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RECENSIONI

SNEGIRËV

ALEKSANDR SNEGIRËV, LA STRADA FANTASMA – GATTOMERLINO, ROMA 2022

Del romanzo La strada fantasma di Aleksandr Snegirëv, il traduttore Raffaele Marchi mette in luce nella postfazione “la struttura svagata, la prosa asciutta, quasi schiva, sicuramente restia alla descrizione ma non assente da lirismo, l’ironia solforica, l’individualismo nervoso”. Si tratta infatti di uno stile particolare, quello utilizzato dall’autore, per narrare vicende altrettanto particolari, divaganti tra storia, cronaca, fantasia, sperimentazione. Pubblicato in Russia nel 2019, è la prima opera di Snegirëv uscita in Italia, per le edizioni romane Gattomerlino. Alexandr Snegirëv (pseudonimo di Alexei Vladimirovich Kondrashov) è nato nel 1980 a Mosca. Autore di testi narrativi tradotti in molte lingue, si occupa di belle arti e insegna letteratura nella sua città natale. Nel 2015, ha vinto il Russian Booker Prize per il romanzo Vera.

In questo testo (una cinquantina di capitoli brevi, suddivisi in stringati paragrafi che parcellizzano il racconto utilizzando frasi minime e costanti a-capo) il protagonista si esprime in prima persona, soggettivamente, per poi esternarsi in uno sguardo astratto, narrando di una realtà che da vissuta interiormente si fa collettivamente oggettiva. Aprendosi in uno spazio assolutamente domestico, l’io narrante si svela come scrittore di successo, inquieto e bulimico di rapporti interpersonali, analizzati e descritti con ironia e autoironia, ma anche con lo stupefatto, continuo interrogarsi sulle motivazioni dell’agire umano nella quotidianità e negli eventi storici. Vive con una compagna sensuale e svampita, che tratta con buona dose di maschilismo già nell’attribuzione del nomignolo sprezzantemente misogino: “I nostri orari sono regimentati dalla sfasatura: io dormo – Micetta fuma, io mi sveglio – Micetta dorme. Un piccolo zig-zag nel reciproco timing mantiene saldo il rapporto… Annuso Micetta come un cane annusa un tesoro edibile. La afferro come un cuoco afferra l’impasto. La accarezzo, la sculaccio e la rivolto. E come lei risorge dal sogno, io, al contrario, cado addormentato”. Con loro, un cane razzista che abbaia agli islamici, due artigiani chiamati a riparare i perduranti guasti dell’abitazione, un vicino erotomane appassionato di storia, una vicina platinata diva di Instagram, che “riesce a gustare la dolcezza dell’interattività e al contempo guadagnare”, avendo come motto “Vivi come se dovessi postare”. Il diario quotidiano del protagonista elenca non solo varie comparse e le loro attività, ma anche i vorticosi pensieri di chi scrive, le sue fantasie e allucinazioni, cambiando continuamente punto di vista e materia di osservazione, con un pungente senso dello humor che aborre sia il patetico sia gli stereotipi.

Erede dello sguardo ferocemente caustico dei suoi connazionali Gogol’ e Bulgakov, Snegirëv tratta la storia passata e quella recente con lo stesso disincanto: se la strada in cui abita è stata percorsa dall’armata di Napoleone in ritirata, la cronaca politica attuale pone sugli altari Kim Jong-un e i vari Congressi del Partito Cinese. Il conflitto con l’Ucraina (al momento della composizione del romanzo limitato al Donbass), viene raccontato attraverso una lettura sarcastica degli imbonimenti propagandistici dei due paesi nemici: “Tutto ha avuto inizio nella prima fase operativa della guerra ucraina. Allora la gente teneva lo sguardo fisso sulle vicende e si strappava i capelli per una parte o per l’altra. C’erano dei profughi: alcuni andavano a ovest, verso Kiev, altri a est, in Russia”.

È comunque il presente a imporsi, ma un presente immaginoso, inventato e inventivo, paradossale negli accadimenti che si incalzano, cancellandosi e ricreandosi in continuazione, perché “La realtà si è sdoppiata”, e lo scrittore spavaldamente può annunciare: “È il mio libro e faccio quello che mi va”. Se il narrato si rivela falso, ebbene diventa vero dopo essere stato scritto: omicidi per gelosia, squartamento di cuori, tentativi di liquefare un cadavere nell’acido, resurrezioni improvvise, l’adozione di un’orfanella pestifera, lo smaltimento dei rifiuti, una Mosca post-moderna e cibernetica, nel vertiginoso accavallarsi di eventi inverosimili. L’autore-demiurgo vanta in continuazione la propria autonomia di ideare e depennare personaggi e situazioni, nella necessità di rendere sulla pagina il caleidoscopico trasformarsi della società e degli individui: “Merda, io sono uno scrittore, merda, e ho bisogno di un’idea”.

Quello che risalta nel magma incontrollato del racconto, è l’idea liberatoria della letteratura e dell’arte come emancipazione dalla verità, diritto all’immaginazione, indipendenza assoluta della creatività.

Nel flusso continuo di associazioni e immagini proposto da Snegirëv, domina l’introspezione maniacale, venata da incertezza e insoddisfazione (“La cosa più dura è abituarsi a sé stessi”), soprattutto per ciò che riguarda il proprio ruolo di intellettuale e di narratore. “A dirla tutta, volevo scrivere qualcosa di importante. Qualcosa di originale e di saggio. Ma l’ho dimenticato. Ho dimenticato quel che volevo scrivere. Riempio queste pagine con una grafia a volte piana, a volte convulsa, ironizzo sul passato, lo metto persino in dubbio, e oltre a ciò penso al futuro. Penso a come accoglierà il mio lavoro il redattore, come lo valuteranno i critici. Mi rinfacceranno il disprezzo di una struttura consueta, mi daranno la colpa d’aver rovesciato sui lettori un gran mucchio di avanzi del mio pensiero sbrindellato. Ho raccolto un po’ di tutto in bocconi diseguali, poi l’ho buttato giù in tocchi alla maniera di un’insalata”.

Un romanzo spiazzante, La strada fantasma, con tratti di comicità pura e altri di scandalosa provocazione, che il giovane slavista Raffaele Marchi ha tradotto in una prosa limpida, sciolta e accattivante.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 13 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TARCHETTI

IGINIO UGO TARCHETTI, STORIA DI UNA GAMBA E ALTRI RACCONTI FANTASTICI

ERETICA, BUCCINO (SA) 2022

 

Tra gli esponenti più radicali della Scapigliatura milanese, si deve senz’altro annoverare Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839-Milano 1869) che, sia negli scritti teorici, sia nelle poesie e nelle opere narrative, seppe interpretare le istanze più radicali di questo movimento letterario, attivo per un ventennio nella seconda metà dell’800. In primo luogo per il gusto della ribellione antiborghese e della dissacrazione delle convenzioni morali e sociali dell’epoca, secondariamente per l’interesse a indagare gli aspetti crudi e patologici dei comportamenti umani, con una predilezione quasi ossessiva verso il macabro e la malattia. Suo capolavoro fu il romanzo Fosca pubblicato nel 1869, e ancora oggi ristampato e analizzato criticamente soprattutto per la penetrante rappresentazione della personalità della protagonista, donna colta e intelligente che riesce ad affascinare e turbare la psiche del coprotagonista maschile nonostante – o proprio a causa – del suo infelice aspetto fisico, al limite dell’anormalità.

