ANGELO CASATI, E NON AVERE OCCHI SPENTI – QIQAJON, BOSE 2021
“Don Angelo è un flauto, si lascia suonare da tutto e da tutti e si ascoltano racconti meravigliosi da quel vuoto di sé che è il suo cuore. Ha frasi incandescenti eppure miti, fuochi di sdegno eppure luminosi, ha ombre che fanno più vera la luce. Come fa? Con la compassione…”. Così Chandra Candiani nella lunga e affettuosa prefazione al libro di poesie di don Angelo Casati esprime la sua stima di poeta ai versi di un religioso come lei poeta.
Angelo Casati (Milano 1931) è presbitero della diocesi milanese, e ancora oggi ultranovantenne scrive e pubblica toccanti omelie settimanali nel suo blog Sulla soglia. Ha al suo attivo molte pubblicazioni che spaziano dalla poesia a commenti evangelici, da riflessioni spirituali su vari eventi della vita a veri e propri saggi, usciti per diverse case editrici (Cittadella, Romena, Paoline, Servitium, Àncora, Il Saggiatore…). Il volume edito da Qiqajon con il titolo E non avere occhi spenti comprende quasi duecento poesie tratte da venti brevi raccolte, composte tra il 2005 e il 2018 nel raccoglimento dei monasteri di Bose e Concenedo, nella sua dimora al centro di Milano e durante alcuni viaggi europei.
“Uomo non arreso” e innamorato di Dio, è a Dio che dedica versi struggenti di dedizione e preghiera, al Signore dei cieli e della terra che nel suo silenzio ascolta e accompagna, Padre creatore di bellezza, Padre che protegge e perdona: “Né so / se mi segui o mi precedi / impalpabile come questa ombra”, “E io non so darti nomi, / ma ti guardo, Signore”, “Oso chiederti per grazia / che sia tu, Signore, / la luce segreta / dei mie occhi impoveriti // … Tu a ridare senso al non senso, / tu luce dei miei occhi, o Dio”, “Porto veglia di occhi e stupore / per te, o Dio, / che vai convocando / fili d’erba e polvere di stelle”, fino all’implorazione: “Se tu scendessi, Signore!”
E c’è il Figlio, “profeta di Nazaret” che povero tra i poveri, entra con umiltà in Gerusalemme in groppa a un asino, ma sa anche brandire “la sua frusta / infuocata / dello zelo, a rovesciare / bancarelle e mercati”, e piomba “nel tempio terrore / per occhi / inveleniti di scribi e farisei”.
Lo stesso zelo, la stessa indignazione che anima don Angelo, persona mite e dolcissima, ma incapace di trattenere la sua riprovazione di fronte alle ingiustizie del mondo, alle guerre, alle stragi dei migranti in mare – “stupro di umanità”–, e all’indifferenza colpevole della politica e della Chiesa. Allora il suo tono di voce si inasprisce, nelle due lunghe composizioni Caritas in veritate e Rito e menzogna, in cui biasima “l’ingordigia dei grandi”, la loro vana pusillanimità: “Poi ho sentito / volti truccati / declamare intenzioni / sempre intenzioni / solo intenzioni, / salvi solo / i loro interessi”, esprimendo amarezza in una lunga litania: “Hanno abbassato i monti, / l’hanno chiamata religione. / Hanno impoverito l’orizzonte, / l’hanno chiamata fede. / Hanno spento i sentimenti, / l’hanno chiamata ascesi. / Hanno svuotato il comandamento, / l’hanno chiamata morale. // … Hanno zittito le coscienze, / l’hanno chiamata ubbidienza. / Hanno mummificato i riti, / l’hanno chiamata divina liturgia. / Hanno ucciso i profeti, / l’hanno chiamata ortodossia…”
Sempre si pone a fianco degli ultimi, degli sfruttati, degli inascoltati, di chi non ha potere, nell’ abbraccio fraterno e pietoso agli “umili / cancellati / dalla terra”, “Brusìo / degli umili della terra / che dalla soglia / ancora non osano / lo sguardo al cielo”, sapendosi egli stesso un privilegiato rispetto ai senzatetto, di cui scansa i corpi sdraiati tra le coperte rientrando nella sua casa protetta e calda. L’aspirazione più vera che anima la poesia di don Angelo Casati è quello di farsi cantore delle piccole cose, dei lampioni spenti e delle panchine vuote, degli oggetti senza valore, come il ciottolo grigionero che serve per tenere aperta la porta della chiesa, di corvi gracchianti, di foglie e fiori: “Vorrei cantare / per poco di voce / la campanula bianca…// vado odorando / e fremo e ascolto”.
