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RECENSIONI

CERESA

ALICE CERESA, LA FIGLIA PRODIGA – LA TARTARUGA, MILANO 2023

Esploratrice dei disvalori trasmessi dalla famiglia di stampo patriarcale, Alice Ceresa (Basilea 1923 – Roma 2001) nei suoi libri, in tutta l’intensa attività culturale svolta, e soprattutto nella radicalità delle scelte esistenziali, ha offerto una preziosa testimonianza letteraria e civile, sia dal punto di vista dell’originalità innovatrice della scrittura (aderì allo sperimentalismo del Gruppo ’63), sia nella coraggiosa denuncia delle discriminazioni patite dalle donne nell’ambiente domestico e nella società. Giustamente quindi la rediviva e storica collana La Tartaruga, diretta oggi da Claudia Durastanti, ha deciso di riproporne l’opera.

Alice Ceresa nacque, crebbe e lavorò in Svizzera come giornalista e traduttrice, per trasferirsi nel 1950 a Roma, dove assunse ruoli di primo piano nel mondo dell’editoria e della pubblicistica. Dopo La figlia prodiga (Einaudi 1967, Premio Viareggio Opera Prima), pubblicò solamente un altro romanzo, Bambine (Einaudi 1990). Sono usciti postumi il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo 2007) e La morte del padre (Baldini&Castoldi 1922). Pur aderendo ideologicamente alle tematiche femministe, ne rifiutò gli stereotipi più banali, approfondendo invece l’analisi introspettiva dei caratteri e le motivazioni delle scelte individuali delle donne: temi trattati con ruvida ironia, lontani da sentimentalismi retorici, da rancorose rivendicazioni o inutili vittimismi. La sua narrativa ha stigmatizzato le contraddizioni e le rimozioni che la società contemporanea manifesta nei riguardi dell’altra metà del cielo, e lo ha fatto attraverso moduli stilistici già di per sé perturbanti nella loro originalità. Lo testimoniano i giudizi con cui importanti critici (Vittorini, Calvino, Fortini…) lodarono il suo primo romanzo, proponendolo e votandolo al Premio Viareggio. Maria Corti scrisse: “In un impianto trattatistico atemporale i personaggi, depurati di ogni concretezza e modellati in un vuoto ambientale e storico, si muovono al tocco di una logica formale che li rende esemplari”. E Giorgio Manganelli fu ancora più entusiasticamente munifico: “Scritto in una prosa scandita, quasi versetti, La figlia prodiga si distingueva per la sua perfetta mancanza di riferimenti ad alcunché di concreto. Non era il racconto di una figlia prodiga, né l’analisi psicologica, né la descrizione, ma piuttosto una chiosa elaborata e capziosa su un concetto mantenuto del tutto intangibile. Alcuni, e io tra questi, lo trovarono un libro affascinante, per certo versi unico; pertanto, sicuri di non sbagliare, ci mettemmo in attesa del secondo libro. Eravamo impazienti; eravamo curiosi. Mai scrittore al mondo riuscì a frustrare una impaziente attesa in modo più meticoloso. Passarono gli anni, e ogni tanto giungeva una voce: la Ceresa lavora al secondo libro. Gli anni divennero decenni”.

La figlia prodiga è più di un romanzo, e ben si merita l’attenzione che le è stata attribuita alla fine degli anni ’60. È infatti anche saggio, pamphlet polemico, parabola allegorica, racconto formativo, che segue, più che una trama concreta di fatti e azioni, i meandri della riflessione irrequieta e ombrosa dell’autrice. Del suo libro, l’autrice ebbe a dire: “Il personaggio di cui si parla è un personaggio incredibile e improbabile… Ho tentato di narrare un’avventura individuale nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e ‘probabile’ un tessuto astrattoPrima e oltre che essere un prodotto sociale, è un fenomeno semantico”.

Oggetto della narrazione è la ribellione di una ragazza all’interno della propria famiglia, ribellione che si protrae nel tempo contro ogni tipo di istituzione feroce nel sottoporre le donne a regole indiscusse e indiscutibili, persino nella loro plateale ingiustizia. La protagonista si oppone, con protervia e orgogliosa autonomia, al ruolo cui la si vuole obbligare, e a differenza del figliol prodigo evangelico, che dilapida i beni materiali del padre, il suo sperperare si manifesta attraverso una libertà di pensiero e di scelte di vita del tutto anticonvenzionali, che la rendono invisa ai parenti, ripudiata perché ripudiante l’ordine imposto. La radicalità sovversiva di questa posizione (che ricalca la biografia dell’autrice, allontanatasi dalla casa paterna ticinese a sedici anni per inserirsi nell’ambiente intellettuale germanofono) viene ribadita dall’impianto formale del romanzo, di cui Laura Fortini afferma, nella penetrante e intensa prefazione al libro: “Scritta con un linguaggio preciso e quasi micidiale nella sua tagliente microchirurgia del dettaglio”, propone una “prosa scandita da pause impervie e al tempo stesso furiosamente fluente nel distillare i termini del problema, lo scandirsi dell’infanzia, la presa di coscienza, l’età adulta della figlia prodiga, ovvero il divenire una soggettività femminile imprevista”. Non solo imprevista, ma addirittura sconcertante nella sua indomita disobbedienza. “Una figlia prodiga è senza dubbio una persona da una parte unica e dall’altra esemplare”, perché scardina e corrode i rapporti familiari già da bambina, estranea all’istinto filiale, lontana dalle “sante, sacre e buone cose della famiglia”, eccentrica nella sua provocatoria innocenza, capace di usare la dissimulazione “contro il mondo e per difendere non difendibili e dal mondo messe al bando cose”. “L’ordine delle famiglie, è risaputo, non prevede le figlie prodighe… perché

non appena sono prodighe

le considera figlie degeneri o figlie sbagliate e dunque figlie

solo fino ad un certo punto”.

 

Di questa bambina “infingarda” non veniamo a sapere nemmeno il nome, quasi ci bastasse a definirla il suo atteggiamento ostinato e arrogante, indifferente al turbamento dei genitori, fomentatore di reciproco malessere e fastidio. Il corso della sua esistenza verrà scandita a tappe: infanzia, adolescenza, maturità, con un’attenzione meticolosa al suo indecifrabile mondo interiore, all’unicità e al differenziarsi del proprio esserci rispetto a ciò che è altro da sé, tra adeguamento alla norma ed eccezione alla norma.

Non è solo la famiglia patriarcale a venire presa di mira da Ceresa, né la società maschilista o l’eterosessualità imposta come regola, bensì la letteratura stessa, ossidata e immobile, incapace di reinventarsi, di giocare e di mettersi in gioco.

la letteratura non esiste. Solo esistono le storie. Le

quali, prima di venire raccontate

accadono

e storie sono quando accadono

e non quando più o meno casualmente vengono raccontate.

Ceresa usa infatti abilmente vari codici formali (dalla parodia alla satira, dall’esposizione sistematica all’allegoria e alla provocazione polemica) e figure retoriche poco utilizzate in narrativa (anacoluti, anastrofi, iperboli, pause, circonlocuzioni, ripetizioni ossessive, spaziature, continui e imprevedibili a capo, arcaismi e neologismi), con l’evidente intenzione di provocare in chi legge un continuo stimolo all’analisi, alla riflessione, forse anche un’inasprita concentrazione sulle soluzioni lessicali e semantiche proposte.

Già dalle pagine iniziali troviamo una sorta di dichiarazione d’intenti, una disquisizione sia letteraria sia filosofica su cosa significhi appartenere ai due differenti sessi, bloccati in sedimentazioni culturali, e in che modo si possa/debba decifrare tale opposta diversità. La frase d’apertura del romanzo appare subito spiazzante, non solo per la disposizione grafica:

Sarebbe giocare di malriposta astuzia

raccontare una storia di questo genere come si potrebbe

raccontare una storia qualunque.

 

Non si tratta, infatti, di una storia qualunque, ma di una storia paradigmatica mai circostanziata nei particolari, che nel finale dichiara beffardamente, scandalosamente, la propria simulazione programmata:

 

l’unica verità possibile di una storia, che sarà sempre sia poi

nell’un modo, sia poi nell’altro,

solamente ed eternamente

un inganno.