Anche i racconti di Tarchetti, nella recente edizione proposta da Eretica, risentono dello stesso clima aderente all’ideale estetico della decadenza, scisso tra morbosità e grottesco, iperrealismo e illusione fantastica, che in quegli anni ebbe tra i massimi rappresentanti E.T.A. Hoffmann, Heinrich Heine, Charles Baudelaire, Mary Shelley ed Edgar Allan Poe.

Dei sei racconti presentati in questo volume, i più famosi sono il primo e l’ultimo, Storia di una gamba e La lettera U, entrambi incentrati su una fissazione maniacale del personaggio principale. Nel primo caso, il ventiquattrenne Eugenio, amputato della gamba sinistra (forse pretestuosamente) da un amico chirurgo cui era legato da un complicato rapporto di rivalità amorosa per la stessa donna, mantiene con l’arto asportato un legame angoscioso: non solo perché continua a viverlo attraverso assillanti sensazioni psicofisiche, ma anche perché non riesce a staccarsene nemmeno materialmente, e lo conserva in una teca con devozione abnorme. Sofferente di “ipocondria inguaribile” e di tetra malinconia, il giovane si sente parimenti vivo e morto, tormentandosi nell’osservazione ansiosa della parte vitale del suo corpo e di quella scheletrita. “Quella gamba? Io mi sento attratto continuamente, incessantemente verso di lei; è impossibile che io possa sottrarmi un istante a quella attrazione. Di giorno la vedo, di notte la sogno. E spesso anche la notte devo balzare dal letto, accendere la mia lampada, guardarla e ricoricarmi più tristo e più atterrito di prima”. Quando gli viene proposto di liberarsi dal suo incubo e di sotterrare “la reliquia”, preferisce lasciarsi morire.

Se in questa novella perturbante è la corporeità offesa e ferita ad avere il predominio nella psiche del protagonista, ne La lettera U è invece la follia psicotica, ammessa fieramente dall’io narrante già nel sottotitolo (manoscritto di un pazzo), ad annidarsi tra le righe del narrato, coinvolgendo nelle sue spire ipnotiche lo stesso lettore. Perseguitato dalla visione nefasta della vocale U, cui attribuisce la negatività che pervade l’intera umanità, già dall’infanzia combatte una sua personale e sanguinosa battaglia per cancellarla dall’alfabeto: “Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore? Sì, io l’ho scritta… Quella linea che si curva e s’inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio… Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!! Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!”. L’infelice si allontana dalla scuola, dai luoghi di lavoro, da tutte le donne di cui si innamora non appena scopre la mefistofelica traccia di una U nei loro nomi (Giulia, Ulrica, Susanna, Lucia…), e solamente il ricovero e il successivo decesso in manicomio lo liberano dalla sua angustia.

Anche gli altri quattro racconti presenti nel volume (Le leggende del castello nero, Un osso di morto, Uno spirito in un lampone, I fatali), calibrati con intelligenza tra atmosfere metafisiche e realistiche, sarcasmo e comicità, evidenziano la compenetrazione esistente nell’individuo e nella società di vita concreta e apparenza, salute e malattia, partecipazione e marginalità. Nell’approfondita postfazione di Daniele

Palmieri (che introducendo il libro offre una visione d’insieme della Scapigliatura milanese), Iginio Ugo Tarchetti viene definito un anticipatore delle angosce novecentesche espresse da Sartre, Camus e Cioran: “la perdita di senso, la morte dell’anima che rende l’uomo un involucro vuoto schiacciato tra due dimensioni, quella della vita quella della morte”. L’assurdo inspiegabile, insomma, che attanaglia le menti degli esseri umani, con interrogativi privi di risposta.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 6 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARCHI

RAFFAELE MARCHI, DA GIOVANI SI MUORE COSÍ TANTE VOLTE

GATTOMERLINO, ROMA 2023

 

Raffaele Marchi (Ostiglia 1991), slavista e traduttore dal russo, ha pubblicato presso le edizioni romane Gattomerlino la raccolta di racconti Da giovani si muore così tante volte, titolo che suona un po’ come amara constatazione un po’ come memento rimproverante verso chi da tempo giovane non è più, e forse dimentica che non esistono età assolutamente felici. Sembra proprio la scontentezza di sé e del proprio ruolo sociale il leitmotiv del volume, insieme all’insoddisfazione lavorativa e all’alienazione determinata dal neocapitalismo, più ancora che l’infelicità personale dovuta a inquietudini, disagi o sofferenze interiori. Solitudine, mancanza di dialogo, rapporti affettivi precari, caratterizzano queste diciannove storie brevi, dal registro stilistico multiforme: si susseguono monologhi, dialoghi, meditazioni filosofiche e teologiche, commenti a fatti di cronaca, spesso scritti in prima persona, addirittura facendo parlare un pub “modestamente frequentato”, testimone afflitto dello squallido viavai degli avventori.

I protagonisti dei racconti appartengono in genere al ceto sociale più modesto: sono operai, commesse, insegnanti, impiegati, casalinghe, tutti frustrati e infiacchiti dalla routine quotidiana.  Il loro habitat è il condominio popolare, il bar del quartiere, il negozio alimentare. Manifestano indifferenza verso l’impegno civile, insieme a una generica ostilità per i detentori del potere: “una razza che sembra perennemente sul filo dell’estinzione, e poi non muore mai. Sempre un erede si trova”.

La realtà in cui questi personaggi si muovono appare come una recita imposta, una finzione in cui essi sono solo comparse, mai attori principali: “Sempre si finge. Somma due occhi ad altri due occhi e avrai un uguale infinito di bugie”. Poiché verità e giustizia rimangono utopie irrealizzabili, ci si rifugia nell’agnosticismo, nel disincanto o peggio, nello scherno: “Un altro mondo non c’è… Noi sappiamo d’esser qui, e pure che là non ci saremo”. Leggiamo nel susseguirsi delle pagine il monologo sospiroso di una cassiera del supermercato, che attende la fine del turno tra pazienza dovuta ai clienti e giustificabile irritazione; il dialogo di tre professori che durante la ricreazione conversano di tutto: guerre, capitalismo, poesia, d’accordo solo sulla capraggine insulsa degli allievi (“Bombe! Bombe! Andiamo a fare l’educazione col tritolo”). E ancora il rito del caffè mattutino raccontato da un misantropo cui pesa affacciarsi alla vita, o due amici musicisti “inseparabili, incicciati come sardine nella scatola”, in perenne litigio riguardo alle loro abilità di interpreti.

