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RECENSIONI

OZ

AMOS OZ, RESTA ANCORA TANTO DA DIRE – FELTRINELLI, MILANO 2023

Amos Oz (Gerusalemme 1939Tel Aviv 2018), tra i più noti  scrittori e saggisti d’Israele, poco prima di morire tenne una conferenza all’università di Tel Aviv, il cui testo è stato pubblicato da Feltrinelli con il titolo Resta ancora tanto da dire. È interessante rileggere questo documento, che mantiene pregi e difetti di ogni comunicazione orale trascritta per la lettura (vivacità, arguzia, improvvisazione, ma anche disorganicità e gusto provocatorio), nei giorni terribili che il mondo sta vivendo a causa della guerra in corso.

Prima di addentrarci nella disamina del pamphlet in questione, è forse opportuno ricordare qual è stata la vicenda biografica di Amos Oz. A partire dal suo vero cognome, Klausner, ripudiato per l’insanabile contrasto che lo contrappose al padre, sionista di destra, dopo il suicidio della madre avvenuto quando lui aveva solo dodici anni, con la conseguente decisione di lasciare la casa di famiglia e di entrare nel kibbutz di Hulda. “Oz” in ebraico significa “forza”, e il ragazzo Amos ne ebbe molta, riuscendo a conciliare i lavori agricoli nei campi sia con gli studi, conclusisi con la laurea a Gerusalemme e poi con la specializzazione a Oxford, sia con la scrittura, praticata assiduamente dai ventidue anni in poi. Sposo di Nilli e padre di due figli, docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, aveva prestato servizio di leva nelle forze di difesa israeliane sia nella guerra dei sei giorni sia durante la guerra del Kippur.

Le sue posizioni sono sempre state conciliatorie nella sfera politica e social-democratiche nella sfera socio-economica. Tra i primi intellettuali israeliani a sostenere la soluzione dei due Stati, aveva dichiarato in un articolo del 1967 sul giornale laburista Davar: “Anche un’occupazione inevitabile è un’occupazione ingiusta”. Nel 1978 fu uno dei fondatori di Peace Now. opponendosi all’attività colonizzatrice sin dall’inizio e sostenendo gli Accordi di Oslo e le trattative con l’OLP, con simpatie per le posizioni laburiste di Shimon Peres. Se nel luglio 2006 Oz aveva appoggiato l’esercito israeliano durante la guerra con il Libano, più recentemente in una conferenza comune con Grossman e Yehoshua dichiarò invece che Israele aveva esaurito il suo diritto all’auto-difesa.

Autore di romanzi di successo che indagano soprattutto le relazioni di coppia o generazionali (l’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, Michael mio, Un giusto riposo), si è occupato della situazione politica del suo paese in molti interventi sulla stampa internazionale e nei due saggi In terra di Israele (1983) e Contro il fanatismo (2004), quest’ultimo stampato, distribuito e tradotto in varie lingue a sue spese per favorirne una diffusione capillare. I concetti fondamentali di Contro il fanatismo (secondo cui il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione o di culture, ma piuttosto una controversia possessoria da risolvere con un compromesso) sono stati ripresi appunto nella conferenza del 2018, e si riducono principalmente a tre.

Lontano in ugual misura da ogni fanatico estremismo come da un pacifismo imbelle, Oz non ritiene che il male assoluto sia la violenza, bensì l’aggressività e la sopraffazione, che vanno decisamente fermate con la forza. Hitler non è stato sconfitto da una colomba con il rametto d’ulivo nel becco, ma dalla forza militare. Tuttavia non è con l’esercito che si può curare una ferita, e la ferita putrescente aperta da un secolo tra Israele e Palestina va sanata, non con “il bastone” dell’oppressione, della deterrenza, dell’esibizione muscolare, ma attraverso l’uso di una lingua di cura, una base di colloquio comune, nella comprensione e accettazione dei reciproci diritti ad esistere.

In secondo luogo, è necessaria, ineludibile, la creazione di due stati: “Se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. E se dovesse sorgere qui un solo stato, non sarebbe uno stato binazionale. Sarebbe, prima o poi, uno stato arabo dal Mediterraneo al Giordano”, con gli ebrei ridotti a una minoranza senza rilevanza politica, così come è successo ai cristiani in tutto il Medioriente. Non esiste la possibilità di un unico stato multietnico prospero e pacifico, eccezione realizzata nel mondo solo dalla Svizzera. Tutti gli altri stati multietnici che hanno tentato la strada della bi-nazionalità sono incorsi in rovinosi fallimenti, e solamente la Cecoslovacchia è riuscita a creare due repubbliche separate senza spargimento di sangue.

Oz come terzo punto della sua lezione affronta la questione del sionismo, contestando l’idea che il rientro in Israele degli ebrei dispersi dalla diaspora sia stato determinato da un malinteso sentimento nostalgico di “ritornismo” o dalla ricerca di una spiritualità originaria. In realtà, era stata la consapevolezza (avvertita anche dai suoi nonni ucraini) di non avere un “altrove” in cui essere accolti, a spingerli a stabilirsi nella “Terra dei Padri”, pur sapendo che non avrebbero potuto trovare nello spazio qualcosa che si era perduto nel tempo. Non avrebbero lasciato l’Europa “se non fosse stato per la sofferenza, le persecuzioni e la scoperta che non c’era alternativa se non la reclusione nel ghetto o la totale assimilazione. Tutto ciò non deriva dal desiderio di ritorno. Non deriva soltanto né principalmente da ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’. La verità è che non c’era altro luogo dove andare”.

Dopo essersi soffermato, con profonda tristezza, sull’odio secolare che gli ebrei hanno catalizzato su di sé in ogni epoca e luogo, Amos Oz conclude tuttavia il suo saggio con una nota di speranza non illusoria: “Nulla è irreversibile”, si può sempre cambiare. Mentalmente, caratterialmente, culturalmente, politicamente. Una diversa leadership in Israele e in Palestina potrebbe finalmente indicare la strada di un accordo: “Su, dai, facciamolo. Sarà difficile, complicato, doloroso, ma facciamolo e chiudiamo la faccenda una volta per tutte”.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 ottobre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OGAWA

YŌKO OGAWA, LA CASA DELLA LUCE – IL SAGGIATORE, MILANO 2011

Quasi tutti i romanzi di Yōko Ogawa (Okayama,1962) sono stati pubblicati in Italia dalle edizioni Il Saggiatore: La casa della luce del 1990, è uscito nel 2006, e ristampato cinque anni dopo. Premiatissima, celebre in patria e molto tradotta all’estero, Yōko Ogawa è considerata una delle più importanti autrici post-moderne contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le opere di Yōko Ogawa sono perlopiù storie narrate in prima persona, situandosi fra il genere realista e quello fantastico, con una sovrabbondanza di elementi concreti su cui si inseriscono dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, mettendo in primo piano protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista ma descrittivamente puntuale, propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali.