 

Nei due romanzi successivi (La morte del padre e Bambine) è ancora il modello tradizionale e patriarcale di famiglia ad essere preso di mira, con durezza e caustico sarcasmo, e senz’altro ciò ha fatto di Alice Ceresa un faro della letteratura di genere, anticipatrice delle tematiche femministe e omosessuali del terzo millennio. Ma è soprattutto l’originalità e l’estrema maestria stilistica di questa appartata, scontrosa, destabilizzante scrittrice a meritarle, nel centesimo anniversario della nascita, un posto di eccellenza tra i narratori italiani del secondo Novecento.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 4 luglio 2023

 

RECENSIONI

BENNETT

ALAN BENNETT, ARRESTI DOMICILIARI, ADELPHI MILANO 2023

Nato a Leeds nel 1934, il drammaturgo e sceneggiatore Alan Bennett è noto per lo humor tagliente
che caratterizza le sue pièce teatrali (le più famose rimangono La pazzia di Re Giorgio del 1991 e Gli
studenti di storia del 2004) e i suoi pamphlet, in cui vengono stigmatizzati ipocrisie e compromessi
della società occidentale contemporanea. L’ultimo lavoro di Bennett pubblicato nella collana
Microgrammi del suo unico editore italiano, Adelphi, consiste in un diario scritto durante la pandemia
del Covid 19. Diario polemico già dal titolo: Arresti domiciliari. All’effettiva tragedia che per quasi
tre anni ha tenuto il mondo sull’orlo della catastrofe sanitaria, minacciandone oltre che la salute fisica
quella mentale, si è infatti aggiunto il flagello di una comunicazione mediatica ossessiva, morbosa,
ansiogena, dai risvolti spesso ridicoli, che il sarcasmo dell’autore, acuito dall’acredine dei suoi quasi
novant’anni, non manca di sottolineare.
La proverbiale unghiata del vecchio leone in questo libretto si limita ad alcune riuscite battute: “14
marzo, Da buon over 70 sono ufficialmente esortato a starmene isolato e in casa. Il mio normale
trantran adesso ha l’endorsement del governo”, “10 aprile, Venerdì Santo, quest’anno Pilato non è il
solo a lavarsi le mani”, “15 maggio, Le mie mani non mi sono mai piaciute molto. Ora, ultralavate
come prescritto, sono quasi inguardabili: lucide, venose, trasparenti come un’illustrazione
anatomica”, “31 dicembre, Purtroppo la malattia e il rimedio iniziano ambedue con la «v» e, visto
che a ottantasei anni (chiedo scusa) li confondo, in testa alla coda per il vaccino dico che devo fare il
virus – comincia anch’esso con la «v».
È invece una malinconica tenerezza il sentimento che prevale nella narrazione: compassione verso di
sé e verso gli altri, indulgenza per i piccoli sotterfugi cui la comunità di amici e vicini di casa è
costretta per non sottostare ai diktat governativi, benevolenza nei riguardi di luoghi abbandonati nella
solitudine, rimpianto per il passato.
I ricordi si fanno pressanti, quando si è impediti ad affrontare le giornate con i ritmi e gli impegni di
prima della malattia. Memorie infantili improvvisamente tornate incalzanti: il timore materno per
l’unico contagio ritenuto pericoloso in passato, quello della tubercolosi; le insopportabili sedute dal
barbiere; il rito della pesca domenicale cui il padre obbligava tutta la famiglia. Un padre macellaio
amato e temuto dai figli, e ricordato con stima dai vicini, secondo l’impertinente affermazione che
uno di loro aveva rivolto al famoso scrittore: “Pazienza se è famoso, lei. Non varrà mai come suo
papà”.
Ma anche ricordi più recenti, come le prove teatrali, i bisticci con gli editori, le morti degli amici, un
deludente incontro con Graham Greene (“la sua mano fu la più molle che avessi mai stretto”), e le
caustiche considerazioni politiche sulla monarchia inglese e la Brexit, su Trump e Biden, sull’insulso
Boris Johnson: “È un pessimo oratore e parlatore in generale, fa quasi pena”.
E poi il deprimente momento attuale, con i problemi fisici che impongono “una vita sempre più
medicalizzata”: l’artrite, il bastone cui appoggiarsi, l’apparecchio acustico, la rinuncia alla bicicletta.

Il Covid permette solo qualche incontro sporadico nel parco vicino a casa, brevi colloqui da un marciapiedi all’altro, nessun girovagare tra i negozi dei rigattieri: Rupert, il compagno di Alan Bennett, non deve più uscire per recarsi all’ufficio, fa pilates collegandosi a Zoom, e quindi può dedicarsi a lui con tutta la dedizione possibile. Gli taglia i capelli, gli prepara il tè, lo accompagna nelle passeggiate, lo distrae con conversazioni spiritose. Leggono libri, commentano i programmi televisivi, sono rassegnatamente “agli arresti domiciliari”, reclusi insieme.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 giugno 2023