A riprova della versatilità dell’autore, troviamo anche alcune storie più intenerite, con un alone di romantica ingenuità che le rende particolarmente godibili. Come L’asprezza chiama sul labbro, in cui il giovane protagonista viene avvicinato da una donna anziana mentre sta raccogliendo le prugne su un albero in giardino, e le permette gentilmente di approfittare della stessa operazione per portarsi via un cestino ripieno di succosi frutti: solo dopo aver risposto a un serrato e importuno interrogatorio della vecchia sulle abitudini dei proprietari della casa, capisce di essere stato generoso con una ladra che cercava informazioni per poter rubare nell’abitazione. Oppure, nel bellissimo Storia senza una vera fine la descrizione puntuale della passeggiata di una coppia, “leonessa e babbuino”, scandita dalla diversa velocità dei passi, dei pensieri, degli sguardi, dei gesti, fino all’arrivo nel bilocale in cui abita e al sonno condiviso senza amore nello stesso letto.

Usando un linguaggio lineare e pacato, impreziosito da innovazioni lessicali, dialettismi e neologismi, Raffaele Marchi ci introduce in un mondo in cui la banalità del quotidiano affossa ogni speranza di riscatto, ogni illusione di cambiamento, riducendo i rapporti umani a uno scambio di contatti superficiali, a volte basati sull’inganno e lo sfruttamento, più spesso sull’apatia e la rassegnazione che contrassegnano il nostro “piccolo spettacolo del vivere”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            4 agosto 2023

 

RECENSIONI

ATTANASIO

CLELIA ATTANASIO, LA STRADA DEGLI ULIVI – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

Un romanzo scritto con eleganza e profondità speculativa, questa prima prova narrativa a lungo respiro di Clelia Attanasio (1995) che, ottenuto il dottorato in Teologia a Cambridge, oggi è ricercatrice presso l’Università di Strasburgo. Finalista del Premio Campiello Giovani nel 2015, Clelia è autrice di racconti e dal 2020 dirige la rivista Quaerere.

La vicenda narrata ne La strada degli ulivi – ambientata in un soffocante paesino del Cilento -, si sviluppa all’interno di conflittuali rapporti familiari, che si riverberano non solo nel tempo (dal passato al presente, proiettandosi anche in un futuro avvertito come problematico), ma anche negli spazi circostanti, contagiati dalla stessa inquietudine respirata entro le mura domestiche.

L’esergo al libro riporta una citazione di J. Derrida, “Il mio lutto ha il volto di mia madre”, prodromo all’avvenimento iniziale, la morte dell’ottantenne Rachele Mele, vedova del medico Antonio Chirichella e madre di due figli, Angela e Ciro.  Quest’ultimo, voce narrante del romanzo, comunica telefonicamente alla sorella giorno e ora del funerale: da subito si intuisce la distanza, non solo fisica, esistente tra i due: Angela è docente universitaria a Napoli, dove si era trasferita anni prima per motivi di studio e per allontanarsi dalla famiglia. Ciro è rimasto a casa, accanto alla mamma cui è morbosamente legato, rinunciando a qualsiasi affermazione professionale e culturale. Considera sua sorella “una donna artificiale, costruita su sé stessa”, e non lo sorprende l’indifferenza con cui accoglie la notizia del lutto, quasi sbadigliando. Ciro e sua moglie Marisa si occupano di tutte le incombenze relative alle esequie, Angela risentita e rabbiosa farebbe volentieri a meno di partecipare alla cerimonia.

Da questo contrasto iniziale si dipana la storia del piccolo nucleo familiare, segnata da incomprensioni, torti, gelosie, segreti. Ciro alterna le sue riflessioni private a considerazioni più generali sull’ambiente in cui vive, freddo e ostile con i giovani, incurante verso gli anziani, desolato nell’abbandono paesaggistico e architettonico, spietato nei rapporti umani. Ma è soprattutto nell’esplorazione di sé e del proprio vissuto che esercita una severa e rancorosa analisi: consapevole di essere “uno dei pochi superstiti di una generazione fuggi tiva” sacrificata al nulla, “fratello santo che avrebbe potuto fare tantissime cose, se solo non ci fosse stata questa sciagurata sorella a prendersi tutto lo spazio del mondo”. Della propria scontrosa riservatezza dà una lettura sincera: “Dietro le psicosi si celano spesso solo piccole paure. L’estraneo mi spaventa, mi inibisce, negli occhi degli altri c’è qualcosa che mi fa temere d’essere visto”.

I due fratelli (tra di loro si chiamano ‘Ngelì e Cirù, unico segno di affettuosa tenerezza) avevano con i genitori rapporti antitetici: Ciro si sentiva inadeguato e imbarazzato di fronte al padre, e dipendente in maniera nevrotica e devota dalla madre; Angela cercava protezione e sostegno nella figura paterna, ed esibiva sadicamente il proprio odio per la mamma provocandola, insultandola, o ignorandola con crudeltà. Se la figlia mantiene negli anni la propria autonomia lontana da casa, dedicandosi con successo alla carriera accademica, Ciro si rassegna al lavoro modesto di insegnante in un paese vicino, e a “un rapporto matrimoniale monco – fatto di svogliato sesso e poche parole” con una coetanea comprensiva, mai realmente amata.

La morte della madre suscita nei due fratelli domande e curiosità prima represse, principalmente riguardo al passato dei genitori, con il desiderio di ricostruire le loro scelte di vita, e di indagarne i silenzi. La madre Rachele era “donna dall’amore lontano, percepibile ma mai concreto. Un amore raffreddato” persino agli occhi del figlio maschio, adorato e adorante. Figura algida ed egoista, era tuttavia donna intelligente, colta, con ambizioni personali non conformiste. Il padre medico, di vent’anni più anziano della moglie, sembrava desideroso di mantenere una serenità di facciata all’interno della famiglia, cercando di attutire i contrasti, di smussare ogni animosità.

“Non credo di poter dire di aver conosciuto i miei genitori per quelli che furono prima di me, forse nemmeno dopo di me: es sere genitore vuol dire conservare un segreto inconfessabile”, afferma Ciro. E casualmente alcuni segreti mai sospettati vengono alla luce con il ritrovamento delle lettere che Rachele e Antonio si erano scambiati durante il loro lungo fidanzamento. In primo luogo il precedente matrimonio del padre di cui non erano mai stati a conoscenza, ma soprattutto la natura sfrontata e dominatrice di Rachele: “La rivelazione, la scoperta di mia madre – nuda, provocante, sensuale – è scesa su di noi come una tenda incandescente”. A sorpresa viene poi svelata, mentre i due fratelli discutono sull’eredità di un uliveto da spartire tra loro, un’ultima intuizione materna, taciuta a tutti e affidata a un foglio nascosto in bagno, riguardante proprio l’amatissimo figlio maschio.

Il romanzo di Clelia Attanasio dimostra grande abilità nello scavo psicologico, e un’attenzione introspettiva severa, espressa senza condiscendenza nella forma letteraria puntuale e curata, capace di adeguarsi alle particolarità caratteriali di ognuno dei quattro protagonisti.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net         3 agosto 2023

 

RECENSIONI

KELLER

GOTTFRIED KELLER, LETTERE D’AMORE TRADITE – ELLIOT, ROMA 2015

Di Gottfried Keller (1819-1890), il più famoso scrittore svizzero dell’Ottocento, l’editore Elliot ha pubblicato nel 2015 un romanzo breve molto godibile, Lettere d’amore tradite, che unisce in sé i caratteri dello studio sociale, dell’introspezione psicologica e della commedia degli equivoci.

