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RECENSIONI

DI CERA

VALTER DI CERA, L’INFILTRATO DI DIO – TAU, TODI 2023

“Valter Di Cera rappresenta un incrocio fra un uomo e un film che ha cambiato la storia italiana”: così si apre la prefazione di Angelo Picariello al volume di Valter Di Cera pubblicato dalla casa editrice Tau, L’infiltrato di Dio. Dalle Brigate Rosse alla conversione. La storia di uno straordinario viaggio di fede. Una vicenda personale che si fa collettiva, politica, religiosa nel giro di anni cruciali, per l’Italia e ovviamente per chi l’ha vissuta, coinvolgendo in essa complici, vittime, oppressori e redentori che utilizzano armi da fuoco e armi di parole, minacce e preghiere, proclami di guerra e annunci di pace.

La narrazione in prima persona parte da un luogo e una data precisa: Roma, Via Metronia, 24 settembre 1979, prime ore del pomeriggio. Valter si trova a fiancheggiare in un’azione operativa l’allora capo riconosciuto delle Brigate Rosse, Prospero Gallinari, e così racconta la sua esperienza: “Dovevamo sostituire una targa a un’auto del parco auto delle Brigate Rosse, precedentemente destinata ad essere trasferita in Sardegna per l’assalto al carcere di massima sicurezza dell’Asinara per fare evadere tutti militanti storici delle BR (tra i quali Renato Curcio e Alberto Franceschini) o in subordine per un assalto all’interno del Ministero dei Trasporti a Roma”. All’arrivo di una volante della polizia, Valter si rifiuta di aprire il fuoco contro gli agenti, allontanandosi dal conflitto armato e permettendo in tal modo l’arresto di Gallinari: “avvertivo la grazia di aver deciso in libertà da che parte stare. Tra il bene e il male avevo detto di NO al male”.

Da questo incipit vibrante di tensione e drammaticità, parte una ricostruzione degli anni di piombo, dal 1968 al 1974, e delle motivazioni che avevano indotto l’autore ad aderire giovanissimo alla lotta armata, conducendolo poi lentamente a una presa di coscienza più responsabile e a un impegno fattivo di contrasto al terrorismo.

Il racconto si snoda a partire dall’infanzia, trascorsa serenamente in una famiglia piccolo-borghese nel quartiere popolare di Centocelle, con la frequentazione della parrocchia, e poi il confronto adolescenziale con una realtà sociale e politica tormentata, tra lotte studentesche e operaie, stragi fasciste, omicidi e gambizzazioni da parte delle prime cellule terroristiche, che Valter – nato nel 1958 -, aveva vissuto con sgomento, fino all’adesione liceale a Comunione e Liberazione, sostenuta anche da un ambiente domestico profondamente religioso. L’impegno nelle attività caritative in favore dei sottoproletari e degli indigenti della zona acuisce la sua sensibilità nei confronti di tutte le discriminazioni sociali: “una sensazione di ingiustizia mi si appiccicò addosso pesando come un macigno, la stessa ogni volta che venivo a contatto con realtà simili”. Proprio questa ricettività verso le sofferenze degli strati più poveri della popolazione negli ultimi anni del liceo avvicina l’autore – sia ideologicamente sia nella pratica – ai partiti di sinistra, dapprima a quelli riformisti, quindi ai gruppi extra-parlamentari.

Contattato da alcuni estremisti, il giovane diviene vittima di un meccanismo di cooptazione e reclutamento basato su tecniche manipolatorie, attraverso un processo di depersonalizzazione che utilizza “pochi e ripetitivi concetti fissi, slogan e parole d’ordine stereotipate”. Dopo alcune azioni di appoggio, sempre meno condivise e talvolta addirittura boicottate, il battesimo di fuoco del settembre 1979, finito con la cattura di Gallinari, rendono Valter sospetto agli occhi dei dirigenti brigatisti, che iniziano a escluderlo dall’operatività attiva. L’accusa di essere un infiltrato delle forze dell’ordine all’interno delle BR avrebbe dovuto concludersi in una condanna a morte, se non fosse opportunamente intervenuto il reclutamento nella Divisione Folgore, al confine estremo del Friuli.

Nella narrazione dell’autore, questo è il secondo appuntamento che il destino (o un provvidenziale intervento soprannaturale) gli preserva per condurlo alla svolta esistenziale del 1982, dopo due anni di servizio militare con i gradi di caporale, in cui medita consapevolmente di mettersi a disposizione dello Stato per combattere il terrorismo e far uscire l’Italia dalla drammatica emergenza degli anni di piombo. Quando viene arrestato e trasferito al Reparto Operativo dei Carabinieri nel centro di Roma in qualità di reo confesso, interrogato dal Maggiore Mario Mori e dal Capitano Domenico Di Petrillo, dichiara subito la sua decisione di collaborare con le forze dell’ordine e con i servizi di intelligence nell’antiterrorismo. Valter Di Cera cita, con grande rispetto e stima per il loro operato, i nomi notissimi dei magistrati che avevano raccolto le sue testimonianze: il Pubblico Ministero Domenico Sica, i giudici Rosario Priore, Achille Gallucci, Ferdinando Imposimato, Severino Santiapichi.

Da quella data fino al 2014, Valter continua ad avere un ruolo di primo piano come consulente operativo sia nel R.O.S. dei Carabinieri sia all’interno degli Apparati della Presidenza del Consiglio dei Ministri, offrendo una serie di informazioni di prima mano che portano all’arresto di una quarantina di militanti e fiancheggiatori brigatisti, e alla scoperta di diverse basi e depositi di armi da guerra. Con il nome di battaglia di Messico, pur rimanendo detenuto, viene reclutato dalla sezione Anticrimine dei Carabinieri per partecipare alle attività di indagine, pedinamento e cattura dei latitanti, con l’ulteriore obiettivo di prosciugare il bacino di reclutamento di massa delle BR.

Il romanzo autobiografico di Valter Di Cera prosegue narrando dettagliatamente la sua partecipazione agli scontri armati che condussero allo smantellamento definitivo del terrorismo nel 1990, con inquadrature veloci e mozzafiato di episodi cruenti e rischiosi, appostamenti, sparatorie, perquisizioni e arresti, come nei più incalzanti film d’azione. Si sofferma poi sulla conversione del protagonista, incoraggiata da figure religiose straordinarie, che per sottrarlo alle minacce di morte delle Br, lo nascondono in un convento. Con la ripresa degli studi universitari e il suo avvicinamento al Movimento dei Focolari grazie all’aiuto fraterno della co-fondatrice Graziella De Luca, il difficile itinerario esistenziale dell’autore approda a una nuova e consapevole vita civile da uomo libero, finalmente in grado di costruire un futuro di pace per sé e per gli altri.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net   19 settembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CARROLL

LEWIS CARROLL, CONTRO LA VIVISEZIONE – ELLIOT, ROMA 2014

Di Lewis Carroll (1832-1898), scrittore, matematico, fotografo e logico britannico, tutti conoscono i due romanzi dedicati ad Alice, se non per lettura diretta, perlomeno per averne visto la trasposizione cinematografica. Ma questo suo testo pubblicato da Elliot costituisce una sorta di rarità editoriale, poco noto nella radicalità delle tesi espresse e nella vivacità di scrittura.