RECENSIONI

SERGE

VICTOR SERGE, ANNI SENZA PERDONO – PAGINAUNO, MILANO 2022

Proveniente da una famiglia di rivoluzionari russi, Victor Serge (Bruxelles 1890 – Città del Messico 1947), anarchico dall’adolescenza, dal 1912 al 1917 fu imprigionato in Francia. In Russia aderì al bolscevismo e a partire dal 1926 partecipò all’opposizione di sinistra ispirata da Trockij. Arrestato nel 1928, venne confinato fra il 1933 e il 1936; espulso dall’URSS, visse in Belgio, in Francia e dal 1940 in Messico. Nella sua intensa attività pubblicistica sviluppò un’acuta critica di ispirazione socialista allo stalinismo. Sua opera principale è l’autobiografia Memorie di un rivoluzionario; l’ultimo fra i suoi romanzi fu Gli anni senza perdono, pubblicato postumo nel 1971 e ora riproposto dalle edizioni Paginauno.
I due racconti di cui si compone il volume (Il vicolo di San Barnaba e L’ospedale di Leningrado) sono ambientati nella Russia degli anni Trenta, in pieno stalinismo, e risentono entrambi dell’atmosfera cupa determinata non solo da una povertà diffusa e dalle prevaricazioni esistenti tra la popolazione civile, ma soprattutto dalla coercizione politica messa in atto dal regime sovietico nei confronti di qualsiasi dissidenza.
Ne Il vicolo di San Barnaba, uscito per la prima volta nel 1931, è l’aspetto umano della vicenda che attira l’attenzione dei lettori, perché in uno scenario di miseria, fame, solitudine e abbrutimento fisico si innestano processi di malvagità e sopraffazione reciproca tra esseri umani che condividono la stessa sofferenza.
In una Mosca in cui i cittadini sono costretti a fare lunghe file davanti alle panetterie e ai pochi negozi alimentari rimasti aperti, in cui si consumano quotidianamente centinaia di furti e violenze fisiche, e le forze dell’ordine si lasciano facilmente corrompere, non viene garantito né il diritto alla salute, né quello all’abitazione: a ciascun paziente i rari dottori a disposizione possono dedicare solo otto minuti di consultazione, e nessun abitante o nucleo familiare può avere in locazione più di nove metri quadri di spazio domestico. Sporcizia, epidemie di tifo e scorbuto, rachitismo, mancanza di medicinali, baratto di cibo e mercato nero si diffondono tra la popolazione sconfortata e litigiosa.
Il disfacimento del corpo di Lenin nel Mausoleo dedicatogli nella Piazza Rossa, diventa metafora del fallimento degli ideali rivoluzionari, mentre il finto attivismo di una mancata ricostruzione della capitale viene celebrato da una propaganda martellante e ipocrita: “esortatevi l’un l’altro al successo, alla vittoria, al socialismo, questa città è un’immensa trireme e noi ne siamo i vogatori – cantate e remate, ancora uno sforzo, il porto è vicino… Le rotative moltiplicano il ritmo, le canzoni del lavoro vengono diffuse dalle onde aeree, lo schermo le imprime nei cervelli, i manifesti urlano, forza, compagni, in coro!”
Se le ruspe abbattono vecchie chiese e tuguri mentre l’attività edilizia tenta convulsamente una ripresa anche impiegando manodopera straniera, la guerra tra poveri non ha tregua, e nel Vicolo Sa Barnaba si vedono “persone muoversi simili agli insetti, uscire per un istante dalle tane, in abiti di grisaglia… letame della storia”.
La vecchia Anissia vive da sola in una camera umida e buia, le cui pareti sono tappezzate da decine di icone sacre cui l’anziana dedica continue preghiere e domande di intercessione per i peccati del mondo. Rinsecchita, maleodorante e malata, è circondata dall’ostilità e dal sospetto dei vicini (“quell’odio infinito per il prossimo che la miseria fa nascere nell’uomo”). La convivenza forzata rende le persone crudeli e fameliche, invidiose anche del poco posseduto dagli altri: “Come le disgrazie, un tetto avvicina gli uomini senza unirli”. La stanzetta di Anissia fa gola a tutti, poveracci e professionisti, soldati e madri di famiglia: l’assedio intorno all’anziana, in attesa che la sua agonia si concluda, innesca una disumana competizione tra i vicini, in un susseguirsi di omertosi silenzi e dispetti vicendevoli, finché la vecchietta inaspettatamente riprende vigore, si alza dal suo giaciglio ed esce dal condominio brulicante per andare a comperare il pane, in fila tra tanti disperati come lei.
Il secondo racconto, L’ospedale di Leningrado, è più caratterizzato politicamente, e la sua denuncia contro il potere coercitivo che annulla le libertà individuali e mette a tacere il dissenso assume toni sarcastici e indignati. Emblematiche sono le righe di apertura del testo: “Nel 1923, mentre abitavo a Leningrado, conobbi direttamente la psichiatria e le sue istituzioni poiché una persona a me carissima era stata colpita dai sintomi della malattia mentale. In quegli anni già correvano avvenimenti inquietanti: alla carestia nelle città e alla miseria nelle campagne si accompagnavano le prime avvisaglie del terrore; oscuri omicidi e implacabili persecuzioni colpivano i tecnici, gli oppositori del Regime, i contadini e persino le idee. Io ap partenevo alla categoria dei dissidenti; il che si gnificava che ogni notte, nel cuore del sonno, mi destavo al primo rumore, immaginando i passi di quelli che salivano lentamente le scale per venire ad arrestarmi…”.
Invitato da un amico medico a visitare l’ospedale psichiatrico di San Giovanni Dispensatore di Miracoli a Leningrado, Victor Serge rimane da subito impressionato dall’aspetto fatiscente e sinistro dell’edificio, “un piccolo inferno ignorato dal mondo”. Assiste all’arrivo di detenuti scaricati dalle camionette della polizia politica, la Ghepeu: gente comune, spaventata e dimessa, “grumi di uomini taciturni, di donne sospette, avvolti da tutti i colori della miseria”. Condannati a lavori forzati in Siberia per piccoli reati (contrabbando, spaccio di alcol, furto), e poi di nuovo internati in clinica, brutalizzati, sedati con psicofarmaci. L’incontro con uno dei degenti, Nestor Petrovi ch Iouriev, si rivela illuminante. Uomo colto, amico personale di molti letterati, collezionista di testi rari, fornito di una sottile capacità di analisi, segregato in quanto controrivoluzionario, Iouriev aveva scritto, stampato e diffuso un Appello al popolo in cui invitava i cittadini e gli intellettuali russi a liberarsi dalla paura che controlla gli animi, avvilisce il pensiero, oscura l’intelligenza.
“I lavoratori hanno paura di morire di fame se non rubano, paura di rubare, paura del Partito, paura del piano, paura di sé medesimi. I colpevoli hanno paura di confessa re il loro misfatto, gli innocenti hanno paura di non aver niente da confessare e di essere inno centi. Gli intellettuali hanno paura di capire e di non capire, di poter comprendere o di non po ter comprendere. Gli ideologi hanno paura delle idee, i credenti hanno paura di essere scoper ti e hanno paura di tradire la loro fede. Il popo lo ha paura del potere e il potere ha paura del popolo… Al vertice dello Stato, gli uomini che occupano le più alte cariche politiche, hanno paura gli uni degli altri; hanno paura di agire e hanno paura di non agire, hanno paura della crisi economica, paura delle conseguenze dei loro stessi gesti, paura delle masse, paura della guerra. Il capo ha paura del proprio seguito, al punto da temere il veleno in un semplice bicchiere d’acqua e da diffidare delle sue più fedeli guardie del corpo. Ma a sua volta il seguito ha paura ed è terrorizzato dal capo…”.
Parole scritte un secolo fa, che sebbene rivolte al sistema liberticida staliniano, stigmatizzano qualsiasi tipo di potere antidemocratico, anche attuale e di diversa colorazione politica, là dove l’anticonformismo ideologico, la protesta sociale, la refrattarietà all’omogeneità dei costumi e delle mode imperanti produce isolamento, discriminazione, persecuzione; da sorvegliare e punire, come ci ha insegnato Foucault, e come ben ha sperimentato sulla sua pelle Victor Serge.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 giugno 2023

RECENSIONI

HUGHES

LANGSTON HUGHES, QUEER NEGRO BLUES – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2023

Queer Negro Blues è il primo libro uscito in Italia interamente dedicato alle due raccolte giovanili di Langston Hughes, edite tra il 1926 e il 1927 (The Weary Blues e Fine Clothes to the Jews), accolte positivamente dal pubblico statunitense, ma criticate dalla stampa afroamericana a causa della eccessiva veridicità con cui affrontavano aspetti della cultura nera ritenuti censurabili.

Hughes, nato nel 1901 a Joplin, nel Missouri, trascorse l’infanzia nel Midwest e in Kansas con la madre e la nonna, trasferendosi dopo il diploma in Messico presso il padre, con cui ebbe sempre rapporti conflittuali. Scrittore precoce di poesie, reportage, saggi e romanzi, appassionato viaggiatore ed esploratore di paesi africani, asiatici ed europei, già negli anni’20 aveva stretto intensi rapporti con esponenti della Harlem Renaissance, mettendosi in luce per il suo impegno politico e sociale, vicino alle posizioni comuniste della International Labour Defense, soprattutto dopo i suoi soggiorni a Cuba e ad Haiti. Gli esordi letterari del poeta coincisero con il periodo d’oro del modernismo, aperto dalle opere fondamentali di Eliot, Pound, Marianne Moore, Crane, Wallace Stevens, William Carlos Williams: autori attenti soprattutto a una rivoluzione formale della scrittura in versi. Contemporaneamente però si imponeva, a New York e più specificamente ad Harlem, un movimento radicalmente rivoluzionario, deciso ad affrontare temi fino ad allora poco trattati in poesia, come il razzismo, i diritti civili, la libertà di espressione, l’uguaglianza sessuale, lo sfruttamento dei lavoratori, il rifiuto dei valori della middle-class bianca. La fiera assunzione della propria “negritudine”, come appartenenza a un popolo di ex-schiavi, lavoratori sfruttati, vittime di soprusi e torture, viene proclamata in diverse poesie, già dall’iniziale Proem (“I am a Negro: // Black as the night is black, / Black like the depths of my Africa”), e ancora in The Negro Speaks of Rivers, A Black Pierrot, e nella famosissima Epilogo (“Io, anche io, canto l’America. / Io sono il fratello, quello più scuro. / Mi mandano a mangiare in cucina / Quando viene gente, / Ma io rido, / Mangio bene, / E cresco forte”), o nell’accorata protesta rivolta a The White Ones (“O, potenti bianchi, / Perché mi torturate?). Ma giustamente non reprime l’indignazione verso i neri che sfruttano, picchiano e violentano le donne, le abbandonano gravide, inducendole alla prostituzione o al suicidio; offre loro la sua voce, pietosa e solidale, raccontandone in ballate d’amore il destino tragico e rassegnato.

Il curatore dell’antologia Alessandro Brusa si interroga sul modo più opportuno di tradurre il termine “nero”: coloured, black, negro, usati dal poeta in maniera intercambiabile. “Negro” è certamente il termine più storicamente attestato e utilizzato, ma anche il più legato a un’idea di razza pregna di luoghi comuni e pregiudizi. Hueghes se ne riappropria aggressivamente, per stigmatizzare ogni discriminazione basata sul colore della pelle. Negli anni ’70 il termine “black” assunse un significato più politicizzato, da parte degli attivisti che si battevano per i diritti degli afroamericani (il Black Panther Party, e gli slogan Black Power o Black is Beautiful). Parallelamente, la traduzione in  italiano privilegiava la scelta della parola “nero”, pur mantenendosi fedele al termine “negro” nella volontà di denuncia e ribellione degli autori.

