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RECENSIONI

CAROTENUTO

ALDO CAROTENUTO, I SOTTERRANEI DELL’ANIMA – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

 Lo psicanalista Aldo Carotenuto (Napoli, 1933Roma, 2005) è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo internazionale: tra i suoi numerosi volumi, Bompiani ha scelto di ripubblicare un testo fondamentale nell’indagine del rapporto che lega la creazione artistica con il malessere psichico: I sotterranei dell’anima, edito per la prima volta nel 1993, e ora riproposto: con il sottotitolo Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione e la cura di Erika Czako. Czako è stata allieva di Carotenuto, e oggi è un medico che si occupa dell’assistenza ai malati oncologici terminali: nella sua intensa prefazione al volume ricorda che il suo maestro aveva fondato nel 1992 il Centro Studi di Psicologia e Letteratura, ancora operante, sulla base della convinzione che la psicoanalisi sia un esercizio più prossimo all’arte che alla scienza, e lo psicoanalista un soggetto dotato dell’ipersensibilità e della vulnerabilità dell’artista. L’autore propone in questo testo un viaggio affascinante e inquietante negli angoli bui dell’anima, filtrato dalle pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, in particolare da quelle di Fëdor Dostoevskij e Joë Bousquet.

Esiste un pregiudizio millenario, espresso già da Platone e poi ribadito soprattutto dai romantici, che individua nell’alterazione mentale la fonte dell’originalità creativa: il folle come poeta, il malato come profeta visionario. In realtà la sofferenza psichica, e ogni patologia che ne deriva, isterilisce e non nutre, poiché non è in grado di comunicare e di produrre incontro. I grandi psicanalisti del ’900 manifestavano una visione riduttivistica della creatività artistica, ritenendola determinata da processi di frustrazione o sublimazione (Freud), di riparazione di un danno subito (Melanie Klein), di compensazione (Adler), di depressione (Segal). Più generosamente aperti verso la disposizione artistica si sono dimostrati Jung e Neumann, che ritenevano l’arte frutto di una tensione, di una trasformazione messa in atto dialetticamente tra la personalità individuale dell’artista e quella storica della collettività.

Carotenuto sostiene che la grande letteratura sa attivare nel lettore dinamiche profonde, tali da consentirgli la scoperta di parti di sé rimaste nell’ombra, mettendolo in grado di affrontare i propri demoni, trasformandone totalmente la visione della vita. Lo specifico dell’arte consiste nella trasfigurazione estetica del dolore, che viene così traslato sul piano delle sensazioni configurate da immagini. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ha segnato, nell’ambito della letteratura ottocentesca europea, un profondo mutamento della prospettiva narrativa, non più fondata su una rappresentazione oggettiva della vita sociale dell’epoca, ma sulla soggettività dei protagonisti. La focalizzazione da parte dello scrittore sulla dimensione interiore dei personaggi diventerà poi una peculiarità del romanzo novecentesco, come in Kafka e in Joyce. Il sottosuolo diventa metafora dell’inconscio, luogo demonico citato in tutte le mitologie, sede dei morti e di mostri, ma anche luogo di germinazione, di gestazione e di maturazione delle creature prima di affacciarsi alla luce. Il viaggio nella propria interiorità coincide sempre con il calarsi nella solitudine, nell’allontanamento dagli stimoli del mondo esterno: il protagonista dostoevskijano è consapevole della propria diversità, patita come sofferenza e malattia dell’anima, e lo afferma esplicitamente: “Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso… Non sono un uomo attraente … Io sono solo, mentre loro sono tutti… In tutta la mia vita non mi è mai riuscito di portare a termine nulla”.  Questo sentimento di inadeguatezza nei confronti degli altri, verso cui nutre sentimenti contrastanti e negativi, lo induce a trarre appagamento dal proprio male, dal proprio devastante nichilismo. Sentendosi incompreso, perseguitato dalla società, proietta su di essa il suo disagio, un vero e proprio odio: “Non posso soffrire la gente. La gente mi dà fastidio”. Carotenuto riconosce in questo atteggiamento masochistico un evidente intento autopunitivo, comune a molti pazienti che si rivolgono all’analista perché prigionieri del loro castello interiore abitato da fantasmi, ma insieme ammaliati dalle ombre sinistre e dagli angoli sordidi in cui si rifugiano, fino a trarre da questo disgusto di sé un piacere perverso. Nella sua rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità e senza futuro, l’uomo del sottosuolo si definisce “un infelice topo”, dando di sé quest’immagine: “Niente sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su con la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.

Nella propria lunga esperienza di analista, Aldo Carotenuto ha spesso osservato come in questi pazienti, che si sfiniscono in un processo di autoconoscenza e in “un dibattito incessante tra sé e sé e i propri immaginari interlocutori-giudici”, esista in realtà una grande ricchezza di visioni e fantasie interiori che spingono per uscire allo scoperto, e per farsi riconoscere dagli altri. Su questa occultata positività l’analisi deve operare, per permetterle una riemersione, come fa il pescatore di perle quando porta il tesoro recuperato in superficie.

Carotenuto, nella sua serrata indagine sul malessere masochista che si traduce in atteggiamenti autodistruttivi, prende in esame il meccanismo di identificazione con l’immagine paterna, che ha agito come elemento perturbante nella vita e nell’opera di Fëdor Dostoevskij. “Il rifiuto del modello genitoriale, il processo di differenziazione dalla potente immagine paterna” ha generato un soffocante senso di colpa, presente sia nell’esistenza dello scrittore sia nei suoi personaggi, spesso devianti dalla norma e dalla legalità (l’alcolizzato, il criminale, il giocatore, la prostituta…), e incapaci di adeguarsi al buon senso comune.

In chi rinuncia a confrontarsi con la realtà, in genere l’unica fonte di significato nell’interpretazione degli eventi diventa l’esercizio assoluto della ragione a discapito della dimensione emotiva e irrazionale, che viene negata e mortificata come indegna e umiliante, condannando in tal modo all’aridità dei sentimenti, alla paura delle emozioni, e a un’esistenza rigida e inappagante. “L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla”. In tale pericolo è caduto l’uomo occidentale da quando ha negato a sé stesso l’energia vivificante e liberatoria che deriva dall’esercizio dell’immaginazione, della fantasia, dell’utopia in grado di superare i confini del reale, ipotizzando modelli e ideali di vita inediti.