Il volume di cui ci occupiamo consta di tre racconti lunghi, il primo e più riuscito dei quali, “La gravidanza di mia sorella”, ha ottenuto il prestigioso premio Akutagawa ed è stato pubblicato sul New Yorker, onore riservato precedentemente solo ad altri due autori nipponici.

La protagonista (senza nome, come quasi tutti i personaggi femminili di Ogawa) è una giovane universitaria, venditrice part-time nei supermercati della città, che vive con la sorella e il cognato odontotecnico novelli sposi. Quando la sorella rimane incinta, i nove mesi della gestazione diventano un incubo per il piccolo nucleo familiare: per la sorella stessa, in preda a ossessioni nevrotiche che la portano dapprima a rifiutare il cibo e poi a ingozzarsi di marmellata di pompelmo ingurgitata a cucchiaiate, conducendola a una pericolosa obesità; per il marito timoroso di contrastare i capricci tirannici della moglie: per la narratrice in prima persona, che annota meticolosamente in un diario settimanale il progredire angoscioso della gravidanza, sino alla sua temuta e imprevista conclusione.

Nel secondo testo, è ancora una giovane donna la figura di spicco della narrazione. Raggiunta al telefono dalla telefonata di un cugino ventenne perso di vista da molti anni, si adopera per trovare al ragazzo una sistemazione nella residenza studentesca da lei stessa frequentata durante l’università. Lo accompagna quindi nel suo ex-collegio per studenti, periferico e architettonicamente fatiscente, presentandolo al preside, un anziano e colto professore, menomato nel fisico perché amputato di entrambe le braccia e di una gamba. Nelle settimane che seguono all’iscrizione del cugino al convitto, la protagonista non riuscirà tuttavia a mettersi più in contatto con lui, venendo invece trattenuta a lungo nell’ufficio di presidenza. Scopre così che sulla residenza universitaria si sono addensate ombre di sospetto per l’improvvisa e inspiegabile scomparsa di uno degli studenti, motivo dell’allontanamento di tutti gli altri frequentanti. Il racconto rimane sospeso in un’atmosfera di dubbio e sconcerto, che la figura misteriosa e infelice del professore, ormai moribondo e impossibilitato a rivelare alcun segreto, contribuisce a rendere più inquietante.

Il terzo racconto, che dà il titolo alla raccolta, vede ancora come voce narrante una adolescente, segnata dai turbamenti e dalle ansie tipiche dell’età. Figlia del rigido direttore di un orfanatrofio buddhista, la ragazzina vive con fastidio e rancore l’atmosfera opprimente della Casa della luce, nutrendo il rapporto con gli infelici ospiti in essa accolti di sfumature morbose, che vanno dall’amore non corrisposto per un ragazzo fisicamente e caratterialmente eccezionale, al disgusto espresso in dispetti, ritorsioni e sadico disinteresse verso i più piccoli e fragili di lei.

Tre protagoniste di tre racconti raccontate con sensibilità e penetrante intuizione da una scrittrice donna. Se dovessi definire con due aggettivi la scrittura di Yoko Ogawa, così come si manifesta nel volume preso in esame, non avrei nessuna incertezza nell’utilizzare questi termini: delicata nella forma, implacabile nel contenuto.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net  «SoloLibri», 26 ottobre 2023

 

 

 

INTERVISTE

BETTIN

Nato a Venezia nel 1955, Gianfranco Bettin è laureato in Scienze politiche. Ha insegnato e lavorato nel campo della ricerca e degli studi socioeconomici e politici. Giornalista pubblicista, narratore e saggista, ha pubblicato alcuni romanzi e diversi volumi di indagine storica e sociale. Attivista politico e ambientalista, è stato deputato al parlamento, consigliere regionale del Veneto, assessore e prosindaco di Venezia e presidente della Municipalità di Porto Marghera. Attualmente è consigliere comunale a Venezia.

Tra i suoi libri: Qualcosa che brucia, Garzanti 1989; L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero, Feltrinelli 1992; Nemmeno il destino, Feltrinelli 1997, 2004; La strage: Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli 1999; Il clima è fuori dai gangheri, Nottetempo 2004; Gorgo: in fondo alla paura, Feltrinelli 2009; Cracking, Mondadori, 2019; I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica, E/O 2022; La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia, Feltrinelli 2023.

La domanda più scontata che si può fare a un sociologo, in un’intervista sulla poesia, è se tale forma letteraria mantiene una rilevanza non solo culturale, ma anche civile, nell’Italia contemporanea, come per esempio è stato nell’800. La poesia, oggi, serve ancora a qualcosa nella nostra società?

Serve a molto, forse non a molti, ma quelli che ne vengono raggiunti, e che la cercano, ne traggono forza, idee, e a volte arrivano – loro, così alimentati – a tanti altri.

 

A quale età ha iniziato a leggere versi, e privilegiando quali autori nell’arco della sua vita? Ci sono state voci poetiche, anche straniere, che hanno lasciato un’impronta sul suo impegno politico e ambientale?  

 

Ha incontrato personalmente qualche poeta, e traendone quali arricchimenti dal punto di vista umano?

Ho conosciuto diversi poeti. Un po’ meglio, Patrizia Cavalli e Andrea Zanzotto. Cavalli quando ero molto giovane, negli anni Settanta, nell’ambiente di Elsa Morante (che pure ho conosciuto bene, e che considererei anche poeta oltre che romanziera, grandissima, a cui devo molto sia della mia formazione culturale che umana). Alla capacità di condensazione del verso di Cavalli, alla gravitas che cela nella sua grazia e leggerezza apparente (ma anche sostanziale, spesso, mozartiana), ho guardato sempre, cercando di assimilarla, scrivendo spesso di cose pesanti e cupe io stesso. Né le poesie né altri testi “cambieranno il mondo”, ma qualcosa, qualcuno, qualche momento sì, invece, che li cambiano. Patrizia lo sapeva. Zanzotto l’ho incontro quand’ero già adulto, sui 35 anni, alla fine degli anni Ottanta, dunque, ma il rapporto con lui, proseguito fino alla sua morte nel 2011, è stato davvero fecondo, per me, ricco di idee e suggestioni, di discussioni e scambi, in particolare sul territorio di entrambi, il Veneto, nel confronto tra la sua Marca e le mie Venezia e Porto Marghera, mondi estremi e alieni l’un l’altro e tuttavia compresenti in uno spazio ridotto, per i quali Andrea aveva grande interesse.