Hughes aveva un rapporto intenso e diretto con la cultura popolare di massa, e i suoi testi si orientavano preferibilmente verso la descrizione di vagabondi, marinai, prostitute, ballerine, lavapiatti, biscazzieri e serve. Lo stile da lui adottato aderiva strettamente ai nuovi contenuti proposti, inserendo termini lessicali desunti dallo slang della sua gente, dai dialoghi smozzicati dei bar e dei night club, con l’introduzione di ritmi musicali del tutto inediti, derivati dal jazz e dal blues. Se quest’ultimo si esprimeva vocalmente, con intonazioni malinconiche e di scoraggiamento, il jazz invece era strumentale e più aggressivo, e il poeta tendeva a imitarne nei versi il ritmo sincopato, veloce, attraverso una scrittura ruvida, improvvisata e spontanea. All’epoca, nei locali newyorkesi come il Cotton Club o il Savoy Ballroom, muovevano i primi passi Duke Ellington e Louis Armstrong, suscitando curiosità ed entusiasmo. Sono numerose le poesie presenti in questa antologia dedicate alla nuova musica di Harlem, agli scantinati e alle sale in cui si esibivano gli artisti neri: Blues stanco, Jazzonia, Negro Dancers, Young singer, Night Club ad Harlem, Fantasia Blues, Harlem Night Song, Po’ Boy Blues…

I versi tendono a riprodurne graficamente e cacofonicamente i moduli ritmici: “Fighi ragazzi neri in un cabaret. / Jazz-bad, jazz-band, / Suona, suONA, SUONA!”, “Il mio brav’uomo mi ha lasciato, / Babe, se n’è andato via. / Ora è quel blues triste che resta / Notte e giorno in quest’agonia. // Hey! Hey! / Stanco, Stanco, / Dolore, pena”, “Il ritmo della vita / È un ritmo jazz, / Tesoro. / Gli dei ridono di noi”, “Dai su, lanciamoci nel ballo! / Skee-de-dad! De-dad! / Doo-doo-doo!”.

La Harlem Renaissance in cui il giovane poeta e intellettuale Langston Hughes era immerso bruciava di rabbia black, musica, alcol e sesso non normativo. Sull’omosessualità del poeta si rincorrevano voci e illazioni, mai tuttavia confermate nelle sue autobiografie, anche se nel 1961 nel racconto Blessed Assurance veniva affrontato il difficile rapporto, in una famiglia di colore, tra un padre e il figlio gay. Molte composizioni sono dedicate a seni e gambe femminili, e quelle esplicitamente amorose sembrano riferirsi romanticamente a un oggetto indefinito, suggerendo possibili interpretazioni ambigue quanto al genere, nel tentativo di celare il desiderio omosessuale attraverso le figure dei loving comrades (amicizie affettuose): “Oh, tesoro mio lontano! / Ah, mia amata, lontana!”, “Amavo il mio amico. / Lui è andato via da me. / Non c’è nient’altro da dire”.

Altre, più esplicitamente, parlano di ragazzi amati o da amare, con esplicite dediche a ignoti: “Dai su, marinaio, / Uscito dal mare. / Andiamo, dolcezza! / Con me devi venire”.

Nella prefazione, Alessandro Brusa evidenzia come fosse problematico ammettere la propria omosessualità quando già il colore della pelle si prestava a bersaglio di discriminazioni e angherie. Ma nella Harlem degli anni ’20 i balli in drag erano eventi sociali di grande richiamo per i turisti, celebrati nelle cronache dei giornali: il Rockland Palace Casino, ogni anno a marzo, ospitava l’Hamilton Club Lodge Ball, un evento in cui uomini ballavano con altri uomini e donne con altre donne. Nonostante questa fama esplicita e generalizzata di trasgressione, la critica letteraria posteriore oscurò la queerness rispetto alla blackness, ritenuta argomento più dirompente e socialmente rilevante.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 9 giugno 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DRIGO

PAOLA DRIGO, MARIA ZEF – MINIMUM FAX, ROMA 2022

Nel 1936, in piena epoca fascista, la scrittrice Paola Drigo ((Castelfranco Veneto, Treviso, 1876 – Padova 1938) pubblicò con l’editore Treves il romanzo Maria Zef, premiato a Viareggio l’anno successivo. Secondo Claudio Magris si tratta di “Un vero piccolo capolavoro, uno di quei libri capaci di lasciare un segno indelebile nella memoria. Paola Drigo ha la forza di raccontare una vita indicibile”. Non una, ma diverse vite indicibili, segnate da miseria e violenza, da degradazione fisica e morale nella Carnia contadina del primo Novecento, in cui non esisteva alcuna possibilità di riscatto sociale e la sopraffazione maschile dominava incontrastata e opprimente.

Attraverso una scrittura dura e scarna, priva di retorica, Paola Drigo racconta il dramma vissuto da una famiglia composta da tre donne, la madre Catine e le due figlie Mariute e Rosute, di quattordici e otto anni. Già la frase di apertura, nella sua icasticità, introduce a un’atmosfera di faticoso squallore e desolata solitudine: “Erano due donne un carretto ed un cane”. In realtà, oltre alla madre, alla figlia maggiore e al bastardino Petoti (presenza affettuosa e fedele compagnia dei protagonisti in tutto il libro), all’interno del carretto dormiva la bambina più piccola, dolorante a un piede. Le tre donne durante la stagione clemente spingevano il carretto per le strade del basso Friuli vendendo utensili in legno, fermandosi a dormire in ricoveri improvvisati, nelle stalle, o là dove famiglie contadine offrivano ospitalità e un po’ di cibo. Mariute allora ritrovava la sua gaiezza adolescenziale intonando villotte per rallegrare lo scarso pubblico. Stornelli che Paola Drigo trascrive nella scabra lingua carnica (mai chiamarla dialetto!), insieme ad altri termini sparsi qua e là nelle pagine. “Càndole, candolini, sculièri, menèstri, donne!”, era il richiamo ripetuto attraversando le contrade. Le strade e i torrenti d’estate erano secchi per la siccità, e poi subitamente travolti da piogge torrenziali che li trasformavano in paludi. La fatica del cammino, il peso delle gerle sostenute sulle spalle, i pochi denari ricavati dalla vendita dei loro arnesi, rendevano ancora più desolato il loro gravoso mestiere.

Paola Drigo descrive sia gli ambienti esterni sia il paesaggio in cui si muovono le tre protagoniste con partecipazione attenta e sensibile: “Di giorno, le case, gli alberi, emergevano grigi e spettrali dal fango, ma verso sera la nebbia li avvolgeva, prima lieve e ondeggiante come un velo, poi sempre più greve e floscia, pareggiando tutto nella sua opaca infinita malinconia”.

La morte improvvisa della madre, stroncata dalla pleurite e da altre innominabili morbi, costringe le due bambine al ricovero presso un ospizio di suore. Sono sporche, analfabete, selvatiche. Viene mandato a chiamare lo zio, fratello del padre morto in America, che le ospitava da anni in un casolare sperduto tra le montagne. Barbe Zef (carbonaio, pastore, taglialegna, norcino) “era un uomo di pel rosso, dalla faccia coperta di lentiggini, dall’aspetto un po’ ottuso. Una cicatrice gli tagliava il sopracciglio e la palpebra d’un occhio costringendolo a strizzarlo in modo che pareva sempre che ridesse”. Rude e violento, si occupava delle due orfane solo per dovere, obbligandole a lavorare in casa e in campagna, incapace di esprimere qualsiasi affetto e comprensione. Inizia così la convivenza penosa con questo parente abbrutito dal lavoro e dall’alcol, che presto abusa della maggiore, come aveva fatto con la madre di lei.

La narrazione di Paola Drigo sottolinea l’aspetto tragico della vicenda, nei crudeli rapporti interpersonali, ma non solo: il lavoro sfibrante vissuto come maledizione, la malattia e la morte di adulti e bambini, una religiosità cupa e ostile che si concretizza soprattutto nella bestemmia, il sesso come sfogo di appetiti bestiali, l’incesto praticato usualmente nei piccoli borghi di montagna. E l’ambiente naturale, ombroso nei boschi umidi, bianco e gelido sotto la neve, immerso in un “silenzio senza misericordia”. Si piange poco, nel romanzo, e i momenti di leggerezza si limitano alle vaghe fantasie sentimentali di Mariute, al suo affetto per la sorellina, alle carezze sul muso delle pecore che custodisce, o al cagnolino Petoti che sembra volerla consolare dei molti dolori.

L’orco cattivo, Barbe Zef, è anch’egli vittima di miseria, ignoranza, aridità di cuore. La vendetta della nipote, che teme per la piccola Rosute lo stesso destino toccato a lei e alla madre, arriva del tutto giustificabile, nella sua spietata ferocia.