La seconda parte del volume di Carotenuto prende in esame la vita e gli scritti di un autore all’epoca poco noto, e oggi rivalutato e riproposto da molti editori: il francese Joë Bousquet, che durante la prima guerra mondiale riportò una lesione alla colonna vertebrale, rimanendo paralizzato per i restanti trent’anni della sua vita. Costretto a vivere a letto, nella penombra della sua stanza, colpito nella carne e ferito nell’animo, seppe rispondere alla tragicità del suo destino in maniera creativa e feconda, universalizzando la sua esperienza, sublimando il proprio supplizio: “Ecco: distrutto a vent’anni, ho voluto attraversare l’ostacolo che l’infermità erigeva in me, renderlo trasparente… Volevo che la ferita avesse un senso”. Privato del proprio corpo, Bousquet accettò di vivere nella sofferenza e della sofferenza, mediante il corpo della scrittura, che divenne innanzitutto conoscenza soteriologica, metodo di salvezza, individuale e collettiva: “Se una simile afflizione non mi ha ridotto alla disperazione è perché mi è rimasta la voce…  Scrivo per aprire con la solitudine un largo cammino verso gli altri”.

Aveva già sperimentato, prima dell’incidente, la fascinazione della morte, sia nell’uso adolescenziale di droghe, sia nel tormento di amori sconvolgenti e distruttivi, in una inquietudine che lo portò a offrirsi volontario per il combattimento in prima linea, quasi predestinato da una intenzionalità inconscia, in una ricerca di verità ultime, fisiche e spirituali. Riuscì a resistere, in seguito, alla tentazione del suicidio, mantenendosi attento e disponibile a ogni trasalimento del cuore, a nuovi innamoramenti, alla passione per la letteratura, all’incontro con diversi amici e intellettuali (tra cui Simone Weil) che lo visitavano con regolarità nella sua cittadina di Carcassonne. Secondo Carotenuto, “Ciò che trapela dalle pagine dei suoi diari, e che rende la lettura delle sue riflessioni così stimolante, è proprio la forza psicologica che esse emanano, che gli ha consentito non solo di convivere col suo dolore, ma di trasformarlo in materia poetica”.

Due scrittori, Dostoevskij e Bousquet, che hanno conosciuto e abitato i sotterranei dell’anima, con dolore, rabbia, frustrazione, affrontandoli e illuminandoli con diversità di sguardo e destino.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2023

 

 

RECENSIONI

GAFFORINI

LORENZO GAFFORINI, MILLIHELLEN – GATTOMERLINO, ROMA 2023

Nella nota critica a chiusura del breve romanzo di Lorenzo Gafforini, l’editrice Piera Mattei mette in luce due particolarità estremamente importanti del testo e del prodotto-libro: la metaletterarietà della scrittura e l’indovinata adesione del ritratto di copertina (una fotografia di Chiara Romanini) a spirito e trama del narrato.

Millihellen. Un incontro non segna l’esordio del giovane autore bresciano, che ha già pubblicato altri racconti e poesie: si presenta infatti come una prova matura, meditata nella costruzione del contenuto e calibrata nella resa formale. Diviso in due sezioni (Il malato di venerdì e Il lamento della bestia azzurra) scandite ciascuna in 50 brevi paragrafi, il volume racconta la tormentosa attrazione fisica e mentale che l’io narrante patisce per una misteriosa figura femminile.

Chi scrive rappresenta sé stesso come “schivo, diffidente”, in preda a una pena d’amore che lo tiene lontano dal frequentare il consorzio umano. Vede Helena per la prima volta dipinta sul quadro di un amico, e alla sua figura dedica alcune poesie. La ritrova dopo un anno, un venerdì sera di fine gennaio, ed entrambi si studiano con trepidazione nelle due ore passate a bere birra in un pub. Lei è molto alta, ha piedi piccoli e occhi azzurrissimi: non bella, ma eccitante. È ragioniera e lavora nell’azienda di famiglia: si mostra indipendente e curiosa. Lui scrive, e cura un aggiornato profilo su Instagram di articoli, commenti, poesie, foto. Si spostano nell’appartamentino di lui, bevono ancora e parlano molto. Lui esibisce narcisisticamente la propria cultura citando gli scrittori più amati, lei confessa con candida spudoratezza la sua passione per il corpo, le centinaia di amanti avuti e la soddisfazione che prova nel dare godimento a un uomo.

Il rapporto sessuale a cui i due si abbandonano viene descritto con puntuale meticolosità, insieme a un malcelato fastidio. Helena si fa riaccompagnare a casa, e promette di rifarsi viva passati cinque giorni. In realtà sparisce, e il romanzo assume una dimensione del tutto diversa, meno descrittiva, più meditata e sospesa. Un anno intero scorre veloce e monotono nella vita del protagonista, mentre Helena scompare dal suo orizzonte materiale, pur campeggiando imperiosa e ossessiva nelle fantasie mentali. Non bastano un soggiorno a Venezia, l’ambita promozione professionale, il vagheggiamento di future pubblicazioni gratificanti e la nostalgia suscitata da ricordi dell’infanzia, a distrarlo dai pensieri deliranti che lo invadono.

Accanito nell’esaminare i propri sentimenti, chi scrive è ben consapevole della irreale realtà del sentimento che lo assedia: “Non è amore, è qualcosa di ributtante e viscerale”, e oscilla tra l’aspirazione a una fredda e liberatoria razionalità da una parte, e l’abbandono al sogno e al desiderio: “Cerco Helena nel disordine calibrato e cosciente”.

Trova scampo nella frequentazione assidua della biblioteca cittadina, impegnandosi nella traduzione di un dramma tedesco del primo Nocecento: “vivo di ricerche, di messaggi subliminali dimenticati in opere catalogate e poi perdute”. Rimpiange Helena, l’approfondimento di un rapporto che avrebbe potuto trasformarsi in una relazione stabile e profonda, ma si fa irretire dai profili delle studentesse che gli siedono accanto, e in ognuna di loro vede trasfigurata l’immagine delle madonne dell’arte medievale: “Vivo nella certezza che Helena possa continuare a fuggirmi, ma anche a manifestarsi magnanima sotto altri nomi. Credo nella sua reincarnazione, questa volta più pura, audace. Un’astrusa metempsicosi. Quella che ho visto io, vissuto e toccato, è solo un’ombra di quello che potrebbe realmente essere”.

L’utopia amorosa a un tratto si svela nella sua mendacità, probabile pretesto di ispirazione letteraria “E se la mia fosse una scrittura meramente riepilogativa, senza il sano talento di trascendere il fatto? Ho avuto l’estremo bisogno di creare, per poi lasciarmi andare alle paure, alle suggestioni”.