Che giudizio dà della produzione poetica attuale nel nostro paese? Dopo l’ermetismo, l’impegno politico del dopoguerra, lo sperimentalismo degli anni ’60, il collegamento con le arti visive e musicali, non ritiene ci sia stato un ristringimento di prospettiva, sia in termini di una chiusura solipsistica nel privato, sia nell’abbandono della ricerca formale?

Non ne so abbastanza per azzardare un giudizio. A volte mi imbatto nella poesia contemporanea, a volte mi accorgo di cercarla, e di trovare non di rado versi o testi che mi confermano in quella lontana idea che ne ho sempre avuto e che risale alle prime letture: l’eccezionale capacità della parola poetica di dire, o suggerire o evocare, qualcosa che non si può dire in un altro modo e che esprime una verità, la precisione clinica e artistica per così dire, di ciò di cui parla e, al tempo stesso, di far risuonare in sé tutto quello che fino a quel momento si è letto altrove, in altri testi, in altre circostanze, mettendo tutto insieme in un significato specifico, in quel punto, quel puntino connesso a una vastità incommensurabile, di cui si è parte e in cui ci si perde, tuttavia trovando qualcosa di sé. Tutti i limiti che la domanda rimarca rimangono: solo, non so se riguardino la poesia attuale o siano e siano stati propri di tutta la poesia, sempre. Capita, però, che vengano superati, anche oggi. che una forza e una grazia e una vitalità poetica si producano, in certi casi.

Poesia come spettacolo, esibizione, performance, poetry slam, festival, letture… Eppure le vendite nelle librerie ristagnano, mentre si alza il livello di competizione tra poeti, che rimangono i soli a leggersi tra di loro. Cosa ne pensa?

Ancora una volta, non ne so molto, ma ho l’impressione che tutto ciò sia sempre accaduto (comprese, in Italia, le scarse vendite, purtroppo), che faccia da sempre parte degli “immediati dintorni” della poesia (e della letteratura, e dell’arte). Per il resto, che si moltiplichino occasioni pubbliche – spoken word e poetry slam compresi, di cui pioniere in Italia è stato un altro mio amico valente poeta, Lello Voce – va benissimo: che parole e versi girino, vagando nell’aria e nella testa di chi ascolta, di chi passa e va.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 ottobre 2023

 

RECENSIONI

OLIVER

MARY OLIVER, PRIMITIVO AMERICANO – EINAUDI, TORINO 2023

Primitivo americano, premio Pulitzer per la poesia nel 1984, è il libro più noto di Mary Oliver, autrice poco conosciuta in Italia, ma amatissima dal pubblico americano. Einaudi lo propone nella sua prestigiosa collana bianca, con l’appassionata prefazione della curatrice Paola Loreto e testo a fronte. Mary Oliver, nata in Ohio nel 1935 e morta in Florida nel 2019, è vissuta principalmente nell’East Cost, nei dintorni meno frequentati di Cape Cod, là dove boschi, laghi, paludi delle Province Lands, nella loro intricata e misteriosa wilderness, si approssimano al mare protetto da scogli e dune sabbiose.

Sacerdotessa di un panteismo naturalistico, Oliver è stata la riconosciuta e celebrata rappresentante della poesia ecologista statunitense. Le cinquanta composizioni della raccolta riecheggiano temi e atmosfere presenti nei massimi cantori nordamericani della natura, da Henry David Thoreau a Ralph Waldo Emerson, da Walt Withman a Emily Dickinson, da Robert Frost a Elizabeth Bishop, con un’accentuazione visionaria particolare, prossima alle proiezioni allucinatorie della letteratura distopica e postumana di oggi.

Nella sua interpretazione del reale, sfumano i contorni materiali che differenziano specie da specie, mondo animale e vegetale, interconnettendo l’umano con il minerale, l’acqua e l’aria, nella fusione di elementi diversi in un’indistinta origine biologica comune.

Lunghe passeggiate solitarie, o in compagnia del suo cane, nella foresta o ai bordi di stagni e sulle rive dei fiumi, portano la poeta a imbattersi in tipologie diverse di alberi, cespugli, fiori e frutti (querce, pini, meli, anemoni, caprifogli, bacche, uva, more, funghi…), e in una ricca varietà di insetti, uccelli, quadrupedi, pesci, anfibi: dalle volpi alle lepri, dagli aironi ai corvi, dai pipistrelli ai gufi. Durante le sue quotidiane immersioni nel verde, si lascia pungere da spini e parassiti: “Dove il sentiero chiude / i battenti e oltre, / attraverso le foglie sgamollate, / i rami caduti, / attraverso l’intrico di salsapariglia, / ho proseguito. Alla fine / non riuscivo più / a salvare le braccia / dalle spine; le zanzare / mi hanno annusata / alla svelta, calda / e ferita, e sono arrivate / roteando e ronzando” (Egrette); incontra due serpenti che attraversano veloci il bosco “come una coppia affiatata / come una danza / come una storia d’amore”; osserva ortaggi selvatici maleodoranti ma comunque da rispettare: “Quello che infiamma il sentiero non è per forza grazioso”.

Con animali e piante vive esperienze simbiotiche e metamorfizzanti, in un mistero di compenetrazione reciproca: si trasforma nell’orsa che assaggia il miele, nel pesce appeso all’amo e poi ingerito, nel vitellino allattato dalla mucca, nella cerva che beve al ruscello, nei fiori pallidi bagnati dalla pioggia,  e l’assimilazione è più fisica che mentale, più carnale che emotiva: “l’unico modo / di indurre la felicità nella tua mente è introdurla // prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche”, “il blu del cielo mi cade addosso // come seta, i fiori ardono, e io voglio / rivivere tutta la mia vita, riiniziare daccapo, // essere assolutamente / selvaggia”.

Persino nella palude fangosa la poeta celebra il pantano, facendosi essa stessa palude: “Mi sento /… un ramo che ancora potrebbe, / a distanza di anni, metter radice, / germogli, gemmare, fiorire – / fare della sua vita un palazzo / vibrante di foglie”. L’elemento equoreo in cui si immerge diviene amnio ancestrale, e l’accoglie non più donna ma pesce, come all’alba della vita nel nostro pianeta: “Bracciata dopo / bracciata il mio / corpo ricorda quella vita e reclama / le parti perdute di sé – / pinne, branchie che / si aprono come fiori nella / carne – le gambe / vogliono serrarsi e diventare / un muscolo solo, giuro che / conosce / l’esatta sensazione / di essere coperta / di squame grigio blu!”