Il racconto esplora ironicamente i meandri dell’animo smanioso e risentito del protagonista, il commerciante Viktor Störteler, chiamato da tutti Viggi, sposato con una signora semplice e gentile, Gritli, soddisfatta del tranquillo ménage domestico e dell’esistenza piccolo borghese nel paesino di Seldwyla.

A differenza delle scarse ambizioni sociali della moglie, Viggi nutre tormentanti aspirazioni letterarie, una smodata brama di successo e di riconoscimenti culturali. Inizia a redigere alcuni saggi di costume, che invia a riviste locali, senza riceverne alcun riscontro. Passa allora a scrivere con lo pseudonimo di Kurt Dalbosco racconti che di tanto vengono pubblicati sui giornaletti della provincia, gonfiandolo di borioso orgoglio. Frequenta circoli di aspiranti artisti, riuniti nei locali pubblici della zona, tutti impegnati a commentare reciprocamente le proprie composizioni, con la speranza di ottenere imperitura fama nel mondo delle lettere. Nel tempo libero dal lavoro che lo porta spesso a girare per il cantone di Berna, Viggi si dedica all’osservazione puntuale delle persone, dei luoghi, della natura circostante, cercandovi ispirazione e prendendo appunti su un taccuino per una successiva rielaborazione formale. Si fa crescere i capelli e inforca sul naso occhiali con lenti di vetro, convinto così di assumere un aspetto più intellettuale. Ovviamente, diventa senza accorgersene oggetto di scherno per gli abitanti del paese, ma continua imperterrito a produrre articoli e novelle, nella convinzione di poter ottenere la meritata popolarità.

Improvvisamente gli attraversa la mente una luminosa idea: quella di includere l’ingenua mogliettina Gritli nella sua attività letteraria, utilizzando la formula dell’epistolario amoroso. Cerca pertanto di coltivare l’istruzione della sua sposa, imponendole approfondite letture filosofiche. Alla spaventata e sprovveduta donna il compito risulta da subito arduo e deprimente, in particolare quando il marito inizia a inviarle pretenziose lettere d’amore pretendendo da lei risposte stilisticamente adeguate.

Sentendosi incapace di esaudire le pretese di Viggi, Gritli escogita quindi un sotterfugio per uscire dall’umiliante situazione in cui si trova costretta. Il vicino di casa Wilhelm, un giovane maestro timido e introverso, affascinato dalle donne che non riesce ad avvicinare per un opprimente complesso di inferiorità, le sembra lo strumento più appropriato cui ricorrere per salvarsi. Ricopiando le lettere del marito e modificandone intestazione, suffissi e pronomi, fa credere al giovane che siano messaggi d’amore diretti a lui, e ne riceve di rimando risposte eleganti e appassionate. Di nuovo intervenendo sui testi, invia l’epistolario, sempre più fitto e intenso, a Viggi, che rimane commosso e grato.

Quando per un caso fortuito l’inganno viene alla luce, i rapporti tra i due coniugi diventano tesissimi, arrivando addirittura a un processo e al successivo divorzio. Ma mentre Gritli vive con dignitoso sollievo la separazione, Viggi sconta a caro prezzo il suo presuntuoso maschilismo. Finisce infatti per risposarsi con una donna avida e lagnosa, e per sfuggire dalle grinfie di lei si immerge con sempre maggiore testardaggine nelle sue insulse composizioni. L’unica persona che trae vero profitto da tutta questa vicenda è il giovane maestro Wilhelm, che allontanato dall’insegnamento per lo scandalo di cui era stato inconsapevole protagonista, finisce per dedicarsi con successo all’agricoltura e alla meditazione, creandosi nei dintorni la fama di eremita dispensatore di saggezza e spiritualità. E poiché tutto è bene quel che finisce bene, il romanzo di Gottfried Keller si conclude, secondo i canoni della narrativa popolare ottocentesca, in maniera inaspettata e romantica, che spetterà all’eventuale lettore scoprire.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        31 luglio 2023

 

 

 

 

 

RACCONTI

EREDITA’ MONTALIANE

QUELLO CHE DEVO A MONTALE

Il mio primo incontro con la poesia montaliana risale agli anni liceali, limitatamente a  poche pagine antologizzate in testi scolastici. Un’attenzione incuriosita, ma non ancora affascinata, avevo riservato alla più nota “Meriggiare pallido e assorto”, in cui tuttavia percepivo una ricerca quasi compiaciuta della resa formale. Più emotivamente vicine avevo sentito, invece, “La casa dei doganieri”, con gli splendidi e malinconici due versi conclusivi, e poi “Felicità raggiunta”, “Gloria del disteso mezzogiorno”, “Forse un mattino”, “Esterina”, “Dora Markus”… Tutte quelle poesie, insomma, che sapevano coniugare alla profondità del significato una vibrazione particolare del suono, esigendo da parte mia un’adesione non solo mentale, ma anche e assolutamente “sentimentale”.

All’ Università Statale di Milano avevo poi seguito il corso del Professor Antonielli proprio sui primi quattro libri di Montale, e ricordo ancora il silenzio commosso (in anni rumorosissimi!) con cui gli studenti che gremivano l’Aula Magna accoglievano la recitazione del docente, e la sua successiva illustrazione. Trasferitami a Zurigo, erano state le lezioni del Prof. Isella sui Mottetti, al Politecnico, ad aprirmi nuovi varchi di comprensione nell’universo poetico montaliano: l’eco di quella trepidazione è rimasta in una mia silloge (“Omaggio a Montale”, Einaudi 2012), in cui confondevo i miei versi con i suoi, in un tentativo – non so quanto riuscito – di ammirata parodia.

Come non ammirare, infatti, gli endecasillabi iniziali (“Ti libero la fronte dai ghiaccioli”, “Non recidere, forbice, quel volto”, “Lo sai: debbo riperderti e non posso”), evocativi e struggenti quanto potevano essere le canzoni che accompagnavano i nostri primi tremori adolescenziali. Una musica   particolare e innegabile, quella della poesia di Montale, una ricerca di composta armonia che continuo a ritenere sia doveroso compito e dono della scrittura poetica.

Più tardi ho letto l’interessante saggio di Edoardo Esposito, rivisitazione attenta di tutta la produzione del Maestro. Indiscutibilmente, meritatamente da considerarsi maestro: meritatamente e indiscutibilmente premio Nobel, che nulla ha tolto e moltissimo donato alla produzione in versi (non solo italiana) a lui posteriore.  Soprattutto oggi – quando una sorta di conformismo sembra voler livellare e omogeneizzare le diverse voci del panorama letterario, al punto da renderle indistinguibili le une dalle altre – il timbro esclusivo, inconfondibile della poesia montaliana continua a sembrarmi il merito maggiore del suo insegnamento, insieme alla sua capacità di regalare emozioni, dote ai nostri giorni presuntuosamente sottovalutata o sarcasticamente sbeffeggiata.