La Helena conosciuta in una notte lontana si sovrappone ad altre ben più illustri Elene della poesia mondiale, da quella euripidea molto diversa dalla versione omerica, a quella di Marlowe, che le dedicò versi famosi: “Fu questo il viso che mille navi fece salpar?”, alla più recente citazione della poeta inglese Anne Carson. Giustamente quindi Piera Mattei nella postfazione parla per questo romanzo di metaletterarietà, aggiungendo ai riferimenti accennati da Lorenzo Gafforini, la Gradiva di Wilhelm Jensen, altra immagine fantasmatica nata dalla visione di un’opera d’arte. L’oscuro titolo del romanzo, Millihelen, viene spiegato da una nota dell’autore come derivato da un’unità di misura fittizia coniata in Inghilterra nei secoli scorsi, e poi da lui giocato riferendosi alla millesima parte della Helena umana rispetto alla Elena leggendaria, capace cioè di far salpare non mille, ma una sola nave, quella del protagonista impazzito d’amore: “Ha un tratto fosforescente il mio delirio”.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        3 ottobre 2023

RECENSIONI

SMITH

PATTI SMITH, A BOOK OF DAYS – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

Come preludio e introduzione ai prossimi tour in Italia di Patti Smith (sarà a Parma e a Gorizia il 4 e 5 ottobre, quindi tra novembre e dicembre in una serie di concerti acustici in teatri e luoghi sacri) l’editore Bompiani pubblica A Book of Days, un prezioso volume che raccoglie riflessioni, brani di diario, appunti e 366 fotografie scattate dall’autrice, a testimonianza del suo credo estetico e di una vita totalmente dedicata all’arte. Cantautrice, performer, visual artist, scrittrice, poeta, Patricia Lee Smith (Chicago30 dicembre 1946) è stata una protagonista atipica e rivoluzionaria del rock, del proto-punk e della New Wave degli anni settanta: il suo eccezionale carisma interpretativo e la potenza dei suoi testi le hanno fatto guadagnare il soprannome di ”sacerdotessa del rock”. La rivista Rolling Stone la inserisce al quarantasettesimo posto nella classifica dei cento migliori artisti e all’ottantatreesimo nella lista dei più grandi cantanti. Prima di quattro figli di un macchinista e di una cameriera-cantante jazz, entrò giovanissima a contatto con la musica. Trasferitasi a  Manhattan nel 1976, iniziò una tormentata ed intensa relazione con il fotografo Robert Mapplethorpe, i cui ritratti furono spesso utilizzati come copertine per i suoi album. Il primo grande successo fu  Horses, a cui seguì un’altra decina di album, e quindi un lungo periodo di ritiro dalle scene per motivi familiari e per una lunga depressione seguita ai gravi lutti patiti. Le sue canzoni si nutrono dei drammi del mondo contemporaneo, e il suo attivismo politico l’ha vista a fianco delle più importanti manifestazioni internazionali contro la guerra e per i diritti civili. Nel 2010 ha dato alle stampe il libro autobiografico Just Kids, vincitore del National Book Award.

Tutti questi complessi e intensi avvenimenti esistenziali hanno lasciato traccia nel volume edito da Bompiani, che nel risvolto di copertina viene definito “un viaggio caleidoscopico nella mente visionaria di un’artista suggestiva e inconfondibile, una lettura senza tempo per tempi molto incerti, una mappa ispiratrice della sua vita come della nostra”.

Patti Smith nella primavera del 2018 ha iniziato a pubblicare su Instagram le sue fotografie, sia quelle più antiche, scattate con la vecchia Polaroid Land 250, sia le recentissime, catturate in giro per il mondo con lo smartphone. In A Book of Days si susseguono, intercalando così atmosfere struggenti e nostalgiche con testimonianze appassionate di storie private e collettive, talvolta dolorose e drammatiche, oppure ironiche, spiazzanti, polemiche. Ogni foto è accompagnata da una breve didascalia scritta dall’artista su un taccuino o direttamente sull’i-phone. L’assemblaggio, intensamente meditato dal punto di vista dell’accostamento estetico delle immagini, è stato compiuto nei giorni di imposto isolamento della pandemia, e pensato come omaggio non solo alle persone che vi sono ritratte (a quelle vicine e viventi, a quelle perdute e rimpiante, a donne e uomini famosi che hanno fatto la storia e vengono immortalati nelle loro tombe, nei monumenti, negli autografi), ma anche alla bellezza dei giorni che a ciascuno è dato di vivere\. Camus e Murakami, Joan Baez e Bob Dylan, Giovanna d’Arco e San Francesco, Kurosawa e Werner Herzog, Borges e William Burroughs, Yoko Ono e Kurt Cobain… E poi la tazza del caffè mattutino, gli stivali consumati, la chitarra del marito, il gatto amato, i regali di Robert Mapplethorpe, la madre e le sorelle, i figli nelle diverse età, piazze e stazioni, spiagge e montagne. Regali, insomma, a chi volesse entrare nel mondo di Patti, provando a guardaridimensionando rlo attraverso i suoi occhi. “Trecentosessantasei modi di dire ciao”, come ha tenuto a scrivere nella prefazione, un po’ minimizzando, un po’ sottolineando la bellezza contagiosa dell’antologia.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 29 settembre 2023

 

RECENSIONI

BIANCIARDI

LUCIANO BIANCIARDI, GARIBALDI – MINIMUM FAX, ROMA 2020

Le edizioni Minimum Fax hanno ripubblicato la biografia di Garibaldi scritta da Luciano Bianciardi cinquant’anni fa: iniziativa lodevole e interessante, poiché si tratta di un testo vivace, scorrevole nella prosa, puntuale nelle ricostruzioni storiche.

Il profilo biobibliografico e la bibliografia dell’autore sono a cura di Fabio Stassi, che mette affettuosamente in luce la tormentata vicenda esistenziale di questo outsider della nostra letteratura, “un fuori misura” che stava “al mondo come per sbaglio”, “l’ultimo bohémien possibile”, come l’aveva definito Giovanni Arpino. Reso famoso dal romanzo La vita agra del 1962 (da cui Carlo Lizzani trasse un film con Ugo Tognazzi), Bianciardi era comunista e irriducibilmente ostile all’establishment culturale italiano che per tutta la vita cercò di ingabbiarlo, ammorbidendone carattere e ideologia. Nato a Grosseto nel 1922, morì non ancora cinquantenne, entrato “in una spirale autodistruttiva”, fatta di alcol, fumo e depressione. Era stato giornalista, straordinario traduttore dall’inglese e ottimo romanziere, nutrendo due grandi passioni: il calcio e il Risorgimento.

Il suo amore per questo periodo storico, iniziato già durante l’infanzia, trovò espressione in ben cinque libri, a partire dal 1960, fino all’ultimo dedicato all’eroe dei due mondi, uscito postumo nel 1972.
Garibaldi ripercorre la vita dell’unico grande condottiero rivoluzionario che ha avuto il nostro paese, a partire dalla nascita avvenuta il 4 luglio 1807 a Nizza, per ironia della sorte città passata alla Francia napoleonica qualche anno prima, poi tornata al Piemonte nel 1815, e definitivamente ceduta oltralpe nel 1859.