Il mistero è ovunque (“Ora so che mistero / non è assenza di luce”), e va celebrato sia nel candore della neve sia nel fango delle pozzanghere, perché l’essere umano deve imparare a “crepitare di mistero”, accogliendone con gratitudine il messaggio segreto: “Tu indugia / e adora ogni cammino. / Sosta ad ogni torrente / e tocca il nuovo / dell’acqua. E canta / il Dio delle infinite sorgenti”, “A noi tocca in sorte / andare / con passo lento e leggero / in un abbraccio / di nebbie avvolgenti / e trattenere sospeso / il respiro”.
Anche la sua Milano caotica, “quadrilatero della moda”, fatta di “asfalto e silenzi”, di semafori annoiati, di “brulicare di voci / in una pizzeria”, si presta a descrizioni piene di affetto, perché in tutto si può scorgere l’impronta benedicente dell’Eterno: “Palpita quasi irreale / tra casa e casa / stretto nella via / il silenzio d’agosto. / Solo un tram / strattona lontano / quasi urlasse disagio / per contenimento in rotaie, / imbrigliato per destino / nei percorsi di sempre”.
Addirittura nella sua vecchiaia, con l’inevitabile accumulo di infermità, don Angelo scorge un segno della presenza divina: “Perdo pezzi di voce e di occhi, / di memoria e di cuore. / Dietro / alle spalle tu ti chini / e raccogli”, “A me è dato / per grazia / carico d’anni / incantarmi”. Ecco, l’incanto! Forse è questa la misura che tutta comprende lo spirito religioso dell’uomo e del sacerdote, animando il suo “desiderio di sconfinare” per evadere dall’angustia dell’io, “in anelito di nascondimento / quasi in fuga / da vuota esibizione”.
Nella grandiosità della natura, nello splendore che si offre con gratuità allo sguardo, si può trovare finalmente una rispondenza al proprio desiderio di infinito. Sono le montagne, con le loro cime rocciose o nevose, con i boschi che fingono impenetrabilità ma poi si aprono in radure confortanti; sono gli uccelli con i canti e le impennate in voli improvvisi; il vento che spira dove vuole, come scrive il Vangelo di Giovanni; l’acqua, la sorella acqua cantata da San Francesco, fresca, pura, dissetante; il silenzio, in cui ci si immerge per ritrovarsi nel profondo. La ricchezza delle citazioni ne dà ampia dimostrazione: “Inseguo sospeso nella sera / le piste / leggere del vento”, “arabeschi sonori / di uccelli / nell’ombra dei boschi, / che adoro”, “Cede il passo la fontana / a una striscia di luna / briciola di silenzio, occhi di pudore, / a veglia dal cielo”, “Lo scintillio dell’acqua / che nell’angolo in ombra / si butta e ributta, fremendo, / mai uguale, ma nuova / per ogni assetato”, “Là dove muore l’orizzonte / e sfuma il cumulo grigio / delle brume autunnali / sgusciano e galleggiano / come rapite da estasi di cielo / catene di cime innevate”, “Sul sentiero / ancora mi abbevera / profumo / nero dei boschi”, “In un cielo di ghiaccio / vive l’attesa / del grande silenzio”, “Minuscole nubi / striate d’argento / si accucciano tenere / alle cime dei monti, / si staccano lente / quasi senza partire / col passo sospeso / di chi ora rallenta. / A salutare”.
Bisogna “non avere occhi spenti” per riuscire a penetrare la bellezza. Bisogna tacere per saper ascoltare quello che il silenzio ha da dire. E camminare leggeri, sospesi, senza premere passi pesanti, senza offendere con gesti e parole che feriscano quello che ci circonda, di umano e non umano. “Sospeso” è l’aggettivo a cui don Angelo Casati ricorre più spesso nelle sue poesie: il suo cuore è sospeso, come il respiro, come la parola, in una esitazione discreta che lascia spazio all’espressione dell’altro da sé, e alla voce gentile della poesia.
© Riproduzione riservata «La Poesia e lo Spirito», 27 gennaio 2025