi, che scrive un’intensa prefazione al libro ricostruendo le varie fasi della carriera letteraria di Fosse, l’autore norvegese ha sempre insistito nell’esperienza paradossale e faticosa di voler “comunicare l’incomunicabile”. Incomunicabile e indicibile si possono intuire solo uscendo da sé, sospendendo il proprio io in una dimensione trascendentale, capace di attivare risonanze emotive non rilevabili razionalmente, che vengono fatte emergere da insondabili alterità. Presenze angeliche, forse? Jon Fosse ci spera, o meglio, ci crede.

La sua versificazione, nel corso di decenni, non è mutata nella forma: rimane scarna, priva di punteggiatura, franta in continue pause sottolineate da spazi bianchi, segnata dalla ripetizione costante di parole o intere frasi. Invece è cambiata molto nei contenuti, che si scorporizzano, smaterializzandosi in atmosfere oniriche, non sempre rasserenanti, sospese in una progressiva riduzione di significati.

Nelle prime raccolte, fino all’inizio del nuovo secolo, prevalgono le memorie dell’infanzia, visualizzate concretamente in immagini oggettive di cose, ambienti, facce, gesti con una prevalenza di particolari realistici e di un linguaggio quotidiano che spesso mima i refrain delle canzoni: “Mia madre ha / il vento in secchi di plastica arancioni. Lava / il pavimento con movimenti esperti. Mio padre / tiene la testa sotto il braccio e fischietta / alle stelle”, “Fiori morti in un vaso sbeccato / sul davanzale della finestra. Mosche / morte contro vernice bianca sfogliata // Una donna anziana è seduta su una sedia da campeggio / e lavora a maglia, con indosso un grembiule a fiori // Un motore fuoribordo sfreccia tra le grida dei gabbiani”, “Cammina e cammina / e tutti i morti sono con noi / anche i morti camminano e camminano / dentro di noi / cammina e cammina”.

Assolutamente diverso è il clima in cui si muovono le poesie più recenti, che vedono l’autore interrogarsi sulla propria funzione e addirittura sulla stessa esistenza, sua e del mondo, mentre la realtà intorno sfuma, sottraendosi a ogni rappresentazione fattuale: “se sono io che scrivo / allora c’è un io che, ogni singola volta, è diverso, perché / nei movimenti della scrittura c’è sempre / un io che scrive e questo io / non sono io oppure forse sono io / ma questo io è così diverso di volta in volta / da non poter essere io”, “È così che penso // E poi penso / che / quando io sono / e quando non sono / allora sono qui / e allora non sono qui / E finora non sono stato qui”.

Prevale la lingua dell’inconscio, che segnala un’ incapacità espressiva, una mancanza di fiducia nella possibilità di farsi capire: domina allora l’indicibile rimarcato dai giurati del Nobel, il tentativo di raccontare l’assenza, l’ombra, il silenzio, ciò che rimane doppo la morte, l’impalpabile presenza dei defunti o di messaggeri incorporei: “Camminano // Sanno qualcosa / e non possono dire agli altri che cosa sanno //  Camminano / e si fermano raramente // Chi sono / nessuno può dirlo / ma camminano / e camminano”, “tutto era semplicemente presente / chiaro e luminoso / come un giorno senza notte / come una vita senza sonno”, “Nella vita ha conosciuto la morte / e nella morte ha conosciuto l’eterno / sorrideva mentre noi piangevamo / e poi non c’era più // l’anima bella è adesso un cielo”.

L’immagine del camminare verso l’ignoto, che tuttavia si prefigura luminoso, viene ribadita ossessivamente (“E camminiamo / fieri / nell’oscurità reciproca / luminosi come angeli / in ognuno di noi un angelo doppio / immobile nella sua scissione / ed evidente / come luce nera”), in una auspicabile trasformazione, o levitazione, spirituale: “Ma gli angeli mi traggono ogni giorno fuori / dalla mia pietrificazione / nello splendore e nella pietrificazione / Il mio movimento / non è minaccioso / La gioia è senza gioia // Per tutto posso ringraziare gli angeli”.

Se queste composizioni non raggiungono il livello espressivo e stilistico della produzione in prosa di Jon Fosse, tuttavia aiutano il lettore a meglio comprendere il suo mondo interiore, e bene ha fatto dunque Crocetti ad antologizzarle per il pubblico italiano.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 20 marzo 2025

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KUBIN

ALFRED KUBIN, DEMONI E VISIONI NOTTURNE – ABSCONDITA, MILANO 2016

Spesso le autobiografie appaiono poco veritiere, più o meno consciamente levigate da chi le ha scritte, con l’obiettivo di rendere più apprezzabili i propri trascorsi esistenziali, le scelte ideologiche, i percorsi artistici o le battaglie politiche. Non fa eccezione il succinto resoconto che nel 1959 Alfred Kubin stese della sua vita, pubblicato da Abscondita nel 2004 e ristampato nel 2016, con il titolo di Demoni e visioni notturne, in cui solo a poche e veniali turbolenze giovanili vengono attribuite l’intemperanza e i conflitti di un’intera vita, trascorsa per lo più con moderata bonomia.