Ligure, soprattutto, ma anche francese e in seguito sudamericano, Giuseppe detto Peppino “veniva su dritto e robusto, non grande di statura ma con un bel portamento della testa bionda, della fronte ampia, della bocca facile al sorriso”. Generoso ed entusiasta di tutto, appassionato del mare, si imbarcò quindicenne come mozzo sul brigantino Costanza, dedicandosi da allora in poi alla vita marinara e al disegno insurrezionale di liberare l’Italia dal dominio straniero, trascinato dalla lettura di Saint-Simon e dei proclami mazziniani. Negli anni ’30, quando moti indipendentisti scuotevano tutta la nostra penisola, Garibaldi alimentava il suo anelito libertario: “dovunque vi siano tiranni, l’uomo giusto ha il dovere di accorrere e di battersi per la libertà dei popoli. Non basta amare il proprio paese e difenderne la libertà, occorre far sì che tutti i popoli si tolgano di dosso le catene”.
Condannato a morte in contumacia come cospiratore, riparato a Marsiglia e poi marinaio con tunisini e turchi, nel 1836 si imbarcò per Rio de Janeiro, dove venne accolto con entusiasmo dagli esuli italiani, si mise al servizio di ogni causa rivoluzionaria, a capo di ribelli, rivoltosi e pirati, dando inizio alla leggenda di coraggio e insubordinazione che lo accompagnò per tutta la vita.

Bianciardi racconta l’incontro con la diciottenne Anita, suo grande amore, moglie e madre dei suoi quattro figli, il ritorno in Italia nel ’48 (anno incendiario in tutta Europa) su una nave dal nome augurale, Speranza, il suo mettersi al servizio di principi, re, governi provvisori, a capo di un piccolo esercito di volontari straccioni, braccato dagli austriaci e sempre scampato all’arresto. Piemonte, Lombardia, Toscana, Roma eterna e papalina, Romagna, e qui la morte di stenti di Anita, la sua sepoltura “sconsacrata e frettolosa”.  Di nuovo in fuga, protetto ovunque da una rete di solidarietà popolare, fuggiasco a Tunisi, a Tangeri, a New York, a Panama, a Lima, a Canton, infine tornato in Europa nel 1854, dove ad aspettarlo c’era il re del Piemonte Vittorio Emanuele II con il suo Primo Ministro Cavour.

Il resto è storia, da tutti conosciuta e riportata in ogni libro scolastico: Quarto, Palermo, il notissimo “Obbedisco”, Mentana, Digione, fino al tramonto a Caprera. Tra la solitudine e l’inazione nell’isola sarda e l’elezione a deputato in Parlamento nel ’75, mentre intorno a lui morivano Mazzini, Manzoni, Vittorio Emanuele, Garibaldi malato ma circondato dall’amore dei figli e della terza moglie  Francesca Armosino, dettava il suo testamento, ferocemente anticlericale e fieramente repubblicano, e lasciava la terra il 2 giugno 1882, sepolto a Caprera alla presenza di quattromila persone: ministri italiani e stranieri, vecchi garibaldini, commossi estimatori di tutti i ceti sociali.

Nella postfazione al volume, Giancarlo De Cataldo giustamente sottolinea come da un “anarchico, ribaldo… al culmine di una vita urlata, di un’esistenza ‘contro’” come Luciano Bianciardi, ci si potesse aspettare una demitizzazione, una desacralizzazione della figura di Garibaldi, e non invece un così dichiarato amore, una tale rispettosa fedeltà, da “tifoso accanito”. In realtà, nell’esaltazione del grande combattente rivoluzionario – su cui in anni a noi più vicini era calato il velo dell’indifferenza e di una esibita antiretorica -, lo scrittore toscano aveva ancora una volta messo in luce il suo anticonformismo: “Credere in quella stagione eroica e nella sua persistenza nel tempo è l’atto di fede di un laico che, per quanto disincantato, ha individuato una bandiera nella quale riconoscersi e si ostina a sventolarla ad onta del generale scetticismo”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net             27 SETTEMBRE 2023

RECENSIONI

EPICOCO

LUIGI EPICOCO, PER CUSTODIRE IL FUOCO. VADEMECUM DOPO L’APOCALISSE

EINAUDI, TORINO 2023

 

L’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca, 12 49, “Sono venuto ad appiccare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!”, bene riassume l’appassionata sollecitazione che Luigi Epicoco suggerisce nel suo saggio einaudiano Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’Apocalisse. All’umanità di oggi manca il fuoco, che erroneamente si è sempre accostato all’immagine dell’inferno, mentre l’incandescenza, l’ardore, la luminosità della fiamma sono simboli di vita, di slancio, di passione, laddove invece è il ghiaccio che meglio rappresenta l’isterilimento di qualsiasi desiderio, l’assenza di energia, la mortificazione di ogni aspettativa.

Custodire il fuoco, non permettere che si spenga, alimentarlo, cercando nel buio una luce, nel gelo la scintilla del calore. È Dio la risposta che Epicoco (presbitero, teologo, docente alla Pontificia Università Lateranense) propone a donne e uomini disorientati, avviliti, arresi, per ritrovare entusiasmo e voglia di vivere? Forse la fede e la religione non sono l’unica via d’uscita da uno stato di precarietà e incompletezza. Il “Senso” come altro nome di Dio, l’innamoramento, la trasformazione di sé, uno scopo da raggiungere, un’esperienza capace di esprimersi in parola: tutto ciò potrebbe indurre a un cambiamento positivo. Non la preghiera consolatoria ma la ricerca inquieta, non una metafisica da indagare astrattamente, ma un Padre concreto e paradossale, che abita la terra e non il cielo, “un Dio infinito nel finito della storia. Il tutto che si riversa nel frammento. L’eterno che entra nel tempo”, nella contingenza che stiamo vivendo, qui e ora.

Si tratta essenzialmente di un capovolgimento di prospettiva, quello che l’autore di questo saggio – forse più filosofico che teologico – propone, servendosi come linea guida del romanzo La strada di Cormac McCarthy, commentato con adesione attenta e partecipe, nell’utilizzo di frequenti e illuminanti citazioni. Al testo di McCarthy si alternano pagine evangeliche, in supporto e conferma: il tradimento di Pietro narrato da Matteo, i morti resuscitati in Giovanni, Marco, Luca, e Maria Maddalena davanti al sepolcro vuoto. Ma è La strada il riferimento più importante scelto da Luigi Epicoco per illustrare la sua tesi. Il romanzo racconta il viaggio che un padre e il suo bambino intraprendono per scampare alla fine del mondo, dopo un evento apocalittico di cui non si sa nulla, trascinandosi a piedi attraverso un paesaggio disabitato, impauriti e affamati, testimoni di orrori e crudeltà, vittime del male ed essi stessi costretti a fare il male per difendersi dagli altri pochi superstiti, diventati minacciosi nemici:

“I giorni si trascinavano uno dopo l’altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L’uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L’uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l’uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione”.