Contro la vivisezione è un pamphlet pubblicato in rivista nel 1875, accolto con interesse e polemiche proprio perché nello stesso anno erano stati presentati due progetti di legge (di cui uno firmato anche da Charles Darwin) per regolamentare la sperimentazione sugli animali, in quegli anni praticata e difesa culturalmente negli ambienti medici e scientifici di tutta Europa.

In Inghilterra la diffusa sensibilità popolare nei confronti del mondo animale aveva trovato espressione in una legge del 1822 che puniva i maltrattamenti nei confronti di cavalli, asini, buoi utilizzati per motivi di lavoro. Al 1824 risale poi la fondazione della prima Società per la protezione degli animali.

Il saggio di Lewis, teso a confutare le falsità dei sostenitori della vivisezione, e a incoraggiare un più stretto controllo sociale della medicina, investiva essenzialmente il rapporto tra scienza ed etica, interrogando i lettori sulla responsabilità dell’uomo nel suo rapporto quotidiano con l’ambiente naturale e chi lo abita.

Senza arrivare al fanatismo di chi ritiene che uccidere un animale sia sempre e comunque un delitto (dovrebbe valere anche per gli insetti!), Carroll non condanna l’umanità che si nutre di carne o pesce, né dimostra di essere uno strenuo difensore del vegetarianismo, ma si indigna davanti a chi provoca l’inutile sofferenza di qualsiasi essere vivente. Confuta quindi come prive di senso le argomentazioni dei difensori della vivisezione per ragioni scientifiche, accampando ad esempio la superiorità del genere umano rispetto a quello animale, e il diritto a difendere l’umanità dal dolore e dalle malattie, presupponendo che “la sofferenza umana e quella animale siano diverse ‘per natura’”. Nemmeno gli sport venatori, come caccia e pesca, procurano tanto dolore quanto la vivisezione, in quanto in genere producono nelle vittime una morte subitanea.

Inoltre la vivisezione crea in chi la pratica una sorta di assuefazione morale e di imperturbabilità, annullando il sentimento di compassione nei confronti delle cavie: “la tortura, quando il primo istinto di orrore viene attenuato dall’abitudine, diventa, innanzitutto, indifferenza; poi interesse morboso; in seguito, vero e proprio piacere, infine una gioia feroce e terribile”.

Il degrado etico che Carroll teme nell’acutizzarsi e diffondersi della tecnica eccedente ed evitabile  della vivisezione potrebbe addirittura estendersi a esperimenti sugli esseri umani, con la possibilità “che un giorno l’anatomia reclami per sé , come soggetti leciti per la sperimentazione, dapprima i criminali condannati, poi i pazienti nei sanatori per malattie incurabili, quindi gli infermi di mente senza speranza, i ricoverati negli ospedali per i poveri e, in genere, ‘chiunque sia senza soccorso’”.

L’appello appassionato di Lewis Carroll risale a centocinquant’anni fa. È assurdamente allarmistico lo scenario distopico che prospetta? “Quel giorno avremmo costruito un nuovo e più tremendo Frankenstein, un mostro senz’anima fatto solo di scienza”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        16 settembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

ARREOLA

JUAN JOSÉ ARREOLA, BESTIARIO – SUR, ROMA 2015

Un celebre e celebrato libriccino di Juan José Arreola edito in spagnolo nel 1963, è stato tradotto dalle edizioni SUR nel 2015, con la postfazione di José Emilio Pacheco, che da ragazzo si era incaricato della sua trascrizione sotto l’estemporanea dettatura dell’autore. Per una settimana, il giovane si era dedicato a registrare l’inarrestabile flusso di parole e immagini scaturito dalle labbra di uno degli scrittori messicani più influenti del ’900, “come se stesse leggendo un testo invisibile”. Con umiltà, Pacheco ha sempre affermato che l’essere ricordato negli annali letterari del suo paese come “l’amanuense di Arreola”, era stato per lui fonte di sincero e legittimo orgoglio. Da quegli incontri vivacemente improvvisati, era nato il testo di Bestiario, raccolta di microracconti, di bozzetti fulminanti, sarcastici, surreali, dedicati al mondo animale nelle sue analogie con i caratteri umani.

Juan José Arreola (1918-2001) oltre che poeta e romanziere era stato giornalista, editore, e aveva praticato numerosi e umili lavori: facchino e venditore ambulante, tipografo e panettiere, contabile e teatrante, arricchendo di molteplici e mai banali esperienze la sua visione consapevolmente amara dell’esistenza. Di tale caustica e consapevole disillusione riguardo alla natura di uomini e bestie sono intrisi tutti i brevi ritratti raccolti nel libro, e già se ne avverte una traccia nel Prologo, ferocemente caustico: “Ama il prossimo tuo malandato e spregevole. Ama il prossimo maleodorante, coperto di miseria e venato di luridume… Ama il prossimo suino e gallinaceo, che trotta festoso verso i crassi paradisi del possesso animale… E ama la prossima che… con un pigiama da vacca comincia a ruminare senza fine il pastoso bolo alimentare del tran tran domestico”.

Gli animali rappresentati non hanno mai niente di mansueto e domestico: con una prevalenza di presenze selvatiche, rapaci, infide, sono descritti sia come esemplari nella loro unicità, sia nella classe di appartenenza: felini, insettiadi, camelidi, cervidi, acquatici…

Di tutti loro viene sottolineata l’origine ancestrale, di gran lunga precedente all’apparizione dei primi ominidi. “Già molti millenni prima (quanti?), le scimmie decisero il loro destino opponendosi alla tentazione di essere uomini. Non caddero nel progetto della ragione e pertanto sono ancora in paradiso: caricaturali, oscene e libere a modo loro”, “L’elefante arriva dal fondo delle ere ed è l’ultimo modello terrestre di macchina pesante”,

Le similitudini con gli esseri umani sono inusuali e divertenti: “Tutti, falconi, aquile o avvoltoi, ripassano come frati silenziosi il loro noioso libro d’ore”, “Il gran rinoceronte si blocca… investe come un ariete… accecato e inferocito, con l’impeto irremovibile di un filosofo positivista”, “Apparteniamo a una triste specie di insetti, dominata dall’impero delle femmine, vigorose, sanguinarie e tragicamente rare. Per ognuna di queste ci sono venti maschi deboli e sofferenti. Viviamo in fuga costante”, “Il latrato spasmodico della iena è un modello esemplare della risata notturna che sconvolge il manicomio”, “L’ippopotamo si annoia enormemente e si addormenta sulla riva della sua pozzanghera, come un ubriaco accanto al bicchiere vuoto, avvolto nel suo mantello colossale”, “Ho ascoltato le grida di giubilo delle foche, le loro risate procaci, le loso false invocazioni da naufraghi”.

Forse un po’ di affettuosa simpatia è riservata da Arreola solamente “alla cordiale misura dell’orso che balla e monta in bicicletta, e che a volte può esagerare e triturarci con un abbraccio. Con lui è sempre possibile intavolare un’amicizia, mantenendo le distanze, e sempre se non abbiamo un’arnia in mano… Per quanto siano adulti e atletici, conservano qualcosa del bambino…”.