Se infine dovessi indicare una preferenza personale verso uno dei libri di Montale, non esiterei a pronunciarmi in favore de “La Bufera”, che nelle sue prove più alte è riuscita a scandagliare turbamenti privati e drammi pubblici, vicende personali e tragedie storiche: come nella poesia -capolavoro (una delle poche che conosco a memoria, e a cui ricorro spesso mentalmente come a un talismano) “Piccolo testamento”, al suo “smeriglio di vetro calpestato”, al “tenue bagliore strofinato laggiù”, tanto trascurato dalla cultura contemporanea, e tuttavia essenziale, riparatore, illuminante.

 

«Gli Stati Generali», 30 luglio 2023

 

 

RECENSIONI

REZZA

ANTONIO REZZA, CREDO IN UN SOLO OBLIO – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2023

La Nave di Teseo ripubblica un romanzo di Antonio Rezza (Novara 1965), uscito in prima edizione da Bompiani nel 2007 e vincitore del Premio Feronia: Credo in un solo oblio. Si tratta di una sorta di poema in prosa, provocatorio, angoscioso, ossessivamente autoreferenziale. In uno stile che sperimenta lo stream of consciousness, viene eliminata ogni barriera tra la percezione effettiva delle cose e la rielaborazione mentale. Ne risulta una narrazione surreale, scandita in frasi brevi e assiomatiche, separate nei primi capitoli da continui a capo, come nei versi di una poesia. Che della poesia, e della recita ad alta voce (Rezza è celebrato attore teatrale) mantengono il ritmo e le pause, la forza della declamazione stentorea. Già evidente nelle righe di apertura: “Era una giornata iniziata da poco. / Comincia così la giornata, da poco. / E a poco a poco si fa lunga, insopportabile, fino a sfinire. / E così i mesi. / E così gli anni. / E i secoli che non vedremo”. Più sotto, ancora, una definizione drammatica dell’esistenza: “Nasciamo morti e moriamo vivi. Questo è il problema”. Il gusto dello spiazzamento, dell’iperbole polemica che talvolta si fa ingiuria, istigazione, è già evidente dalla dedica in esergo: “A tutti coloro”, che potrebbe significare a tutti e a nessuno, a quelli come me e a quelli diversi da me.

La voce narrante è un alter ego ovviamente chiamato Antonio, la cui caratteristica principale è l’odio impaurito verso il mondo circostante e l’odio-amore verso sé stesso: “Da circa sette anni vivo in un inferno interiore. Brucio dentro. / Sono la mia ulcera. Sono il mio tormento. / Senza me vivrei meglio, ma mi occupo quel tanto da non darmi scampo”. Antonio ha un amico che lo fa ridere, ma si frequentano poco. Ha avuto una moglie morta di parto, e una bambina di nome Maria che nessuno ha mai visto, e lui rinchiude nei suoi pensieri compulsivi per non contagiarla del suo male oscuro.

Caducità del tempo, caducità degli avvenimenti e dei sentimenti sono il leitmotiv della riflessione filosofica e morale dell’autore: vanità del Qoèlet, indifferenza sartriana, finzione borgesiana, Cioran e Houellebecq rivisitati. Ripetizione, inutilità di ogni sofferenza, noia. “Non c’è noia che non sia eterna. / La noia è immortale. / La noia è come Dio. E in più esiste. / Tutto riesce ad annoiare”.

La miseria in cui ci dibattiamo non è colpa del Cielo, dello Stato, del destino: è colpa nostra. “Siamo quel che meritiamo, non siamo quel che siamo. / Fossimo ciò che siamo saremmo felici. / Ma non siamo felici. / Forse neanche siamo. / Siamo a sprazzi”. Siamo tutti “Sfottuti. Sfittati. Sfiniti. Finiti. Finiti per sempre. / Finiti in vita. / E pronti a ricominciare”.

Come vive, cosa fa Antonio? L’elenco delle sue banali azioni quotidiane (dormo mangio fumo parlo esco) viene subito contraddetto dal loro contrario (non dormo non mangio non fumo non parlo non esco). “Non lavoro, non ho rapporti sociali, mi sveglio ogni giorno e cado in balia di una deriva implacabile che mi condurrà all’infermità mentale”.

Ma improvvisamente gli capita qualcosa di incredibile e dirompente, che rivoluziona la sua intera esistenza e il suo modo di rapportarsi col mondo: decide di andare a farsi una foto per “vedersi chiaro”, per dare sostanza alla sua faccia, alla sua fisicità, e avere un riscontro concreto di sé in un documento ufficiale. La foto esce mossa perché Antonio si distrae e scompone: “Scatto durante lo scatto. / E vengo mosso. Mosso nella foto. Nella foto mosso come vorrei nella vita”. Il ritratto non corrisponde realmente al suo viso, non gli assomiglia. Quindi, al primo controllo della carta d’identità da parte della polizia stradale, lo straniato e incolpevole protagonista viene arrestato per detenzione di documenti falsi.

Alla narrazione cadenzata dalle pause e dagli a-capo si alternano brani pseudo-normalizzati tipograficamente, ma ancora febbrili nello stile e deliranti nei contenuti. Inizia infatti un vorticoso accavallarsi di avvenimenti paradossali, privi di logica, che conducono Antonio a uno sdoppiamento della personalità, a uno schizofrenico incarnarsi nei corpi di tutti coloro che incontra, e sulle cui facce si sovrappone la fotografia della sua carta d’identità. “Chiunque mi è di fronte io sono. Ma pur essendo in tutti continuo a non essere nessuno. Muovendomi nello studio del fotografo al momento dello scatto sono entrato nelle foto dell’umanità”. L’unico modo di uscire dal suo bloccato, atonico egotismo è il movimento subitaneo e involontario che, squarciando i confini rigidi e incasellanti del ritratto, lo mette in comunicazione con un esterno perturbante e maniacale, ma comunque concreto. L’ossessione per la fotografia prende di mira l’esibizione di sé oggi imperante sui social e nei media (“se un giorno m’impicco lo faccio in autoscatto”) e nello stesso tempo esprime la convinzione che noi siamo “l’immagine del nulla”.