Nel suo grigio abbandono, il futuro impensabile magistralmente narrato da McCarthy diventa per Luigi Episcopo espressione della mancanza di prospettive patita dall’uomo contemporaneo, nel proprio mondo interiore desertificato: può essere riscattata unicamente da un bambino “radioso come un tabernacolo”, che continuerà a vivere proiettandosi nel domani, unica possibilità di salvezza e redenzione.

Le vie di fuga cercate dagli adulti sono modi “per addomesticare la disperazione”: il materialismo, l’individualismo, la famiglia, la carriera, persino la ritualità religiosa si rivelano alibi vuoti, finalità illusorie. Solo l’attraversamento dell’inferno quotidiano e il suo superamento può permettere la riscoperta del desiderio, e condurre alla felicità. “Quando siamo infelici possiamo essere manovrati dagli altri, dal sistema, dalla cultura dominante, dalle ideologie, dalla dittatura delle cose. Le persone felici sono insopportabili perché non sono manovrabili. Sono radicalmente libere, e la radice della loro libertà risiede appunto nel fuoco dei loro desideri… Non si può essere felici mantenendo contenti gli altri. A un certo punto bisogna trovare il coraggio di deludere perché si ha diritto a diventare se stessi, a essere difformi dal resto del mondo… Ecco allora la sequenza del fuoco: desiderare la felicità; a partire da questo desiderio coltivare una passione. La passione può generare conflitto; ma essa va difesa e alimentata perché è lì il fuoco”.

 

© Riproduzione riservata              «La Poesia e lo Spirito», 25 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

BORGNA

EUGENIO BORGNA E LA POESIA

Eugenio Borgna (Borgomanero 1930), già libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano e Primario emerito dell’ospedale psichiatrico di Novara, è tra i principali esponenti della psichiatria fenomenologica, che sposta il suo oggetto di analisi dalla malattia al paziente. Sostenitore di una “psichiatria dell’interiorità” in grado di ricostruire la dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico, indagata attraversando letteratura, filosofia e arte, ha compiuto studi approfonditi sulla depressione e la schizofrenia, come dimostrano numerosi saggi scientifici e pubblicazioni divulgative. Fra i titoli della sua ricca produzione vanno citati: Malinconia (1992); Le figure dell’ansia (1997); Noi siamo un colloquio (1999); L’arcipelago delle emozioni (2001); Le intermittenze del cuore (2003); L’attesa e la speranza (2005); La solitudine dell’anima (2011); La fragilità che è in noi (2014); L’agonia della psichiatria (2022); Sull’amicizia (2022); Mitezza (2023).

Professore, in tutti i suoi libri sulla psichiatria e la psicanalisi, pubblicati soprattutto da Einaudi e Feltrinelli, si è soffermato spesso sull’importanza della poesia come strumento di conoscenza e riflessione interiore. Quali altri meriti attribuisce alla scrittura in versi?

Il leitmotiv dei miei libri, di quelli divulgativi in particolare, che sono i più letti, è sempre stato animato dalla poesia come strumento di conoscenza e di riflessione interiore. Non saprei riassumere meglio le premesse tematiche di questi miei libri che sgorgano, o almeno vorrebbero sgorgare, dalla interiorità. Lo ha scritto Sant’Agostino nelle Confessioni: “in interiore homine habitat veritas”, e in questo cammino la poesia ha una importanza radicale.

 

Quando ha iniziato a leggere con continuità i poeti, e con quali differenti rifrazioni sentimentali, nelle diverse età della vita che ha attraversato?

Ho incominciato a leggere poesia nella mia prima adolescenza. Mio padre, che era avvocato, ritornando da Milano, portava in casa una infinità di libri di letteratura e di filosofia, non solo ovviamente italiani, ma anche francesi e tedeschi. La casa sommersa di libri, e così c’è sempre stata una continuità dalla adolescenza alla età avanzata. Così, ad esempio, ho continuato a leggere dall’adolescenza i versi di Giacomo Leopardi e quelle di Antonia Pozzi, e le Confessioni di Sant’Agostino. Sono state stelle del mattino che non si sono mai spente.

 

Nel valutare la resa poetica di una composizione, viene più colpito dalle immagini, dalla musicalità o dal messaggio trasmesso?

Nel rivivere e nel ricreare uno stato d’animo lirico sono stato abitualmente affascinato dalle immagini più ancora che non dal messaggio trasmesso, o dalla sua musicalità.

I poeti che cita maggiormente nei suoi testi sono Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Antonia Pozzi. Quali altri nomi le sono particolarmente affini? Trova una differenza di intensità espressiva tra le voci femminili e maschili?

Alla voce poetica di Emily Dickinson, di Rainer Maria Rilke e di Antonia Pozzi si è sempre aggiunta quella suprema di Giacomo Leopardi, quella dei crepuscolari, di Sergio Corazzini e di Guido Gozzano, e non solo ma anche quella di Giovanni Pascoli e di Giuseppe Ungaretti. Ho sempre letto con passione le poesie di Nelly Sachs e di Georg Trakl, non molto conosciuto e conosciuta, quelle dei poeti romantici, come Clemens Brentano. Direi di non trovare differenze di intensità espressiva nelle voci poetiche femminili e maschili, sì, le une diverse dalle altre, ma non diverse nel fascino e nella magia, che si ridestano nel cuore.

 

Legge poesia contemporanea italiana? Che giudizio ne dà?

Non leggo, non ne ho avuta l’occasione, poesie italiane contemporanee,

Recentemente, in un’intervista sul Corriere della Sera, ha postulato una contiguità tra poesia e follia. Nel senso di un’intrinseca originalità della voce poetica, di una sua estraneità alla concretezza dell’esistenza, o di una particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica?

Le sue domande sul tema della contiguità fra poesia e follia sono originali e profonde, e quello che avvicina l’una all’altra, è la particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica.

 

È mai stato tentato dal desiderio di cimentarsi in prima persona con la scrittura in versi? Pensa che il suo stile sarebbe più vicino al crepuscolarismo, all’ermetismo, al surrealismo o al quotidiano prosastico in voga oggi?