In questo zoo letterario, ritroviamo quotidianità ed estraneità del nostro vivere di donne e uomini, erotismo e crudeltà, tradimenti e avidità, “come in uno specchio depressivo” ci riconosciamo anche noi della stessa razza animale.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 15 settembre 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KAPLLANI

GAZMEND KAPLLANI, LA STRADA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Il secondo romanzo pubblicato da Gazmend Kapllani con l’editore Del Vecchio, dopo Breve diario di frontiera del 2015, si intitola La strada sbagliata. Kapllani è uno degli scrittori albanesi di maggiore spessore internazionale: nato a Lushnje nel 1967, esiliato in Grecia nel 1991, oggi è docente universitario a Boston, e si occupa di razzismo, nazionalismi, sistemi totalitari, persecuzioni etniche, migrazioni, censure culturali e linguistiche.

Il protagonista de La strada sbagliata si chiama Karl, e torna nella città natale di Ters, in Albania, ventisette anni dopo averla lasciata. Torna per partecipare al funerale del padre, e trova il suo paese ancora più desolato e imbruttito di quando l’aveva lasciato, deturpato dalla cementificazione e dagli abusi edilizi favoriti dai governi succeduti alla caduta del comunismo. Nella piazza centrale osserva spaesato e senza alcuna simpatia i suoi concittadini: “Davanti a quei volti familiari ed estranei, agli edifici deformati della città nuova e alla città vecchia sulla collina che pareva immutata da sempre, Karl si sentiva in una terra di mezzo: straniero nella propria città, nativo in una città straniera”. Questa estraneità, non appartenenza, crisi identitaria accompagnerà il protagonista del racconto, alter ego dell’autore, nello svolgersi di tutta la narrazione, insieme al dualismo che ne investe ogni aspetto: nella struttura a due voci, distinte anche graficamente tra tondo e corsivo, nel contrapporsi di vita e morte, presente e passato, tradizione e novità, inquietudine e immobilismo. Una duplicità rappresentata soprattutto dal confronto-scontro con la figura del fratello Frederik, rimasto in patria, arroccato a un’ideologia obsoleta e a pregiudizi morali, ferito costantemente dal senso di inferiorità nei confronti di Karl, superiore a lui in età, in esperienza, cultura: “Karl aveva vissuto sotto cieli eterogenei, aveva parlato e scritto in lingue differenti, aveva amato donne di nazionalità diverse. Frederik aveva vissuto nella stessa città dove era nato, nello stesso palazzo, allo stesso piano, nella stessa casa, realizzando così quell’ideale paterno legato alla continuità delle generazioni, senza fratture, che secondo lui costituiva l’unica possibilità per diventare un uomo felice e di sani principi”. I due fratelli, che il padre insegnante comunista e convinto sostenitore del regime di Enver Hoxha aveva voluto chiamare con i nomi di Marx ed Engels, non riescono a rompere la barriera che li separa ideologicamente e affettivamente nemmeno davanti alla bara del genitore.

Karl ripercorre le vicende che l’hanno condotto a emigrare, prima in Grecia, poi in America, a partire dalla laurea discussa all’università di Tirana nel febbraio del 1991, quando la ribellione contro il governo aveva incendiato la città, negli scontri tra polizia e studenti in cui si era trovato coinvolto. La decisione successiva di procurarsi un visto falso per superare la frontiera lo aveva accomunato alla scelta di moltissimi altri albanesi, che da quell’anno decisero di espatriare in massa: “Dopo mezzo secolo di completo isolamento dal mondo, in tanti si affrettavano a lasciare il paese, come prigionieri in fuga dalle carceri o colpevoli che scappano dalla scena del crimine”. L’incontro con una donna greca più anziana di lui, Clio, la loro convivenza durata quasi vent’anni aveva fatto di Karl un uomo nuovo: “Bello, giovane, potente e fragile allo stesso tempo, desideroso di correre verso il futuro, per trovare una nuova patria, un nuovo io”. Diventato presto ad Atene un “immigrato integrato con successo”, pur continuando a lavorare come receptionist in un lussuoso hotel del centro di Atene, Karl aveva iniziato a pubblicare saggi e volumi sulla questione dell’emigrazione albanese, firmando sul suo blog una serie di denunce contro il razzismo che ben presto gli avevano attirato odio e minacce da parte dell’opinione pubblica più retriva e dei nazionalisti di Alba Dorata. Abbandonata Clio, si era concesso una serie di avventure erotiche effimere, roso da un’inquietudine che presto lo condusse a lasciare l’Europa per iniziare un’esistenza più libera, accanto a una nuova compagna, negli Stati Uniti.

Il quarto e ultimo complesso capitolo del romanzo di Kapllani sembra voler riassumere gli spunti narrativi e le riflessioni sparse nelle pagine precedenti, recuperando la descrizione delle giornate trascorse a Ters dal protagonista. Alle considerazioni di Karl sulla natura e la storia della sua città natale e sui mutamenti verificatisi nei costumi e nel linguaggio degli abitanti, fanno da contraltare i severi giudizi di Frederik sulla corruzione derivata dall’offuscamento dei valori tradizionali: “Capita che Ters soffochi, irriti e spaventi… la salvezza è il ritorno all’identità forte e al nazionalismo. Il nazionalismo non è odio per gli altri, è amore per te stesso, per la tua lingua, per la tua nazione, per le tue radici, per la tua razza. Il nazionalismo è disciplina, gerarchia, ordine, purezza, rispetto della natura umana. È il fuoco che purificherà e porterà a sé questo mondo che sta uscendo di senno…”.

Il dissidio tra i due uomini si concretizzerà intorno alla partecipazione ai funerali di una ragazza incinta uccisa dal suo amante, ricco uomo d’affari, stimato e temuto nella comunità: in Karl prevale pietà e comprensione, nel fratello, arroccato nei pregiudizi della maggioranza silenziosa, condanna e riprovazione.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            9 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GAZMEND KAPLLANI, LA TERRA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023, p. 182

Trad. di Ermal Rrena e Rossella Monaco

INTERVISTE

MATTEI

SEI DOMANDE A PIERA MATTEI

Piera Mattei è nata e vive a Roma. Dopo gli studi di filosofia ha lavorato nell’ambito del giornalismo culturale e dello spettacolo, pubblicista per diverse testate, tra le quali, del quotidiano romano Paese sera. È stata autrice e realizzatrice di spettacoli teatrali, ha pubblicato volumi di

racconti e di poesie, saggi, recensioni, traduzioni e curatele. Suoi testi, tradotti in diverse lingue, sono presenti in antologie e riviste italiane e straniere. Ha vissuto per lunghi periodi negli Stati Uniti, in Giappone, a Parigi. Nel 2010 ha fondato a Roma le edizioni Gattomerlino, e alcuni anni dopo ha aperto uno Spazio per le presentazioni e anche incontri di arte e musica, nella stessa città, in Borgo Vittorio 95.