Antonio evade dalla prigione e scopre il suo viso su tutti i cartelloni pubblicitari, nel casellario della polizia, nelle riviste, nei bar, sui tram, nei ritratti dei defunti al cimitero. “Entrando e uscendo dalla carta d’identità posso vivere due vite. Nessuna come vorrei. Ma almeno due”. Gira per la città a volte deserta a volte affollata, sentendosi privato della propria personalità e dei connotati fisici ora trasformati in una tragica maschera fittizia, diffusa ovunque. Il cimitero è l’habitat abituale del protagonista, a significare che la vita dei morti equivale o supera in autenticità quella dei vivi. Prova a recuperare il passato riesumando i corpi sepolti di madre padre e nonna, anch’essi incorniciati in un’inespressiva fotografia, e con loro si ritrova protagonista in un film pornografico e in diverse trasmissioni televisive. Come un becchino impazzito continua a disseppellire salme di parenti e sconosciuti, per poi interrarli di nuovo, sostituendo i ritratti sulle lapidi nel tentativo di ripristinare un ordine che lui stesso ha sconvolto. L’incubo da tragico si trasforma in comico, creando situazioni farsesche di agnizioni e sconfessioni continue, omicidi e resurrezioni, fughe e ricomposizioni. I defunti si aggirano come ectoplasmi, ombre di un Ade ciclicamente svuotato e ripopolato da proiezioni allucinate di anime inconsistenti. Antonio si innamora del cadavere di una donna, la sposa e la rende madre di un bambino nato morto. Poi ne sposa un’altra, da cui nascerà un esserino con l’unico carattere distintivo di una voce urlante. Infine appare luminosa tra le tombe Maria, “bimba riemersa…figlia del buio”, tenuta nascosta per preservarla dal male paterno e universale. È la sua bambina, ma è anche sua moglie, le loro foto si sovrappongono in un delirante incubo incestuoso. Infine, mentre la follia si impossessa della mente ferita del protagonista, il suo corpo si sgretola e si spande nell’universo.

Antonio Rezza, che da sempre si muove sui nostri palcoscenici in un teatro dell’assurdo e della crudeltà sulle tracce di Artaud, Ionesco, Genet, può ben affermare, in conclusione di questo volume spietato, geniale e disturbante nel suo ostentato narcisismo, che “la realtà senza recita è la più tragica recita della realtà”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 24 luglio 2023

 

RECENSIONI

LINGIARDI

VITTORIO LINGIARDI, L’OMBELICO DEL SOGNO: UN VIAGGIO ONIRICO – EINAUDI, TORINO

L’ultimo saggio pubblicato dallo psichiatra e psicanalista Vittorio Lingiardi (Milano 1960) è dedicato all’attività onirica, esplorata nella sua complessità neurologica, psichica, letteraria, culturale. “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”, scriveva Shakespeare ne La tempesta, assimilando l’impalpabile e misteriosa indeterminatezza che da sempre abita e agita le notti degli esseri umani (inquietandoli, interrogandoli) alla labilità della loro esistenza. Astratti, nebulosi, oscuri, difficilmente interpretabili, anticipatori di sorprese e presagi, ricordi ed emozioni, turbamenti o improvvise euforie, i sogni sono varchi che ci aprono alla conoscenza di noi stessi e del mondo.

Lingiardi suddivide la sua ricerca in tre sezioni, in cui espone i diversi punti di vista da cui poter esplorare il lavoro onirico nelle sue diramazioni (divinità, inconscio, cervello), utilizzando suggerimenti tratti dal mito, dalle religioni, dalla letteratura, dall’arte e dal cinema.

L’umanità ha sempre sognato, e ha sempre cercato di descrivere e comprendere il significato delle visioni notturne: dall’epopea di Gilgamesh alla Genesi, da Omero ai tragici greci, da Platone ai poeti latini (Ovidio, Virgilio, Lucrezio), tutto il mondo antico ha elaborato una propria cultura del sogno, ritenuto spesso di derivazione divina, e in quanto tale profetico, a volte presagio di avvenimenti favorevoli, o al contrario ingannatore, e temibilmente sinistro: gli antichi Romani chiamavano Incubus (“che sta sopra”), i Greci Efialte (“che ti salta sopra”), quello più spaventoso, foriero di angoscia, paralisi e soffocamento. La duplicità di benevolenza e pericolo viene espressa da Penelope nel XIX libro dell’Odissea (“Straniero, sono inspiegabili e ambigui i sogni”), quando illustra a Ulisse come si presentino le porte da cui le immagini fanno ingresso nel sonno, una con battenti di corno, l’altra d’avorio: queste ultime avvolgono la mente di inganni, mentre le prime sono rassicuranti e veritiere.

Se dall’antichità fino al Rinascimento si sono avuti interpreti e catalogatori di sogni propensi a crederli di origine divina (Macrobio, Elio Aristide, Artemidoro, Tertulliano, Silesio di Cirene, Macrobio, Achmet fondatore della oniromanzia islamica, Gerolamo Cardano, per non parlare delle cento e più citazioni contenute nell’antico Testamento e nel Talmud), era altrettanto nutrita la corrente razionalista, che dava della funzione onirica un’interpretazione fisiologica, meccanicista, con i suoi autori più rilevanti: Aristotele, Epicuro, Cicerone, Lucrezio, Tommaso d’Aquino, fino a Cartesio e alle spiegazioni laiche e scientifiche degli psichiatri e dei neurologi ottocenteschi.

Nella seconda parte del saggio, Lingiardi affronta (con “le mani nei capelli”) le diverse interpretazioni psicanalitiche dell’attività onirica, a partire da quelle di Sigmund Freud (autore nel 1900 della fondamentale Die Traumdeutung), che si proponeva di darne una definizione scientifica e razionale.

Se gli antichi guardavano ai sogni in funzione del domani, come profezie o premonizioni, Freud li indagava in funzione del passato, in quanto produzione inconscia di residui diurni, paure infantili, legami perduti, associazioni involontarie derivate da traumi sequestrati nel corpo perché la mente non poteva ospitarli: un trucco per proteggere l’Io dalle forze oscure dell’inconscio, e insieme “appagamento di un desiderio” censurato a livello cosciente, perché ritenuto riprovevole per la sua natura sessuale o aggressiva. “L’ombelico del sogno è il punto in cui esso affonda nell’ignoto”, e rappresenta la “via regia per la conoscenza dell’inconscio”. Secondo il medico viennese, questo fenomeno psichico, rielaborato nel sonno attraverso processi di condensazione, spostamento, raffigurabilità, può riemergere nel reale significato attraverso la tecnica dell’analisi, e venire curato nelle sue manifestazioni nevrotiche.

L’amico-nemico di Freud, Carl Gustav Jung, prese presto le distanze dalla posizione del maestro, sottolineando la dimensione mitica e collettiva del mondo onirico, di cui esaltava la finalità creativa non falsificata, in grado di esprimere “qualcosa che l’Io non sa e non capisce”, in un linguaggio allegorico intraducibile in termini logici. Più visionario e meno sistematico di Freud, Jung rivalutava l’alterità onirica in quanto forma diversa di pensiero, che ci aiuta a definire chi siamo attraverso un continuo lavoro al confine tra coscienza e inconscio.  Il sogno dà accesso “all’uomo più profondo, universale, vero ed eterno, ancora immerso in quelle tenebre della notte primitiva in cui egli era ancora tutto e tutto era in lui”. Convinto dell’esistenza della dimensione archetipica dell’inconscio collettivo, sedimento di esperienza acquisite dagli antenati nel corso dell’evoluzione e trasmesse per via ereditaria, considerava l’inconscio non solo ricettacolo di ricordi personali rimossi, ma anche scrigno di nuovi pensieri non ancora coscienti, vitalizzanti e creativi.

