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RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, E NON AVERE OCCHI SPENTI – QIQAJON, BOSE 2021

“Don Angelo è un flauto, si lascia suonare da tutto e da tutti e si ascoltano racconti meravigliosi da quel vuoto di sé che è il suo cuore. Ha frasi incandescenti eppure miti, fuochi di sdegno eppure luminosi, ha ombre che fanno più vera la luce. Come fa? Con la compassione…”. Così Chandra Candiani nella lunga e affettuosa prefazione al libro di poesie di don Angelo Casati esprime la sua stima di poeta ai versi di un religioso come lei poeta.

Angelo Casati (Milano 1931) è presbitero della diocesi milanese, e ancora oggi ultranovantenne scrive e pubblica toccanti omelie settimanali nel suo blog Sulla soglia. Ha al suo attivo molte pubblicazioni che spaziano dalla poesia a commenti evangelici, da riflessioni spirituali su vari eventi della vita a veri e propri saggi, usciti per diverse case editrici (Cittadella, Romena, Paoline, Servitium, Àncora, Il Saggiatore…). Il volume edito da Qiqajon con il titolo E non avere occhi spenti comprende quasi duecento poesie tratte da venti brevi raccolte, composte tra il 2005 e il 2018 nel raccoglimento dei monasteri di Bose e Concenedo, nella sua dimora al centro di Milano e durante alcuni viaggi europei.

“Uomo non arreso” e innamorato di Dio, è a Dio che dedica versi struggenti di dedizione e preghiera, al Signore dei cieli e della terra che nel suo silenzio ascolta e accompagna, Padre creatore di bellezza, Padre che protegge e perdona: “Né so / se mi segui o mi precedi / impalpabile come questa ombra”, “E io non so darti nomi, / ma ti guardo, Signore”, “Oso chiederti per grazia / che sia tu, Signore, / la luce segreta / dei mie occhi impoveriti // … Tu a ridare senso al non senso, / tu luce dei miei occhi, o Dio”, “Porto veglia di occhi e stupore / per te, o Dio, / che vai convocando / fili d’erba e polvere di stelle”, fino all’implorazione: “Se tu scendessi, Signore!”

E c’è il Figlio, “profeta di Nazaret” che povero tra i poveri, entra con umiltà in Gerusalemme in groppa a un asino, ma sa anche brandire “la sua frusta / infuocata / dello zelo, a rovesciare / bancarelle e mercati”, e piomba “nel tempio terrore / per occhi / inveleniti di scribi e farisei”.

Lo stesso zelo, la stessa indignazione che anima don Angelo, persona mite e dolcissima, ma incapace di trattenere la sua riprovazione di fronte alle ingiustizie del mondo, alle guerre, alle stragi dei migranti in mare – “stupro di umanità”–, e all’indifferenza colpevole della politica e della Chiesa. Allora il suo tono di voce si inasprisce, nelle due lunghe composizioni Caritas in veritate e Rito e menzogna, in cui biasima “l’ingordigia dei grandi”, la loro vana pusillanimità: “Poi ho sentito / volti truccati / declamare intenzioni / sempre intenzioni / solo intenzioni, / salvi solo / i loro interessi”, esprimendo amarezza in una lunga litania: “Hanno abbassato i monti, / l’hanno chiamata religione. / Hanno impoverito l’orizzonte, / l’hanno chiamata fede. / Hanno spento i sentimenti, / l’hanno chiamata ascesi. / Hanno svuotato il comandamento, / l’hanno chiamata morale. // … Hanno zittito le coscienze, / l’hanno chiamata ubbidienza. / Hanno mummificato i riti, / l’hanno chiamata divina liturgia. / Hanno ucciso i profeti, / l’hanno chiamata ortodossia…”

Sempre si pone a fianco degli ultimi, degli sfruttati, degli inascoltati, di chi non ha potere, nell’ abbraccio fraterno e pietoso agli “umili / cancellati / dalla terra”, “Brusìo / degli umili della terra / che dalla soglia / ancora non osano / lo sguardo al cielo”, sapendosi egli stesso un privilegiato rispetto ai senzatetto, di cui scansa i corpi sdraiati tra le coperte rientrando nella sua casa protetta e calda. L’aspirazione più vera che anima la poesia di don Angelo Casati è quello di farsi cantore delle piccole cose, dei lampioni spenti e delle panchine vuote, degli oggetti senza valore, come il ciottolo grigionero che serve per tenere aperta la porta della chiesa, di corvi gracchianti, di foglie e fiori: “Vorrei cantare / per poco di voce / la campanula bianca…// vado odorando / e fremo e ascolto”.

Il mistero è ovunque (“Ora so che mistero / non è assenza di luce”), e va celebrato sia nel candore della neve sia nel fango delle pozzanghere, perché l’essere umano deve imparare a “crepitare di mistero”, accogliendone con gratitudine il messaggio segreto: “Tu indugia / e adora ogni cammino. / Sosta ad ogni torrente / e tocca il nuovo / dell’acqua. E canta / il Dio delle infinite sorgenti”, “A noi tocca in sorte / andare / con passo lento e leggero / in un abbraccio / di nebbie avvolgenti / e trattenere sospeso / il respiro”.

Anche la sua Milano caotica, “quadrilatero della moda”, fatta di “asfalto e silenzi”, di semafori annoiati, di “brulicare di voci / in una pizzeria”, si presta a descrizioni piene di affetto, perché in tutto si può scorgere l’impronta benedicente dell’Eterno: “Palpita quasi irreale / tra casa e casa / stretto nella via / il silenzio d’agosto. / Solo un tram / strattona lontano / quasi urlasse disagio / per contenimento in rotaie, / imbrigliato per destino / nei percorsi di sempre”.

Addirittura nella sua vecchiaia, con l’inevitabile accumulo di infermità, don Angelo scorge un segno della presenza divina: “Perdo pezzi di voce e di occhi, / di memoria e di cuore. / Dietro / alle spalle tu ti chini / e raccogli”, “A me è dato / per grazia / carico d’anni / incantarmi”. Ecco, l’incanto! Forse è questa la misura che tutta comprende lo spirito religioso dell’uomo e del sacerdote, animando il suo “desiderio di sconfinare” per evadere dall’angustia dell’io, “in anelito di nascondimento / quasi in fuga / da vuota esibizione”.

Nella grandiosità della natura, nello splendore che si offre con gratuità allo sguardo, si può trovare finalmente una rispondenza al proprio desiderio di infinito. Sono le montagne, con le loro cime rocciose o nevose, con i boschi che fingono impenetrabilità ma poi si aprono in radure confortanti; sono gli uccelli con i canti e le impennate in voli improvvisi; il vento che spira dove vuole, come scrive il Vangelo di Giovanni; l’acqua, la sorella acqua cantata da San Francesco, fresca, pura, dissetante; il silenzio, in cui ci si immerge per ritrovarsi nel profondo. La ricchezza delle citazioni ne dà ampia dimostrazione: “Inseguo sospeso nella sera / le piste / leggere del vento”, “arabeschi sonori / di uccelli / nell’ombra dei boschi, / che adoro”, “Cede il passo la fontana / a una striscia di luna / briciola di silenzio, occhi di pudore, / a veglia dal cielo”, “Lo scintillio dell’acqua / che nell’angolo in ombra / si butta e ributta, fremendo, / mai uguale, ma nuova / per ogni assetato”, “Là dove muore l’orizzonte / e sfuma il cumulo grigio / delle brume autunnali / sgusciano e galleggiano / come rapite da estasi di cielo / catene di cime innevate”, “Sul sentiero / ancora mi abbevera / profumo / nero dei boschi”, “In un cielo di ghiaccio / vive l’attesa / del grande silenzio”, “Minuscole nubi / striate d’argento / si accucciano tenere / alle cime dei monti, / si staccano lente / quasi senza partire / col passo sospeso / di chi ora rallenta. / A salutare”.