Dal romanzo di Paola Drigo il regista Vittorio Cottafavi ha tratto nel 1981 il film omonimo, recitato in friulano con sottotitoli in italiano. Sceneggiato e interpretato dal poeta carnico Siro Angeli, il film (presentato con successo nei Festival di Montreal, Cannes, Barcellona e ridotto in miniserie televisiva per Rai 3), nel 2019 venne restaurato e proiettato alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Contestato all’inizio da critica e pubblico in Friuli perché ritenuto troppo crudo e diffamatorio, è diventato un cult movie, al punto da essere definito da Cahiers du Cinema “il più bel film del realismo”.

 

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4 giugno 2023

RECENSIONI

WILLIAMS

WILLIAM CARLOS WILLIAMS, A UN DISCEPOLO SOLITARIO – BOMPIANI, MILANO 2023

Nato, vissuto e morto (1883-1963) a Rutherford, una cittadina industriale del New Jersey a una ventina di chilometri da New York, William Carlos Williams esercitò per cinquant’anni la professione di pediatra e ostetrico, dedicandosi alla poesia nel tempo libero dai pressanti impegni lavorativi e familiari, soprattutto scrivendo di notte, mentre nei fine settimana frequentava l’intellighenzia letteraria e artistica statunitense: Ezra Pound, Hilda Doolittle, Wallace Stevens, Marianne Moore, Marcel Duchamp, Francis Picabia. Figlio di immigrati portoricani – il padre era di origini inglesi e iberiche mentre la madre di origini basche ed ebraicoolandesi – parlò spagnolo fino all’adolescenza, e sia il meticciato culturale nativo sia il plurilinguismo diede alla sua scrittura e al suo carattere una particolare vivacità e apertura mentale, incoraggiata dai frequenti viaggi in Europa, dagli studi scientifici così come dagli approfonditi interessi letterari.

Il primo ventennio del ’900 fremeva di nuovi impulsi nell’arte, nella musica, nella letteratura; il modernismo sancì un cambiamento epocale, promuovendo lo stravolgimento delle forme, distruggendo la retorica del romanticismo e abbandonando la prospettiva storicista in favore di un rafforzamento dell’espressività, anche a scapito dell’ideale estetico dell’armonia e della compostezza. In tutte le sue varie correnti (dal simbolismo all’ermetismo, dall’acmeismo al surrealismo) si definì come iconoclasta, anti-decorativo, perseguendo il percorso delle li bere associazioni mentali (lo “stream of consciousness”), la frantumazione della figura e della personalità attraverso il moltiplicarsi dei punti di vista, l’abbandono della sintassi nell’accostamento di termini incongrui, stranieri o de-temporalizzati.

Williams aderì inizialmente alla corrente imagista, e alcune sue poesie furono inserite da Pound nell’antologia Des Imagistes (1914), in cui figuravano Ford Madox Ford, Amy Lowell e James Joyce. Ma anche se questa collaborazione finì per incasellare tutta la sua carriera nell’ambito ristretto dell’imagismo, in realtà si svincolò presto e radicalmente dai temi e dalle forme che più caratterizzavano questo movimento. L’antologia pubblicata da Bompiani raccoglie testi tratti da diversi volumi: da The Tempers del 1913 a Pictures from Brueghel del 1962, premiato con il Pulitzer. Proprio nelle prime sezioni troviamo le tracce più evidenti dell’insegnamento poundiano (visionarietà, concisione, ritmo): “C’è un uccello tra i pioppi! / È il sole! / Le foglie sono pesciolini gialli che nuotano nel fiume. / L’uccello plana e li sfiora, porta il giorno sulle ali. / Febo! / È lui che crea / l’incredibile bagliore tra i pioppi!”

Nelle raccolte successive Williams si distanziò sempre di più da questa eredità primo-novecentesca, facendo della realtà quotidiana (la natura, la presenza femminile, le cose materiali, la propria esperienza di medico, gli ironici autoritratti) l’oggetto principale della sua poesia, anche nella scelta linguistica, che privilegiava un lessico più sensibile alla parlata quotidiana, ai toni e alle cadenze americane, allontanandosi dalla letterarietà britannica, e invece scegliendo strutture più originali, vicini alla tensione poliritmica della musica jazz. La polemica contro l’intellettualismo di Joyce e Eliot si fece pungente, al punto da spingerlo a definire The Waste Land “the great catastrophe”, una reale minaccia per l’identità e lo spirito del Nuovo Mondo. Sia la sua professione, esercitata con dedizione e generosità soprattutto nei confronti degli strati popolari e degli immigrati, sia l’immersione nella vita concreta della sua città, offriva al suo talento poetico naturale materia e ispirazione per osare nuove modalità espressive, estranee alle seduzioni culturali europee, che fornissero “una replica a pugni nudi al greco e al latino”, e un ideale di poetica sintetizzato  nel motto “No ideas  / but in things”, in A sort of a song del 1944: “Che il serpente attenda sotto / la malerba / e la scrittura / sia di parole, lente, svelte, acuminate / nello sferrarsi, mute nell’attesa, / insonni. // – a riconciliare grazie alla metafora / persone e pietre. / Componete. (Niente idee / se non nelle cose) Inventate! / La sassifraga è il mio fiore, spacca / le rocce”.

Fedele a un progetto liberal-democratico della società, e vicino a posizioni di sinistra, la collaborazione alla Partisan Review, trimestrale del Partito Comunista, e ad altre riviste radicali (Blast e New Masses) gli costò nel 1953 la perdita della consulenza alla Library of Congress. A poesie politicamente schierate, talvolta venate di sarcasmo (Proletarian Portrait, Raleigh Was Right, Russia, The Pink Church), dalla metà degli anni ’30 in poi si affiancarono composizioni che esprimevano empatia e rispetto per la sofferenza degli umili (To a Poor Old Woman, The Gentle Negress, To a Dog Injured in the Street, The Mental Hospital Garden, The Dead Baby).

Gli era specialmente consona la descrizione di ambienti e oggetti (“Alla brillante luce del gas / apro il rubinetto in cucina / e guardo l’acqua schizzare / nel lindo lavandino bianco. / Sullo scanalato scolapiatti / da una parte c’è / un bicchiere pieno di prezzemolo / – fresco verde crespo”) quanto quella di personaggi comuni, presi dalla strada (“Intanto, / il vecchio che va in giro / a raccogliere cacche secche di cane / cammina nel canalino di scolo / senza alzare lo sguardo / e il suo incedere / è più maestoso di / quello del Vescovo / che si dirige al pulpito / la domenica”). L’osservazione della natura non scadeva mai nell’idillio retorico: “Vibranti rami arcuati / spingono verso il basso, risucchiando il cielo / che trabocca da dietro, intonacandosi / sul loro sfondo in spiragli stipati, azzurro lapideo / e arancione sporco!”

Dedicava a se stesso ironici autoritratti: “se io nella mia stanza a nord / ballo nudo, grottescamente / davanti allo specchio / sventolando la camicia sulla testa, / cantando sottovoce tra me e me: / “Sono solo, solo. / Sono nato per essere solo, / per me è il massimo così! / Se ammiro le mie braccia, la faccia, / le spalle, i fianchi, il sedere, / sullo sfondo delle tende gialle, chiuse – // Chi potrà mai dire che non sono il genio felice della mia casa?”. E la quotidianità domestica veniva raccontata in toni spiritosamente colloquiali: “i piccoli favori / ricambiati, io e te, una camicia / passata a un uomo nudo dalla / moglie che mostra le gambe, grattami la schiena / per favore, oh e vuota il bugliolo / quando scendi – e avvicinami / quel fiore, io non c’arrivo”,

“SOLO PER FARTI SAPERE // che ho mangiato / le prugne / nella / ghiacciaia // che / probabilmente avevi / serbato / per la colazione // Perdonami / erano squisite / così dolci / e così fresche”.

Massima espressione del coinvolgimento umano di William Carlos Williams nell’ambiente sociale a lui circostante è la pubblicazione di un poema epico in cinque libri, edito tra il 1946 e il 1958, intitolato Paterson, resoconto biografico quasi documentaristico di una città industriale del New Jersey, distante una decina di chilometri dal suo luogo di nascita, con diverse generazioni di abitanti alle prese con la modernizzazione neocapitalista.