 

Quando, e incoraggiata da quali ambienti familiari e culturali, è iniziata la sua passione per i libri,
letti e scritti? 
Per la risposta a questa domanda, che intende riportarmi indietro nel tempo, premetto pochi versi tratti dalla mia poesia “Il volto-le mani”: non amo i ricordi – i racconti sul filo dei ricordi/ ma le immagini che giungono dal passato/ quelle sì- le afferro/in queste brevi mani le tengo strette (in “L’equazione e la nuvola”, Manni 2004).
Vorrei dire con questo che non si può mai essere certi che quanto appare come ricordo non corrisponda invece a immagini, a miti sedimentati nella nostra mente, addirittura creati dalla mente. Per questo motivo parlerò qui degli anni della crescita e della formazione in terza persona. Quella bambina che porta il mio stesso nome, che vedo dentro di me e guardo con meraviglia e rispetto, è legata, fin dai suoi esordi nel mondo, alla poesia. È una bambina che recita, prima ancora d’imparare a leggere, e non ricordo che qualcuno l’abbia spinta a farlo o glielo abbia insegnato. L’amore per la parola, la memoria delle parole che risuonano, la lettura e la scrittura, nascono in lei come fatto spontaneo, per il quale riceve naturale riconoscimento. Questo esordio forse però negli anni potrebbe averla portata a una certa chiusura, a sentirsi già pronta, a rifiutarsi al confronto, a non avvertire il bisogno di dover mostrare, e dimostrare.

Tra i poeti e i narratori, italiani e stranieri, quali ha sentito e sente più vicini? A chi in particolare ritiene di dover esprimere riconoscenza per il ruolo formativo e di stimolo della sua sensibilità
letteraria?
Si chiede del ruolo formativo, quindi non si farà riferimento agli scrittori e ai poeti che pure ha frequentato come conoscenti e amici nella sua piena giovinezza e anche dopo. Scriviamo qui delle letture dell’adolescenza, che sono i grandi romanzi russi, i racconti di Kafka e anche la poesia, Thomas Hardy, le Bronte e Dickinson. Studia appassionatamente i classici (a dieci anni, durante la pausa di un “trasferimento” impara a memoria il primo canto del Paradiso) ma l’attraggono anche i manuali di medicina e gli atlanti, la biografia di Marie Curie che scopre in casa. Una “casa” che è sempre un appartamento diverso, i suoi spazi sempre diversi, ogni volta che torna dal collegio.  Al liceo incontra, e studia poi appassionatamente, Catullo, Ovidio, Lucrezio e i lirici greci. Meno la interessano i contemporanei, preferisce Caproni a Montale.  Ama il latino e la riflessione filosofica. Ma cerca anche nei libri di scienza risposte alle sue domande, senza però arrivare a comprendere, ad afferrare bene, i concetti scientifici.  In tutte le poesie che scriverà, o in quasi tutte, sarà presente la domanda circa l’Esistere fisicamente, lo Spazio, il Movimento. L’ambiente scientifico diventa presto anche il suo ambiente, dopo l’incontro con un fisico che diventa suo marito e il padre, con lei madre, di una figlia che, allevata da lei amorosamente nel
ulto della letteratura e dell’arte, si realizza infine come brillante scienziata. A loro soprattutto, ai “miei” scienziati, per la possibilità che quotidianamente mi concedono di accedere al loro mondo, la mia gratitudine.

Quando ha deciso di fondare la sua casa editrice, e spinta da quali motivazioni? Il suo impegno editoriale ha limitato, influenzato o addirittura spronato la sua scrittura personale? 
Nei miei viaggi e residenze in altri paesi ho sempre cercato nelle librerie, ma anche con incontri diretti, di conoscere autori contemporanei, soprattutto poeti. Tornavo con il mio carico e lo proponevo in particolare alla rivista alla quale ho collaborato per lunghi anni, la “pagine”, rivista di
poesia internazionale di Vincenzo Anania, personalità certamente molto interessante, ma anche molto risentita, un ex-giudice. Mi concedeva una notevole libertà di proposte e avevamo insieme discorsi importanti, anche da punti di vista talvolta divergenti.  Gli sono grata per avermi
comunque fatto molto spazio in un progetto che, nel complesso, restava suo.  Infine è maturato il desiderio di creare una mia casa editrice, che rispettasse la mia personalità dedita alla letteratura e ai libri, ma lontana dai gruppi e dalle giurie dei premi, libera, anche se solitaria, in un contesto culturale per lo più abitato da scienziati.  In quel periodo moriva il mio gatto Merlino, per quasi due decenni fedele compagno delle mie letture. Così decidevo che la casa editrice, che doveva avere la porte aperte su poesia e scienza, si sarebbe chiamata con il suo nome.  Negli anni la fisionomia delle
edizioni è poi in parte mutata facendo molto spazio alla poesia di giovani esordienti italiani o in lingua italiana.
Infatti l’autore con il quale ho aperto la collana “Quaderni di pagine nuove” è stato un originale pittore edile romeno, che ci lasciava in dono i suoi scritti, stesi a mano anche su carta da parati – in un italiano da emigrato che non usa il dizionario, sua sola lingua della scrittura – ogni
volta che terminava la giornata di lavoro in casa nostra. Devo aggiungere che, tornando senza vera premeditazione al progetto originario di coniugare
poesia e scienza, in questi giorni è in lavorazione “La lavagna luminosa” una mia raccolta di poesie scritte a Erice, presso il centro Ettore Majorana, tra il 3 e il 9 dell’agosto appena trascorso, durante una conferenza scientifica internazionale alla quale sono stata, a mio modo, partecipe.  Intendo diffonderla anche nell’ambiente scientifico, che certo non sdegna la poesia.

In cosa Gattomerlino si differenzia da altre attività editoriali delle stesse dimensioni?  A quali forme espressive presta più attenzione, ritenendole meritevoli di incoraggiamento e curiosità?
A questa domanda credo di aver già risposto dichiarando il mio interesse per la poesia anche di altri paesi, e per la scrittura, sia in prosa che in poesia, dei più giovani. Inoltre cerco di creare rapporti d’amicizia tra gli scrittori Gattomerlino, anche invitandoli insieme agli incontri nello Spazio che abbiamo, a Roma, in Borgo Vittorio 95.

In che misura il suo lavoro si avvale di collaborazioni interne ed esterne, e a quali aspetti crede di
aver dato un’attenzione più originale e innovativa nella creazione del prodotto librario? Editing,
grafica, traduzione, diffusione? 
Curo molto le copertine dei libri. Con il nostro grafico Paolo Alberti scelgo e controllo fino all’ultima bozza. Faccio per i miei autori quello che avrei voluto dagli editori ai quali mi sono rivolta.  Quanto alla distribuzione, le nostre tirature sono necessariamente di modesta entità e il sito credo offra una visibilità adeguata. Del resto capita anche di ritrovarsi in contesti importanti come è stato per il libro “Sacro e urbano” di Isabella Capurso, del quale si è parlato sia in Campidoglio sia a Venezia, nell’ambito del Premio Bookciak, nella giornata degli Autori.

Quali sono i vostri titoli che più hanno riscosso interesse in termini di critica e di vendite, e che obiettivi si propone di raggiungere in questi due ambiti fondamentali riguardanti il successo di un libro?