Bisogna “non avere occhi spenti” per riuscire a penetrare la bellezza. Bisogna tacere per saper ascoltare quello che il silenzio ha da dire. E camminare leggeri, sospesi, senza premere passi pesanti, senza offendere con gesti e parole che feriscano quello che ci circonda, di umano e non umano. “Sospeso” è l’aggettivo a cui don Angelo Casati ricorre più spesso nelle sue poesie: il suo cuore è sospeso, come il respiro, come la parola, in una esitazione discreta che lascia spazio all’espressione dell’altro da sé, e alla voce gentile della poesia.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 27 gennaio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RAFAIANI

MARIACHIARA RAFAIANI, L’ULTIMO MONDO – TLON, ROMA 2025 

 Mariachiara Rafaiani (Recanati, 1994) firma, con il suo primo volume di versi edito da Tlon, un visionario racconto apocalittico, in cui la desolazione ambientale e umana assume i contorni di un lucidissimo e implacabile incubo. L’ultimo mondo è suddiviso in tre Scenari e un Polittico conclusivo, che in un crescendo di figurazioni allarmate e allarmanti, predicono un futuro di dissoluzione non solo per il genere umano, ma per l’intero universo.

Così si apre la prima pagina: “Lo immagino disgregato sulle spiagge / come lacci e lembi strappati / da qualcuno in corsa, lo immagino / così il mondo”. Un mondo, quindi (l’ultimo!) che da subito appare disgregato, lacerato, marcio, in un susseguirsi di attributi più che negativi, addirittura ossessivamente terrifici e agghiaccianti. Altrettanto spaventevoli sono le immagini a cui la poeta affida il suo grido di allarme, insieme scandalizzato e impaurito, rabbioso e amaro: bambini ammutoliti, imposte sbattute, intonaci scrostati, topi, gusci vuoti, scheletri, automobili e case abbandonate, precipizi, pianeti di ghiaccio e territori infiammati, silenzio siderale.

Nulla appare più rilevante o degno di interesse e curiosità, in quello che sopravvive intorno o nelle azioni che si intraprendono, quando la fine si rivela ormai prossima e inevitabile perché “Ce ne andremo in fila. / Ce ne andremo tutti”.  Non c’è futuro, non c’è possibilità di proiettarsi in un altrove o in un domani di sopravvivenza, solo uno “scoordinato orrore umano “. Allora “i figli è meglio non farli / o non farli crescere mai”. Quindi, nessuna antica preghiera può aiutare, nessun esorcismo o magia, e nemmeno servirà a qualcosa studiare lo spazio cosmico, i buchi neri, i viaggi interspaziali: “Sappiamo che le stelle si allontanano / non come chiedergli di restare”.

Oltre a Milano, attraversata su un tram giallo “resistito alle epoche” per chiedere conforto a uno psicanalista o per ficcarsi in una libreria a scorrere libri e giornali ormai inutili, tornano alla mente altri luoghi visitati in passato: “Una foto di una città / dove sono stata o dove / vorrei essere”. Parigi, Venezia, Napoli, Ortigia, Procida, i diciassette anni slabbrati nella luce di Londra, vengono rivissuti nel ricordo però ormai sfumato, nemmeno più consolatorio, se il sentimento prevalente è la noia (“Cosa abbiamo combinato / in questa crudele noia?”).

Il bilancio dell’esistenza personale è decisamente negativo, anche nei rari momenti di un abbandono sentimentale, quando lo stesso corpo – il proprio o quello dell’amato –, si rivela solo una “condizione quantistica”, e le storie d’amore si ripresentano tutte uguali: “Riprendiamo sempre la stessa storia / dall’inizio, dietro le vetrate di un appartamento, / in una camera d’hotel, / o seduti al ristorante”.

Lo stile denotativo, puntuale, secco e conciso di queste poesie, lontano da ricerche sperimentali sul linguaggio, privo di ironia e invece consapevolmente, programmaticamente monocorde, è concepito e strutturato sull’esigenza di una voce monologante, che non attende né pretende risposte, non presuppone la possibilità di incontri o scontri con una qualsiasi alterità. L’io della poeta che parla a se stessa si riconosce come unica sostanziale realtà: “È la tua luce, / meglio di qualsiasi cosa”, quando traccia la separazione tra il tempo breve della sua vita e il tempo del mondo.

Un mondo che va alla deriva, non più recuperabile, nemmeno nella bellezza dell’arte (le tele di Bellini, Carpaccio, Bosch…), nemmeno nella solida consistenza degli oggetti (“Il legno ruvido di un tavolo, / il piede levigato di una statua”). In questa plumbea visione di un universo distopico, potrebbe infine illuminarsi una tenue possibilità di resistenza, magari da parte dei più giovani, capaci ancora di coltivare qualche speranza: “Però con le braccia scoperte / aggrappiamoci a un autobus qualsiasi, / andiamo ovunque a patto che sia qui, / fra le cose degli uomini”. Perché gli altri, i potenti, i maggiori responsabili del disastro verso cui l’umanità si dirige, rimangono inerti, come tristemente constata l’ultimo verso della raccolta: “Senza sapere andarsene. / Senza sapere restare”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 26 gennaio 2025

 

 

 

RECENSIONI

GARY

ROMAIN GARY, TEMPESTA – NERI POZZA, MILANO 2024

I sette racconti di Romain Gary, inediti per il pubblico italiano, che compongono il volume La tempesta, vengono definiti dall’editore “sfavillanti”, anche se in realtà sembrano più “strabordanti di un dolore antico”, con “la morte quasi sempre dietro l’angolo”, come scrive nella postfazione Éric Neuhoff. Composti nell’arco di decenni, dal 1935 fino al 1975, hanno attraversato l’intera e avventurosa esistenza dell’autore, prendendo spunto sia dalle sue esperienze militari e diplomatiche (presso l’Onu e a Los Angeles), sia dalla sua tormentata vita sentimentale.

Romain Gary, pseudonimo di Roman Kacew (Vilnius 1914Parigi 1980), scrittore, sceneggiatore, regista, aviatore e funzionario lituano naturalizzato francese, pluridecorato con la Legion d’Onore per meriti di guerra nelle Forces aériennes francaises libres durante la campagna contro il nazismo, ha vinto il Premio Goncourt nel 1956 e nel 1975. Dopo il suicidio della seconda moglie, l’attrice americana Jean Seberg, profondamente depresso, si è ucciso sparandosi alla testa. Dai suoi numerosi romanzi, spesso firmati con pseudonimi, furono tratti tre film di successo: Chiaro di donna, La vita davanti a sé e La promessa dell’alba del 2017, con Charlotte Gainsbourg. L’editore Neri Pozza sta meritatamente ripubblicando dal 2008 tutti i suoi romanzi, l’ultimo dei quali, Gli aquiloni, ha riscosso grande interesse da parte della critica e del pubblico.

Il titolo di questo nuovo volume, Tempesta, allude al clima incombente di tensione, sospetto e pericolo, ribadito dallo stile di Gary, conciso e talvolta datato nella forma (soprattutto nell’utilizzo di una terminologia “politically uncorrect”), e nelle trame sospese tra brutalità e dolcezza, indirizzate a conclusioni mai realmente definite.