Se con Paterson giunse finalmente l’agognato riconoscimento del valore letterario con l’attribuzione nel 1950 del National Book Award for Poetry, fu solo dopo la morte che la critica si decise a prendere finalmente sul serio la sua produzione, con la medaglia d’oro per la poesia del National Institute for Arts and Letters. Una gratificazione dovuta al lavoro saggistico, narrativo, teatrale, oltreché poetico, e all’attività di promozione svolta in favore della nuova generazione di poeti americani della San Francisco Renaissance e della New York School (Allen Ginsberg, Frank O’Hara, John Ashbery, Kenneth Koch…), a testimonianza di quanto la generosità del poeta e dell’uomo si sia prodigata fino all’ultimo in aiuto degli altri. Ne è una riprova anche l’ammonimento offerto al discepolo solitario –aspirante poeta – a osservare le cose (cielo, luna, case, chiese) nella loro reale concretezza, senza abbellimenti artificiosi.

Negli ultimi anni, segnati dalla sofferenza fisica e psichica, i versi di Williams assunsero talvolta i toni della preghiera, con frequenti accenni alla simbologia cristiana, e richiami al bene universale anche nel sentimento erotico privato (Viaggio verso l’amore si intitola la raccolta del 1955), espresso in sentenze moraleggianti: “Siamo miseri mortali / ma l’essere mortali / può opporre resistenza al nostro fato. / Potremmo / grazie a una remota possibilità / persino vincere!”, “Quello che abbiamo sofferto / ci era destinato / perché lo soffrissimo”, “Era l’amore per l’amore, / l’amore che ingoia tutto il resto, / amore riconoscente, / amore della natura, delle persone, / animali, / un amore che dà vita a / gentilezza e bontà / che mi ha commosso / ed è quello che ho visto in te”.

Amore, appunto, è ciò che il curatore del volume Luigi Sampietro sottolinea come elemento più caratterizzante la vita e l’opera di William Carlos Williams. Amore inteso come carità e compassione, che accetta e comprende anche gli aspetti impoetici della realtà, e ne fa oggetto di interesse e bellezza nei versi.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 29 maggio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GUIDORIZZI

GIULIO GUIDORIZZI, PIETÀ E TERRORE. LA TRAGEDIA GRECA – EINAUDI, TORINO 2023

Agli inizi degli anni’70, noi iscritti alla Facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano eravamo quattro gatti, perlopiù introversi e secchioni, quelli che oggi verrebbero definiti “nerd”. I nostri coetanei umanisti preferivano studiare filosofia o letterature moderne, ritenendole giustamente più aderenti alle inquietudini sociali dell’epoca. Per cui, in un manipolo di cinque sei studenti intenzionati a scrollarci di dosso l’accusa di elitarismo e anacronismo, avevamo fondato il CUB Lettere Classiche, guidati da una battagliera Renata. Proponemmo con velleitaria ingenuità ai nostri docenti di attualizzare l’insegnamento di latino e greco, per adeguarlo alla contemporaneità. Pressoché tutti gli accademici risposero con un sorriso di compatimento, tranne l’illustre grecista Prof. Dario Del Corno, che affidò a un suo giovane assistente il compito di organizzare per noi un seminario di storia degli studi classici, che esplorasse diacronicamente i diversi approcci ideologici con cui il mondo occidentale aveva indagato l’antichità. Questo volonteroso e preparato ricercatore si chiamava Giulio Guidorizzi (Bergamo 1948), e nei decenni successivi, diventato professore ordinario di Letteratura Greca presso l’Università di Torino, si è distinto come ellenista, traduttore, studioso di mitologia e di antropologia del mondo antico. Autore di importanti opere di saggistica e di manuali scolastici, ha pubblicato da Einaudi alcuni volumi divulgativi sulla cultura classica, l’ultimo dei quali si intitola Pietà e terrore. Diviso in due parti, nella prima sezione vengono definiti i caratteri fondamentali della tragedia greca, nella seconda si esaminano sedici delle trentatré tragedie che ci sono rimaste, approfondendone i tratti peculiari e reinterpretandole quasi romanzescamente.

Il teatro greco nacque ufficialmente nell’anno 535 a.C., quando il tiranno ateniese Pisistrato introdusse all’interno delle feste pubbliche un nuovo tipo di spettacolo per celebrare l’inizio della primavera e Dioniso, dio della natura vegetale, del vino, della sfrenatezza dei sensi. Momento rituale, quindi, in cui la città intera veniva coinvolta nella finzione scenica, mettendosi in gioco attraverso le parole del poeta. Questa dimensione sociale del teatro greco è resa evidente dal fatto che l’azione si svolgeva all’aperto, in uno spazio pubblico, alla presenza di spettatori che si appassionavano, si commuovevano e indignavano davanti alla rappresentazione dei loro miti e valori culturali.

La tragedia (etimologicamente “canto del capro”, perché proprio un ovino era consegnato in premio al vincitore del concorso teatrale), rispetto all’epica che l’ha preceduta, non è semplicemente una narrazione di avvenimenti esterni, ma è un’azione che mette in scena una serie di eventi che travolgono i personaggi, di volta in volta vittime del caso, di un destino malefico, di una scelta sbagliata, di un impulso irragionevole o bestiale. Non prevede il trionfo del bene, né alcuna ricompensa alla sofferenza, o qualsiasi redenzione futura: ciò che accade non si perpetua nell’eternità, ma rimane circoscritto nel ‘qui e ora’ di un tempo breve, spesso nell’arco di una sola giornata. Rappresenta il passaggio repentino da una condizione all’altra, dalla gioia alla sofferenza, precipitando verso la catastrofe. L’esistenza delle persone è inspiegabilmente sottoposta “al travaglio del tempo e al furore di altri uomini”, o determinata da una forza cieca interiore, da un “male oscuro” che afferra il protagonista quando si trova all’apice della gloria o della felicità: “Io so che sto per compiere una cosa terribile, – dice Medea poco prima di uccidere i suoi figli –, ma il mio impulso è più forte della mia volontà”.

Il destino misterioso (la mòira omerica) colpisce sotto le sembianze di un incontro, di un oracolo, di una caduta, di una pestilenza. Gli umani non ricavano alcun beneficio dalla loro sofferenza, ma imparano a conoscersi, a valutare le proprie resistenze e cedimenti: “Il contributo principale alla storia del pensiero occidentale – oltre che, naturalmente, a quella della letteratura – è la scoperta del mondo interiore. Completamente nuovo è il modo in cui la tragedia racconta il ‘dentro’ dell’uomo, l’impasto di impulsi ed emozioni che portano un essere umano ad agire contro ogni ragione e persino ad autodistruggersi: Aiace a suicidarsi, Edipo a cavarsi gli occhi, Antigone e immolarsi, Fedra ad amare follemente l’uomo che poco dopo trascinerà nella sua rovina insieme a sé”.

I personaggi tragici (quelli monolitici di Eschilo, quelli sfuggenti di Sofocle, quelli contraddittori di Euripide) conoscono il bene eppure compiono il male, disubbidendo agli insegnamenti morali della filosofia: per questo Platone condannava la tragedia, scorgendo in essa il trionfo dell’irrazionale, delle passioni irrefrenabili che conducono ineluttabilmente ad azioni colpevoli, violando il limite imposto dalla legge con un atto di hýbris. Accade spesso che ad agire sovvertendo l’ordine siano le donne, sia quando incarnano un dramma sentimentale privato, sia perché simboleggiano il conflitto antropologico del sistema politico ateniese, tra città e clan famigliare, tra cultura e natura, tra ragione e istinto. Le donne, più ancora degli uomini, comunicano “pietà e terrore, due pulsioni opposte perché la pietà avvicina e il terrore allontana”. Attraverso le emozioni forti dei protagonisti, agisce la catarsi, che coinvolge non solo gli attori ma tutto il pubblico, liberando e purificando dalle esperienze traumatizzanti e dai conflitti vissuti in prima persona o ritrovati sulla scena.

