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RECENSIONI

GARDINI

NICOLA GARDINI, IL LIBRO È QUELLA COSA – GARZANTI, MILANO 2020

Mi sono imbattuta nelle pagine de Il libro è quella cosa con tre anni di ritardo, e mi dispiace perché si tratta di un volumetto prezioso, da leggere e da regalare: ai bibliofili, anzi meglio, ai bibliomani. A tutte le persone che amano spiare nelle vetrine delle librerie, cercare le novità editoriali sui giornali, spulciare le recensioni, ascoltare le ormai rare trasmissioni radiofoniche e televisive che suggeriscono imperdibili tesori cartacei.

Nicola Gardini, nato nel 1965 in Molise ma cresciuto a Milano, professore di Letteratura Italiana all’Università di Oxford, autore di decine di volumi (poesia, narrativa, saggistica), ricercato traduttore dall’inglese e dal latino, appassionato sostenitore dell’importanza di studiare le lingue antiche, presidente della casa editrice Salani, e infine pittore, nutre un rapporto d’amore esclusivo, quasi ossessivo, forse addirittura feticistico per i libri. Si dichiara affascinato non solo dal loro contenuto, ma anche dalla loro forma esteriore: copertina, dorso, rilegatura, pagine, colore e odore. “Un libro è una cosa da avere; cosa con cui si abita e si viaggia, da cui magari alla fine ci toccherà separarci, ma che occorre far di tutto per conservare e tenere vicino”.

Gardini ammette di essere un acquirente compulsivo, attratto dai titoli, dalle immagini, e spinto al possesso dell’oggetto anche quando non gli è necessario. Confessa la sua dipendenza, quasi fosse una droga: “Quanti libri ho…? Io mi domando: quanti libri non ho?”. Senza nemmeno conoscere autori, argomenti e trame, compra e colleziona volumi, li accumula, li impila, se ne circonda ovunque, pur sapendo che mai arriverà a leggerli tutti. Diventano un alibi, un patto, una lusinga, un rammarico. “Il libro che si deve ancora leggere ci sta davanti con una promessa e con un rimprovero; e poi, se non ci decidiamo mai a leggerlo, con un rimpianto”. Perché ammassarli, allora, sapendo che non si arriverà nemmeno ad aprirli? “Che cosa ci fanno, infine, tutti quei libri sugli scaffali? Ci danno fiducia”. Viene da chiedersi cosa provochi la felicità di stringere tra le mani un volume appena acquistato, e perché tanta nostalgia per uno perduto, uno sulle cui pagine ci si è addormentati da bambini, un altro studiato con devozione al liceo. Gardini dà a sé stesso una spiegazione filosofica, ben sapendo quanto sia relativa: “un libro è l’unica cosa che non minacci di toglierci nulla”. Anzi, offre parole e insegnamenti, e accoglie le nostre annotazioni, date, sottolineature, ciò che verghiamo sulle sue pagine a matita, a penna, con l’evidenziatore, per farlo più decisamente nostro. Conserva all’interno bigliettini, cartoline, ricevute, fotografie dimenticate da anni: è un amico fedele, non butta via niente, ha una memoria di ferro e ricorda l’età in cui l’abbiamo letto. È uno specchio di noi, un diario implacabile.

Gardini racconta le relazioni che ha intrecciato con altre persone grazie ai libri: con la mamma che li nascondeva nell’armadio perché non si sciupassero, con il padre in pensione che glieli catalogava rimproverandogli lo spreco di denaro, con l’ex-insegnante malato terminale che svendeva la sua biblioteca per lasciare più soldi ai figli, con la cugina o i compagni di scuola che glieli prestavano. Lo scambio e il commento reciproco di letture crea una rete di rapporti che mette in comunicazione con la società, sopravvivendo anche alla messaggistica di internet e agli e-book, su cui il giudizio dell’autore è severo: “La comunicazione elettronica è rapida, distratta, imprecisa… estromette del tutto il ragionamento, la riflessione, il ripensamento, il piacere dell’immaginazione, la proiezione nell’altro, l’attesa, la considerazione di più possibilità, la sospensione fantastica”. Leggere è invece un’arte paziente, che si impara stando con le parole, innamorandosene, lasciandosi penetrare da esse, smarrendosi in loro, viaggiando con loro.

Una intensa dichiarazione d’amore espressa in paragrafi stringati, aforismi, citazioni, che Nicola Gardini rivolge a “quella cosa” che si chiama libro, in un’epoca come la nostra abituata a leggere poco e male, con superficialità e fretta, ignara della ricchezza a cui sta rinunciando.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 gennaio 2024

RECENSIONI

MANCUSO

STEFANO MANCUSO, LA TRIBU’ DEGLI ALBERI – EINAUDI, TORINO 2022

Stefano Mancuso (Catanzaro 1965), scienziato di fama internazionale, insegna Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Firenze.
Nel 2005 ha fondato il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale, destinato agli studi sul comportamento delle piante e sulla loro vita sociale, determinata da una funzione neuronale, anche se questi attributi sono molto diversi da quelli osservati nel mondo animale. Autore di numerosi volumi di divulgazione scientifica, per la prima volta Mancuso si è cimentato nella narrativa di invenzione pubblicando con Einaudi nel 2022 il romanzo fantastico La tribù degli alberi, una sorta di apologo in cui il lettore vede un bosco animarsi e rivestire caratteri, abitudini e pensieri umani. I riferimenti culturali di questa favola sono da ricercarsi nel mondo favoloso di Tolkien, in qualche similitudine con le storie di Harry Potter, nella devozione all’universo vegetale di Jean Giono e in una similarità affettiva con il nostro letterato più ecologista, l’Homo Radix Tiziano Fratus.

La comunità arborea di cui narra Stefano Mancuso ha sede nel regno di Endrevia, abitato da tribù di piante di età e caratteristiche fisiche diverse, legate da sentimenti di solidarietà e generosa amicizia, ma tra cui a volte serpeggia qualche rivalità, pettegolezzo, invidia, proprio come succede tra gli esseri umani. Vivono vicini gli uni agli altri alberi millenari e giovani virgulti, dal fogliame caduco o foltissimo, giganteschi e nani, ciarlieri e scontrosi. Si dividono in cinque tribù, ciascuna delle quali ha indoli e inclinazioni specifiche: ci sono i creativi Terranegra, affascinanti nella loro originale disposizione artistica. Di altro stampo sono i Cronaca, più razionali nella loro funzione di storici, archivisti e reporter informati su tutto ciò che accade nel bosco. I Dorsoduro sono scienziati, i Gurra temibili nella loro silenziosa imponenza, i Guizza specializzati in astronomia e statistica.