Eccoli, quindi, i sette racconti, di cui due sono in realtà bozze inedite di romanzi incompiuti. Tempesta è anche il titolo del racconto di apertura. Su un’isoletta tropicale semideserta vivono da quattro anni il dottor Partolle e la splendida moglie Hélène, uniti più da una pigra abitudine di convivenza che dall’amore: “il sole tropicale aveva ucciso l’uomo che era in lui, l’amore in lei”. Improvviso e inquietante approda sull’isola, “nel tremolio di un’aria infernale”, uno sconosciuto dal fisico atletico e dagli occhi selvaggi, chiedendo del medico. Attratto da irrefrenabile sensualità, aggredisce brutalmente Hélène, che dapprima respinge la sua violenza ma poi gli si concede, mentre finalmente l’uragano tanto atteso si scatena in una pioggia torrenziale, metafora dell’agghiacciante rivelazione che il medico fa alla moglie sulla malattia di cui lo sconosciuto è infetto.

All’ultimo respiro è un testo più complesso, scritto originalmente in inglese, con evidenti richiami autobiografici. Il protagonista, un elegante cinquantenne ex militare, forse mercenario, aspirante scrittore e diplomatico, è ossessionato sia dall’età che avanza, sia dai fallimenti della sua vita violenta. Un pomeriggio entra in una steak house di Los Angeles, per trascorrere le ore che lo separano da un misterioso appuntamento. Qui si imbatte in una giovane barista-entraîneuse che tenta di sedurlo, ultimo allettante richiamo a una vita che sta per chiudersi drammaticamente. Il bilancio della sua esistenza è infatti totalmente negativo: “Nei miei anni di lotta e di battaglie, ho visto così tanti posti e così tanto mondo, ho ucciso così tante persone, e per così poco… persone uccise e fucilate, le case che avevo bombardato, i bastardi che avevo finito con le mie stesse mani. E tutto per niente”. Nel motel in cui ha prenotato una camera lo aspetta un killer professionista da lui stesso assoldato per l’esecuzione, ma chi si presenta per finirlo non è sorprendentemente la persona attesa.

I tre brevi racconti centrali (Geografia umana, Dieci anni dopo ovvero la storia più antica del mondo, Sergente Gnama), scritti tra il 1943 e il 1945, rievocano le imprese di guerra attraverso le voci corali dei piloti di una squadriglia aeronautica operante in Africa. Nei ricordi comuni dei reduci si affacciano volti e parole di commilitoni caduti, il paesaggio desertico con la sua fauna, la voce di un servitore nero che cantava in francese senza conoscere la lingua, aneddoti curiosi e considerazioni più malinconiche: “Tante speranze sono svanite, tanti sogni sono andati in fumo, tanti amici hanno tradito, non c’è più nulla di certo: il mondo stesso ha forse cambiato volto. Ma nel 1941 la speranza era viva, i sogni ardenti e puri…”

Il sesto racconto, Una donna minuta (del 1935), è più drammaticamente e ironicamente movimentato rispetto ai precedenti. Narra della giovane moglie di un ingegnere francese che raggiunge il marito durante i lavori di disboscamento della foresta amazzonica, portando con sé una quantità di bagagli, un cagnolino pechinese, il fonografo e molti dischi di svenevole qualità. I quaranta uomini dell’accampamento ne rimangono insieme abbagliati e infastiditi, assumendo nei suoi confronti atteggiamenti alternativamente protettivi e repulsivi. “Senza fare nulla di particolare, quella donna aveva fatto girare la testa a tutti. Perché era estremamente carina, con quel suo visino, il naso sempre arricciato e lo sguardo limpido”. L’infantile e ingenua curiosità della ragazza verso la natura selvaggia e i nativi Moïs del villaggio vicino, condurrà tutta la spedizione e lei stessa a un epilogo sanguinoso.

A chiudere il volume è un romanzo incompiuto, Il greco, risalente alla metà degli anni ’70, in cui la scrittura dell’autore si è resa più raffinata, avendo fatto tesoro di decenni di pregevoli esperienze narrative. Il protagonista Billy è un ex nuotatore di fondo americano, che vive in Grecia all’epoca della dittatura dei colonnelli, bazzicando una base aerea britannica frequentata da miliardari, armatori, collezionisti d’arte, dame dell’alta società: “gente che da cinquant’anni giocava a bridge con la storia… strani esemplari dell’era coloniale… completamente convenzionali o tipicamente eccentrici”. Billy si industria a vivere senza lavorare, trafugando statue, vasi e cimeli antichi in fondo al mare da rivendere al mercato nero. Il talento di Romain Gary si manifesta non solo nella vivacità dei dialoghi, nelle descrizioni degli ambienti e nella caratterizzazione fisica dei personaggi (dove un qualsiasi dettaglio si presta ad acute interpretazioni psicologiche), ma anche nella felice rappresentazione dei colori e dei profumi di cielo, mare, spiagge greci: “Sembrava che l’Egeo e il cielo non avessero mai sentito parlare delle nebbie, della luce soffusa in cui le onde e l’azzurro si fondevano in una specie di gigantesca confusione di confini indistinti tra l’acqua e l’aria; era un mare classico, se classicità significa precisione e chiarezza dei contorni”. Billy viene contattato da un misterioso giornalista inglese, che gli propone una missione segreta in appoggio alla Resistenza contro il regime dei colonnelli: nuotare per trenta chilometri fino a raggiungere l’isola di Dervos per fotografare il campo di concentramento in cui sono rinchiusi decine di prigionieri politici, sfidando i posti di vedetta e le mitragliatrici posizionate ovunque. Il racconto si conclude in maniera brusca, lasciando in sospeso sia l’azione intrapresa da Billy, sia il progetto di romanzo che Gary non porterà mai a termine, uccidendosi pochi anni dopo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2025

 

INTERVISTE

AIRAGHI

Le radici erano troppo profonde. Alida Airaghi

 

di Redazione
Gennaio 2025

INTERVISTE www.poetipost68.it
“io custode non di anni ma di attimi”
il collettivo poetipost68 chiede

In che anno della storia del Novecento sei nata? Assume per te un significato privato oltreché pubblico questa data?

Sono nata a Verona nel giugno del 1953, in piena guerra fredda, dunque. Si contrapponevano i due blocchi USA e URSS, proprio in quell’anno segnati da due avvenimenti significativi: la condanna a morte dei coniugi Rosenberg, accusati dagli americani di essere spie russe, e la morte di Stalin in Unione Sovietica. Clima politico internazionale gelido, clima affettuosamente caldo all’interno della mia famiglia cattolica, medioborghese, attenta e partecipe alla crescita di noi tre bambine, ma altrettanto rigorosa nell’educarci. Ambiente ovattato e protetto, per cui mi sono accorta della turbinosa temperie esterna solo alla fine del liceo classico, frequentato nel severo istituto napoleonico del Maffei, quando mi sono iscritta nel 1972 alla facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano. Si respiravano le inquietudini del ’68, era già avvenuta la strage di Piazza Fontana, e poi la morte di Pinelli e Calabresi; iniziavano gli anni di piombo con il terrorismo rosso e nero. Dopo un’adolescenza vissuta cattolicamente tra Gioventù Studentesca, Mani Tese, volontariato, il mito del cristianesimo del dissenso e di Simone Weil, negli anni universitari ho provato a liberarmi dall’educazione formale e religiosa ricevuta sia affrontando diverse esperienze lavorative, anche umili e di fabbrica, sia collaborando alla pagina culturale del Quotidiano dei Lavoratori. Non credo di esserci riuscita, le radici erano troppo profonde, e caramente vincolanti.

Hai avuto delle madri e dei padri in poesia, o nel corso della tua formazione?