La seconda parte del volume di Giulio Guidorizzi, ben più corposa della prima, è dedicata all’esposizione e alla ricostruzione narrativa di sedici tragedie: cinque di Eschilo, cinque di Sofocle, sei di Euripide. L’autore rievoca miti ed episodi storici del passato, ripercorre i poemi omerici, ricostruisce ambienti, inventa monologhi e dialoghi, dà voce a protagonisti e comparse, componendo un grande affresco della cultura e della civiltà democratica greca del V secolo. In tutte le opere rivisitate esplodono passioni incoercibili (vendette, tradimenti, amori, risentimenti, rancori, gelosie), si succedono omicidi, suicidi e stragi, e sebbene le scene di sangue e violenza non vengano mai mostrate, ma raccontate da qualche messaggero o testimone oculare (parenti, servi, nutrici), o direttamente dal coro e da divinità in sembianze umane, l’effetto raggiunto coinvolge sempre, terrificante o commovente che sia. Valga per tutti l’esempio dell’Edipo re di Sofocle, il cui protagonista vive in una continua tensione tra sapere e non sapere, dire e nascondere, temere e sperare, fino allo svelamento finale del parricidio e dell’incesto, alla rovina che si compie in un giorno solo. Tragedia perfetta secondo Aristotele, “guida per penetrare nei meandri dell’inconscio” secondo Freud, che ne ricavò il nome per descrivere il complesso che lo rese famoso.

Il volume di Giulio Guidorizzi rappresenta senz’altro un’utile introduzione alla conoscenza dell’antica Grecia per i neofiti dell’argomento, e una piacevole e avvincente lettura per chi voglia recuperare memorie scolastiche colpevolmente trascurate.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 21 maggio 2023

 

 

RECENSIONI

BASHŌ

BASHŌ, ELOGIO DELLA QUIETE – SE, MILANO 2023

Con un ricchissimo apparato di note e l’accurata ricostruzione biobibliografica della curatrice Lydia Origlia, l’editrice SE ha ristampato il volume Elogio della quiete di Bashō, pubblicato per la prima volta nel 2001. Composto da otto brevi saggi, perlopiù consistenti in note di viaggio, appunti diaristici o riflessioni morali, il libro offre al lettore sia un autoritratto del monaco buddhista, sia delicate immagini della natura – primaverile o notturna, principalmente – e inviti a un’elevazione spirituale mirata a conquistare la serenità dell’anima, l’eliminazione di ogni inutile inquietudine, il superamento dell’inadeguatezza caratteriale.

Bashō nacque nel 1644, figlio di un samurai di campagna, nella città di Ueno, a circa trenta chilometri dall’antica capitale Kyōto. Trentenne, destinato a diventare anch’egli samurai, si trasferì a Edo, l’odierna Tōkyō, iniziando un’esistenza indigente e ascetica, illuminata dalla filosofia Zen e dedicata alla poesia, descrivendo con sensibilità e grazia anche i più umili aspetti della vita quotidiana, la bellezza del paesaggio e le sue peregrinazioni alla ricerca della verità e della pace interiore. Scrive Lydia Origlia: “il poeta si sente alleviato da ogni ansia e desiderio: non teme di venir derubato poiché nulla possiede, ignora la fretta poiché è libero da ogni impegno, procede a piedi, gusta i cibi più semplici, gode dell’incontro con casuali passanti che, se dotati di una qualche sensibilità d’animo, gli paiono come pepite d’oro in uno stagno”. Muore a cinquant’anni di stenti e fatica, ma attorniato dalla stima di discepoli e poeti e dall’affetto di molti amici.

Pur riconoscendo umilmente la fragilità del proprio carattere, il monaco-poeta sapeva che ogni cosa e persona vive in continua trasformazione, può redimersi e innalzarsi al di sopra di qualsiasi miseria morale e fallimento economico: “Quanto a me, non sono né monaco né laico, sono una sorta di pipistrello, fra il topo e l’uccello”, “I miei sogni non sono né di un santo né di un gentiluomo. Per l’intera giornata disperdo il mio spirito nelle fantasie e così accade nei miei sogni notturni”. Lodava il silenzio, la riservatezza e la solitudine, che conducono alla meditazione e alla quiete del cuore: “Non v’è nulla di più attraente di una vita solitaria: ‘La mia tristezza / in solitudine trasforma, / romito uccello”, “Il piacere di un anziano consiste nel vivere sereno, libero dalla schiavitù di profitti e perdite, dimentico della distinzione tra vecchiaia e giovinezza”.

Consapevole dello scarso ruolo sociale rivestito dalla poesia, tuttavia ne amava il richiamo ed era felice di potersene dichiarare suddito fedele, obbediente all’ispirazione dell’arte più che a qualsiasi lusinga del potere: “Le mie poesie sono simili a un fornello in estate e a un ventaglio in inverno. Contrarie al senso comune e prive di utilità alcuna”. E ai suoi versi demandava soprattutto il compito di veicolare la bellezza, nella descrizione degli ambienti naturali, del cielo e della vegetazione, delle acque e degli animali: “Il chiarore della luna, che pareva essersi offuscata, penetra ora da una breccia del muro, s’infiltra tra le fronde, mentre qua e là si odono i rumori dei crepitacoli per gli uccelli e le grida per allontanare i cervi”, “La montagna è quiete e nutre lo spirito, l’acqua è movimento e mitiga le passioni”, “Il lago somiglia a un liuto ed è pervaso dei fruscii dei pini e della melodia delle onde”, “Apro dunque con tristezza la finestra per mitigare almeno un poco la malinconia del viaggio e contemplo il tenue chiarore della luna dopo il crepuscolo, e il Fiume d’Argento in mezzo al cielo e il vivido bagliore delle stelle”. Contento del poco che possedeva, perennemente grato a ciò che osservava intorno a sé, come di un dono immeritato e gratuito, da omaggiare nei suoi ispirati haiku.

 

© Riproduzione riservata      19 maggio 2023

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RECENSIONI

RUMI

JALÂL al-DIN RUMI, SETTECENTO SIPARI DEL CUORE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2020

I trenta ghazal di Rumi che Ponte alle Grazie ha pubblicato con commento e traduzione di Stefano Pellò hanno il merito di correggere il radicato cliché con cui la cultura occidentale, soprattutto anglofona, continua a leggere il mistico sufi di lingua persiana, facendo di lui un edulcorato cantore dei buoni sentimenti, animato da una spiritualità annacquata e da ingenua mansuetudine, e trasformandolo così in un campione di incassi ai vertici delle classifiche letterarie mondiali.

Jalâl al-Din Mohammad nacque nel 1207 in Asia Centrale e morì nel 1273 in Asia Minore, a Konya o Iconio, dove aveva trascorso gran parte dell’esistenza. Proprio al nome della regione storica di Rum, ossia la Roma bizantina dei musulmani, si deve il toponimico Rumi con il quale è internazionalmente noto. Vissuto in un ambiente multireligioso e poliglotta, dove coesistevano e interagivano fra loro greco, turco, persiano e arabo, Rumi compose nel nativo persiano due opere principali: la grande raccolta di odi nota come Divân-e kabir (Grande canzoniere), che contiene più di cinquemila componimenti, e il lungo Poema interiore in distici rimati, di circa ventiseimila versi. Soprattutto il Divân fu ispirato dall’incontro con il derviscio itinerante e pensatore iconoclasta Shams-e Tabriz, il “Sole di Tabriz”, suo mentore spirituale e oggetto mistico d’amore e meditazione.

Al suo Maestro Rumi ha dedicato versi di grata e fervente dedizione, poiché proprio seguendo il suo insegnamento ha potuto attingere alle fondamenta della verità: “Tu sei sempre con me / tu sei i miei occhi e tu sei la mia luce: / se lo vuoi, tu conducimi all’ebbrezza, / se lo vuoi, trasfigurami nel nulla”, “Sei la vita del giorno / e della notte l’anima / e io sono l’attesa, giorno e notte”, “O splendido sole, tu squarcia un istante le nubi: / io voglio quel viso raggiante, quel chiaro bagliore”.

Il tema fondante intorno cui ruota la poesia di Rumi è l’unità dell’Essere inteso come amore, ‘eshq, forza cosmica che attira tutte le creature verso la luce, origine di ogni cosa esistente. La teologia estatica di cui è interprete e messaggero travalica qualsiasi studio, riflessione, preghiera: pura energia che inebria e innalza verso l’infinito, redime da ogni egoismo nella contemplazione della bellezza aldilà di ogni limite temporale e spaziale: “L’amore non è nel sapere e nei libri / non è nelle scienze e nei rotoli scritti / e la via degli amanti non è nei discorsi / del mondo”.