I mondi animali vegetali e umani sono parte inscindibile della stessa creazione, e le sedimentazioni millenarie di ossa sepolte nel terreno – scheletri di persone e carcasse di bestie – appaiono uguali nel ciclo eterno di nascita riproduzione e morte. Officiante di una Messa panica, Mary Oliver proclama un suo “Vangelo ecocentrico”, come suggerisce Paola Loreto nella prefazione, messaggio di salvezza per il pianeta soffrente, a cui indica la sola possibilità di resistenza nel destino comune di accoglienza di tutto ciò che vive e respira.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2023

RECENSIONI

CAROTENUTO

ALDO CAROTENUTO, I SOTTERRANEI DELL’ANIMA – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

 Lo psicanalista Aldo Carotenuto (Napoli, 1933Roma, 2005) è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo internazionale: tra i suoi numerosi volumi, Bompiani ha scelto di ripubblicare un testo fondamentale nell’indagine del rapporto che lega la creazione artistica con il malessere psichico: I sotterranei dell’anima, edito per la prima volta nel 1993, e ora riproposto: con il sottotitolo Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione e la cura di Erika Czako. Czako è stata allieva di Carotenuto, e oggi è un medico che si occupa dell’assistenza ai malati oncologici terminali: nella sua intensa prefazione al volume ricorda che il suo maestro aveva fondato nel 1992 il Centro Studi di Psicologia e Letteratura, ancora operante, sulla base della convinzione che la psicoanalisi sia un esercizio più prossimo all’arte che alla scienza, e lo psicoanalista un soggetto dotato dell’ipersensibilità e della vulnerabilità dell’artista. L’autore propone in questo testo un viaggio affascinante e inquietante negli angoli bui dell’anima, filtrato dalle pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, in particolare da quelle di Fëdor Dostoevskij e Joë Bousquet.

Esiste un pregiudizio millenario, espresso già da Platone e poi ribadito soprattutto dai romantici, che individua nell’alterazione mentale la fonte dell’originalità creativa: il folle come poeta, il malato come profeta visionario. In realtà la sofferenza psichica, e ogni patologia che ne deriva, isterilisce e non nutre, poiché non è in grado di comunicare e di produrre incontro. I grandi psicanalisti del ’900 manifestavano una visione riduttivistica della creatività artistica, ritenendola determinata da processi di frustrazione o sublimazione (Freud), di riparazione di un danno subito (Melanie Klein), di compensazione (Adler), di depressione (Segal). Più generosamente aperti verso la disposizione artistica si sono dimostrati Jung e Neumann, che ritenevano l’arte frutto di una tensione, di una trasformazione messa in atto dialetticamente tra la personalità individuale dell’artista e quella storica della collettività.

Carotenuto sostiene che la grande letteratura sa attivare nel lettore dinamiche profonde, tali da consentirgli la scoperta di parti di sé rimaste nell’ombra, mettendolo in grado di affrontare i propri demoni, trasformandone totalmente la visione della vita. Lo specifico dell’arte consiste nella trasfigurazione estetica del dolore, che viene così traslato sul piano delle sensazioni configurate da immagini. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ha segnato, nell’ambito della letteratura ottocentesca europea, un profondo mutamento della prospettiva narrativa, non più fondata su una rappresentazione oggettiva della vita sociale dell’epoca, ma sulla soggettività dei protagonisti. La focalizzazione da parte dello scrittore sulla dimensione interiore dei personaggi diventerà poi una peculiarità del romanzo novecentesco, come in Kafka e in Joyce. Il sottosuolo diventa metafora dell’inconscio, luogo demonico citato in tutte le mitologie, sede dei morti e di mostri, ma anche luogo di germinazione, di gestazione e di maturazione delle creature prima di affacciarsi alla luce. Il viaggio nella propria interiorità coincide sempre con il calarsi nella solitudine, nell’allontanamento dagli stimoli del mondo esterno: il protagonista dostoevskijano è consapevole della propria diversità, patita come sofferenza e malattia dell’anima, e lo afferma esplicitamente: “Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso… Non sono un uomo attraente … Io sono solo, mentre loro sono tutti… In tutta la mia vita non mi è mai riuscito di portare a termine nulla”.  Questo sentimento di inadeguatezza nei confronti degli altri, verso cui nutre sentimenti contrastanti e negativi, lo induce a trarre appagamento dal proprio male, dal proprio devastante nichilismo. Sentendosi incompreso, perseguitato dalla società, proietta su di essa il suo disagio, un vero e proprio odio: “Non posso soffrire la gente. La gente mi dà fastidio”. Carotenuto riconosce in questo atteggiamento masochistico un evidente intento autopunitivo, comune a molti pazienti che si rivolgono all’analista perché prigionieri del loro castello interiore abitato da fantasmi, ma insieme ammaliati dalle ombre sinistre e dagli angoli sordidi in cui si rifugiano, fino a trarre da questo disgusto di sé un piacere perverso. Nella sua rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità e senza futuro, l’uomo del sottosuolo si definisce “un infelice topo”, dando di sé quest’immagine: “Niente sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su con la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.

Nella propria lunga esperienza di analista, Aldo Carotenuto ha spesso osservato come in questi pazienti, che si sfiniscono in un processo di autoconoscenza e in “un dibattito incessante tra sé e sé e i propri immaginari interlocutori-giudici”, esista in realtà una grande ricchezza di visioni e fantasie interiori che spingono per uscire allo scoperto, e per farsi riconoscere dagli altri. Su questa occultata positività l’analisi deve operare, per permetterle una riemersione, come fa il pescatore di perle quando porta il tesoro recuperato in superficie.

Carotenuto, nella sua serrata indagine sul malessere masochista che si traduce in atteggiamenti autodistruttivi, prende in esame il meccanismo di identificazione con l’immagine paterna, che ha agito come elemento perturbante nella vita e nell’opera di Fëdor Dostoevskij. “Il rifiuto del modello genitoriale, il processo di differenziazione dalla potente immagine paterna” ha generato un soffocante senso di colpa, presente sia nell’esistenza dello scrittore sia nei suoi personaggi, spesso devianti dalla norma e dalla legalità (l’alcolizzato, il criminale, il giocatore, la prostituta…), e incapaci di adeguarsi al buon senso comune.

In chi rinuncia a confrontarsi con la realtà, in genere l’unica fonte di significato nell’interpretazione degli eventi diventa l’esercizio assoluto della ragione a discapito della dimensione emotiva e irrazionale, che viene negata e mortificata come indegna e umiliante, condannando in tal modo all’aridità dei sentimenti, alla paura delle emozioni, e a un’esistenza rigida e inappagante. “L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla”. In tale pericolo è caduto l’uomo occidentale da quando ha negato a sé stesso l’energia vivificante e liberatoria che deriva dall’esercizio dell’immaginazione, della fantasia, dell’utopia in grado di superare i confini del reale, ipotizzando modelli e ideali di vita inediti.