Già dalle elementari e alle medie amavo studiare a memoria le poesie imposte a scuola: Gozzano, Pascoli, Ada Negri, Titta Rosa, Pezzani… Affascinata soprattutto dalla musicalità e dalla rima, di cui ancora oggi patisco la dipendenza. Poi c’è stato l’incontro con i cantautori: De André, Gaber, Lauzi e soprattutto Tenco ed Endrigo, di cui imparavo appassionatamente i testi, accompagnandomi con la chitarra, che ho studiato anche nel repertorio classico. Dopo il ginnasio ho iniziato una corrispondenza con il poeta Siro Angeli, scoperto in un’antologia scolastica. Quante lettere? Mille, forse, nel corso di tutto il liceo, l’università, la convivenza, il trasferimento a Zurigo, il matrimonio, fino alla sua morte. La mia cultura letteraria la devo tutta al suo insegnamento, la mia crescita umana al suo esempio morale, il mio amore e il mio dolore alla felicità e alle difficoltà del nostro stare insieme, socialmente stigmatizzato per l’abisso di anni che ci divideva, ma reso più forte dal forte legame affettivo-intellettuale e dalla gioia orgogliosa che ci davano le nostre bambine. Negli anni universitari avevo conosciuto a Milano Giudici e Majorino, e da allora mi sono immersa nella lettura della poesia italiana del ’900. Oggi amo leggere e rileggere Eliot e Rilke.

Esiste a tuo avviso un legame tra Poesia e Storia?

Viviamo di storia e nella storia, come potremmo ritenercene avulsi? Me ne sono occupata in poesia soprattutto nel primo libro pubblicato da Bertani nell’86, Rosa rosse rosa, che risentiva delle atmosfere politicizzate e femministe della Milano degli anni 70-80, e poi negli Omaggi einaudiani del 2017 (con i testi dedicati a Luzi, Zanzotto, Pasolini, Pagliarani) e infine nel volume più recente, Quanto di storia, che ripercorre gli avvenimenti politici che hanno attraversato la mia esistenza a partire dalla giovinezza. Ma, se devo essere proprio sincera, l’osservazione della realtà mi ha sempre fatto soffrire (Eliot scrive “human kind / Cannot bear very much reality”), e amo soprattutto riflettere su ciò che sta “oltre” il reale. In tutti gli altri miei libri prevalgono interessi filosofici e teologici.

Che significato assume, nel tuo orizzonte culturale e artistico, la parola “generazione/i”? E in che modo l’esperienza personale, privata, biologica, influenza l’idea di “generazione”?

Non ho mai dato grande rilievo al concetto di generazione, anzi, mi sono sempre trovata più a mio agio con i bambini e gli anziani che con i miei coetanei. Mi è sembrato di poter imparare di più da loro, dall’ingenuità e dalla libertà di giudizio dei piccoli e degli adolescenti, dalla saggezza dei vecchi. Avverto nel termine “generazione” qualcosa di limitato e artificioso.

Quale idea hai del concetto di trasmissione e di tradizione? E in cosa consiste il tuo “scarto” rispetto ai modelli poetici e letterari a cui è legata la tua formazione?

Essendo stata insegnante, sono consapevole dell’importanza fondamentale di entrambi i concetti. Non so quanto posso trasmettere ai più giovani con la mia scrittura, non credo di avere alcuna autorità o sapienza particolare da esprimere. Mi sento invece totalmente inserita nel solco della tradizione poetica italiana del Novecento, senza aver osato “scarti” originali e innovativi.

Che funzionamento ha la tua memoria come traduzione, invenzione, rimozione, riconsiderazione – rispetto all’automatismo e al controllo formale del linguaggio?

Tendo a non proiettarmi nel futuro, che ovviamente vedo come molto ridotto rispetto al tempo che ho vissuto. La memoria è un’ancora, una miniera di significati e significanti, sia nello scandaglio arricchente, sia nel distanziamento sospettoso. Non mi spaventa l’idea di essere considerata fuori moda o passatista, mi attira poco lo sperimentalismo linguistico.

Quale funzione ha nella tua produzione la prosa (sia essa narrativa, critica e/o teoretica) e quale rapporto intesse con la poesia?

Alterno nella produzione e nella pubblicazione poesia e prosa, ho scritto cinque libri di racconti e tre romanzi brevi, più di 1500 recensioni. In poesia mi sono spesso cimentata nella forma del poemetto narrativo. Mi sembra giusto e produttivo che i diversi stili, le varie strutture formali si intersechino, influenzandosi a vicenda.

Quale rapporto ritieni di avere con le nuove generazioni di poeti, e come percepisci le nuove forme di poesia? Puoi descriverci qual è il tuo sentimento del futuro collettivo?

Sono troppo anziana per apprezzare l’improvvisazione del poetry slam, mi sento ancora molto legata al labor limae, come forma di rispettoso impegno verso il testo scritto e verso chi legge. Dei poeti più giovani apprezzo alcuni nomi, anche se mi dà un po’ fastidio questo raggrupparsi in cementate ed elitarie consorterie, che escludono apporti esterni nei vari blog e riviste, in aggiunta a una propensione esasperata verso l’autopromozione e l’esibizione spettacolare di sé. Devo fare molta attenzione quando provo a recensire i loro libri, sono permalosamente suscettibili anche alla critica più innocua e benevola. Tendo quindi a scrivere solo di poeti stranieri o morti, a scanso di venire sfidata a duello!

 

© Riproduzione riservata       www.poetipost68.it, gennaio 2025

RECENSIONI

GALGUT

DAMON GALGUT, LA PREDA – E/O, ROMA 2024

Dello scrittore sudafricano Damon Galgut (Pretoria 1963), autore di libri di grande successo come The Good Doctor e The Promise, la casa editrice E/O ha pubblicato uno dei primi romanzi, La Preda del 1995, che certo non demerita rispetto alle opere successive.

I suoi 56 capitoli brevi, a volte brevissimi, e lo stile steinbeckiano, paratattico, seccamente oggettivo, rendono facile e veloce la lettura, in modo tale che è soprattutto l’accavallarsi rapido degli avvenimenti ad assorbire ogni curiosità di chi legge, direzionandola verso la conclusione, forse intuibile ma non scontata.

“Li guardò e loro lo guardarono e poi entrambi si guardarono l’un l’altro”; “Erano in un capannone attiguo alla casa. Erano Valentine e Small. Erano fratelli”; “E il caldo. E l’attesa. E gli occhi”. Due esempi tra in tanti che si potrebbero fare del metodo di scrittura, scarno nei dialoghi ridotti all’osso ritmato e contenuto dalla frequenza dei punti fermi, con cui Galgut procede scandendo la narrazione. Eppure, il suo studio dell’ambiente, dei personaggi, degli oggetti, è comunque attento e vigile. Le strade sterrate tra erbacce e canneti bruciati dal vento; il litorale sabbioso che scivola verso il mare appena increspato; il veld brullo, spezzato da fossi; il mondo animale in genere abbrutito o comunque disgustante (corvi, manguste, termiti, scarafaggi, cani randagi, pipistrelli); gli esseri umani perlopiù sovrappeso, sudati, oppure scheletriti, con le mani screpolate, il viso macchiato di nei e brufoli; suppellettili sformate, finestre e porte sgangherate. Tutto, insomma, sembra voler sottolineare la desolazione del mondo circostante, su cui implacabili si abbattono improvvise piogge torrenziali oppure arde un sole “giallo e costante”.