Voce narrante è il vecchio Laurin, che vive in una splendida radura chiamata Pian di Mezzo, al limitare dei due territori abitati dai due clan più forti, quelli di Terranegra e di Cronaca. Sin da giovane Laurin è stato conteso dai due gruppi, sbilanciati nel numero dei membri: lui stesso, indeciso su quale famiglia scegliere, viene poi convinto ad aderire ai Cronaca, e il suo battesimo iniziatico è celebrato con una grandiosa festa cui partecipano tutti gli abitanti di Endrevia, cantando, ballando e ubriacandosi di alois, una bevanda inebriante.
Laurin, con i suoi amici più fidati Lisetta e Pino, viene incaricato di scoprire quale sia il motivo dello squilibrio numerico che minaccia l’ordine e l’equilibrio tra le varie tribù. Parte quindi per un lungo viaggio alla ricerca di documenti segreti conservati in una biblioteca-labirinto sotterranea, in cui sono immagazzinati tutti i dati e le informazioni secolari che riguardano il passato della confraternita. Durante il viaggio i tre alberi, sradicati con sofferenza dal proprio terreno originario, si imbattono in situazioni e soggetti diversi, a volte minacciosi (perché “in ogni gruppo c’è sempre qualcuno che traligna”), più spesso divertenti, che l’autore tratteggia con bonaria ironia, rapportandoli ad atteggiamenti umani: conformismo, vittimismo, spavalderia, ostentazione nella moda, nella cultura, attraverso divertenti parodie carnevalesche dei Gay Pride, delle tribune politiche, dei festival letterari.
I tre investigatori vegetali, nelle loro indagini librarie sulle statistiche e sui dati rimasti sepolti per millenni nella biblioteca-labirinto, scoprono che negli ultimi due secoli il clima di Endrevia si era trasformato, provocando sconvolgimenti climatici con estrema frequenza: periodi di prolungata siccità e aumento abnorme delle temperature alternati a improvvise alluvioni, uragani, venti tempestosi; nuove specie animali e miriadi di microrganismi, originari di luoghi lontani, proliferati a dismisura; parassiti e malattie aumentate in modo esponenziale; molte specie anmali migrate in massa per cercare regioni più adatte alla sopravvivenza. Tutti questi disastrosi cambiamenti avevano provocato enormi squilibri nella consistenza numerica dei cinque diversi clan di Endrevia, ignorati da chi doveva occuparsene scientificamente.
Forti di questa nuova consapevolezza, i tre amici alberi affrontano la via del ritorno, venendo subito investiti dalla terribile notizia di una nuova catastrofe. Un enorme incendio aveva distrutto intere distese della radura, provocando molte vittime tra i loro compagni. Solo un riequilibrio idrologico poteva restituire alla comunità il suo verdeggiante benessere, garantendone l’evoluzione e la differenziazione in varie specie. Per ovviare al disastro bisognava procedere velocemente a una intensificazione della popolazione arborea, in grado di assorbire i gas inquinanti accumulatisi nell’atmosfera. Sotto le parvenze dell’apologo, l’autore suggerisce una proposta che da anni porta avanti nelle opportune sedi politiche e scientifiche: piantare mille miliardi di alberi entro il 2030 per salvare il pianeta, riparando la grave colpa confessata da uno dei protagonisti del libro: “Abbiamo preferito non vedere”.

Una favola per adulti e ragazzi, questa scritta da Stefano Mancuso (in cui non mancano riferimenti dotti, come quello al film Il raggio verde di Rohmer, e alle biblioteche di Borges e di Eco), che come ogni favola ha una sua sottesa morale.
Insegna a valutare l’importanza della lealtà nell’amicizia e della solidarietà con i meno fortunati, la gratitudine verso i benefattori, il rispetto per l’ambiente, l’ammirata osservazione delle bellezze naturali.
Non sarebbe nuociuto al racconto una minore dispersione di temi, e una maggiore concisione narrativa, come si conviene a tutte le favole che ci hanno aiutato a crescere, fornendoci materiale per i nostri sogni.

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                18 gennaio 2024

RECENSIONI

MENICANTI

DARIA MENICANTI, IL CONCERTO DEL GRILLO – MIMESIS, MILANO 2013

L’opera  completa di Daria Menicanti (con tutte le poesie inedite, diverse prose, una ricca bibliografia e una scelta di ritratti fotografici), pubblicata da Mimesis nel 2013, è arrivata dieci anni fa a colmare un vuoto, assolvendo al dovere intellettuale di presentare al pubblico italiano la pregevole produzione di un’autrice schiva e immeritatamente trascurata dalla critica, fatta eccezione per alcuni importanti nomi di letterati che se ne erano occupati negli anni ’60, agli esordi della sua attività (Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Lalla Romano). Il corposo volume di oltre ottocento pagine, intitolato Il concerto del grillo, è introdotto da due appassionati saggi di Fabio Minazzi e Silvio Raffo, e da un’affettuosa nota di Brigida Bonghi, che si è occupata della trascrizione e digitalizzazione di tutto il materiale raccolto.

Daria Menicanti è nata a Piacenza nel 1914, sesta figlia di un bancario toscano antifascista e di una maestra fiumana, e dopo frequenti trasferimenti a seguito della famiglia si è stabilita a Milano, dove ha trascorso la maggior parte della vita, insegnando e occupandosi di traduzioni, soprattutto dall’inglese. Laureatasi in Estetica su John Keats, è stata sposata con il filosofo Giulio Preti dal 1937 al 1954, in un’unione burrascosa ma vitale e reciprocamente arricchente. Insieme, i due coniugi facevano parte della cosiddetta “Scuola di Milano”, animata e promossa dal pensatore razionalista Antonio Banfi, che riuniva personalità di rilievo come Enzo Paci, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Luciano Anceschi, Luigi Rognoni, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Maria Corti, insieme a molti altri poeti e intellettuali. Cresciuta in questo stimolante ambiente culturale, Daria Menicanti approfondì lo studio di letterati e filosofi internazionali, iniziando a pubblicare i propri lavori piuttosto tardi, in seguito alla separazione dal marito, dopo aver recuperato un’autonomia creativa personale prima trattenuta.