Vendite mai molte, in verità. Si scrive assai più che non si legga. Infatti ricevo ogni mese  decine di proposte, ma quelle stesse persone non  pensano di acquistare e leggere i nostri libri. Seleziono molto i premi ai quali inviare le pubblicazioni. A volte consegno di persona i libri a chi dovrebbe esserne interessato, e potrebbe scriverne, non sempre con successo.  Tuttavia alcune pubblicazioni hanno suscitato interesse in ambienti particolari: oltre a “Sacro e urbano” appena citato e premiato all’incontro tra letteratura e cinema, metterei ”La mia ombra è un leone danzante“ testi e disegni di Laura Corbu, protagonista in un episodio di malattia mentale; “Caro Omero ti scrivo”, nella collana azzurra dedicata ai ragazzi, testo che raccoglie, per la cura del loro insegnante di epica Giorgio Frontini, le lettere inviate all’autore e ai personaggi dell’Odissea, da parte degli alunni di una seconda media di una scuola romana; infine “Chiralità: la vita è asimmetria?” un libretto composito che comprende la prima traduzione italiana del discorso  di Pasteur, durante una conferenza  sul tema, un articolo scritto dal chimico e scrittore Primo Levi, e il contributo dello scienziato Gianni Jona Lasinio.
A proposito di ambienti particolari, le traduzione in italiano del poeta lettone Juris Kronbergs   sono state lette nella splendida cornice della biblioteca centrale di Riga, sospesa sulla città e il suo fiume Daugava, con grande successo di pubblico e attestazioni d’amore per la sonorità della lingua italiana, mentre le traduzioni italiane dei i poeti estoni Maarja Kangro, Doris Kareva e Kaliju Kruusa, con i quali si è sviluppato un durevole rapporto d’amicizia, sono state lette in più occasioni a Tallinn e a Tartu.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 7 settembre 2023

 

RECENSIONI

TODD

TRACY N. TODD, NINA. LA STORIA DI NINA SIMONE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Le edizioni pugliesi AnimaMundi regalano a noi tutti, anche se con un occhio preferenziale al mondo dei giovani, un bellissimo volume illustrato, dedicato alla cantante afroamericana Nina Simone. Scritto con commozione e lirismo da Tracy N. Todd, editrice e autrice di libri per l’infanzia, e accompagnato dalle tavole vivacemente colorate di Christian Robinson, Nina racconta la vita di una delle più famose interpreti di musica jazz del ’900, inserita al 29° posto nella classifica dei migliori cantanti al mondo dalla rivista Rolling Stones.

Nina Simone, pseudonimo di Eunice Kathleen Waymon, nacque a Tryon, nel North Carolina il 21 febbraio 1933, e morì a Carry-le-Rouet (in Francia dove si era trasferita, lasciando polemicamente gli Stati Uniti) il 21 aprile 2003, a settant’anni. Proveniva da una numerosa famiglia molto unita e molto povera: il padre era musicista, la madre faceva la cameriera presso una casa privata, ma svolgeva anche le funzioni di pastora e predicatrice in una congregazione religiosa. Furono proprio i genitori a incoraggiare la predisposizione naturale della piccola Eunice verso la musica, già evidente dalla più tenera età (“era in grado di cantare prima di saper parlare e di tenere il ritmo prima di saper camminare”). La mamma la faceva esibire nel coro domenicale in chiesa, il papà le impartiva sul pianoforte i primi rudimenti del blues. Tra musica sacra e devozionale e il suono “diabolico” dell’improvvisazione jazzistica, la piccola sembrava comunque a proprio agio con qualsiasi tipo di suono e melodia, fino ad appassionarsi alle composizioni di Bach, sotto la guida esperta di un’insegnante professionista. Nell’adolescenza frequentò la Juilliard School a New York, ma in seguito la sua domanda di iscrizione al prestigioso Curtis Institute di Philadelphia fu rifiutata, probabilmente per motivi razziali. Da allora, frequenti furono le umiliazioni che Eunice dovette subire a causa del colore della sua pelle. Per poter continuare gli studi, iniziò a suonare e a cantare (“con voce profonda e dolce come un tuono”) nei bar e nei locali notturni di Atlantic City, con il nome d’arte di Nina Simone, connubio tra lo spagnolo Niña (piccola) e l’omaggio all’attrice francese Simone Signoret, da lei molto ammirata. Mentre la sua versatilità di pianista e cantante si andava sempre più imponendo tra New York e Philadelphia (leggendaria fu la sua interpretazione di I loves You Porgy, brano di George Gershwin, che vinse il Grammy Hall of Fame Award 2000), l’America iniziò a interrogarsi sul fenomeno irrisolto del razzismo contro la popolazione nera, decisa a non a subire ulteriori violenze e persecuzioni: “Un sordo rimbombo fatto di rabbia e paura: il rumore dei neri che si sollevavano, si sollevavano, non più disposti ad accettare di essere trattati come esseri inferiori”.

Il clima politico incandescente pretendeva da Nina Simone una partecipazione diretta, soprattutto dopo il famoso discorso di Martin Luther King del 1963, I have a dream, e la sua successiva incarcerazione, e dopo l’uccisione dell’attivista Medgar Evers, seguita da altri numerosi attentati contro la gente di colore.

L’indignazione di Nina trovò espressione non solo nell’adesione pubblica alla domanda popolare di giustizia e uguaglianza tra i cittadini, ma anche nell’alzare la propria voce di protesta, incidendo canzoni come Old Jim Crow, Mississippi Goddam e To Be Young, Gifted and Black (Giovane, di talento, e nera) divenute subito inni della lotta per i diritti civili.

La tormentata esistenza privata dell’artista, con i suoi infelici matrimoni, il difficile rapporto con la figlia, i continui tentativi di trovare serenità all’estero per sfuggire alle ostilità dell’America bianca e razzista, non viene affrontata nel libro di Tracy N. Todd, che rimane invece fedele a una narrazione quasi fiabesca della vita di Nina, maggiormente adatta a catturare l’attenzione dei lettori più piccoli, grazie anche allo stile semplice e accattivante della scrittura, e all’espressiva gioiosità dei disegni di Christian Robinson. L’autrice affida la dettagliata biografia dell’artista, e un essenziale repertorio bibliografico, alle pagine conclusive del volume, mantenendo così il carattere didatticamente divulgativo e formativo del suo lavoro, mirato a far conoscere la figura coraggiosa di una donna e di un’artista, interprete delle istanze di libertà, democrazia e parità sociale ancora oggi purtroppo messe in discussione.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net          4 settembre 2023

 

 

RECENSIONI

CAPURSO

ISABELLA CAPURSO, SACRO E URBANO – GATTOMERLINO, ROMA 2022

 Sacro e urbano di Isabella Capurso (Gattomerlino Edizioni) è tra i tre titoli vincitori della seconda edizione di Bookciak Legge, premio letterario che trasforma in corti, realizzati da giovani filmmaker, libri di autori italiani pubblicati da editori indipendenti. Il tema di questa edizione 2023 di Bookciak è stato “Storie per restare umani”, e ad esso si è adeguata l’intensità delle pagine di Isabella, milanese, specializzata in Sociologia urbana e studiosa del rapporto tra società e natura. Impegnata professionalmente nell’ambito di progetti inerenti a temi ambientali e sociali in alcune aree urbane dell’Europa, dell’Africa francofona e del Sud Africa, l’autrice è appassionata di scrittura e arti grafiche, e ha aperto a Milano il laboratorio Le Poisson Lumière in cui organizza mostre ed eventi culturali. Dal 2020 vive tra il capoluogo lombardo e una piccola comunità rurale in Calabria. Autrice di poesie e racconti, illustra con i suoi disegni copertine di libri, come nel caso di questa sua ultima pubblicazione.