Su questo sfondo si stagliano poche, memorabili figure. La vicenda si apre con il protagonista senza nome che cammina, impaurito e stravolto dalla stanchezza, lungo una strada polverosa, probabilmente fuggendo da qualcosa: piange, ha mani e bocca piene di vesciche. Lo affianca un furgone guidato da un uomo tarchiato e quasi calvo: è un prete diretto verso una parrocchia rimasta temporaneamente vacante. Si chiama Frans Niemand, gli offre un passaggio, pagandogli una doppia colazione in una sala da tè. Quando in seguito tenta un maldestro approccio sessuale, lo sconosciuto gli spacca le testa con una bottiglia e trascina il cadavere in una cava. “La cava era nera, un’assenza nella superficie del mondo”. La cava, il burrone, la buca, la miniera dismessa, tornano spesso nell’arco della storia come metafora del nascondimento, del rimosso e del sepolto, così come il continuo lavarsi le mani, la faccia e il corpo di tutti i personaggi indica il tentativo di liberarsi di qualsiasi sporco possa essersi incrostato sulla pelle e nell’anima.

L’assassino decide di sostituirsi al sacerdote ucciso, dirigendosi verso la missione che gli era stata assegnata con il veicolo stipato di valigie, paramenti e testi sacri. “La città era piccola e dispersa e brutta. Prevaleva una sterilità di cemento. Le strade principali erano state asfaltate molto tempo prima, ma le strade secondarie erano di ghiaia. Niente era più alto di un piano”. Una donna in vestaglia lo accoglie in canonica, indicandogli con indifferenza la camera da letto. Svegliatosi nel tardo mattino, scopre che il furgone è stato svaligiato, e alla stazione di polizia dove si reca per la denuncia fa la conoscenza con il Capitano Mong. Tra i due inizia da questo momento un duello fatto di reciproci sospetti, pedinamenti, fughe, in uno scambio di ruoli tra preda e predatore, vittima e carnefice, in cui i confini di colpa e rettitudine, perdono e punizione si confondono.

Nel paesino di pescatori “taciturni e diffidenti”, il falso prete si investe del ruolo religioso usurpato dicendo messa e preparando le omelie, mentre intorno a lui l’atmosfera si incupisce sempre più opprimente quando nella cava viene ritrovato il corpo del sacerdote assassinato.

La seconda parte del romanzo assume una struttura sempre più concitata, in cui episodi violenti e inattesi si susseguono, accompagnati da uno stile ansimante, franto, punteggiato da dialoghi confusi di protagonisti e comparse, in una narrazione che continuamente ripercorre e ricostruisce il già detto. Processi farsa, poliziotti maldestri, incendi dolosi, arresti ed evasioni, inseguimenti ed esecuzioni sommarie, vengono accompagnati dalla musica euforica diffusa da un circo di saltimbanchi straccioni. L’inseguimento tra il Capitano esausto e il falso prete fuggiasco diventa emblematico dell’eterna contesa tra verità e finzione, bene e male, quando il reale sfrangia i suoi contorni in filamenti ingarbugliati, e le sembianze concrete di corpi e oggetti si trasformano in allucinazioni ossessionanti. Lo sfondo in cui si colloca lo scontro finale incombe minaccioso tra dighe e dirupi, paludi e alture, nella solitudine spettrale in cui i due uomini si fronteggiano. “Quando il poliziotto risalì fuori dalla diga, anche lui si rialzò e proseguì. Non era più sicuro che ci fosse una differenza tra loro o che fossero separati l’uno dall’altro e si spostarono insieme sulla superficie del mondo e il sole tramontò e si fece buio e continuarono a duettare. Si muovevano nella notte in vaghi contorni come i sogni che il suolo stava facendo”.

La vicenda narrata da Damon Galgut si fa allora metafora di una condizione esistenziale in cui tutti diventano malvagi torturatori e insieme pietose vittime, e il finale livellante non libera nessuno dalla colpa di vivere.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 15 gennaio 2025

 

 

 

RECENSIONI

OMODEI

ANTONIO FILOTEO OMODEI, RIME – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA (CT) 2024

Il Professor Giuseppe Manitta, poeta e studioso di testi classici della nostra letteratura (da Boccaccio a Leopardi a Carducci, fino al Novecento), direttore editoriale del marchio Il Convivio, ha curato l’edizione critica, l’introduzione e il commento delle Rime di Antonio Philotheo Homodei, scrittore siciliano del 1500.

Il corposo volume di seicento pagine, costato a Manitta più di dieci anni di lavoro, colma un’importante lacuna degli studi sul petrarchismo rinascimentale, poiché il corpus poetico di Omodei è rimasto inedito per secoli, nonostante l’autore fosse ben inserito nel dibattito letterario a lui coevo: riscoperto dallo stesso Manitta con il recupero del manoscritto autografo Capponiano 139, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, vede finalmente la luce con questa pubblicazione.

Philotheo Homodei, poeta, narratore ed erudito di pregio, era nato a Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania, intorno al 1515, e dopo gli studi universitari di letteratura e giurisprudenza aveva lasciato la sua terra per approdare a Roma, inserendosi negli ambienti culturali della città papalina, dove concentrò la sua attività letteraria tra il 1550 e il 1650, pubblicando un romanzo, una Descrizione della Sicilia, la Vita della beata Chiara da Monte Falco e il Canzoniere intitolato Romana Aetna Travolta. Il soggiorno romano di Omodei si rivelò da subito foriero di arricchenti opportunità di studio e di frequentazione con molte personalità di rilievo, tra cui Annibal Caro, molti ecclesiastici, dame e nobiluomini della corte di Ippolito II d’Este. Tra il 1568 e il 1570 il poeta venne poi coinvolto in un processo intentato all’ autore di un libello contro il papa Paolo IV, episodio che segnò il suo declino come intellettuale, mettendolo in cattiva luce presso gli inquisitori. Un’ulteriore motivazione riguardo all’oblio in cui sprofondò il suo nome fu l’errata attribuzione delle sue opere per una quasi omonimia con Giulio Filoteo, questione dibattuta durante tutto il XVIII secolo.

Il Codice Capponiano 139 da cui Giuseppe Manitta ha recuperato il corpus delle Rime, era autenticamente autografo, scritto in bella grafia e preparato per la stampa, con copertina cartonata e rivestita in cartapecora, suddiviso in quattro parti. Dedicataria era la donna amata da Omodei, Antea, il cui nome fu traslato dal poeta in Aetna in omaggio alla sua Sicilia. Il sentimento provato per la colta dama romana si trasformò da un amore vivo e partecipato a improvvisa freddezza, anticipatrice dell’abbandono: da bruciante come la lava etnea fino al gelo della neve, testimoniato dai vari sonetti di stile petrarchesco della prima parte del Codice: “Laccio non mai sì stretto strinse Amore, / Nel dolce inganno, e mai sentì tal foco / Vulcano, Aetna, e Vesuvio, od altro loco, / A par di quel mi stringe, e bruggia il core. // … Te sol al mondo adoro, cerco, et amo”.

Già nella seconda parte, il nome della donna non compare più, sebbene le poesie sentimentali siano ancora predominanti, e invece continua a prevalere l’imitazione dell’Aretino: “VOI ch’ascoltate in rime sparse, il suono / Del mio fiero languir, con tanto Ardore…”. Nella terza parte il modello ispirativo è quello dei Trionfi, mentre nell’ultima sezione l’artificio retorico è più evidente nella costruzione di acrostici riferiti ai personaggi illustri conosciuti a Roma.