I primi tre volumi di versi uscirono da Mondadori tra il 1964 e il 1978, sotto l’egida e l’affettuosa cura di Sereni: in seguito, solamente editori minori si interessarono alla sua opera, che giustamente questo importante volume, finanziato dal Centro Internazionale Insubrico e dall’Università dell’Insubria, ha voluto recuperare.

La scrittura menicantea ha patito sottovalutazioni e fraintendimenti, in parte determinati anche dal carattere spigoloso, riservato e severo della poeta. I suoi versi sono stati accostati, per la limpidezza e la semplicità, a quelli di Umberto Saba, oppure accomunati alla trasognante trasparenza di Sandro Penna o ancora alla giocosità di Palazzeschi. In realtà, nulla appare in essi di estemporaneo o ingenuo, essendo invece estremamente sorvegliati nella forma, curati nella scelta lessicale, ricercati nell’impiego delle allitterazioni, pur nel rifiuto di qualsiasi astuzia sperimentale. Soprattutto concettualmente lucidi, animati da una criticità razionalista più orientata all’illuminismo che al romanticismo. Certo, amore e morte sono argomenti predominanti, ma affrontati con un’attenzione antiretorica, e corretti da una forte dose di ironia e autoironia. Temi privilegiati erano la descrizione degli ambienti, in particolari urbani e periferici, con i personaggi che li animano (il primo libro si intitola infatti Città come), quindi l’analisi dei rapporti interpersonali e l’esplorazione del proprio mondo interiore, e infine un variegato bestiario, a cui dedicò nel 1986 l’antologia di Altri amici. Al suo amatissimo Fuchs riservò la citazione di Caninamente: “… e lui mi aspetta e accompagna nei luoghi / deliziato. La sua corte remota / generica e all’antica / teneramente comica è sul punto / sempre di lusingarmi. Ti ricordi / cosa diceva quel proverbio inglese? / Quando sei solo / Dio ti manda un cane”. E in Felini esibisce un’anticipatrice sensibilità ecologica: “La lunga tigre lucente, il leopardo fiorito / – la guardinga, la silenziosa grazia – / tuttora ci minacciano / ma della loro scomparsa”. Mentre odora di spietata vendetta questo Epigramma per verme: “Un verme tranquillo e bavoso / d’un roseo infantile fa il traghetto / del viale. / Mi domando perché poi / mi faccia quasi tenerezza… Ah, sì, / è perché ti assomiglia, mio diletto”.

L’ironia, garbata e sorniona, come tratto caratteristico non solo del suo carattere, ma anche della produzione in versi, si evince da molte poesie sparse in tutti i sette volumi pubblicati in vita, in cui offre di sé un’immagine spiritosamente dolente, da estranea al consorzio umano perché a disagio nel rapportarsi agli altri, e insieme espropriata dall’adesione naturale a una semplice, a-problematica fisicità. Si descrive camaleonticamente come un “mite grillo”, “un cane lupino”, “una gatta sottile”, “una che va vestita come capita”, paragonandosi alla pioggia, a una nuvola, a una siepe recisa, a un palloncino: senza mai voler far cambio con altre vite, senza invidiare successi, soldi, riconoscimenti.

Tra i suoi ironici autoritratti, possiamo rileggere Di zitella, tratto da Un nero d’ombra (1969): “Dio era distratto quando nacqui. Pose / nel nido delle mie costole asciutte / un cuoricino di zitella inglese. / Sbagliò, certo. Così il mio illuminismo / si scontra spesso con le irrazionali / pretese dell’involontario muscolo. / E quando tutti sono lieti a Pasqua / e nelle feste natalizie, io soffro / atrocemente per gli abeti mozzi / i pini uccisi… E il museo roseobianco / degli agnellini fitti nelle

ceste / mi fa fuggire stretta e singhiozzante”. Oppure Poeta, da Poesie per un passante (1978): “In giro me ne vado come un cirro / silenzioso color ombra. Mi piace / stare alto sui tetti a galleggiare / guardando, io mi sento il palloncino / fuggito dal suo grappolo: una cosa / ironica leggera e all’apparenza / felice”. L’ironia di Daria Menicanti talvolta sfora nella satira, nella critica risentita; altre volte si rifugia nella riflessione filosofica e in pacate meditazioni, come in La Verità: “Da sotto spinge il coperchio del pozzo / la bianca prigioniera. Un’improvvisa / voglia l’ha presa di sole e di vento. / Ed eccola – libellula tremante / di freddo e solitudine – posata / sull’orlo. Ma nessuno / che si faccia vedere con lei / così straniera così nuda priva / di sorrisi e di perdoni”.

I versi per il marito Giulio Preti, grande amore e grande dolore della sua vita, sono raccolti nell’ultimo volume Canzoniere per Giulio del 2004, introdotto da una lunga prosa che riassume la vita trascorsa insieme (“Fin dagli inizi infatti tra noi ci furono scontri ed impennate, si alzarono muri di silenzio: tutti e due scotevamo furiosamente la catena, in particolare io che mi dolevo prigioniera di un uomo, sia pur di eccezione, ma estremamente possessivo e geloso”). Quindi una trentina di composizioni, e tra queste Epigramma VIII: “Dopo tanto odio ti ricordo infine / con animo fraterno / e ti perdono / il bene che mi hai fatto”, per cui Vittorio Sereni, amico di una vita, ha voluto scrivere: “Un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscìo, in un canzoniere di morte”.