La seconda parte del volume di Carotenuto prende in esame la vita e gli scritti di un autore all’epoca poco noto, e oggi rivalutato e riproposto da molti editori: il francese Joë Bousquet, che durante la prima guerra mondiale riportò una lesione alla colonna vertebrale, rimanendo paralizzato per i restanti trent’anni della sua vita. Costretto a vivere a letto, nella penombra della sua stanza, colpito nella carne e ferito nell’animo, seppe rispondere alla tragicità del suo destino in maniera creativa e feconda, universalizzando la sua esperienza, sublimando il proprio supplizio: “Ecco: distrutto a vent’anni, ho voluto attraversare l’ostacolo che l’infermità erigeva in me, renderlo trasparente… Volevo che la ferita avesse un senso”. Privato del proprio corpo, Bousquet accettò di vivere nella sofferenza e della sofferenza, mediante il corpo della scrittura, che divenne innanzitutto conoscenza soteriologica, metodo di salvezza, individuale e collettiva: “Se una simile afflizione non mi ha ridotto alla disperazione è perché mi è rimasta la voce…  Scrivo per aprire con la solitudine un largo cammino verso gli altri”.

Aveva già sperimentato, prima dell’incidente, la fascinazione della morte, sia nell’uso adolescenziale di droghe, sia nel tormento di amori sconvolgenti e distruttivi, in una inquietudine che lo portò a offrirsi volontario per il combattimento in prima linea, quasi predestinato da una intenzionalità inconscia, in una ricerca di verità ultime, fisiche e spirituali. Riuscì a resistere, in seguito, alla tentazione del suicidio, mantenendosi attento e disponibile a ogni trasalimento del cuore, a nuovi innamoramenti, alla passione per la letteratura, all’incontro con diversi amici e intellettuali (tra cui Simone Weil) che lo visitavano con regolarità nella sua cittadina di Carcassonne. Secondo Carotenuto, “Ciò che trapela dalle pagine dei suoi diari, e che rende la lettura delle sue riflessioni così stimolante, è proprio la forza psicologica che esse emanano, che gli ha consentito non solo di convivere col suo dolore, ma di trasformarlo in materia poetica”.

Due scrittori, Dostoevskij e Bousquet, che hanno conosciuto e abitato i sotterranei dell’anima, con dolore, rabbia, frustrazione, affrontandoli e illuminandoli con diversità di sguardo e destino.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2023

 

 

RECENSIONI

GAFFORINI

LORENZO GAFFORINI, MILLIHELLEN – GATTOMERLINO, ROMA 2023

Nella nota critica a chiusura del breve romanzo di Lorenzo Gafforini, l’editrice Piera Mattei mette in luce due particolarità estremamente importanti del testo e del prodotto-libro: la metaletterarietà della scrittura e l’indovinata adesione del ritratto di copertina (una fotografia di Chiara Romanini) a spirito e trama del narrato.

Millihellen. Un incontro non segna l’esordio del giovane autore bresciano, che ha già pubblicato altri racconti e poesie: si presenta infatti come una prova matura, meditata nella costruzione del contenuto e calibrata nella resa formale. Diviso in due sezioni (Il malato di venerdì e Il lamento della bestia azzurra) scandite ciascuna in 50 brevi paragrafi, il volume racconta la tormentosa attrazione fisica e mentale che l’io narrante patisce per una misteriosa figura femminile.

Chi scrive rappresenta sé stesso come “schivo, diffidente”, in preda a una pena d’amore che lo tiene lontano dal frequentare il consorzio umano. Vede Helena per la prima volta dipinta sul quadro di un amico, e alla sua figura dedica alcune poesie. La ritrova dopo un anno, un venerdì sera di fine gennaio, ed entrambi si studiano con trepidazione nelle due ore passate a bere birra in un pub. Lei è molto alta, ha piedi piccoli e occhi azzurrissimi: non bella, ma eccitante. È ragioniera e lavora nell’azienda di famiglia: si mostra indipendente e curiosa. Lui scrive, e cura un aggiornato profilo su Instagram di articoli, commenti, poesie, foto. Si spostano nell’appartamentino di lui, bevono ancora e parlano molto. Lui esibisce narcisisticamente la propria cultura citando gli scrittori più amati, lei confessa con candida spudoratezza la sua passione per il corpo, le centinaia di amanti avuti e la soddisfazione che prova nel dare godimento a un uomo.

Il rapporto sessuale a cui i due si abbandonano viene descritto con puntuale meticolosità, insieme a un malcelato fastidio. Helena si fa riaccompagnare a casa, e promette di rifarsi viva passati cinque giorni. In realtà sparisce, e il romanzo assume una dimensione del tutto diversa, meno descrittiva, più meditata e sospesa. Un anno intero scorre veloce e monotono nella vita del protagonista, mentre Helena scompare dal suo orizzonte materiale, pur campeggiando imperiosa e ossessiva nelle fantasie mentali. Non bastano un soggiorno a Venezia, l’ambita promozione professionale, il vagheggiamento di future pubblicazioni gratificanti e la nostalgia suscitata da ricordi dell’infanzia, a distrarlo dai pensieri deliranti che lo invadono.

Accanito nell’esaminare i propri sentimenti, chi scrive è ben consapevole della irreale realtà del sentimento che lo assedia: “Non è amore, è qualcosa di ributtante e viscerale”, e oscilla tra l’aspirazione a una fredda e liberatoria razionalità da una parte, e l’abbandono al sogno e al desiderio: “Cerco Helena nel disordine calibrato e cosciente”.

Trova scampo nella frequentazione assidua della biblioteca cittadina, impegnandosi nella traduzione di un dramma tedesco del primo Nocecento: “vivo di ricerche, di messaggi subliminali dimenticati in opere catalogate e poi perdute”. Rimpiange Helena, l’approfondimento di un rapporto che avrebbe potuto trasformarsi in una relazione stabile e profonda, ma si fa irretire dai profili delle studentesse che gli siedono accanto, e in ognuna di loro vede trasfigurata l’immagine delle madonne dell’arte medievale: “Vivo nella certezza che Helena possa continuare a fuggirmi, ma anche a manifestarsi magnanima sotto altri nomi. Credo nella sua reincarnazione, questa volta più pura, audace. Un’astrusa metempsicosi. Quella che ho visto io, vissuto e toccato, è solo un’ombra di quello che potrebbe realmente essere”.

L’utopia amorosa a un tratto si svela nella sua mendacità, probabile pretesto di ispirazione letteraria “E se la mia fosse una scrittura meramente riepilogativa, senza il sano talento di trascendere il fatto? Ho avuto l’estremo bisogno di creare, per poi lasciarmi andare alle paure, alle suggestioni”.