Non ho mai avuto il desiderio di dare voce ad una poesia personale, che sarebbe stata, direi, quella crepuscolare. Non ne avrei avute in ogni caso le attitudini.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 settembre 2023

 

RECENSIONI

DI CERA

VALTER DI CERA, L’INFILTRATO DI DIO – TAU, TODI 2023

“Valter Di Cera rappresenta un incrocio fra un uomo e un film che ha cambiato la storia italiana”: così si apre la prefazione di Angelo Picariello al volume di Valter Di Cera pubblicato dalla casa editrice Tau, L’infiltrato di Dio. Dalle Brigate Rosse alla conversione. La storia di uno straordinario viaggio di fede. Una vicenda personale che si fa collettiva, politica, religiosa nel giro di anni cruciali, per l’Italia e ovviamente per chi l’ha vissuta, coinvolgendo in essa complici, vittime, oppressori e redentori che utilizzano armi da fuoco e armi di parole, minacce e preghiere, proclami di guerra e annunci di pace.

La narrazione in prima persona parte da un luogo e una data precisa: Roma, Via Metronia, 24 settembre 1979, prime ore del pomeriggio. Valter si trova a fiancheggiare in un’azione operativa l’allora capo riconosciuto delle Brigate Rosse, Prospero Gallinari, e così racconta la sua esperienza: “Dovevamo sostituire una targa a un’auto del parco auto delle Brigate Rosse, precedentemente destinata ad essere trasferita in Sardegna per l’assalto al carcere di massima sicurezza dell’Asinara per fare evadere tutti militanti storici delle BR (tra i quali Renato Curcio e Alberto Franceschini) o in subordine per un assalto all’interno del Ministero dei Trasporti a Roma”. All’arrivo di una volante della polizia, Valter si rifiuta di aprire il fuoco contro gli agenti, allontanandosi dal conflitto armato e permettendo in tal modo l’arresto di Gallinari: “avvertivo la grazia di aver deciso in libertà da che parte stare. Tra il bene e il male avevo detto di NO al male”.

Da questo incipit vibrante di tensione e drammaticità, parte una ricostruzione degli anni di piombo, dal 1968 al 1974, e delle motivazioni che avevano indotto l’autore ad aderire giovanissimo alla lotta armata, conducendolo poi lentamente a una presa di coscienza più responsabile e a un impegno fattivo di contrasto al terrorismo.

Il racconto si snoda a partire dall’infanzia, trascorsa serenamente in una famiglia piccolo-borghese nel quartiere popolare di Centocelle, con la frequentazione della parrocchia, e poi il confronto adolescenziale con una realtà sociale e politica tormentata, tra lotte studentesche e operaie, stragi fasciste, omicidi e gambizzazioni da parte delle prime cellule terroristiche, che Valter – nato nel 1958 -, aveva vissuto con sgomento, fino all’adesione liceale a Comunione e Liberazione, sostenuta anche da un ambiente domestico profondamente religioso. L’impegno nelle attività caritative in favore dei sottoproletari e degli indigenti della zona acuisce la sua sensibilità nei confronti di tutte le discriminazioni sociali: “una sensazione di ingiustizia mi si appiccicò addosso pesando come un macigno, la stessa ogni volta che venivo a contatto con realtà simili”. Proprio questa ricettività verso le sofferenze degli strati più poveri della popolazione negli ultimi anni del liceo avvicina l’autore – sia ideologicamente sia nella pratica – ai partiti di sinistra, dapprima a quelli riformisti, quindi ai gruppi extra-parlamentari.

Contattato da alcuni estremisti, il giovane diviene vittima di un meccanismo di cooptazione e reclutamento basato su tecniche manipolatorie, attraverso un processo di depersonalizzazione che utilizza “pochi e ripetitivi concetti fissi, slogan e parole d’ordine stereotipate”. Dopo alcune azioni di appoggio, sempre meno condivise e talvolta addirittura boicottate, il battesimo di fuoco del settembre 1979, finito con la cattura di Gallinari, rendono Valter sospetto agli occhi dei dirigenti brigatisti, che iniziano a escluderlo dall’operatività attiva. L’accusa di essere un infiltrato delle forze dell’ordine all’interno delle BR avrebbe dovuto concludersi in una condanna a morte, se non fosse opportunamente intervenuto il reclutamento nella Divisione Folgore, al confine estremo del Friuli.

Nella narrazione dell’autore, questo è il secondo appuntamento che il destino (o un provvidenziale intervento soprannaturale) gli preserva per condurlo alla svolta esistenziale del 1982, dopo due anni di servizio militare con i gradi di caporale, in cui medita consapevolmente di mettersi a disposizione dello Stato per combattere il terrorismo e far uscire l’Italia dalla drammatica emergenza degli anni di piombo. Quando viene arrestato e trasferito al Reparto Operativo dei Carabinieri nel centro di Roma in qualità di reo confesso, interrogato dal Maggiore Mario Mori e dal Capitano Domenico Di Petrillo, dichiara subito la sua decisione di collaborare con le forze dell’ordine e con i servizi di intelligence nell’antiterrorismo. Valter Di Cera cita, con grande rispetto e stima per il loro operato, i nomi notissimi dei magistrati che avevano raccolto le sue testimonianze: il Pubblico Ministero Domenico Sica, i giudici Rosario Priore, Achille Gallucci, Ferdinando Imposimato, Severino Santiapichi.

Da quella data fino al 2014, Valter continua ad avere un ruolo di primo piano come consulente operativo sia nel R.O.S. dei Carabinieri sia all’interno degli Apparati della Presidenza del Consiglio dei Ministri, offrendo una serie di informazioni di prima mano che portano all’arresto di una quarantina di militanti e fiancheggiatori brigatisti, e alla scoperta di diverse basi e depositi di armi da guerra. Con il nome di battaglia di Messico, pur rimanendo detenuto, viene reclutato dalla sezione Anticrimine dei Carabinieri per partecipare alle attività di indagine, pedinamento e cattura dei latitanti, con l’ulteriore obiettivo di prosciugare il bacino di reclutamento di massa delle BR.

Il romanzo autobiografico di Valter Di Cera prosegue narrando dettagliatamente la sua partecipazione agli scontri armati che condussero allo smantellamento definitivo del terrorismo nel 1990, con inquadrature veloci e mozzafiato di episodi cruenti e rischiosi, appostamenti, sparatorie, perquisizioni e arresti, come nei più incalzanti film d’azione. Si sofferma poi sulla conversione del protagonista, incoraggiata da figure religiose straordinarie, che per sottrarlo alle minacce di morte delle Br, lo nascondono in un convento. Con la ripresa degli studi universitari e il suo avvicinamento al Movimento dei Focolari grazie all’aiuto fraterno della co-fondatrice Graziella De Luca, il difficile itinerario esistenziale dell’autore approda a una nuova e consapevole vita civile da uomo libero, finalmente in grado di costruire un futuro di pace per sé e per gli altri.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net   19 settembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CARROLL

LEWIS CARROLL, CONTRO LA VIVISEZIONE – ELLIOT, ROMA 2014

Di Lewis Carroll (1832-1898), scrittore, matematico, fotografo e logico britannico, tutti conoscono i due romanzi dedicati ad Alice, se non per lettura diretta, perlomeno per averne visto la trasposizione cinematografica. Ma questo suo testo pubblicato da Elliot costituisce una sorta di rarità editoriale, poco noto nella radicalità delle tesi espresse e nella vivacità di scrittura.