Dopo aver esposto le contrapposte teorie dei due giganti Freud e Jung, Vittorio Lingiardi offre ai lettori un ricco elenco di seguaci e innovatori novecenteschi dell’indagine psicoanalitica sull’attività onirica. Partendo da Melanie Klein per soffermarsi in particolare su Bion, Hillman, Ogden, Bromberg, Fosshage (citando anche Kiefer, Kohut, Pontalis, Grotstein, Bollas, Fonagy, Fairbairn, Lacan), Lingiardi sostiene che la psicoanalisi contemporanea non considera più i sogni solo come “materiale cifrato da rivelare, ma come prodotti di un neurolaboratorio da cui emergono visioni e narrazioni che possono suggerire ipotesi sul nostro funzionamento psichico… Un modo di alfabetizzare sensazioni, percezioni, emozioni e trasformarle in matrici visive pensanti”.

Dell’inglese Wilfred Bion (1897-1979) sottolinea l’importanza di aver intuito che il sognare è un elemento strutturante della vita mentale, un apparato per “pensare i pensieri”, non riducibile negli stretti confini del sonno notturno: processo attivo anche nello stato di veglia, ci permette di dare un senso a elementi altrimenti destinati a restare impensati e impensabili.

Secondo le recenti prospettive cognitive e sociali, l’evento onirico viene sempre più considerato strumento di narrazione e relazione, studiato in quanto processo di pensiero che serve a elaborare informazioni vitali, esercizio psichico che ci prepara all’ignoto, modo di elaborare le preoccupazioni e testare la nostra resistenza alla minaccia, possibilità di risolvere i conflitti e riparare i traumi, mezzo per la regolazione affettiva nel complesso rapporto mente-corpo-cervello.

Negli ultimi decenni l’interesse per la funzione onirica si è straordinariamente sviluppato, focalizzandosi sull’indagine neurocognitiva dei circuiti cerebrali coinvolti, dei neurotrasmettitori, delle fasi del sonno e delle amnesie post-sonno: ed è nella terza sezione del libro che Lingiardi esamina l’argomento dal punto di vista scientifico. Il sogno come evento puramente neurale è stato asserito da numerosi e celebri fisiologi, che hanno duramente contestato le teorie psicanalitiche, affermando che il sogno è il risultato di un assemblaggio casuale di impulsi neuronali attivati soprattutto dal tronco encefalico, del tutto estranei a memorie del passato, censure, desideri rimossi. Si sono approfondite le ricerche sulla fase REM del sonno, in cui si modula l’80 per cento dei sogni, determinata da fattori puramente biologici: l’attivazione delle cellule che producono acetilcolina e la disattivazione di quelle che producono serotonina e noradrenalina. A tali cambiamenti sarebbero imputabili le immagini visive, vivide e allucinatorie che caratterizzano il sogno, provocando emozioni intense e acritiche dal contenuto illogico, difficili da ricordare al risveglio.

Si è scoperto che i sogni che facciamo prima del risveglio sono i più intensi, che gli anziani sognano di meno, che esistono sogni collettivi e ricorrenti, provocati da fenomeni sociali condivisi (terrorismo, catastrofi naturali, epidemie). I contenuti più comuni riguardano: “impotenza/incapacità, essere aggrediti/inseguiti, incidenti stradali, conflitti interpersonali, preoccupazione per salute/morte propria o di persone care”, e provocano ansia, tristezza, rabbia, disgusto, senso di colpa.  Ciascuno di noi sogna ad occhi aperti, e il fenomeno del daydreaming si ripete con circa duemila episodi al giorno, rielaborando ricordi o creando mondi immaginari, fantasticando su vendette, successi, recriminazioni, in un continuo vagare narcisistico su sé stessi: il sogno, notturno o diurno che sia, è sempre egocentrico.

Comunque sia, sognare (funzione intesa in senso meccanicistico oppure come rielaborazione del proprio vissuto) rappresenta un altrove, un ambito in cui l’individuo incontra una diversa esperienza di sé: “I sogni sono nostri, l’ultimo spazio di vita privata, forse di libertà”. Teniamoceli stretti.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 20 luglio 2023

 

RECENSIONI

FRATUS

TIZIANO FRATUS, LETTERE A UNA SEQUOIA – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Un albero pensa? Ci osserva e ci giudica? Conosce il significato della vita e della morte, prova sentimenti benevoli od ostili nei confronti dell’ambiente in cui affonda le sue radici? Tiziano Fratus (Bergamo 1975) ha fatto della sua passione per gli alberi una missione e una professione. Scrittore, poeta, fotografo, pubblicista, ha pubblicato numerosi volumi di versi, narrativa, saggistica e viaggi, dedicandosi anche alla letteratura per l’infanzia e collaborando con vari quotidiani e programmi tele-radiofonici. Dichiaratamente buddista, infaticabile viaggiatore nel mondo, ha coniato i concetti di “uomo/donna radice”, “dendrosofia” e “alberografia”, utilizzati nelle sue opere legate al mondo vegetale, tradotte in varie lingue.

Il suo ultimo volume, Lettere a una sequoia, uscito per le edizioni pugliesi di AnimaMundi e illustrato dalle foto che ha scattato nelle sue peregrinazioni, raccoglie dodici messaggi rivolti a una sequoia, in un colloquio epistolare che si evolve via via in confessione, sostegno reciproco, senso di fratellanza, riflessione sull’esistenza.

Fratus ci parla di sé, dell’amore che lo ha portato a girare l’Italia per studiare gli alberi, catalogarli e fotografarli, spinto da un’incontenibile ansia di conoscenza e raffronto, fino a farsi lui stesso Homo Radix, confondendosi nel verde, recuperando serenità nel loro silenzio “risorgivo e madornale”, trovando nell’habitat boschivo la sua casa, la famiglia accogliente e generosa che non ha avuto: “Ho girato tutte e venti le regioni, ho attraversato tutte le province, ho raggiunto alberi nostrani e alberi esotici, ho potuto abbandonarmi in parchi nazionali, parchi regionali, parchi naturali, giardini storici di proprietà privata e giardini storici di proprietà pubblica, boschi, foreste, montagne, isole, campagne e città”. Ha viaggiato dall’Italia fino in America e in Oriente, sempre sulle tracce di continui arricchimenti culturali e di una crescita spirituale, incoraggiata dai suoi frondosi maestri elettivi. Si dichiara tuttora scandalizzato dall’avidità e dall’incuria degli uomini, che tra il 1850 e il 1900 hanno distrutto il sistema forestale del mondo, abbattendone l’80%.

In particolare, sono state le sequoie a catalizzare il suo interesse, questi “dinosauri arborei” millenari che si trovano soprattutto in Nord America, con gli esemplari più giganteschi in California.

Le sequoie sono state importate anche da noi, se ne trovano in tutte le città italiane: a Torino, a Roma, in Sardegna, per “il nostro continuo prevaricare, la nostra mania persecutoria, se vogliamo anche gentile, anche agitata da un curioso amore possessivo, di andare e pretendere, di comprare e collezionare”.  Nel Comune di Pollone, un paesino in provincia di Biella, si possono ammirare cinque sequoie gemelle, piantate nel 1848 nel parco di Burcina.