Omodei usava celare il suo nome e quello dell’amata con pseudonimi anagrammati, in una sorta di gioco linguistico che comunque traeva sempre ispirazione dal Petrarca, attraverso furti, ricalchi e riprese dei versi più noti, sia nella struttura (metrica e rime) che nel lessico. Ma la tradizione petrarchesca veniva spesso rimodulata da Omodei, e messa in relazione a citazioni di una tradizione diversa, e a poeti coevi che si muovevamo nello stesso ambito imitativo. La puntuale e approfondita introduzione del curatore Giuseppe Manitta ne offre particolareggiata testimonianza, insieme ad altri prestiti danteschi, ariosteschi, da Pulci e Sannazaro, indicativi di quanto l’autore da lui preso in considerazione fosse esemplarmente inserito nella produzione letteraria cinquecentesca.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 6 gennaio 2025

INTERVISTE

MARCHAND

INTERVISTA AL PROFESSOR JEAN-JACQUES MARCHAND

di Alida Airaghi

 

Il professor Jean-Jacques Marchand, Accademico della Crusca e ideatore del Progetto internazionale Baslie, risponde ad alcune domande sull’importante opera di catalogazione dei testi letterari prodotti dagli italiani all’estero

I Gennaio 2025 – Gli Stati Generali

Logo_ACCADEMIA DELLA CRUSCA | Storie di Storia

Nato nel 1944, da padre svizzero e da madre fiorentina, Jean-Jacques Marchand ha studiato a Losanna e a Firenze. È stato ordinario di letteratura italiana all’Università di Losanna fino al 2006 ed è adesso Professore emerito. Docente invitato in varie università svizzere e straniere, i suoi ambiti di specializzazione sono il Rinascimento (Machiavelli, la poesia di corte del Quattrocento) e il periodo contemporaneo (la letteratura degli emigrati di lingua italiana nel mondo, gli autori della Svizzera italiana). Ha pubblicato una ventina di volumi e circa 150 articoli. Ha organizzato vari convegni internazionali, in particolare sul Rinascimento fiorentino come Machiavelli storico politico e letterato (1995), Storiografia fiorentina tra Quattro e Cinquecento (2002) e Machiavelli senza i Medici, Scrittura del potere / potere della scrittura (2004). Una ricerca da lui diretta è sfociata nella pubblicazione: Dalla storia alla politica nella Toscana del Rinascimento (Roma, 2005). Ha fatto parte del comitato dell’Accademia svizzera di scienze morali e del Consiglio di Fondazione del Dizionario Storico della Svizzera. È membro del comitato scientifico per l’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli e del Consiglio direttivo dell’Enciclopedia Machiavelli (Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani), per la quale ha scritto una dozzina di voci. Ha pubblicato nel 2018 due volumi di Studi machiavelliani (Firenze) e la voce “Machiavelli” nella decima Appendice dell’Enciclopedia Treccani. È membro di vari comitati di redazione, tra cui “Storici e cronisti di Firenze”, “Centro Camporesi” e “Medioevo e Umanesimo”; è presidente della commissione “Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana”. È Accademico della Crusca e Corrispondente della Classe di Lettere e arti dell’Accademia Olimpica di Vicenza.

 

Jean-Jacques Marchand | University of Lausanne - Academia.edu

 

Professor Marchand, a quando risale la sua affiliazione all’Accademia della Crusca Italiana? Immagino che questa nomina l’abbia colmata di gioia e legittimo orgoglio: non penso siano molti gli stranieri che ne fanno parte…

Sono stato eletto accademico corrispondente estero dell’Accademia della Crusca nel 2017. È stata una vera sorpresa: sono certo un filologo che ha lavorato all’edizione di testi in prosa e in poesia, prevalentemente del Rinascimento, ed ho avuto perciò a che fare con la lingua italiana, ma non sono un linguista puro. La gioia è stata quella di pensare che l’amore per la lingua italiana che i miei genitori, e mia madre fiorentina in particolare, mi avevano inculcato, mi aveva portato a questo riconoscimento, riservato a pochi, dato che gli accademici corrispondenti esteri per tutto il mondo sono un po’ più di una trentina.

 

Il suo amore per la letteratura italiana, in particolare per il Rinascimento fiorentino, è nato negli anni universitari, o le era già stato inculcato nell’infanzia dall’educazione materna?

Il mio amore per la letteratura italiana risale certamente all’educazione materna. Visto che ero nato e frequentavo una scuola di lingua francese, mia madre si è premurata fin dai primi anni di trasmettermi l’amore non solo per la lingua, ma anche per la cultura italiana in senso ampio. Quando ero ancora piccolo, la mamma passò spericolatamente dalla lettura di Cuore di De Amicis ai Promessi Sposi manzoniani, che ascoltavo come un romanzo d’avventure! Contemporaneamente avveniva la scoperta delle città d’Italia, grazie ai meravigliosi album di foto del Touring Club Italiano, seguita dall’iniziazione all’opera, di cui, in mancanza di dischi, la mamma mi raccontava l’intreccio, illustrandomelo con arie che aveva imparato frequentando il Maggio musicale fiorentino. Poi ci fu l’incontro, all’inizio dei miei studi universitari, con Fredi Chiappelli, un brillante professore di letteratura italiana, che mi prese subito come assistente, facendomi presto trascrivere centinaia e centinaia di lettere amministrative e diplomatiche di Machiavelli. Negli anni seguenti, mi cimentai con una sfida filologica: l’edizione critica in cinque volumi dell’opera poetica, allestita con una collega messinese, delle Rime di Antonio Tebaldeo. Nel frattempo, ci furono i concorsi universitari, fino alla nomina a professore straordinario nel 1983: una cattedra ancora parziale che venne completata nel corso degli anni fino all’ordinariato…

All’interno dell’Accademia, quale è stato il suo ruolo nell’ideazione del Progetto Baslie? In cosa consiste tale programma? È stato difficile farlo accettare dagli altri membri della Crusca?

Il progetto BASLIE nasce nel 1990 all’Università di Losanna dove insegnavo, da un altro filone delle mie ricerche: le opere scritte da emigrati o da residenti italiani all’estero. Era un fenomeno letterario praticamente ignoto all’epoca, sebbene fosse costituito da migliaia di testi pubblicati praticamente su tutti i continenti, e prevalentemente in Europa, nelle due Americhe e in Australia. Faceva seguito a un convegno internazionale che avevo organizzato poco prima a Losanna. Allestito e sviluppato con pochi mezzi finanziari e tecnici, venne ampliato negli anni seguenti fino verso il 2010. Ma, se per i paesi europei la copertura raggiungeva un buon livello, per gli altri continenti le lacune erano ancora notevoli. Il mio ingresso alla Crusca, e l’inserimento fra gli “Scaffali digitali” dell’Accademia della BASILI, creata dal prof. Armando Gnisci all’università di Roma, sul modello e come “pendant” della BASLIE, in quanto registra le opere scritte in italiano da immigrati venuti a vivere e lavorare in Italia, mi ha spinto a proporre la migrazione della nostra banca dati alla Crusca. L’operazione ha richiesto un ripensamento totale della struttura per adeguarla alle norme dell’Accademia, un controllo sistematico delle schede e un loro parziale aggiornamento. Attualmente la BASLIE censisce circa 700 opere per 440 autori.

 

Quali prospettive di sviluppo si pone Baslie? Su quanti collaboratori sparsi per il mondo può contare?