Contro la vivisezione è un pamphlet pubblicato in rivista nel 1875, accolto con interesse e polemiche proprio perché nello stesso anno erano stati presentati due progetti di legge (di cui uno firmato anche da Charles Darwin) per regolamentare la sperimentazione sugli animali, in quegli anni praticata e difesa culturalmente negli ambienti medici e scientifici di tutta Europa.

In Inghilterra la diffusa sensibilità popolare nei confronti del mondo animale aveva trovato espressione in una legge del 1822 che puniva i maltrattamenti nei confronti di cavalli, asini, buoi utilizzati per motivi di lavoro. Al 1824 risale poi la fondazione della prima Società per la protezione degli animali.

Il saggio di Lewis, teso a confutare le falsità dei sostenitori della vivisezione, e a incoraggiare un più stretto controllo sociale della medicina, investiva essenzialmente il rapporto tra scienza ed etica, interrogando i lettori sulla responsabilità dell’uomo nel suo rapporto quotidiano con l’ambiente naturale e chi lo abita.

Senza arrivare al fanatismo di chi ritiene che uccidere un animale sia sempre e comunque un delitto (dovrebbe valere anche per gli insetti!), Carroll non condanna l’umanità che si nutre di carne o pesce, né dimostra di essere uno strenuo difensore del vegetarianismo, ma si indigna davanti a chi provoca l’inutile sofferenza di qualsiasi essere vivente. Confuta quindi come prive di senso le argomentazioni dei difensori della vivisezione per ragioni scientifiche, accampando ad esempio la superiorità del genere umano rispetto a quello animale, e il diritto a difendere l’umanità dal dolore e dalle malattie, presupponendo che “la sofferenza umana e quella animale siano diverse ‘per natura’”. Nemmeno gli sport venatori, come caccia e pesca, procurano tanto dolore quanto la vivisezione, in quanto in genere producono nelle vittime una morte subitanea.

Inoltre la vivisezione crea in chi la pratica una sorta di assuefazione morale e di imperturbabilità, annullando il sentimento di compassione nei confronti delle cavie: “la tortura, quando il primo istinto di orrore viene attenuato dall’abitudine, diventa, innanzitutto, indifferenza; poi interesse morboso; in seguito, vero e proprio piacere, infine una gioia feroce e terribile”.

Il degrado etico che Carroll teme nell’acutizzarsi e diffondersi della tecnica eccedente ed evitabile  della vivisezione potrebbe addirittura estendersi a esperimenti sugli esseri umani, con la possibilità “che un giorno l’anatomia reclami per sé , come soggetti leciti per la sperimentazione, dapprima i criminali condannati, poi i pazienti nei sanatori per malattie incurabili, quindi gli infermi di mente senza speranza, i ricoverati negli ospedali per i poveri e, in genere, ‘chiunque sia senza soccorso’”.

L’appello appassionato di Lewis Carroll risale a centocinquant’anni fa. È assurdamente allarmistico lo scenario distopico che prospetta? “Quel giorno avremmo costruito un nuovo e più tremendo Frankenstein, un mostro senz’anima fatto solo di scienza”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        16 settembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

ARREOLA

JUAN JOSÉ ARREOLA, BESTIARIO – SUR, ROMA 2015

Un celebre e celebrato libriccino di Juan José Arreola edito in spagnolo nel 1963, è stato tradotto dalle edizioni SUR nel 2015, con la postfazione di José Emilio Pacheco, che da ragazzo si era incaricato della sua trascrizione sotto l’estemporanea dettatura dell’autore. Per una settimana, il giovane si era dedicato a registrare l’inarrestabile flusso di parole e immagini scaturito dalle labbra di uno degli scrittori messicani più influenti del ’900, “come se stesse leggendo un testo invisibile”. Con umiltà, Pacheco ha sempre affermato che l’essere ricordato negli annali letterari del suo paese come “l’amanuense di Arreola”, era stato per lui fonte di sincero e legittimo orgoglio. Da quegli incontri vivacemente improvvisati, era nato il testo di Bestiario, raccolta di microracconti, di bozzetti fulminanti, sarcastici, surreali, dedicati al mondo animale nelle sue analogie con i caratteri umani.

Juan José Arreola (1918-2001) oltre che poeta e romanziere era stato giornalista, editore, e aveva praticato numerosi e umili lavori: facchino e venditore ambulante, tipografo e panettiere, contabile e teatrante, arricchendo di molteplici e mai banali esperienze la sua visione consapevolmente amara dell’esistenza. Di tale caustica e consapevole disillusione riguardo alla natura di uomini e bestie sono intrisi tutti i brevi ritratti raccolti nel libro, e già se ne avverte una traccia nel Prologo, ferocemente caustico: “Ama il prossimo tuo malandato e spregevole. Ama il prossimo maleodorante, coperto di miseria e venato di luridume… Ama il prossimo suino e gallinaceo, che trotta festoso verso i crassi paradisi del possesso animale… E ama la prossima che… con un pigiama da vacca comincia a ruminare senza fine il pastoso bolo alimentare del tran tran domestico”.

Gli animali rappresentati non hanno mai niente di mansueto e domestico: con una prevalenza di presenze selvatiche, rapaci, infide, sono descritti sia come esemplari nella loro unicità, sia nella classe di appartenenza: felini, insettiadi, camelidi, cervidi, acquatici…

Di tutti loro viene sottolineata l’origine ancestrale, di gran lunga precedente all’apparizione dei primi ominidi. “Già molti millenni prima (quanti?), le scimmie decisero il loro destino opponendosi alla tentazione di essere uomini. Non caddero nel progetto della ragione e pertanto sono ancora in paradiso: caricaturali, oscene e libere a modo loro”, “L’elefante arriva dal fondo delle ere ed è l’ultimo modello terrestre di macchina pesante”,

Le similitudini con gli esseri umani sono inusuali e divertenti: “Tutti, falconi, aquile o avvoltoi, ripassano come frati silenziosi il loro noioso libro d’ore”, “Il gran rinoceronte si blocca… investe come un ariete… accecato e inferocito, con l’impeto irremovibile di un filosofo positivista”, “Apparteniamo a una triste specie di insetti, dominata dall’impero delle femmine, vigorose, sanguinarie e tragicamente rare. Per ognuna di queste ci sono venti maschi deboli e sofferenti. Viviamo in fuga costante”, “Il latrato spasmodico della iena è un modello esemplare della risata notturna che sconvolge il manicomio”, “L’ippopotamo si annoia enormemente e si addormenta sulla riva della sua pozzanghera, come un ubriaco accanto al bicchiere vuoto, avvolto nel suo mantello colossale”, “Ho ascoltato le grida di giubilo delle foche, le loro risate procaci, le loso false invocazioni da naufraghi”.