La Helena conosciuta in una notte lontana si sovrappone ad altre ben più illustri Elene della poesia mondiale, da quella euripidea molto diversa dalla versione omerica, a quella di Marlowe, che le dedicò versi famosi: “Fu questo il viso che mille navi fece salpar?”, alla più recente citazione della poeta inglese Anne Carson. Giustamente quindi Piera Mattei nella postfazione parla per questo romanzo di metaletterarietà, aggiungendo ai riferimenti accennati da Lorenzo Gafforini, la Gradiva di Wilhelm Jensen, altra immagine fantasmatica nata dalla visione di un’opera d’arte. L’oscuro titolo del romanzo, Millihelen, viene spiegato da una nota dell’autore come derivato da un’unità di misura fittizia coniata in Inghilterra nei secoli scorsi, e poi da lui giocato riferendosi alla millesima parte della Helena umana rispetto alla Elena leggendaria, capace cioè di far salpare non mille, ma una sola nave, quella del protagonista impazzito d’amore: “Ha un tratto fosforescente il mio delirio”.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        3 ottobre 2023

RECENSIONI

SMITH

PATTI SMITH, A BOOK OF DAYS – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

Come preludio e introduzione ai prossimi tour in Italia di Patti Smith (sarà a Parma e a Gorizia il 4 e 5 ottobre, quindi tra novembre e dicembre in una serie di concerti acustici in teatri e luoghi sacri) l’editore Bompiani pubblica A Book of Days, un prezioso volume che raccoglie riflessioni, brani di diario, appunti e 366 fotografie scattate dall’autrice, a testimonianza del suo credo estetico e di una vita totalmente dedicata all’arte. Cantautrice, performer, visual artist, scrittrice, poeta, Patricia Lee Smith (Chicago30 dicembre 1946) è stata una protagonista atipica e rivoluzionaria del rock, del proto-punk e della New Wave degli anni settanta: il suo eccezionale carisma interpretativo e la potenza dei suoi testi le hanno fatto guadagnare il soprannome di ”sacerdotessa del rock”. La rivista Rolling Stone la inserisce al quarantasettesimo posto nella classifica dei cento migliori artisti e all’ottantatreesimo nella lista dei più grandi cantanti. Prima di quattro figli di un macchinista e di una cameriera-cantante jazz, entrò giovanissima a contatto con la musica. Trasferitasi a  Manhattan nel 1976, iniziò una tormentata ed intensa relazione con il fotografo Robert Mapplethorpe, i cui ritratti furono spesso utilizzati come copertine per i suoi album. Il primo grande successo fu  Horses, a cui seguì un’altra decina di album, e quindi un lungo periodo di ritiro dalle scene per motivi familiari e per una lunga depressione seguita ai gravi lutti patiti. Le sue canzoni si nutrono dei drammi del mondo contemporaneo, e il suo attivismo politico l’ha vista a fianco delle più importanti manifestazioni internazionali contro la guerra e per i diritti civili. Nel 2010 ha dato alle stampe il libro autobiografico Just Kids, vincitore del National Book Award.

Tutti questi complessi e intensi avvenimenti esistenziali hanno lasciato traccia nel volume edito da Bompiani, che nel risvolto di copertina viene definito “un viaggio caleidoscopico nella mente visionaria di un’artista suggestiva e inconfondibile, una lettura senza tempo per tempi molto incerti, una mappa ispiratrice della sua vita come della nostra”.

Patti Smith nella primavera del 2018 ha iniziato a pubblicare su Instagram le sue fotografie, sia quelle più antiche, scattate con la vecchia Polaroid Land 250, sia le recentissime, catturate in giro per il mondo con lo smartphone. In A Book of Days si susseguono, intercalando così atmosfere struggenti e nostalgiche con testimonianze appassionate di storie private e collettive, talvolta dolorose e drammatiche, oppure ironiche, spiazzanti, polemiche. Ogni foto è accompagnata da una breve didascalia scritta dall’artista su un taccuino o direttamente sull’i-phone. L’assemblaggio, intensamente meditato dal punto di vista dell’accostamento estetico delle immagini, è stato compiuto nei giorni di imposto isolamento della pandemia, e pensato come omaggio non solo alle persone che vi sono ritratte (a quelle vicine e viventi, a quelle perdute e rimpiante, a donne e uomini famosi che hanno fatto la storia e vengono immortalati nelle loro tombe, nei monumenti, negli autografi), ma anche alla bellezza dei giorni che a ciascuno è dato di vivere\. Camus e Murakami, Joan Baez e Bob Dylan, Giovanna d’Arco e San Francesco, Kurosawa e Werner Herzog, Borges e William Burroughs, Yoko Ono e Kurt Cobain… E poi la tazza del caffè mattutino, gli stivali consumati, la chitarra del marito, il gatto amato, i regali di Robert Mapplethorpe, la madre e le sorelle, i figli nelle diverse età, piazze e stazioni, spiagge e montagne. Regali, insomma, a chi volesse entrare nel mondo di Patti, provando a guardaridimensionando rlo attraverso i suoi occhi. “Trecentosessantasei modi di dire ciao”, come ha tenuto a scrivere nella prefazione, un po’ minimizzando, un po’ sottolineando la bellezza contagiosa dell’antologia.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 29 settembre 2023

 

RECENSIONI

BIANCIARDI

LUCIANO BIANCIARDI, GARIBALDI – MINIMUM FAX, ROMA 2020

Le edizioni Minimum Fax hanno ripubblicato la biografia di Garibaldi scritta da Luciano Bianciardi cinquant’anni fa: iniziativa lodevole e interessante, poiché si tratta di un testo vivace, scorrevole nella prosa, puntuale nelle ricostruzioni storiche.

Il profilo biobibliografico e la bibliografia dell’autore sono a cura di Fabio Stassi, che mette affettuosamente in luce la tormentata vicenda esistenziale di questo outsider della nostra letteratura, “un fuori misura” che stava “al mondo come per sbaglio”, “l’ultimo bohémien possibile”, come l’aveva definito Giovanni Arpino. Reso famoso dal romanzo La vita agra del 1962 (da cui Carlo Lizzani trasse un film con Ugo Tognazzi), Bianciardi era comunista e irriducibilmente ostile all’establishment culturale italiano che per tutta la vita cercò di ingabbiarlo, ammorbidendone carattere e ideologia. Nato a Grosseto nel 1922, morì non ancora cinquantenne, entrato “in una spirale autodistruttiva”, fatta di alcol, fumo e depressione. Era stato giornalista, straordinario traduttore dall’inglese e ottimo romanziere, nutrendo due grandi passioni: il calcio e il Risorgimento.

Il suo amore per questo periodo storico, iniziato già durante l’infanzia, trovò espressione in ben cinque libri, a partire dal 1960, fino all’ultimo dedicato all’eroe dei due mondi, uscito postumo nel 1972.
Garibaldi ripercorre la vita dell’unico grande condottiero rivoluzionario che ha avuto il nostro paese, a partire dalla nascita avvenuta il 4 luglio 1807 a Nizza, per ironia della sorte città passata alla Francia napoleonica qualche anno prima, poi tornata al Piemonte nel 1815, e definitivamente ceduta oltralpe nel 1859.