“Tra i 12 miliardi di alberi presenti in Italia, un miliardo sono faggi e un altro miliardo o poco più querce, lecce e farnie anzitutto, e quindi roveri, roverelle, cerri, cerrosughere, sughere”. Le sequoie non sono moltissime, ma attraggono la curiosità di molti visitatori, colpiti dalla loro imponenza.

La sequoia più alta del mondo si trova nella Foresta gigante nel Parco nazionale di Sequoia, a est di Visalia in California; l’hanno chiamata Generale Sherman, in onore dell’eroe della guerra civile: ha circa 2500 anni, è alta 83 metri, pesa 1910 tonnellate e ha una circonferenza del tronco alla base di 31 metri. Un colosso buono, che si lascia osservare da centinaia di turisti ogni giorno, offrendosi mansueto ai loro selfie, insegnando la pazienza di esistere senza opporsi allo scorrere del tempo. Tiziano Fratus interroga gli alberi, consapevole che noi e loro abitiamo lo stesso respiro selvatico. Li vive nella loro naturale fisicità, interrogandosi su quali siano i pensieri, le emozioni, i rapporti che instaurano con la vegetazione circostante. “Mi chiedo se voi ragionate in termini di “io” o di “noi”, o di un “essi” onnipresente e onnisenzien te, o asenziente… Abitate i secoli, siete stabili, fate soltanto quel che vi occorre: è in queste geometrie chimiche che vi giocate tutto il senso della vita, senza perder tempo in agitazioni ipotetiche, forse voi non conoscete nemmeno il senso di un verbo come ‘provare’ … Voi vivete, non “provate” a vivere… Noi sì, invece, noi siamo creature che per eccellenza ‘provano’ a vivere”. Superiori a noi, migliori di noi, nella loro tranquilla, innocua, generosa imperturbabilità, gli alberi ci propongono esempi di saggezza, di non prevaricazione, in accordo con la natura-madre.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 9 luglio 2023

 

 

RECENSIONI

MOSES

EMMANUEL MOSES, OSCURO COME IL TEMPO – MOLESINI, VENEZIA 2022

Oscuro come il tempo, di Emmanuel Moses, è un libro-scrigno, ricco di tanti materiali diversi: oggetti, paesaggi, facce, voci, colori. Gode dell’atmosfera nordafricana e mediorientale, solare e speziata, da cui l’autore proviene, e insieme della sottile ironia e feroce abilità introspettiva della cultura francese che ha nutrito i suoi anni più maturi. Nato a Casablanca nel 1959 da una famiglia di intellettuali e artisti cosmopoliti e poliglotti (il padre era il filosofo franco-israeliano Stéfane Mosès, la madre la pittrice Liliane Klapisch, nipote dello scrittore tedesco Heinrich Kurtzig), a dieci anni si trasferì a Gerusalemme, dove si laureò in storia, e dal 1986 vive e lavora a Parigi. Ha pubblicato una trentina di pluripremiati volumi di poesia e narrativa, ed è ricercato traduttore dall’ebraico moderno.

Questa vivace duttilità di esperienze personali ben si rispecchia nella forma e nei contenuti dei suoi versi, che variano dalla struttura facile del motivo musicale ai toni più meditativi della riflessione filosofica, dalla saggezza dei proverbi arabi allo scherno contro ogni conformismo.

Sembra di intuire in Emmanuel Moses una predisposizione a giostrarsi tra gli opposti, tra l’adesione e il rifiuto dei sentimenti, delle ideologie, dei panorami in cui si immerge, attratto sia dalla realtà che dall’irrealtà, come suggerisce il titolo della prima composizione antologizzata. L’amore, ad esempio, che è uno dei temi più presenti nel libro, è raccontato nell’esaltazione del suo manifestarsi, nel fiero irrobustirsi della passione, per arrivare poi al disincanto amaro e fatalistico del tradimento, della stanchezza, dell’abbandono: “In cammino con gli uccelli migratori /  In viaggio con te, amore mio / Sulla strada verso di te / Sulla strada, mia fuggiasca con le guance rosa”, “La musica accompagna l’amore / Dio ama gli uomini / Io ti amo con grazia danzante”, “Il mio amore capisce così bene il mio silenzio / Che capirà anche queste parole autunnali”, “Il desiderio, l’amore, il sospetto, l’odio / Sono il linguaggio che parleranno sempre meglio // … Prima di spingere di nuovo la porta di casa / Devastati dal silenzio”. Alla stessa maniera il rapporto con la natura e l’ambiente urbano affascina e intimorisce, seduttivo e inquietante nel suo febbrile manifestarsi.

La scrittura risulta evocativa e rigogliosa, talvolta al limite della retorica, in un lirismo che può ricordare Prévert ma subito si corregge con una sterzata canzonatoria e pudica, scegliendo una cadenza narrativa e quietamente descrittiva. L’andamento colloquiale sfora inaspettatamente nella visionarietà più immaginosa, il sarcasmo nella devozione, la prosaicità nel sublime, mantenendo però una costante uniformità e coerenza formale, ed esibendo una particolare acutezza nelle spiazzanti metafore.

Nella nota finale, Moses afferma di aver composto la raccolta (uscita in Francia nel 2014) seguendo un percorso eccentrico, “al culmine della coscienza, evitando la coscienza”, in una lotta che ambisce a sottrarre al “Tempo-Caino” ricordi ed emozioni, oscillanti tra l’eternità e “il ritmo discontinuo, caotico, delle ore grigie” quotidiane. Solo la poesia può resistere al dissolvimento, con la sua forza mite che l’autore non riesce a definire, quando gli si chiede cosa sia: “Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora // La poesia continua là il suo viaggio / Galleggia / Hai mai visto una poesia fare naufragio?” Essa si oppone allo scorrere implacabile dell’esistenza, e alla morte odiosa (“Possa la luce respirare ancora / Possa il giorno continuare a riversarsi sui campi”).

La concretezza della vita viene celebrata attraverso la concretezza degli oggetti: una finestra, un muro, la cucina, un carciofo, la sigaretta (pantheon dei poeti!), a cui viene dedicata un’ode spiritosa e riconoscente. Eppure, anche nel glorificare l’esistente, il poeta è assillato da fosche previsioni sul futuro: “Quando non ci sarà più la banchisa dove nascondere gli orsi bianchi, loro cosa faranno? / Quando la metà delle isole sarà scomparsa, con le loro vecchie città costiere coloniali / Cosa faranno?”, “Cosa succede alle cassette postali delle case demolite?”

Se il tempo si fa oscuro, Moses si aggrappa all’illusione di un dio vicino e benevolo, a cui rivolge una laicissima e panica Preghiera: “Dio della pioggerella e della terra sonora / Dacci la forza di attraversare i giorni infausti / Dio degli uccelli esotici e dei fiori stupefacenti / Dacci la gioia del sole che cola nel groviglio dei rami / Dio della linfa e della nebbia / Dacci la dolcezza sensuale e la malinconica dolcezza / Delle stagioni che passano”.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei Libri del Mese» n. VII, luglio 2023