 La BASLIE andrà sviluppata in due direzioni: l’ampliamento del censimento, a partire dalle prime manifestazioni del fenomeno alla fine dell’Ottocento, nelle due Americhe e in Australia due continenti di forte emigrazione italiana (e forse anche in Africa durante gli anni della colonizzazione) e, d’altra parte, l’aggiornamento per tutti i paesi, in particolare europei, sulle opere uscite negli ultimi 20-30 anni. Lo sviluppo dovrà anche tenere conto delle nuove forme di spostamento e di lavoro degli italiani all’estero – fra le decine di migliaia d’italiani che partono ogni anno all’estero sono convinto che alcuni scrivono e pubblicano ancora testi di intento letterario – e di nuove forme di pubblicazione dei testi sempre più frequentemente on line su siti o blog, come questo. Occorrerà ricostituire una rete di collaboratori in vari paesi come quella che avevamo ancora alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. La Crusca non disponendo di finanziamenti ad hoc, dovremo contare molto sul volontariato di studiosi, e magari su qualche contributo di ricerca, come quello che ci è stato recentemente concesso dall’università di Losanna.

 

Crede che lo studio della lingua e della letteratura del nostro Paese sia destinato ad avere un      incremento, in questo particolare periodo storico in cui è l’inglese a dominare qualsiasi modalità espressiva a livello internazionale?

 Non mi faccio molte illusioni sull’incremento dello studio della lingua e della letteratura italiana, vista la prevalenza assoluta e sempre più imperante dell’inglese; ma credo che le posizioni della nostra lingua nel mondo non siano vicine all’implosione. Anche se gli italiani che si recano all’estero usano di solito l’inglese, è anche vero che numerosi sono gli studenti americani, australiani, giapponesi ed anche cinesi che imparano e usano la nostra lingua. In molto ambiti come l’arte, la moda, la gastronomia, il turismo, l’italiano ha delle posizioni da difendere. Numerosissime sono le persone nel mondo che hanno una conoscenza almeno passiva della nostra lingua.

 

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», I gennaio 2025

RECENSIONI

MAGONI

GIOVANNI BATTISTA MAGONI, SULLE TRACCE DELL’ASSENTE  – ÀNCORA, MILANO 2024

In molti si sono occupati dell’opera del regista polacco Krzysztof Kieślowski (Varsavia, 1941-1996): non solo critici cinematografici, ma anche filosofi, psicanalisti, teologi. Tra di loro, ultimamente Giovanni Battista Magoni, sacerdote pavoniano e direttore della casa editrice Àncora, gli ha dedicato un esaustivo volume, intitolato Sulle tracce dell’assente, che in maniera esplicita si propone di reperire nella sua filmografia possibili tracce di un’alterità che si nasconde e insieme si rivela nell’immanenza delle storie quotidiane.

Kieslowski non si dichiarava né cattolico né ateo, ma era convinto di un suo rapporto personale con Dio, nel suo affidarsi a un cristianesimo senza religione e senza dogmi, eppure segnato da illuminazioni interiori capaci di aprire a riflessioni metafisiche, oltrepassanti la pura materialità dell’accadere. La sua era un’indagine sul senso della vita, sulle sfere della libertà e dell’etica, sul rapporto misterioso e spesso tragico con il destino, sulle inquietudini che animano le scelte umane, rivolgendole a volte casualmente verso il bene o il male. Entomologo dell’anima, il regista polacco esplorava l’interiorità dei suoi personaggi, emblematicamente rappresentativi di problematiche e sentimenti angosciosi e contraddittori (amore e odio, fedeltà e tradimento, stima e disprezzo, coraggio e viltà), studiati attraverso una rigorosa attenzione alle espressioni dei volti, alla segreta simbologia degli oggetti, alla disposizione allegorica delle luci.

I film più famosi di Kieslowski, riconosciuti come capolavori a livello internazionale, sono stati il Decalogo, I tre colori, La doppia vita di Veronica. Magoni li illustra esaurientemente, soffermandosi sulla trama e sugli interpreti, sulla fotografia e le musiche, e approfondendo le motivazioni psicologiche che regolano le azioni dei personaggi, talvolta dettate da impulsi irrazionali, violenti o egoistici, più spesso improntate a indifferenza e sottomissione.

Più della metà del volume è dedicato all’analisi del Decalogo, dieci episodi indipendenti tra di loro e ispirati ciascuno a un comandamento biblico, trasmessi dalla televisione tra il 1987 e il 1989. Erano stati ideati e sceneggiati insieme all’amico avvocato Piesiewicz, in un periodo storico particolarmente buio per il paese, con la dittatura del generale Jaruzelski che opponeva leggi liberticide all’ansia di libertà e democrazia della popolazione. Intento dell’opera era appunto di reagire al clima di disorientamento sociale e di perdita dei valori comunitari, proponendo dieci storie ambientate in un unico condominio, con l’esigenza di stimolare gli spettatori a riappropriarsi delle ragioni più personali e intime delle loro coscienze. L’opera, manifestamente polifonica, ha come protagonista un’umanità incapace di ribellione, in un ambiente depauperato economicamente e culturalmente asfittico e rassegnato. I personaggi intersecano marginalmente le loro vicende private, affacciandosi come comparse in vari episodi, mentre un testimone muto e impassibile attraversa rapidamente, in varie vesti e atteggiamenti, le diverse sequenze: interpretato come l’impotente spettatore, o l’occhio supervisore del regista, o addirittura come impietosa presenza metafisica, rimane forse l’idea più originale di tutta la serie televisiva. In ognuno dei dieci racconti emerge il conflitto tra moralità e desiderio, equità e arbitrio, e l’assenza di Dio appare predominante rispetto alla sua presenza, lasciando che la soluzione dei drammi personali dipenda da un’inspiegabile casualità.

Kieslowski mantiene uno sguardo lucido e distaccato, mai colpevolizzante, sui personaggi, esplorando l’eterno dilemma etico su cosa sia la giustizia, su quale sia l’origine e la finalità del male fatto e subito, nel comportamento umano e nell’indifferenza del fato.

Ne La doppia vita di Veronica, film del 1991, Weronika e Véronique sono due ragazze che vivono biografie distinte, una a Cracovia e l’altra a Parigi, accomunate però da una straordinaria somiglianza fisica e dallo stesso amore per la musica: qui la sovrapposizione di due percorsi esistenziali e di due destini paralleli allude al mistero dell’identità e della differenza, della complessità e dell’incompletezza, che può venire risolto solo ricorrendo a soluzioni che superino la contingenza della pura fattualità, affacciandosi invece all’alterità e all’ulteriorità.

Ancora nella trilogia Tre colori: Film Blu, Film Bianco, Film rosso (1993-1994), che ripropone i tre principi della rivoluzione francese (liberté, égalité, fraternité), si evoca l’intervento della trascendenza attraverso l’azione dell’amore, della solidarietà e della Provvidenza, che offrono una possibilità di riscatto e difesa dalla cecità del caso e dalla crudeltà del destino.

La condizione umana di aporia e assurdità, fondata sull’irrilevanza del quotidiano e la persistente aspirazione ad altre realtà, il continuo fallimento del desiderio e la vittoria del nonsenso, segnalano per Giovanni Battista Magoni l’esigenza di una redenzione “ab alio”. Kieslowski rivela nelle fenditure che si aprono nelle singole esistenze il celarsi e l’apparire di un Assente che vorrebbe farsi Presente, rimandando a una Trascendenza che si proponga come via d’uscita e àncora cui aggrapparsi per non essere sommersi dall’insignificanza del nulla.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 27 dicembre 2024

RECENSIONI

CHIALA’

SABINO CHIALÀ, DONNE GENERATIVE CHE APRONO UN FUTURO – QIQAJON, BOSE 2024

Sabino Chialà, Priore di Bose dal 2022, ha pubblicato presso le edizioni Qiqajon della Comunità “Donne generative che aprono un futuro”, testo di una trentina di pagine compreso nella collana Sentieri di senso.