Gli ultimi anni di Daria Menicanti furono segnati da lutti e malattie, ma anche dal calore di “rari amici scontrosi”, e dal riavvicinamento alla famiglia d’origine, e in particolare alla nipote Lucia Pezzini, che non solo si occupò di conservare e catalogare tutta la sua opera, ma la accolse in casa durante l’invalidante malattia psichica, fino all’inevitabile ricovero in una clinica a Mozzate, in provincia di Como, dove la poeta morì il 4 gennaio del 1995.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2024

 

 

 

RECENSIONI

BAHARIER

HAIM BAHARIER, LE DIECI PAROLE – GARZANTI, MILANO 2023

Haim Baharier, studioso di ermeneutica ed esegesi biblica, matematico e psicanalista francese (Parigi 1947), nato da genitori ebrei di origine polacca reduci dal campo di sterminio di Auschwitz, è stato allievo del filosofo Emmanuel Levinas, del fondatore della psicologia della motivazione Paul Diel e di Léon Askenazi, considerato il padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia. Autore di numerose opere dedicate ai testi sacri, insegna Talmud e Torah e tiene da molti anni esclusive e memorabili lezioni di ermeneutica ed esegesi biblica. Tra le sue opere: La Genesi spiegata da mia figlia (2006), Il tacchino pensante (2008), Qabbalessico (2012) e l’autobiografico La valigia quasi vuota (2014). Attualmente vive a Milano.

Garzanti ha ripubblicato il suo saggio Le dieci parole, uscito per la prima volta nel 2011, che commenta il Decalogo dando rilievo al contesto storico in cui ha avuto luce e si è diffuso tra la popolazione ebraica, analizzandone soprattutto la complessità linguistica. Non “I dieci comandamenti”, ma “Le dieci parole”, come anche Papa Francesco ha voluto recentemente intitolare un suo volume, sottolineandone la non prescrittività, bensì l’indicazione comunicativa, là dove i verbi – scritti al futuro e non all’imperativo – suggeriscono esortazione e invito, “promesse che si realizzano”, più che comando e obbligo. Lo stesso Baharier afferma: “leggere il Decalogo come una lapide di imperativi è l’errore di chi teme di cimentarsi con il pensiero, di chi con il pensiero ha paura di scottarsi”.

La Bibbia inizia con Genesi, narrando la grandiosità della creazione, e non con il Decalogo, momento identificativo dei figli di Israele, posticipato all’Esodo, a segnare un percorso che snodandosi dall’Egitto verso la terra promessa offre al popolo eletto la sua costituzione prima ancora che diventi nazione. Tra premesse e promesse si pone il commento di Haim Baharier, insieme esegesi e narrazione che chiosa e illumina di nuova luce il cammino ebraico, dalla preparazione spirituale di Esodo 19 alla realizzazione di Esodo 20. Passo dopo passo il testo originale viene riportato alla sua esatta interpretazione, in cui termini generalmente ricondotti a sentimenti di odio, vendetta, punizione, peccato, vengono traslati in maniera meno inquisitiva: “Una mano sciolta sulla spalla, non l’indice puntato in faccia”. Israele si libera dalla schiavitù, uscendo dall’Egitto e accampandosi nel deserto del Sinai: il deserto non è desolazione ma humus potenziale, la montagna non è ostacolo ma elevazione, la divinità non è vendicativa, i tempi verbali non indicano imposizione ma proposta, il verbo avere non esiste: “Non avrai altro Dio” diventa “Non ci saranno per te altri Elohim sui miei volti”.  La Torah è più dolce di come ci è stata trasmessa!

Se la prima parola era “non ci saranno per te altri idoli”, la seconda chiede di non divinizzare valori o ideologie che si servano di Dio in contesti impropri, per sanare le proprie insicurezze. E la terza promessa, di santificare le feste, invita a inseguire l’ideale, a investire nel sogno di un riscatto: custodire lo Shabbàt, giorno in cui il Creatore riposa. Dal quarto al decimo comandamento l’attenzione si rivolge all’essere umano, al suo agire nel rispetto di persone-cose-ambiente.

Onora il padre, la cui essenza è quella di delegato a creare: il figlio di oggi è il padre di domani, da ossequiare sempre, nel suo avvicinarsi e nel suo allontanarsi dal ruolo che gli compete. Non assassinerai, né materialmente né metaforicamente, per mantenerti in alto, fagocitando con impazienza il senso del conoscere. Non fornicherai, frantumando l’intimità e possedendo l’altro da te, pur accettando l’impulso innato, senza volerlo estirpare a forza. Non rapirai, persone o cose, appropriandoti di quello che non è tuo. Non opprimerai il tuo compagno con falsa testimonianza, creando faziosità, comunicazioni fallaci, saperi occulti. Non desidererai ciò che è possesso altrui, perché si deve accettare il limite, attenersi agli argini.

“Il Decalogo, come tutto il testo sacro, è scritto in una lingua consonantica la cui leggibilità è affidata agli esseri umani. Lingua partitura che chiama ogni lettore esecutore a una interpretazione. Testo che attende sempre di essere interpretato. Haim Baharier ci indica un percorso, attraverso una prosa vertiginosa e spesso oscura, che stilla “piccole/grandi illuminazioni”, come suggerisce Maurizio Meschia nella prefazione al volume.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                   17 gennaio 2024

 

 

INTERVISTE

CASETTA

SIMONE CASETTA E LA POESIA

 


Simone Casetta è nato a Milano nel 1961, e ha iniziato giovanissimo a lavorare
come assistente presso lo studio e nella camera oscura dei fotografi Luciano
Ferri e Gianni Greguoli. Più avanti, ha prestato assistenza anche presso altri
fotografi di moda e pubblicità. Il lavoro indipendente è iniziato nel 1980, con
incarichi per la stampa periodica e per aziende private. Dall’inizio degli anni
’90 la sua attività si è concentrata sul reportage sociale, il ritratto e sulla ricerca
personale, con la produzione di numerose serie di immagini realizzate in
Europa, Romania, Sudan, Ruanda, Zambia, Somalia, Ciad, Kenya, Tanzania,
Marocco, Pakistan, Cambogia, Argentina, Costa Rica, Nicaragua. Le
problematiche legate alla ineguale distribuzione delle risorse alimentari sono il
tema che, dalla metà degli anni novanta in poi, ha costituito il filo conduttore
dei suoi viaggi. Attualmente affianca la produzione di lavori commissionati a
progetti di mostre anche a carattere multi-mediale.
Nel 2010 ha fondato il Conservatorio della Fotografia, centro di cultura
fotografica pre-digitale impegnato nella pratica delle tradizionali tecniche di
stampa dirette da negativo. Il Conservatorio forma giovani collaboratori e offre
servizi di stampa e sviluppo a fotografi, artisti, archivi storici e Istituzioni.
Dal 2007 insegna fotografia presso l’Istituto Superiore per le Industrie
Artistiche ISIA di Urbino, al biennio Magistrale di Grafica Editoriale.