Alfred Kubin (Leitmeritz, Boemia, 1877- Zwickledt, Austria, 1959), tra i più interessanti illustratori del primo ’900, si era ispirato in gioventù alle opere grafiche di O. Redon, J. Ensor, E. Munch, M. Klinger, Goya, e così perfezionatosi nella sua arte aveva poi illustrato la Bibbia, le opere di G. Hauptmann, Dostoevskij, Poe, Gogol’, Hoffmann, Bürger, Kafka, ricavandone grande fama internazionale. I suoi disegni, caratterizzati da tematiche raccapriccianti, manifestavano un gusto quasi maniacale per l’orrido e il misterioso. Il suo mondo onirico aveva trovato felice espressione anche nel romanzo Die andere Seite del 1909 (riproposto da Adelphi nel 2001).

Il racconto di un’infanzia “selvaggia” e dell’adolescenza inquieta, vissute tra Salisburgo e Zell am See, ci rende l’immagine di una mai cancellata sofferenza, determinata sia dal rifiuto di ogni costrizione (la severità del padre, la rigidità dell’istituzione scolastica), sia da una serie di lutti familiari, tra cui la dolorosa morte della madre a lungo malata di tubercolosi, avvenuta quando Alfred aveva solo dieci anni. In quei primi anni formativi affiorarono elementi del suo carattere che sarebbero rimasti come tipici dell’attività artistica: oltre alla passione per il disegno, l’amore per la natura e il paesaggio, un’inclinazione verso il misticismo, l’interesse per le fiabe e il fantastico, la disposizione alla lettura, e una curiosità morbosa per ogni tipo di violenza, di scene agghiaccianti, di cataclismi distruttivi, di decomposizioni corporali. Il temperamento suscettibile segnato da eccitazione nervosa, convulsioni e frequenti deliri febbrili, lo portò a cambiare spesso scuole e impieghi, inducendolo addirittura a un tentativo di suicidio. Fu il trasferimento a Monaco, e l’iscrizione alla locale Accademia di Pittura a fornirgli un solido appiglio emotivo, indicandogli la strada da percorrere per approfondire la sua vocazione artistica. In quegli anni conobbe personalmente De Chirico, Munch, Klee; studiò gli scritti di Schopenhauer e l’opera grafica dei maggiori illustratori dell’epoca; iniziò a esporre i suoi disegni in diverse gallerie, trovando estimatori e clienti, e infine raggiunse una relativa stabilità economica e familiare sposandosi nel 1904. La scoperta della pittura di Bruegel (“miscuglio di pazzia e santità”), i viaggi a Vienna, a Parigi, a Venezia, lo misero in contatto con nuove forme d’arte. Prima dei trent’anni, Kubin acquistò un piccolo podere sulle rive dell’Inn, a Zwickledt, che diventò il suo rifugio fino alla morte: fu in questi anni che compose il romanzo fantastico L’altra parte, e abbracciò un nuovo personalissimo stile artistico: “Ora mia attirava di più la vita universale, che opera così misteriosamente negli uomini, negli animali, nelle piante, in ogni pietra, in ogni cosa animata e inanimata. Erano ancora masse umane e greggi di animali, splendore e marciume, il vizio rigoglioso e la nauseante putrefazione, il culto del sublime e il dolore incomposto. Insomma tutto ciò che da sempre aveva occupato il mio cuore…”. I sogni, gli incubi, le fantasie più deliranti divennero per lui una miniera di ispirazione per le sue opere grafiche, pubblicate in raccolte divenute celebri (Serie dei sogni, Sette peccati mortali, Danza dei morti, Animali feroci, Notte di brina). Nemmeno la conversione al buddhismo, e una regola di vita spartana, lontana dalle angosce del mondo – allora precipitato nella catastrofe della prima guerra mondiale – riuscirono a rasserenare il suo umore: le allucinazioni visive e sonore che lo tormentavano prendevano corpo nei suoi disegni febbrili, di cui il volume pubblicato da Abscondita rende puntale testimonianza attraverso la riproduzione di scheletri, belve sanguinarie, fantasmi, battaglie, agonie. “Tutti questi oggetti mi venivano incontro come spettri e larve che mi ghignassero in faccia”, Nonostante le tante difficoltà incontrate nell’esistenza, e i demoni interiori che avevano assediato i suoi giorni a partire dall’infanzia, Alfred Kubin rimase convinto che il significato dell’arte fosse quello di coprire come un velo “l’assurdo nonsenso della vita”, e che nel tumulto abissale della coscienza la creazione potesse diffondere uno spiraglio di luce. Nella postfazione, Giacomo Debenedetti così commenta la sua opera: “Kubin, attraverso tutti i suoi disegni, le sue tempere, le sue illustrazioni, finisce in realtà coll’illustrare un solo, inquietissimo testo: la storia di una generazione destinata a scontrarsi, in un misto di atavico terrore e di inaudita lucidità, col caos, i mostri, le rivelazioni informi o sublimi della psiche… La sua breve autobiografia è la goticheggiante e paurosamente moderna confessione psichica di un figlio del tempo che trapassa verso l’era cosmica”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 marzo 2025