Sei sono le figure femminili prese in considerazione dall’autore, protagoniste dei primi capitoli dell’Esodo, che si apre in realtà con l’elenco dei dodici nomi maschili dei figli di Giacobbe, evocanti le dodici tribù di Israele. Una storia, quella patriarcale qui narrata, segnata da “complessità e drammaticità, fatta di migrazioni causate dalla carestia, di accoglienza e poi di asservimento”.

La discesa in Egitto degli Israeliti, dapprima accolta pacificamente e con benevolenza dal popolo ospitante, viene in seguito avvertita come una minaccia, mettendo in crisi la reciproca convivenza delle due etnie. Il nuovo faraone, che non aveva conosciuto Giuseppe e la sua famiglia, infrange il patto di amichevole tolleranza con gli ebrei, temendo la loro forza crescente, e li perseguita con un’azione repressiva messa in atto dai suoi sovrintendenti attraverso vessazioni e umiliazioni continue, rendendo “amara la loro vita” (es. I, 14). Escogita poi di far uccidere dalle levatrici i neonati maschi delle donne ebree, primitiva procedura di pulizia etnica.

A questa tragica realtà di sopruso e di violenza, si intrecciano però piccoli gesti di attenzione e cura femminile, che aprono la possibilità di un futuro di libertà per gli israeliti. Sei donne si oppongono al destino di morte imposto dal potere maschile, riuscendo a preservare la vita di Mosè, allo stesso tempo salvato e salvatore, come vuole l’etimologia del suo nome. Le prime due donne a entrare in scena sono le due levatrici Sifra e Pua, che disobbediscono al re e lasciano vivere i bambini, timorose del giudizio di Dio e rispettose dell’umanità a cui appartengono. In quanto levatrici, onorano la vita che è a loro affidata, e pur nella semplicità e insignificanza sociale che le contraddistingue, mandano un forte segnale di resistenza contro il male.

Il nuovo ordine del faraone è ancora più crudele, e impone al popolo di gettare nel Nilo ogni figlio maschio: ma saranno altre due donne a invalidare la volontà mortifera del re. La madre e la sorella di Mosè lo pongono in un cestello di papiro affidandolo alle acque del fiume, decise a preservarne l’esistenza non solo in ragione della consanguineità, ma come bene da tutelare in favore dell’intera comunità.

Infine, viene presentata l’ultima coppia di donne: la figlia del faraone con la sua schiava. La principessa egiziana riconosce nel bambino un discendente della stirpe ebraica (Es. 2, 6), quindi un potenziale nemico, e tradisce l’ordine del padre accogliendolo “come un figlio”, perché animata da un tenero sentimento di compassione. Affida alla vera madre del neonato, presa a balia, il compito di allattarlo, e lo battezza con il nome che nei millenni indicherà salvezza.

Sabino Chialà (Locorotondo, 1968) è teologo e biblista, studioso di ebraico e siriaco, esperto di scritti apocrifi cristiani e di letteratura dei primi secoli del cristianesimo, soprattutto orientali. Il suo racconto delle sei donne che in differenti maniere generano vita, vuole essere un apologo sulla forza con cui anche le persone meno influenti possono opporsi all’ingiustizia, agendo controcorrente, senza omologarsi a comportamenti servili, lontane da qualsiasi calcolo di convenienza, vincendo la paura. Sono sei donne, in un mondo dominato dal sistema maschile, che obbediscono a un coraggioso richiamo etico, di solidarietà verso l’innocenza violata e di speranza per il futuro.

Nella storia delle grandi imprese, delle genealogie e dei regni, esiste quindi la possibilità di un cammino diverso, umile e concreto, i cui frutti spesso non vengono riconosciuti nell’immediato, ma imprimono tracce difficili da cancellare, perché “nessuna situazione di male è ermeticamente impermeabile al bene, e nessun bene è irrilevante”.

 

© Riproduzione riservata       «La Poesia e lo Spirito», 21 dicembre 2024

 

RECENSIONI

BIDUSSA

DAVID BIDUSSA, PENSARE STANCA – FELTRINELLI, MILANO 2024

Lavorare stanca, scriveva Cesare Pavese. Ma oggi forse, in un’epoca di attivismo sfrenato, è il pensare che stanca di più. Analizzare, riflettere, valutare: compito che ormai viene delegato a un’unica categoria di persone: agli intellettuali. Di loro si occupa David Bidussa nel suo ultimo lavoro, intitolato appunto Pensare stanca.

David Bidussa (Livorno1955), scrittore e  giornalista,  si è auto-definito in un’intervista “storico sociale delle idee”, riferendosi a “una disciplina che comprende un mix di competenze culturali tra le quali: storia contemporanea, storia sociale, semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia dei partiti e movimenti politici”. E in questo volume troviamo infatti accurate ricostruzioni storiche, accompagnate da acute analisi sociologiche e politiche, spesso non in linea con un’opinione comune addomesticata o addirittura dogmatica.

Il volume è diviso in tre sezioni. La prima, più concettuale, si occupa di definire il profilo identitario dell’intellettuale, nella sua vocazione all’azione pubblica, che lo vede dentro e fuori dalla storia, come suo prodotto e insieme suo interprete. La seconda e terza parte propongono una divisione temporale caratterizzata da un lato dall’egemonia dei partiti politici di massa, dall’altro dall’inizio della loro dissoluzione fino alle soglie dell’attualità. Nel primo periodo si imposero fondamentali figure di “dissidenti impegnati”, di engagé non più militanti ma critici rispetto alle direttive dei partiti, considerati talvolta eretici e per questo allontanati dalla partecipazione politica diretta. Tra di loro, si alzarono coraggiose le voci di Walter Benjamin, Simone Weil e Victor Serge, riascoltate in seguito empaticamente da Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte e Furio Jesi.

La terza parte è dedicata agli ultimi cinquant’anni che hanno registrato la crisi delle democrazie rappresentative e la nascita dei movimenti. In relazione a questi cambiamenti si è imposta una nuova figura di “intellettuale radicale”, che rivendica per sé l’incombenza di indagare trionfi e fallimenti di chi si colloca sulla scena politica, con il proposito di allertare gli strati sociali più disorientati, impreparati o indifferenti. David Bidussa fa alcuni nomi rilevanti di “sentinelle” capaci di mettere in guardia, con particolare sensibilità, dalla diffusione di un pensiero a-problematico, e pacificato nelle convenzioni livellatrici: Edward Said, Susan Sontag, Tony Judt, Zygmunt Bauman, Tzvetan Todorov.

Come è andata trasformandosi la funzione dell’intellettuale nell’ultimo secolo? Desueta appare ormai la figura di guida e profeta, di predicatore o consolatore; altrettanto superata quella di dissacratore e contestatore. Bidussa concorda con Todorov nel sottolineare il necessario atteggiamento critico di chi ha il dovere di prendersi carico dei problemi e delle ansie del proprio tempo, provando a dare risposte che provochino a loro volta ulteriori domande: incarnando passione, consapevolezza, inquietudine, e incoraggiando a pensare in maniera eterodossa, senza “sdraiarsi sul senso comune”.

L’intellettuale infatti non deve creare consenso, ma porre problemi. Capita invece che aspiri a conquistare un ruolo pubblico dominante, oppure a realizzare una posizione di privilegio per sé, proponendosi come specialista in determinati campi del sapere. Non è questo l’obiettivo da raggiungere: piuttosto dovrebbe assumersi il compito di portare alla luce le ambiguità del presente, per consegnare alle giovani generazioni la possibilità di costruire un futuro migliore in difesa dei propri diritti, ma superando la dimensione privata, estranea all’interesse sociale e all’identità collettiva.

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2024