• Buongiorno Simone, fotografo e amante della poesia. Nel 2010 lei ha dato
avvio alla singolare iniziativa di un Registro fotografico dei poeti di lingua
italiana. Quanti poeti ha ritratto, e di quali ritiene di essere riuscito a catturare
più intensamente la sensibilità artistica?

Buongiorno a lei. Ho iniziato a ritrarre i poeti un po’ per caso e mi sono trovato in
un’impresa decisamente più grande delle mie possibilità. Dopo dodici anni di lavoro
e 150 ritratti realizzati in tutta Italia mi sono dovuto arrendere e credo che non
arriverò a completare questo archivio. Le fotografie sono generalmente fatte a casa
del poeta, o in luoghi che per il poeta sono casa. Non ho una classifica di intensità
riguardo al risultato. Ogni ritratto testimonia di un incontro e si può dire riuscito nella
misura in cui si è instaurata un’intimità condivisa, più o meno forte. Chi avrà
l’occasione di vedere i poeti, nelle fotografie che ho fatto, potrà forse rispondere
meglio di me in termini di maggiore o minore intensità percepibile.
Questo viaggio tra persone che ricercano, ricche di una sensibilità coltivata e attenta,
è stato immancabilmente avvincente e ogni incontro è stato unico e importante. Non
saprei mettere insieme una graduatoria, né delle preferenze. Questo non vuol dire che
non ci siano stati incontri dalla maggiore o minore corrispondenza.

• Immagino che prima di ritrarre i poeti, senta l’esigenza di leggerne almeno in
parte la produzione. Dopo averli conosciuti di persona, avverte il desiderio di
approfondirne lo studio dal punto di vista letterario?

Al contrario. Cerco di arrivare all’appuntamento completamente ignaro dell’opera.
Quando so troppe cose rischio di offuscare la sensibilità immediata e
l’imprevedibilità di un incontro che, per me, è meglio non abbia tare. Dopo sì. Pur
essendo un lettore minimo di poesia (ne leggo pochissime, centellinate nel tempo),
dopo ogni incontro leggo con grande curiosità quello che i poeti hanno scritto.

• Conosco il suo amore per la poesia di Raffaello Baldini. Cosa l’ha attratto nella
scrittura e nella personalità di questo poeta romagnolo?

Anche questo è stato un incontro non ricercato. Dopo avere ascoltato un pezzo di una
sua poesia, letta da lui stesso alla radio nel 1994, gli avevo scritto per sapere se vi
fosse già una registrazione sistematica dei suoi lavori. Non c’era e sono riuscito a
convincerlo a farla insieme. Abbiamo lavorato, saltuariamente, per dieci anni e dopo
altri quindici si è arrivati alla pubblicazione di Compatto, il risultato delle nostre
sedute di registrazione. Con Baldini era stato amore a prima vista, o al primo ascolto,
sarebbe meglio dire. A ciascuno corrisponde un modo poetico e credo di poter dire
che il suo sguardo sul mondo mi corrisponda in pieno.

 

• Poesia e fotografia, ciascuna con i propri mezzi espressivi, possono mostrare il
lampo di una presenza, la concretezza di un particolare, l’ossessione di un
volto, anche quando vengano subito riassorbiti dal buio del giorno e della
memoria. Yves Bonnefoy, nel suo intenso saggio Poesia e fotografia,
accomunava le due arti nella capacità di bloccare ed eternizzare l’immagine,
preservandola per sempre. Lei si trova d’accordo con questa affermazione?

• Nella sua esperienza di fotografo, quali sono i soggetti (oltre alle figure umane)
che trova particolarmente poetici, e in che modo riesce a farli “parlare”
poeticamente? Giocando con luci e ombre, con gli sfondi, con qualche
dettaglio insolito?

Cito sempre questa frase di Jean Baudrillard, perché esprime in completezza quello
che trovo nella poesia: “…è solo attraverso la dispersione del nome di Dio nel
labirinto della poesia che si può percepire in filigrana la figura originale.”
Quando mi trovo di fronte a una scena del mondo, capita che ci siano luoghi e tempi
nei quali intravedo una comprensione maggiore, dove la bellezza mi appare più
evidente. Cerco allora di fotografare per condividere, ricordare, gustare e amplificare
il più possibile quel momento del mondo.
Qualsiasi scena può essere portatrice di questa comprensione, testimone di questa
bellezza. Se però faccio un’analisi statistica tra quello che ho fotografato finora, trovo
una netta predominanza di persone. Vengono poi gli alberi, il cibo, gli oggetti
antropomorfi. Il resto in misura minore.

 

RECENSIONI

PECCHINI

ANTONIO MARIA PECCHINI, QUI NEL CONTINUO DEI GIORNI – NOMOS, Busto Arsizio 2023

Nelle due sezioni in cui si suddivide il libro di Antonio Maria Pecchini (Del disamore e Nel continuo dei giorni), la seconda parte che dà il titolo al volume è la più rilevante, sia come consistenza di pagine sia per l’intensità del messaggio trasmesso.

Pecchini (Busto Arsizio 1947) – docente di arte, scultore e pittore – ha già pubblicato con Nomos altri due volumi di versi, con notevole successo di pubblico e di critica: Qui nel continuo dei giorni nasce da un percorso di riflessione e sofferenza personale, segnato da particolari situazioni di salute, che si intreccia con quello collettivo attraversato dalla società durante il Covid. L’autore si trova improvvisamente catapultato in una realtà inattesa e dolorosa, messo “fuori gioco” dalla malattia che “misura il vivere, modula tempi, / rallenta desideri, cancella sogni d’avventura”. Sconcerto dolore paura sono i sentimenti prevalenti di chi deve affrontare una situazione non prevista, come il ricovero in ospedale, un’operazione, cure impegnative, esercizi di riabilitazione, costretto nella solitudine e nel silenzio di una camera dalle pareti bianche, su cui la mente proietta ombre minacciose.