Nel prologo a Sacro e urbano, afferma: “Questa raccolta nasce dalla volontà di riunire e sistematizzare una serie di piccole storie e riflessioni a oggetto la città, sia come diario di vissuti che come orizzonte di movimenti contemporanei di geografia umana e fisica”.

Il libro presenta descrizioni, brani di lettere, considerazioni – per lo più risentite e polemiche – riguardanti i contesti urbani in cui le persone si sono ridotte a vivere, rinunciando passivamente a interpretarli e modificarli, con una rassegnazione vicina all’abulia e al fatalismo. Sentimenti, questi, molto distanti dalla coscienza civile di Isabella, dal suo impegno culturale ed etico, vitalmente capace di sdegno e ribellione. La sua denuncia si rivolge contro il capitalismo inquinante, che depreda le risorse naturali, non sa smaltire i rifiuti, riduce gli spazi individuali domestici in favore di costruzioni industriali, magazzini e funerei falansteri.

Palcoscenico privilegiato della narrazione è la città in cui l’autrice è nata e cresciuta, Milano, con le sue due anime contrastanti, ricchezza-successo-eleganza da una parte, fatiscenza-disperazione-sfruttamento dall’altra.

Dal famigerato Parco Lambro, invaso da consumatori e spacciatori di droga, assediato da violenze di ogni genere, frequentato da migranti e senza tetto spesso in contesa tra loro, si passa ai vagoni della metropolitana dove si rifugiano mendicanti e storpi, al degrado assoluto in cui è lasciata la stazione centrale, ai fast food che smerciano cibo spazzatura, ai supermercati affollati, agli animali abbandonati o malati: “I colombi avvelenati dai metalli si ammalano di malattie / neurologiche. Girano intorno al proprio asse”.

In opposizione a questa realtà avvilente, esiste la Milano della finanza e della moda, delle cliniche private monopolizzate dall’Opus Dei, delle arterie stradali e dei treni ad alta velocità, dei Navigli ammorbati da cocaina e antidepressivi, delle discoteche come luoghi di rapporti superficiali e alienanti.

Il sarcasmo di Isabella è spietato verso l’ideologia dominante, che spaccia per opportunità e progresso la disumanizzazione delle relazioni umane, la conflittualità e la concorrenza, l’ingordigia economica.

“Sii felice!

Impongono imperiosamente!

In cambio avrai due punti aperte le virgolette

Privazione del sonno, cemento, anidride carbonica, piombo, prossimità forzata, cibo contaminato

Una imperiosa strenue implacabile richiesta di presentabilità sociale”

Là dove la ricerca del benessere materiale è spinta fino al parossismo, non esiste più alcun interesse per valori diversi: “Ci parliamo addosso. Ci siamo esauriti. E siamo pure vecchi… Siamo sempre costretti dentro ad argini pregressi… Piccoli, siamo diventati piccoli, e più volevano farci credere che consumando saremmo diventati grandi e ci saremmo distinti, più siamo diventati piccoli e tutti uguali”. Scollati dalla realtà, gli occidentali si vedono superare in energia, rabbia e speranza dai paesi sottosviluppati. L’autrice cita i luoghi che ha visitato, dalla Cina all’Africa all’ Australia, constatando ovunque la fine del sacro messa in atto da una livellatrice urbanizzazione internazionale. Alla propria ricerca di verità e autenticità non trova più rispondenze: “Nella mia anima vive un patimento sovversivo e un inestimabile amore”, sentimenti che dovrebbero aiutarci a “restare umani”, ma raramente vengono accolti e apprezzati, nel loro prezioso proporsi alla contemporaneità.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           29 agosto 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

DELFANTI

ALESSANDRO DELFANTI, IL MAGAZZINO – CODICE, TORINO 2023

Nella nota metodologica in calce al volume Il magazzino, Alessandro Delfanti (piacentino, docente di Politiche dei media e della tecnologia all’Università di Toronto) dichiara: “Questo è un libro di parte, che sta con le lotte per migliorare le condizioni di lavoro nel magazzino. Non esisterebbe senza i sindacati e i gruppi di lavoratori e lavoratrici che mi hanno donato il loro tempo e le loro idee”.

Il magazzino. Lavoro e robot ad Amazon è un saggio-inchiesta che indaga l’attività produttiva nei magazzini Amazon, e più in generale il rapporto tra automazione e prestazioni umane nell’economia digitale. Si basa su interviste condotte tra il 2017 e il 2021 con dipendenti ed ex-dipendenti delle aziende Amazon in Italia e in altre nazioni, oltreché di differenti industrie dell’e-commerce.

In sei capitoli Delfanti analizza la brutale realtà di sottomissione, sorveglianza e tattiche antisindacali attuata nelle società di Jeff Bezos, realtà da tempo nota all’opinione pubblica mondiale, ma raramente oggetto di critica dal punto di vista etico e ideologico. Il primo e più grande magazzino Amazon d’Italia, inaugurato nel 2011, si trova a Castel San Giovanni, a un quarto d’ora di strada da Piacenza, città natale dell’autore: è un edificio lungo 400 metri, situato in posizione strategica per servire gli importanti mercati settentrionali, e occupa più di tremila dipendenti organizzati in turni, ventiquattr’ore al giorno per sette giorni la settimana, confezionando un milione di prodotti al giorno.

Nell’area circostante centinaia di ettari di terreno agricolo sono oggi occupate dai magazzini di Ikea, H&M, FedEx, Zalando, che hanno modificato non solo la struttura del paesaggio, ma anche la mentalità e la concezione del lavoro degli abitanti della provincia piacentina. Amazon sta infatti riplasmando il tessuto sociale di intere nazioni, agendo sui desideri compulsivi di acquisto delle persone, attraverso un unico messaggio: “compra più cose, più in fretta, più comodamente, spendendo meno e senza dover cercare da qualche altra parte”. Il consumismo è diventato istantaneo, tassativo, vincolante, pena l’esclusione dai rapporti interpersonali, grazie a un’intuizione vincente di Jeff Bezos, che fondò la sua azienda nel 1994 come libreria online. Attualmente, con 1,5 milioni di dipendenti, Amazon è la seconda società privata al mondo, dopo Walmart. Vanta un’anima relentless, ovvero implacabile, inarrestabile nell’essere sempre operativa, ossessionata nel rispettare le scadenze e nel pretendere dalle maestranze il massimo rendimento. Da azienda leader nell’e-commerce, in grado di offrire qualsiasi tipologia di oggetti nell’arco di 24 ore, è diventata anche il maggior fornitore di spazio web e di cloud computing al mondo (AWS), ai cui server si appoggiano giganti come Netflix, Zoom e Uber. “Con il programma Rekognition vende tecnologia di sorveglianza ai governi, produce inoltre gadget digitali come l’e-reader Kindle e il tablet Fire. Il suo speaker Echo per la domotica consente di utilizzare Alexa, un assistente virtuale sostenuto da algoritmi in grado di processare il linguaggio naturale… Possiede e gestisce una piattaforma streaming, Prime Video, e grazie agli Amazon Studios ricopre oggi un ruolo importante nella produzione di film e serie tv. Possiede anche Amazon Go, una catena di supermercati completamente automatizzati e i supermercati biologici Whole Foods”.