Forse un po’ di affettuosa simpatia è riservata da Arreola solamente “alla cordiale misura dell’orso che balla e monta in bicicletta, e che a volte può esagerare e triturarci con un abbraccio. Con lui è sempre possibile intavolare un’amicizia, mantenendo le distanze, e sempre se non abbiamo un’arnia in mano… Per quanto siano adulti e atletici, conservano qualcosa del bambino…”.

In questo zoo letterario, ritroviamo quotidianità ed estraneità del nostro vivere di donne e uomini, erotismo e crudeltà, tradimenti e avidità, “come in uno specchio depressivo” ci riconosciamo anche noi della stessa razza animale.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 15 settembre 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KAPLLANI

GAZMEND KAPLLANI, LA STRADA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Il secondo romanzo pubblicato da Gazmend Kapllani con l’editore Del Vecchio, dopo Breve diario di frontiera del 2015, si intitola La strada sbagliata. Kapllani è uno degli scrittori albanesi di maggiore spessore internazionale: nato a Lushnje nel 1967, esiliato in Grecia nel 1991, oggi è docente universitario a Boston, e si occupa di razzismo, nazionalismi, sistemi totalitari, persecuzioni etniche, migrazioni, censure culturali e linguistiche.

Il protagonista de La strada sbagliata si chiama Karl, e torna nella città natale di Ters, in Albania, ventisette anni dopo averla lasciata. Torna per partecipare al funerale del padre, e trova il suo paese ancora più desolato e imbruttito di quando l’aveva lasciato, deturpato dalla cementificazione e dagli abusi edilizi favoriti dai governi succeduti alla caduta del comunismo. Nella piazza centrale osserva spaesato e senza alcuna simpatia i suoi concittadini: “Davanti a quei volti familiari ed estranei, agli edifici deformati della città nuova e alla città vecchia sulla collina che pareva immutata da sempre, Karl si sentiva in una terra di mezzo: straniero nella propria città, nativo in una città straniera”. Questa estraneità, non appartenenza, crisi identitaria accompagnerà il protagonista del racconto, alter ego dell’autore, nello svolgersi di tutta la narrazione, insieme al dualismo che ne investe ogni aspetto: nella struttura a due voci, distinte anche graficamente tra tondo e corsivo, nel contrapporsi di vita e morte, presente e passato, tradizione e novità, inquietudine e immobilismo. Una duplicità rappresentata soprattutto dal confronto-scontro con la figura del fratello Frederik, rimasto in patria, arroccato a un’ideologia obsoleta e a pregiudizi morali, ferito costantemente dal senso di inferiorità nei confronti di Karl, superiore a lui in età, in esperienza, cultura: “Karl aveva vissuto sotto cieli eterogenei, aveva parlato e scritto in lingue differenti, aveva amato donne di nazionalità diverse. Frederik aveva vissuto nella stessa città dove era nato, nello stesso palazzo, allo stesso piano, nella stessa casa, realizzando così quell’ideale paterno legato alla continuità delle generazioni, senza fratture, che secondo lui costituiva l’unica possibilità per diventare un uomo felice e di sani principi”. I due fratelli, che il padre insegnante comunista e convinto sostenitore del regime di Enver Hoxha aveva voluto chiamare con i nomi di Marx ed Engels, non riescono a rompere la barriera che li separa ideologicamente e affettivamente nemmeno davanti alla bara del genitore.

Karl ripercorre le vicende che l’hanno condotto a emigrare, prima in Grecia, poi in America, a partire dalla laurea discussa all’università di Tirana nel febbraio del 1991, quando la ribellione contro il governo aveva incendiato la città, negli scontri tra polizia e studenti in cui si era trovato coinvolto. La decisione successiva di procurarsi un visto falso per superare la frontiera lo aveva accomunato alla scelta di moltissimi altri albanesi, che da quell’anno decisero di espatriare in massa: “Dopo mezzo secolo di completo isolamento dal mondo, in tanti si affrettavano a lasciare il paese, come prigionieri in fuga dalle carceri o colpevoli che scappano dalla scena del crimine”. L’incontro con una donna greca più anziana di lui, Clio, la loro convivenza durata quasi vent’anni aveva fatto di Karl un uomo nuovo: “Bello, giovane, potente e fragile allo stesso tempo, desideroso di correre verso il futuro, per trovare una nuova patria, un nuovo io”. Diventato presto ad Atene un “immigrato integrato con successo”, pur continuando a lavorare come receptionist in un lussuoso hotel del centro di Atene, Karl aveva iniziato a pubblicare saggi e volumi sulla questione dell’emigrazione albanese, firmando sul suo blog una serie di denunce contro il razzismo che ben presto gli avevano attirato odio e minacce da parte dell’opinione pubblica più retriva e dei nazionalisti di Alba Dorata. Abbandonata Clio, si era concesso una serie di avventure erotiche effimere, roso da un’inquietudine che presto lo condusse a lasciare l’Europa per iniziare un’esistenza più libera, accanto a una nuova compagna, negli Stati Uniti.

Il quarto e ultimo complesso capitolo del romanzo di Kapllani sembra voler riassumere gli spunti narrativi e le riflessioni sparse nelle pagine precedenti, recuperando la descrizione delle giornate trascorse a Ters dal protagonista. Alle considerazioni di Karl sulla natura e la storia della sua città natale e sui mutamenti verificatisi nei costumi e nel linguaggio degli abitanti, fanno da contraltare i severi giudizi di Frederik sulla corruzione derivata dall’offuscamento dei valori tradizionali: “Capita che Ters soffochi, irriti e spaventi… la salvezza è il ritorno all’identità forte e al nazionalismo. Il nazionalismo non è odio per gli altri, è amore per te stesso, per la tua lingua, per la tua nazione, per le tue radici, per la tua razza. Il nazionalismo è disciplina, gerarchia, ordine, purezza, rispetto della natura umana. È il fuoco che purificherà e porterà a sé questo mondo che sta uscendo di senno…”.

Il dissidio tra i due uomini si concretizzerà intorno alla partecipazione ai funerali di una ragazza incinta uccisa dal suo amante, ricco uomo d’affari, stimato e temuto nella comunità: in Karl prevale pietà e comprensione, nel fratello, arroccato nei pregiudizi della maggioranza silenziosa, condanna e riprovazione.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            9 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GAZMEND KAPLLANI, LA TERRA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023, p. 182

Trad. di Ermal Rrena e Rossella Monaco