La consapevolezza della propria fragilità fisica, il pensiero della fine, il desiderio di prolungare la normalità di un quotidiano non abbastanza apprezzato in precedenza, induce a godere di ogni piccola ma preziosa gioia offerta dalla vita. Abbandonarsi al ritmo regolare e monotono del proprio respiro diventa àncora di salvezza, nell’assicurare la sopravvivenza: si affaccia la consapevolezza di una necessaria solidarietà con chi patisce un’uguale, angosciosa afflizione, soprattutto con gli anziani che si affidano alla memoria per ritrovare in sé il ricordo di giorni più felici. Il perseverare costante delle rime utilizzate nel volume esprime una rassicurante consolazione melodica nell’imperversare del male, con la sua prosaicità concreta, impersonale e severa.

La storia privata si confronta con quella collettiva, fatta di guerre e violenze, ingiustizie e sopraffazioni: negli stessi terribili mesi infuriano virus micidiali e bollettini bellici, a sottolineare la presenza incombente della morte nel mondo: “troppi sono i lutti / da dover conteggiare nei giorni, troppe / le reliquie da poter conservare nel tempo”. I termini cui si affida l’autore indicano una negatività subita con amarezza e impotenza (assedio- letargo- scacco- cul de sac- resa- smarrimento- balbettio), e gli esseri umani sono considerati “ostaggi”, “reduci”, “battuti”, pedine mosse sullo scacchiere internazionale da potenze sovrastanti nella loro indifferenza ai destini dei singoli.

Osservando i “segnali choc / dalla storia”, il dolore individuale si confronta con l’iniquità patita da tutte le vittime della “costante durezza / di un giogo, assegnato da tempo, /   da prepotenti occidentali certezze”. Nel nostro minuto procedere giornaliero, “persi come siamo in guerre personali”, “abbiamo negato / domande attorno al senso del vivere, ricco / semplicemente del tepore d’un breve raggio di sole”, confusi e distratti in “un mondo disattento, / soltanto attento ai tanti bla, bla, bla”. Invece proprio “Qui nel continuo dei giorni” dovremmo riuscire a superare, con ritrovato ottimismo e con testarda speranza, il male sofferto da ciascuno e da tutti. La riflessione di Antonio Maria Pecchini diventa indicazione filosofica, appello alla positività, invito ad aprirsi coraggiosamente al futuro: “passerà, domani passerà / e ancora saremo tra noi / a benedire i giorni e insieme / a contemplare la bellezza del creato”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net              14 gennaio 2024

 

RECENSIONI

PORTELLI

ALESSANDRO PORTELLI, IL GINOCCHIO SUL COLLO – DONZELLI, ROMA 2020

“I can’t breathe. I can’t breathe”: non posso respirare, ripetuto undici volte dall’afroamericano George Floyd, il 25 maggio 2020 a Minneapolis, mentre l’agente di polizia Derek Chauvin lo teneva per otto minuti bloccato a terra con un ginocchio sul collo. Alessandro Portelli ricostruisce quel tragico episodio e il movimento di protesta di massa che ne è seguito, inserendoli all’interno dell’ininterrotta sequenza di violenze praticata dalla polizia americana negli ultimi decenni, per risalire poi al racconto delle discriminazioni razziali e delle disparità sociali che hanno segnato la storia secolare degli Stati Uniti. Lo fa utilizzando materiali letterari e cinematografici, canzoni di protesta, cronache giornalistiche e giudiziarie, con riferimenti anche all’attualità italiana e al dibattito internazionale sulla cancel culture. Portelli (Roma, 1942), critico musicale, storico e anglista, ha dedicato molti saggi alla letteratura afroamericana e alle tradizioni popolari orali: è stato professore ordinario di letteratura angloamericana all’Università “La Sapienza” di Roma, e dagli anni ’70 scrive su Il Manifesto.  Il ginocchio sul collo non è il suo libro più recente (sono usciti altri volumi in italiano e inglese, tra cui il fondamentale We shall not be moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), con 4 CD-Audio), ma senz’altro rappresenta una testimonianza appassionata dell’impegno culturale e politico dell’autore contro ogni violenza di stato. Facendo riferimento all’omicidio di Floyd, scrive: “C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo di George Floyd: san Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco sull’elefante ucciso in safari. Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, della civiltà sul mondo selvaggio… E del bianco sul nero. Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro”.

L’assassinio di George Floyd ha scoperchiato un intreccio di contraddizioni e ingiustizie sedimentate nel tempo, provocando la reazione dei moltissimi uomini e donne di ogni età, neri, bianchi, ispanici “senza parola e senza rappresentanza”, che finalmente hanno urlato la loro rabbia di fronte alla disuguaglianza crescente, alla precarietà, allo svuotamento della democrazia e alla violenza poliziesca diffusa, che solo nel 2020 ha causato più di due uccisi al giorno. Le imponenti manifestazioni che ne sono derivate, protrattesi per mesi, hanno coinvolto milioni di persone, suscitando reazioni solidali e allarmate nell’opinione pubblica mondiale (soprattutto tra i giovani e i militanti per i diritti civili), e interventi legislativi mirati a correggere lo strapotere repressivo, esercitato militarmente, dei corpi di polizia. Davanti all’ingiustizia di tante morti di afroamericani, impressiona rileggere le parole di Huckleberry Finn riportate in epigrafe del libro: “S’è fatto male qualcuno?”. “Nossignora. È morto un negro”, a ribadire che black lives don’t matter.

Il volume segue coerentemente la traccia della denuncia etica e politica, sia negli interventi di taglio più spiccatamente giornalistico e di cronaca, sia nelle documentazioni raccolte dall’autore nei suoi frequentissimi viaggi in America, per risalire infine alla ricostruzione storica degli ultimi due secoli di sopraffazione della civiltà occidentale bianca sulle minoranze e le popolazioni più povere.  Tre sono le vicende esemplari recuperate dal passato, in cui dominio e repressione dei bianchi si sono scontrate con la violenza delle rivolte nere: la ribellione degli schiavi a Charleston nel 1822, la sommossa ad Harlem nel 1943, i disordini esplosi nel ghetto di Los Angeles nel 1992. Alessandro Portelli narra questi episodi con la vivacità e la partecipazione emotiva del romanziere più che del distaccato saggista, interrogandosi sulla discrepanza tra l’intensità e la complessità dalle proteste e “l’inossidabile capacità della cultura dominante di non sentire, non vedere, non capire”.