Ligure, soprattutto, ma anche francese e in seguito sudamericano, Giuseppe detto Peppino “veniva su dritto e robusto, non grande di statura ma con un bel portamento della testa bionda, della fronte ampia, della bocca facile al sorriso”. Generoso ed entusiasta di tutto, appassionato del mare, si imbarcò quindicenne come mozzo sul brigantino Costanza, dedicandosi da allora in poi alla vita marinara e al disegno insurrezionale di liberare l’Italia dal dominio straniero, trascinato dalla lettura di Saint-Simon e dei proclami mazziniani. Negli anni ’30, quando moti indipendentisti scuotevano tutta la nostra penisola, Garibaldi alimentava il suo anelito libertario: “dovunque vi siano tiranni, l’uomo giusto ha il dovere di accorrere e di battersi per la libertà dei popoli. Non basta amare il proprio paese e difenderne la libertà, occorre far sì che tutti i popoli si tolgano di dosso le catene”.
Condannato a morte in contumacia come cospiratore, riparato a Marsiglia e poi marinaio con tunisini e turchi, nel 1836 si imbarcò per Rio de Janeiro, dove venne accolto con entusiasmo dagli esuli italiani, si mise al servizio di ogni causa rivoluzionaria, a capo di ribelli, rivoltosi e pirati, dando inizio alla leggenda di coraggio e insubordinazione che lo accompagnò per tutta la vita.

Bianciardi racconta l’incontro con la diciottenne Anita, suo grande amore, moglie e madre dei suoi quattro figli, il ritorno in Italia nel ’48 (anno incendiario in tutta Europa) su una nave dal nome augurale, Speranza, il suo mettersi al servizio di principi, re, governi provvisori, a capo di un piccolo esercito di volontari straccioni, braccato dagli austriaci e sempre scampato all’arresto. Piemonte, Lombardia, Toscana, Roma eterna e papalina, Romagna, e qui la morte di stenti di Anita, la sua sepoltura “sconsacrata e frettolosa”.  Di nuovo in fuga, protetto ovunque da una rete di solidarietà popolare, fuggiasco a Tunisi, a Tangeri, a New York, a Panama, a Lima, a Canton, infine tornato in Europa nel 1854, dove ad aspettarlo c’era il re del Piemonte Vittorio Emanuele II con il suo Primo Ministro Cavour.

Il resto è storia, da tutti conosciuta e riportata in ogni libro scolastico: Quarto, Palermo, il notissimo “Obbedisco”, Mentana, Digione, fino al tramonto a Caprera. Tra la solitudine e l’inazione nell’isola sarda e l’elezione a deputato in Parlamento nel ’75, mentre intorno a lui morivano Mazzini, Manzoni, Vittorio Emanuele, Garibaldi malato ma circondato dall’amore dei figli e della terza moglie  Francesca Armosino, dettava il suo testamento, ferocemente anticlericale e fieramente repubblicano, e lasciava la terra il 2 giugno 1882, sepolto a Caprera alla presenza di quattromila persone: ministri italiani e stranieri, vecchi garibaldini, commossi estimatori di tutti i ceti sociali.

Nella postfazione al volume, Giancarlo De Cataldo giustamente sottolinea come da un “anarchico, ribaldo… al culmine di una vita urlata, di un’esistenza ‘contro’” come Luciano Bianciardi, ci si potesse aspettare una demitizzazione, una desacralizzazione della figura di Garibaldi, e non invece un così dichiarato amore, una tale rispettosa fedeltà, da “tifoso accanito”. In realtà, nell’esaltazione del grande combattente rivoluzionario – su cui in anni a noi più vicini era calato il velo dell’indifferenza e di una esibita antiretorica -, lo scrittore toscano aveva ancora una volta messo in luce il suo anticonformismo: “Credere in quella stagione eroica e nella sua persistenza nel tempo è l’atto di fede di un laico che, per quanto disincantato, ha individuato una bandiera nella quale riconoscersi e si ostina a sventolarla ad onta del generale scetticismo”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net             27 SETTEMBRE 2023

RECENSIONI

EPICOCO

LUIGI EPICOCO, PER CUSTODIRE IL FUOCO. VADEMECUM DOPO L’APOCALISSE

EINAUDI, TORINO 2023

 

L’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca, 12 49, “Sono venuto ad appiccare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!”, bene riassume l’appassionata sollecitazione che Luigi Epicoco suggerisce nel suo saggio einaudiano Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’Apocalisse. All’umanità di oggi manca il fuoco, che erroneamente si è sempre accostato all’immagine dell’inferno, mentre l’incandescenza, l’ardore, la luminosità della fiamma sono simboli di vita, di slancio, di passione, laddove invece è il ghiaccio che meglio rappresenta l’isterilimento di qualsiasi desiderio, l’assenza di energia, la mortificazione di ogni aspettativa.

Custodire il fuoco, non permettere che si spenga, alimentarlo, cercando nel buio una luce, nel gelo la scintilla del calore. È Dio la risposta che Epicoco (presbitero, teologo, docente alla Pontificia Università Lateranense) propone a donne e uomini disorientati, avviliti, arresi, per ritrovare entusiasmo e voglia di vivere? Forse la fede e la religione non sono l’unica via d’uscita da uno stato di precarietà e incompletezza. Il “Senso” come altro nome di Dio, l’innamoramento, la trasformazione di sé, uno scopo da raggiungere, un’esperienza capace di esprimersi in parola: tutto ciò potrebbe indurre a un cambiamento positivo. Non la preghiera consolatoria ma la ricerca inquieta, non una metafisica da indagare astrattamente, ma un Padre concreto e paradossale, che abita la terra e non il cielo, “un Dio infinito nel finito della storia. Il tutto che si riversa nel frammento. L’eterno che entra nel tempo”, nella contingenza che stiamo vivendo, qui e ora.

Si tratta essenzialmente di un capovolgimento di prospettiva, quello che l’autore di questo saggio – forse più filosofico che teologico – propone, servendosi come linea guida del romanzo La strada di Cormac McCarthy, commentato con adesione attenta e partecipe, nell’utilizzo di frequenti e illuminanti citazioni. Al testo di McCarthy si alternano pagine evangeliche, in supporto e conferma: il tradimento di Pietro narrato da Matteo, i morti resuscitati in Giovanni, Marco, Luca, e Maria Maddalena davanti al sepolcro vuoto. Ma è La strada il riferimento più importante scelto da Luigi Epicoco per illustrare la sua tesi. Il romanzo racconta il viaggio che un padre e il suo bambino intraprendono per scampare alla fine del mondo, dopo un evento apocalittico di cui non si sa nulla, trascinandosi a piedi attraverso un paesaggio disabitato, impauriti e affamati, testimoni di orrori e crudeltà, vittime del male ed essi stessi costretti a fare il male per difendersi dagli altri pochi superstiti, diventati minacciosi nemici:

“I giorni si trascinavano uno dopo l’altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L’uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L’uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l’uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione”.