Amazon investe la propria potenza economica soprattutto nell’innovazione tecnologica, per incrementare il tasso produttivo nei propri magazzini attraverso una capillare robotizzazione e per monitorare i dipendenti, estraendo dati preziosi dalle loro prestazioni. I lavoratori rappresentano infatti la variabile più problematica della produzione, pertanto vengono strettamente controllati e governati per evitare che rallentino o arrestino il flusso delle merci. Il controllo ossessivo agisce a tutti i livelli: sul ritmo e la velocità dettati dagli algoritmi aziendali, attraverso un sistema di sorveglianza invasivo e un lavaggio del cervello dei quadri impiegatizi addetti al marketing e all’amministrazione, su cui fa leva l’idea di emancipazione individuale e modernizzazione collettiva. L’uso didascalico di slogan ripetuti e disegnati ovunque (“I leader sono spesso nel giusto”, “Pensare in grande”, “Passione per il cliente”, insieme ad altre parole d’ordine culturalmente più ambiziose e universali: Work hard, Have fun, Reimagine now, Make history), mirano a introiettare ideali di successo, competizione, orgoglio aziendale e una subdola creazione del consenso nei subalterni, da attuarsi sia attraverso misure disciplinari sia con incentivi e promesse paternalistiche di felicità e divertimento.

Il volume di Alessandro Delfanti analizza in maniera particolareggiata non solo le tecniche di produzione e di vendita di Amazon, ma anche l’ideologia che ne è sottesa, manipolatrice e monopolizzatrice, per cui a livello globale sembra che non possano esistere alternative all’e-commerce di Seattle, sebbene non sempre ai posti di lavoro creati corrisponda un’effettiva crescita dell’economia e dei redditi familiari nelle aree limitrofe agli stabilimenti.

Nei vari capitoli del volume vengono utilizzati gli strumenti dell’intervista e dei sondaggi per analizzare le opinioni di dirigenti, manovali, trasportatori, impiegati, stagionali, ingegneri, programmatori: si raccolgono confidenze, lamentele, rancori, rabbie, speranze di riscatto. Testimonianze toccanti di un’attività frenetica e faticosa, in modalità always-on, che spesso provoca infortuni e malattie professionali legate allo stress. In spazi sempre più robotizzati, asettici, illuminati da luci al neon e attraversati da chilometri di nastri trasportatori, le persone si riducono anch’esse a robot identificati da un codice a barre come quelli stampati su ogni prodotto di cui si occupano. Insomma, sembra che tecnologia e automazione non ambiscano tanto ad alleviare il lavoro umano, quanto a direzionarlo e a sottometterlo. La produzione, scandita in quattro passaggi (receive, stow, pick, pack), che Delfanti esamina scomponendoli dettagliatamente, è pensata in funzione della velocità e dell’efficienza che l’azienda promette ai consumatori, per “raggiungere le quote” e “gli obiettivi” necessari al consolidamento della sua crescita.

Il capitalismo digitale sta soppiantando ovunque quello industriale non solo servendosi della riduzione del potere contrattuale dei lavoratori e della precarizzazione, ma soprattutto mirando all’ espansione dei processi di globalizzazione e all’ascesa del mercato finanziario.

Sarà sempre così? Cominciano ad aprirsi spazi di critica e contestazione, germi di ribellione tra i dipendenti, una nuova coscienza ecologica ed ambientale tra i clienti, e un revival sindacale che appoggia le rivendicazioni e gli scioperi delle maestranze in vari paesi del mondo: il primo è stato proprio nel magazzino di Piacenza, il 24 novembre 2017, a cui hanno partecipato centinaia di lavoratrici e lavoratori. “Le loro lotte possono aiutarci a immaginare un futuro diverso, un nuovo percorso di liberazione dalla morsa del capitalismo digitale”.

 

© Riproduzione riservata                          «Gli Stati Generali», 26 agosto 2023

 

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, QUEL CHE HO VISTO, UDITO, APPRESO… – EINAUDI, TORINO 2022

Sulla quarta di copertina del volumetto di Giorgio Agamben pubblicato da Einaudi lo scorso anno, Quel che ho visto, udito, appreso… leggiamo: “parole ultime o penultime, vergate in fretta, come da chi prende appunti per il suo testamento”. Si tratta in effetti di una serie di riflessioni “serotine”, crepuscolari non tanto in senso letterario, ma perché scritte al tramonto di una lunga esistenza, tentando un inventario di ciò che si è riusciti a fare, tra obiettivi raggiunti e mancati, occasioni perse e afferrate al volo, incontri arricchenti o frustranti, amicizie, rimorsi, tradimenti. E più che un elenco di stampo diaristico, assistiamo a una serie di illuminazioni, squarci di verità che improvvisamente diradano la nebbia, accendono il buio, rivelano.

Ho visto… ho udito … ho appreso: ogni capitoletto, nell’estensione limitata di un aforisma, si apre con tali dichiarazioni. Dai due sensi fondamentali deriva la conoscenza di ciò che si sa e di ciò che si è, trasformati dalle sedimentazioni di diverse impressioni, accresciuti nella consapevolezza di noi da quanto si presenta – inatteso e vivificante – alla nostra coscienza assopita.

Cos’ha visto dunque Agamben? Una “capretta snella, esitante, divina” che ricambiava umanamente il suo sguardo, esplosioni di colori sotto forma di estasi e inaspettata felicità, uomini malevoli e calunniatori in ogni paese del mondo. Cos’ha udito? Le campane che dicono “qualcosa senza bisogno di parlare”, il grido di un unico poeta “in luogo di un popolo assente”, donne analfabete cantilenanti la Bibbia.

E cos’ha imparato da tutto il veduto e l’ascoltato? “Che noi esistiamo solo nelle intermittenze del nostro esserci, che quello che chiamiamo «io» è solo un’ombra sempre in congedo e in annuncio, memore appena del suo dileguare”. Viviamo infatti nella precarietà e nell’illusione, e nessuno è essenziale nell’economia dell’universo, essendo creazione e distruzione adiacenti. Ha appreso che il mito sa insegnarci più della storia, perché è indifferente tanto al vero che al falso, dato che non esistono verità, ma solo errori: i propri. Che non la conoscenza è importante, ma solamente la spinta che se ne ricava. Invece è fondamentale accorgersi che Dio è nelle cose e le cose sono in Dio, e che “la semplice, giornaliera sensazione di esistere” deriva dal “destarsi al mattino con questa minuscola gioia”. L’arte di vivere e di farsi divini implica la capacità di abitare non “la casa, ma la soglia, non il centro, ma il margine”.

Assunta la consapevolezza della propria marginalità, l’essere umano può raggiungere la beatitudine attraverso la contemplazione, con il compito di condividere sia la visione sia la cecità con l’altro, in un rapporto di scambio, apertura, amore, coltivando “la memoria del non ancora e del non più umano – del bambino, dell’animale, del divino”.

In queste meditazioni è il filosofo che parla, con la lingua del saggio, del sapiente antico, nutrito in spirito e mente dai testi sapienziali di tutte le religioni, dai grandi pensatori (Epicuro, Lucrezio, Platone, Averroè, Spinoza), da poeti e scrittori (Kavafis, Annamaria Ortese, Elsa Morante, Kafka).