Dal 2013 al 2020 le persone uccise dalla polizia negli Stati Uniti sono state 8264, per il 28% afroamericane, ma molto più numerosi sono state le vittime tra i nativi indiani; vengono uccisi individui considerati “sospetti” in termini di colore, di classe, di genere: si tratta quasi sempre di indigenti ritenuti potenziali criminali, a volte trovati in possesso di armi improprie, a volte valutati come ostili o provocatori. Il pregiudizio razziale è comunque prevalente, e l’elenco degli ammazzati fornito da Portelli, con le circostanze che hanno condotto alla loro eliminazione, è impressionante. Bruce Springsteen ha ammesso in un’intervista: “Incombe ancora su di noi, generazione dopo generazione, il fantasma della schiavitù, il nostro peccato originale e il dilemma irrisolto della società americana”.

Perché i poliziotti sparano in maniera indiscriminata e ingiustificata, contro obiettivi di solito indifesi? Tra le cause elencate da Portelli sono da considerare il disprezzo per il diverso, la certezza dell’impunità (nel 99% dei casi non c’è stata nessuna sanzione nei confronti degli agenti responsabili), lo spirito di corpo, l’incompetenza e la paura. Anche le forze dell’ordine europee e italiane non sono esenti da tali responsabilità, e vengono citati come esempi i nomi di Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri…

Il terzo capitolo del libro, polemicamente appassionato, si intitola “Uomini di marmo”, e affronta il discusso argomento della cancel culture e dell’abbattimento delle statue erette in onore di discutibili personaggi storici, che si sono macchiati di crimini contro gruppi di etnie diverse. Negli States sono centinaia i monumenti, le targhe commemorative, le cerimonie e i titoli onorifici celebranti non solo gerarchi e militari sudisti, politici schiavisti, intellettuali che hanno legittimato il razzismo, ma addirittura membri e fiancheggiatori del Ku-Klux Klan, tutti uomini e tutti osannati molti anni dopo la morte, mentre nessun monumento è stato eretto in memoria delle migliaia di neri e nativi sacrificati nelle guerre nazionali e cittadine, pubbliche e private.

Portelli sottolinea con veemenza che “un monumento esiste perché qualcuno l’ha eretto, e l’ha eretto in qualche momento e con qualche intenzione: è un messaggio, un segno di quelle intenzioni… le statue, lungi dallo svolgere una funzione di memoria storica, congelano la storia in un passato monumentale spesso falsificato e negano tutta la storia che è venuta dopo… sono segni intenzionali con cui il potere presente afferma il proprio diritto di definire il significato del tempo storico e dello spazio pubblico”.

La lunga querelle riguardante la distruzione di sculture commemorative intitolate ai conquistatori ha una sua ragion d’essere: se è vero che Cristoforo Colombo appartiene all’immaginario collettivo degli italiani, alimentato da affetto e orgoglio, è anche indubbio che la colonizzazione dei territori americani ha comportato stragi, usurpazioni, oltraggi. Per rimediare all’ingiusta e colpevole parzialità delle varie rappresentazioni culturali (in marmo, carta, pellicole) non esiste solo la soluzione dell’abbattimento: tra iconoclastia e celebrazione si possono individuare altri percorsi di risignificazione, di commento chiarificatore, di accompagnamento critico. Senza aspettare che la polvere del tempo ricopra le testimonianze fallaci e che le statue celebrative si sgretolino da sole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», I gennaio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, GLI ALTRI – ADELPHI, MILANO 2023

L’ultimo libro di Georges Simenon uscito da Adelphi, che da anni ristampa con successo l’opera omnia dell’autore belga, si intitola Gli altri, ed è stato pubblicato in Francia nel 1961. Non si tratta di un giallo, genere di cui lo scrittore è celebrato maestro, ma di un romanzo psicologico, ambientato nel secondo dopoguerra in una cittadina francese di provincia, pettegola e conformista, e circoscritto alla storia della numerosa ed eclettica famiglia Huet.

Utilizzando la formula del diario, l’io narrante Blaise – ventottenne docente di disegno all’Accademia di Belle Arti, sposato con Irène – scandisce la propria narrazione suddividendola nelle sette giornate seguite alla morte dell’anziano zio Antoine. Blaise ed Irène conducono una vita matrimoniale monotona ma appagante per entrambi, tradendosi vicendevolmente senza alcun sotterfugio o senso di colpa. D’altra parte, tutti i membri della dinastia degli Huet (fatta eccezione per il fratello di Blaise, Lucien, modesto giornalista cattolicamente ligio ai propri doveri di marito-padre-cittadino, e per alcune figure femminili, dignitose nella loro fragilità) non esitano a mostrare il loro lato peggiore, si tratti di smodate ambizioni per ottenere successi economici e professionali, o di condotte sessuali che oscillano tra la superficiale disinvoltura e la depravazione. In particolare il cugino Édouard, tornato in città dopo un’assenza di molti anni, collaborazionista e spia dei nazisti, truffatore più volte finito in carcere, catalizza su di sé l’ostile imbarazzo di tutto il nucleo familiare, restio a perdonarlo e ad accoglierlo nuovamente tra le mura domestiche.

Blaise si riconosce pusillanime nei confronti della moglie adultera, frustrato socialmente e culturalmente (“Sono solo un mediocre, lo so, ma un mediocre lucido, direi persino, senza esagerare troppo, un mediocre soddisfatto”), ma sa anche di essere il solo in grado di registrare lucidamente ciò che accade intorno, tentando di rinsaldare i logori rapporti che negli anni hanno allontanato genitori e figli, fratelli e cugini, coniugi e amanti. La città in cui vive gli assomiglia, gli è estranea e insopportabie: “città della mia infanzia, della mia adolescenza, dove la vita non aveva sbocchi e dove non restava che cercare di vincere la noia”.