Nel suo grigio abbandono, il futuro impensabile magistralmente narrato da McCarthy diventa per Luigi Episcopo espressione della mancanza di prospettive patita dall’uomo contemporaneo, nel proprio mondo interiore desertificato: può essere riscattata unicamente da un bambino “radioso come un tabernacolo”, che continuerà a vivere proiettandosi nel domani, unica possibilità di salvezza e redenzione.

Le vie di fuga cercate dagli adulti sono modi “per addomesticare la disperazione”: il materialismo, l’individualismo, la famiglia, la carriera, persino la ritualità religiosa si rivelano alibi vuoti, finalità illusorie. Solo l’attraversamento dell’inferno quotidiano e il suo superamento può permettere la riscoperta del desiderio, e condurre alla felicità. “Quando siamo infelici possiamo essere manovrati dagli altri, dal sistema, dalla cultura dominante, dalle ideologie, dalla dittatura delle cose. Le persone felici sono insopportabili perché non sono manovrabili. Sono radicalmente libere, e la radice della loro libertà risiede appunto nel fuoco dei loro desideri… Non si può essere felici mantenendo contenti gli altri. A un certo punto bisogna trovare il coraggio di deludere perché si ha diritto a diventare se stessi, a essere difformi dal resto del mondo… Ecco allora la sequenza del fuoco: desiderare la felicità; a partire da questo desiderio coltivare una passione. La passione può generare conflitto; ma essa va difesa e alimentata perché è lì il fuoco”.

 

© Riproduzione riservata              «La Poesia e lo Spirito», 25 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

BORGNA

EUGENIO BORGNA E LA POESIA

Eugenio Borgna (Borgomanero 1930), già libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano e Primario emerito dell’ospedale psichiatrico di Novara, è tra i principali esponenti della psichiatria fenomenologica, che sposta il suo oggetto di analisi dalla malattia al paziente. Sostenitore di una “psichiatria dell’interiorità” in grado di ricostruire la dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico, indagata attraversando letteratura, filosofia e arte, ha compiuto studi approfonditi sulla depressione e la schizofrenia, come dimostrano numerosi saggi scientifici e pubblicazioni divulgative. Fra i titoli della sua ricca produzione vanno citati: Malinconia (1992); Le figure dell’ansia (1997); Noi siamo un colloquio (1999); L’arcipelago delle emozioni (2001); Le intermittenze del cuore (2003); L’attesa e la speranza (2005); La solitudine dell’anima (2011); La fragilità che è in noi (2014); L’agonia della psichiatria (2022); Sull’amicizia (2022); Mitezza (2023).

Professore, in tutti i suoi libri sulla psichiatria e la psicanalisi, pubblicati soprattutto da Einaudi e Feltrinelli, si è soffermato spesso sull’importanza della poesia come strumento di conoscenza e riflessione interiore. Quali altri meriti attribuisce alla scrittura in versi?

Il leitmotiv dei miei libri, di quelli divulgativi in particolare, che sono i più letti, è sempre stato animato dalla poesia come strumento di conoscenza e di riflessione interiore. Non saprei riassumere meglio le premesse tematiche di questi miei libri che sgorgano, o almeno vorrebbero sgorgare, dalla interiorità. Lo ha scritto Sant’Agostino nelle Confessioni: “in interiore homine habitat veritas”, e in questo cammino la poesia ha una importanza radicale.

 

Quando ha iniziato a leggere con continuità i poeti, e con quali differenti rifrazioni sentimentali, nelle diverse età della vita che ha attraversato?

Ho incominciato a leggere poesia nella mia prima adolescenza. Mio padre, che era avvocato, ritornando da Milano, portava in casa una infinità di libri di letteratura e di filosofia, non solo ovviamente italiani, ma anche francesi e tedeschi. La casa sommersa di libri, e così c’è sempre stata una continuità dalla adolescenza alla età avanzata. Così, ad esempio, ho continuato a leggere dall’adolescenza i versi di Giacomo Leopardi e quelle di Antonia Pozzi, e le Confessioni di Sant’Agostino. Sono state stelle del mattino che non si sono mai spente.

 

Nel valutare la resa poetica di una composizione, viene più colpito dalle immagini, dalla musicalità o dal messaggio trasmesso?

Nel rivivere e nel ricreare uno stato d’animo lirico sono stato abitualmente affascinato dalle immagini più ancora che non dal messaggio trasmesso, o dalla sua musicalità.

I poeti che cita maggiormente nei suoi testi sono Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Antonia Pozzi. Quali altri nomi le sono particolarmente affini? Trova una differenza di intensità espressiva tra le voci femminili e maschili?

Alla voce poetica di Emily Dickinson, di Rainer Maria Rilke e di Antonia Pozzi si è sempre aggiunta quella suprema di Giacomo Leopardi, quella dei crepuscolari, di Sergio Corazzini e di Guido Gozzano, e non solo ma anche quella di Giovanni Pascoli e di Giuseppe Ungaretti. Ho sempre letto con passione le poesie di Nelly Sachs e di Georg Trakl, non molto conosciuto e conosciuta, quelle dei poeti romantici, come Clemens Brentano. Direi di non trovare differenze di intensità espressiva nelle voci poetiche femminili e maschili, sì, le une diverse dalle altre, ma non diverse nel fascino e nella magia, che si ridestano nel cuore.

 

Legge poesia contemporanea italiana? Che giudizio ne dà?

Non leggo, non ne ho avuta l’occasione, poesie italiane contemporanee,

Recentemente, in un’intervista sul Corriere della Sera, ha postulato una contiguità tra poesia e follia. Nel senso di un’intrinseca originalità della voce poetica, di una sua estraneità alla concretezza dell’esistenza, o di una particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica?

Le sue domande sul tema della contiguità fra poesia e follia sono originali e profonde, e quello che avvicina l’una all’altra, è la particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica.

 

È mai stato tentato dal desiderio di cimentarsi in prima persona con la scrittura in versi? Pensa che il suo stile sarebbe più vicino al crepuscolarismo, all’ermetismo, al surrealismo o al quotidiano prosastico in voga oggi?

Non ho mai avuto il desiderio di dare voce ad una poesia personale, che sarebbe stata, direi, quella crepuscolare. Non ne avrei avute in ogni caso le attitudini.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 settembre 2023