Uomo del XX secolo, Agamben ha provato ad affacciarsi al nuovo millennio, ma se ne è ritratto con timore e tremore, senza riuscire a comprenderlo, e senza riuscire a recuperare un’altra dimora del pensiero: “Come la colomba, siamo stati mandati fuori dall’arca per vedere se c’era sulla terra qualcosa di vivo, anche soltanto un ramoscello di ulivo da prendere nel becco – ma non abbiamo trovato nulla. E, tuttavia, nell’arca non abbiamo voluto tornare”. Il filosofo, l’autore, ha il dovere di testimoniare, anche nel silenzio, nel taciuto e nel non vissuto. Già da bambino aveva intuito l’invivibilità, l’inesplicabilità e il vuoto dell’esistenza, inesprimibile, a cui lasciare uno spazio bianco nella pagina: “la sorte che ci è stata assegnata è fallire: in ogni arte e studio come e soprattutto nella casta arte di vivere bene… Ci dimentichiamo di noi e ci perdiamo, così come Dio, perdendosi in noi, si smemora di sé”. Ammettere il fallimento è l‘unico modo per salvare le piccole creature che siamo.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 20 agosto 2023

 

RECENSIONI

SACERDOTI

GILBERTO SACERDOTI, PELTRO E ARGENTO – MOLESINI, VENEZIA 2023

L’intensa postfazione di Bianca Tarozzi a Gilberto Sacerdoti (come lei anglista di fama, traduttore di Shakespeare, Thomas Hardy e Seamus Heaney) e al suo libro Peltro e argento, antologia poetica pubblicata quest’anno dall’editore veneziano Molesini, fornisce al lettore alcune chiavi di lettura importanti per penetrare i vari e stratificati caratteri della raccolta. Un’attenzione meditata alla natura (acqua e cielo, in primis), ai fenomeni meteorologici (pioggia), ai colori in tutte le loro sfumature, segna la “complessità espressiva e di pensiero” di questo autore dalla “vocazione metafisica” e dall’ “anima musicale”.

Gilberto Sacerdoti (Padova 1952), già docente di letteratura inglese a Roma Tre, ha pubblicato tra il 1978 e il 2001 tre importanti libri di versi, da cui sono tratte alcune poesie inserite nel volume di cui ci occupiamo, insieme ad altre composizioni inedite. La poesia che apre il libro (tratta da Fabbrica minima e minore) è assolutamente esemplificativa della tecnica compositrice del poeta, non solo per l’accuratezza descrittiva, ma proprio per l’accorta sensibilità al suono. Musicalità raggiunta metricamente sia con l’alternarsi armonioso di endecasillabi e decasillabi, sia con le insistite rime in -are (mare, pescare, respirare, tornare), sia attraverso la ripetizione avvicinata dello stesso verso (“mezzogiorno tiepido di marzo”) e con il reiterarsi di sostantivi (“acqua” quattro volte, “mare” cinque volte). L’immagine della laguna veneta colta nella sua placidità primaverile viene ribadita poi dalla scelta meditata degli aggettivi (lenta, chiusa, tiepido, calmo, liquido, fermo), con l’intenzione di suggerire al lettore il respiro rasserenante di una tarda mattinata veneziana, sebbene in contrasto con l’affermazione malinconica degli ultimi due versi: “ed io rimango fermo nei miei occhi / e sono senza mare a cui tornare”.

Mi sono soffermata sul commento di questa poesia di apertura perché mi sembra caratterizzante dell’atmosfera di molte altre composizioni contenute nella prima sezione. Come giustamente sottolinea Bianca Tarozzi nel suo intervento, l’io del poeta più che definirsi nell’esplorazione introspettiva, è un io che osserva e ascolta gli elementi ambientali, e nel rendere con gentilezza visioni e suoni rivela dichiaratamente l’eredità di due “numi tutelari”: Saba e Penna. Troviamo molta luce e molta Venezia in questa prima parte del libro, colori luminosi (azzurro, arancione, verde, bianco, oro) e fiori, gabbiani, cani addormentati, lucertole, insetti. Si mostra “dolce e docile la vita”, da celebrare con un’eccedenza di cantabilità volta a esprimere gratitudine per l’esistente: “Sono come fumo bianco le parole / che m’escono asciugandomi qui al sole”. I “momenti estatici” di cui scrive Tarozzi si susseguono nella contemplazione silenziosa del paesaggio, favoriti dal tepore delle giornate, dalla consolante bellezza del panorama.

Ma già nelle ultime composizioni la città amata mostra il suo aspetto negativo, addirittura nauseante: improvvisamente bizantina, corrotta e corruttrice, invasa da “popoli bastardi”, da “giovani lascivi ed indolenti”, bagnata da acqua resa rancida da “alghe voraci”. Sacerdoti cambia decisamente registro nei versi assunti da Il fuoco, la paglia (1988), che risultano severi e risentiti, quando l’esaurirsi dell’idillio incoraggia uno sguardo più critico sulla società, sulla storia e sulla natura. Si affacciano figure umane, non solo comparse sullo sfondo, ma veri e propri interlocutori ideali del poeta: Sant’Antonio, Amundsen, i pittori Claesz, Bellini e Guercino. Cancellata la tiepida brezza primaverile delle prime poesie, regna ora un luglio torrido e fradicio di sudore. Ai nuovi contenuti risponde uno stile franto e talvolta colloquiale, e accanto agli endecasillabi appaiono novenari e settenari, le rime si attenuano, la musicalità è meno distesa.

In tal modo ci si avvicina alla produzione del nuovo millennio, con le poesie di Vendo Vento (2001) e gli inediti, in un acuirsi di consapevolezza interpretativa che scava sotto la superficie per arrivare alle falde del vero, della realtà. Farfalle, api, mosconi sprofondano “nel cuore marcio del crisantemo”, il miele da biondo si tinge di nero, rondoni e gabbiani stridono, spuntano “fioracci” tra i detriti, la notte è infetta e la penna si trasforma in un bisturi a cui è demandato il compito di sezionare “l’ameba irrancidita” che divora corpo e mente. Non più marzo, e nemmeno luglio: sono adesso i mesi autunnali quelli più indagati, pioggia vento e nuvole sostituiscono il sole gentile delle poesie giovanili.

Una negatività prima sconosciuta adesso viene accettata perché rivelatrice del male da non tacere. Gilberto Sacerdoti prega quindi un san Giorgio vendicatore: “parti lancia in resta, / spurga, prosciuga, sana, cauterizza, / spalanca i vetri, lascia entrare il vento”. Nella maturità si affrontano dilemmi esistenziali, si cercano risposte negli altri poeti (Whitman, Hopkins), si interrogano le divinità rimaste a lungo sorde e mute: “tocca vivere, morire e non capire?”. E nei versi inediti si affaccia per la prima volta l’ironia, l’unghiata sarcastica, evidente anche nei disinvolti inserti linguistici (glu, glu e glu; c!; ha-ha-ha-ha). Con gli anni, “Gela, ispessisce il sangue”, e “l’argento si spegne nel peltro”, razionalmente, laicamente.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           14 agosto 2023