Il funerale dello zio Antoine, il cui suicidio viene raccontato ad apertura del romanzo, scatena una guerra sotterranea tra tutti i parenti in vista della divisione ereditaria. Giurista potente e rispettato, oculato amministratore del suo ricco patrimonio, innamorato della giovanissima moglie Colette -donna affascinante e inquieta, psichicamente instabile, sospetta ninfomane -, Antoine Huet viveva in una signorile palazzo in Quai Notre-Dame, frequentato raramente e con reverenziale timore da tutto il vasto consorzio parentale. Le sue esequie diventano un avvenimento rivelatore cui tutta la famiglia si sottopone con ansia e turbamento, come se l’evento “morte” mettesse ciascuno di fronte alla propria meschinità di piccola, insignificante ed egoista creatura umana. La cerimonia nella cattedrale gremita di personalità importanti e semplici curiosi, vede i consanguinei a disagio, sospettosi e indaganti le intenzioni e aspettative altrui riguardo alle decisioni testamentarie del caro estinto. “Mi chiedevo che cosa ci facevamo lì, tutti quanti, a seguire dei riti che comprendevamo solo in modo approssimativo… Il tutto assomigliava a una grande, spettacolare liquidazione… Ce l’eravamo cavata con canti, paramenti, canonici, insomma una sfarzosa messinscena sproporzionata ai personaggi che eravamo”.

Neppure la notifica dell’eredità dello zio Antoine, con un più che dignitoso vitalizio alla giovane moglie, e le restanti proprietà divise tra i tre nipoti maschi Blaise, Lucien ed Édouard, cambia qualcosa nell’esistenza di chi è rimasto. In particolare, non modifica in alcun modo l’atteggiamento dell’io narrante Blaise, sempre più apatico e indifferente nei riguardi di sé stesso e degli altri. Quegli altri che Simenon ha lapidariamente omaggiato nell’essenziale  titolo del suo romanzo.

“La vita continua… Fuori, i lampioni si erano appena accesi. Ho camminato lungo rue de la Cathédrale, poi lungo rue des Chartreux, guardando le stesse vetrine di quando avevo sedici anni”.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2023

 

RECENSIONI

AAVV, FONDAZIONE MIGRANTES

FONDAZIONE MIGRANTES, IN FUGA – TAU, TODI 2023

Fondazione Migrantes ha realizzato una graphic novel rivolta soprattutto, ma non solo, ai giovani e ai più piccoli: In fuga è un volumetto illustrato di 36 pagine, pubblicato dalla casa editrice Tau, seguendo l’originale proposta creativa di un gruppo di fumettisti e sceneggiatori composto da Emanuele Bissattini, Valerio Chiola, Mariacristina Molfetta, Chiara Marchetti, Duccio Faccini e Manuela Valsecchi.

In primo luogo, è opportuno presentare le attività di Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana istituito nel 1987 “per accompagnare e sostenere nella conoscenza, nell’opera di evangelizzazione e nella cura pastorale dei migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti e opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella società civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza, con l’attenzione alla tutela dei diritti della persona e della famiglia migrante e alla promozione della cittadinanza”. Le persone cui si rivolge l’attività della Fondazione, sono singoli, famiglie e comunità coinvolte dal fenomeno della mobilità umana, e in modo particolare gli immigrati ed emigrati stranieri e italiani, i rifugiati, i profughi, gli apolidi e i richiedenti asilo, la gente dello spettacolo viaggiante, i Rom, Sinti e nomadi.

Il fumetto, disegnato con immagini realistiche e vivacemente colorate, si basa sulle testimonianze rese da migranti nel volume Il Diritto d’asilo 2022 sui diversi trattamenti che vengono riservati a chi scappa dalle guerre a seconda del paese di origine. Presenta personaggi differenti per provenienza, lingua, sesso, età: interi nuclei familiari o singoli immigrati che provengono dall’Ucraina, dall’Africa o dal Medio Oriente, fuggendo da guerre e privazioni, attraverso percorsi dolorosi, subendo violenze fisiche, fame e umiliazioni di ogni tipo. Si chiamano Dimitry, Veronika, Rashid, Natalka, Amaka, Bidemi, Alì. Raggiungono sedi diverse in Italia, o riunendosi a familiari già residenti nel nostro paese, o alloggiati temporaneamente nei centri di accoglienza definiti CAS e SAI.

Uno degli operatori ritratti nel libro afferma: “Ci sono gli stessi problemi per situazioni sempre diverse”, e in effetti gli ostacoli da superare per chi arriva in Italia a prima vista sembrano simili: la sistemazione logistica, l’apprendimento della lingua, la ricerca di un lavoro, l’inserimento scolastico, il riconoscimento dei titoli di studio, la separazione dai parenti, l’impossibilità di fuoriuscire dallo stato senza perdere i diritti acquisiti, le esasperanti lentezze burocratiche.

In realtà esistono sostanziali differenze tra chi proviene da paesi europei come l’Ucraina, e chi invece è originario di altri continenti. Ai primi si offrono garanzie legali e premure più sollecite e solidali, dal punto di vista sanitario, educativo, giuridico; agli altri viene serbato un trattamento meno favorevole, e spesso discriminatorio nei risultati effettivamente conseguiti. Un motivo di più per riflettere e far riflettere i lettori sulla legislazione e sui diversi atteggiamenti messi in atto nel nostro paese che ama definirsi civile.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           19 dicembre 2023

POESIE

DEDICA SENZA NOME

Vorrei che tu non fossi, caro,

o che non fossi per me. Che fossi

un’altra cosa, un altro, in altro spazio

e tempo, e di cui dire “c’è”.

Ma non per me, non dentro me.

Essenziale come quello che deve essere,

e il suo esserci fa bene,

è un bene che si riconosce,

che gli altri (tutti gli altri) sanno.

Ma a me straniero, come un oggetto

che esiste però non ci appartiene,

ed è utile, perfetto: così vorrei che fossi,

indipendente e non nel mio pensiero:

vorrei saperti senza volerti,

sfiorarti come le cose intorno

a cui siamo abituati, tanto

da non notarle, da non desiderarle.

Una finestra, una matita;

il cucchiaio, il calendario.

Così ti vorrei, non mio e altro,

quotidiano nell’uso e necessario.

 

 

In Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003