L’amore trasforma la gazzella in leone, l’aspro agrume in dolce susina, l’orzo in grano, l’agnello in lupo: lo si scopre attraverso il valore rigenerante del silenzio, che libera dalla parola vana, dalla calunnia, dalla facile distrazione, dalle scorie inutili che inquinano la coscienza: “Abbandona i discorsi, entra in casa, diventa silenzio”. Per sollevarsi dalla materialità, bisogna diradare il fumo che oscura ogni visione, aiutati dall’ammaestramento di una guida spirituale che sappia esortare con discorsi ed esempi incoraggianti: “Il tuo fango non lo devi rimestare: / soltanto così si schiarisce / quell’acqua e si monda il deposito / scuro e guarisce il tuo male”.

I versi del Divân rimarcano continuamente il desiderio di fusione con l’Assoluto, incarnato dalla perfezione del Maestro, in un ritmo ossessivo e incalzante, con la ripetizione del sintagma “Io voglio”: voglio il leone di Dio, la candida luce, l’oceano infinito, un giardino di rose, dolcezze infinite, quel viso raggiante, quell’oro, una mano capace, la luna di Canaan, montagne e deserti. E ancora ribadiscono con martellanti ritornelli la medesima dichiarazione amorosa, a metà tra la supplica e il ricatto affettivo. “Io senza te non so stare”: “Ero morto, ora vivo, / ero pianto, ora rido”. “Se sei testa, io sono i tuoi piedi, / se sei mano, io sono quel drappo / che stringi nel palmo, / se svanisci, non sono più niente: / no, io senza te non so stare. / M’hai portato via il sonno, / hai lasciato sbiadire i miei tratti, / hai voluto staccarmi da tutto: / no, io senza te non so stare”, “non so cos’è avvenuto, non so come: / nel senzacome ogni come è annegato”.

L’amato è una belva feroce, è tempesta che “strappa i settecento sipari del cuore”, incatena e travolge l’esistenza. Di fronte a tale impetuoso trasporto, tornano in mente i grandi mistici renani, Eckhart, Silesius, e san Juan de la Cruz, tutti i pazzi di Dio, gli eretici farneticanti di ebrezza. Persino i sermoni inferociti e le poesie violente di Ferdinando Tartaglia, di Padre Turoldo. Ma anche il tremore di Saffo davanti all’amata (“Sono immobile eppure / in me tutto quanto si muove”), i lirici greci che brindano alla luna, eccitati dal sapore inebriante del vino: “Vieni dunque a gioire alla taverna”.

Giustamente nella postfazione Stefano Pellò, traduttore e docente di lingua persiana all’ Università Ca’ Foscari di Venezia, definisce Rumi “autore eurasiatico e cosmopolita”. In lui troviamo echi delle Sacre Scritture, dei frammenti presocratici e dei classici latini e greci, le vibrazioni culturali dell’Oriente mediterraneo, dei dervisci islamici, dei brahmani persianizzati. In una sorta di panteismo mistico, Rumi vede nell’essere umano lo stesso respiro che anima la materia e l’infinito: “Una volta sei stato una pietra / una volta sei stato animale / e un umano vivente: tu adesso / diventa una vita”.

 

© Riproduzione riservata                   «La Poesia e lo Spirito», 15 maggio 2023

 

RECENSIONI

SILESIUS

SILESIUS, IL VIANDANTE CHERUBICO – MOLESINI, VENEZIA 2023

Angelus Silesius (Angelo della Slesia) è il nome che il medico e filosofo tedesco Johann Scheffler (Breslavia 1624-1677) assunse quando, trentenne, si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, vivendo da allora asceticamente, immerso in studi di teologia e dedito a opere di carità. Aveva studiato a Strasburgo, Leida e Padova, padroneggiava le lingue antiche e moderne, conosceva a fondo i testi spirituali del misticismo medievale tedesco – in particolare Meister Eckhart e Jakob Böhme –, e di quello spagnolo, il pensiero platonico e neoplatonico, la patristica fino a Sant’Agostino e gli scritti di San Bernardo.

Dopo aver preso gli ordini sacerdotali nel 1661, si impegnò con rigore nella lotta della Controriforma, pubblicando opuscoli violentemente apologetici in difesa della Chiesa e del Papato. Ma la maggiore celebrità gli deriva dalla prima opera poetica, il Cherubinischer Wandersmann, pubblicata nel 1657 e rielaborata in forma definitiva nel 1675, consistente in una raccolta di epigrammi in cui riflessioni filosofiche e morali, e concetti teologici di non facile comprensibilità, erano rielaborati con estrema sapienza stilistica: venivano utilizzate immagini di icastica espressività e formule letterarie innovatrici, perlopiù in distici alessandrini, rese in un gioco di antitesi, paradossi e sorprendenti metafore.

In questa nuova edizione pubblicata da Molesini e curata dal germanista Gio Batta Bucciol, l’attenzione al testo originario, presentato a fronte e tradotto sottolineando la stringatezza epigrammatica dello stile, è già evidente dal titolo, Il viandante cherubico (Wandersmann), che sostituisce con maggiore esattezza la versione tradizionale più nota de Il pellegrino cherubico.

Nell’introduzione viene messa in luce una caratteristica dell’opera di solito trascurata, rispetto alla prioritaria tematica spirituale: l’interesse verso la natura, che assume talvolta connotati panteistici, e risente dell’atmosfera seicentesca segnata dalle scoperte geografiche e astronomiche.

Il cielo di Silesius non è più solamente quello divino, chiuso in un rigido schema tolemaico, ma comprende immanenza e trascendenza in una visione unificante di uomo e infinito, suggerendo ipotesi teoriche audaci e per l’epoca destabilizzanti : “Il sole tutto stimola e tutte le stelle fa danzare, / e se anche tu non ti muovi, non appartieni al tutto”, “Tu dici che nel firmamento c’è un unico sole, / ma io ti dico che ci sono migliaia di soli”, “Via la parete divisoria, se devo vedere la mia luce /  non devo ergere muri al mio sguardo”, “Non c’è né inizio né fine, né centro,  / né cerchio per quanto mi volga e giri”.

Anche la riflessione sul tempo, nel suo fondersi indistinto con l’eternità, rivela tratti premonitori della fisica a venire, quando adombra addirittura l’ipotesi dell’inesistenza di una qualsiasi scansione cronologica: “Il tempo è come l’eternità e l’eternità come il tempo, / purché tu stesso non crei una distinzione”, “Sei tu a fare il tempo! L’orologio sono i tuoi sensi: / blocca il bilanciere, e il tempo svanisce”, “Non so che fare! Per me è tutt’uno: / luogo, non-luogo, eternità, tempo, notte, giorno, gioia e pena”, “Cos’è l’eternità? Non è né questo né quello, / né attimo, né qualcosa, né nulla: essa è non so che cosa”. Come non ricordare lo sconcerto di Sant’Agostino, quando nell’XI libro delle Confessioni rivela di non riuscire a definire il concetto di temporalità?

Rimane comunque prevalente il fascino delle poesie di carattere più specificamente religioso, che tanto hanno attratto filosofi quali Hegel, Schelling, Kierkegaard, Schopenhauer, Wittgenstein e Heidegger, e poeti come Rilke e Celan, per la consapevolezza dell’insignificanza dell’essere umano, e la sua incapacità di comprendere e raffigurare l’assoluto: “Non so quel che sono, non sono ciò che so. / Sono una cosa e non una cosa: un puntino e un cerchio”.

Insomma, Silesius sembra riassumere in sé echi del passato e premonizioni del futuro, soprattutto nell’esprimere l’indefinibilità dell’Essere Supremo. Il suo Dio ha infatti i caratteri dell’Uno plotiniano, inizio e fine, totalità assoluta; ma viene rappresentato anche in maniera antitetica come tutto e nulla, presenza e assenza, diventando erede e premonitore della teologia negativa: “Dio è puro nulla. Non lo sfiorano il tempo e lo spazio”, “Dio non viene ferito da nulla, non ha mai provato dolore: / eppure l’anima mia può ferirgli a fondo il cuore”. Un Dio dei contrasti, insieme imperturbabile e pietoso, di cui non si può e non si sa parlare, perché inconoscibile. Già Plotino affermava “possiamo dire quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono dopo di lui”, e Agostino gli faceva eco: “Si comprehendis non est Deus”.

Dio che si supera, va oltre se stesso e porta l’individuo a superarsi e a superarlo: “Se Dio non mi volesse portare oltre Dio, / lo forzerei a farlo col solo amore”. Il nostro Ferdinando Tartaglia scriveva pressappoco la stessa cosa, meritandosi una scomunica “vitando”: “Quando io dico ‘Oltre Dio’ / quando io grido ‘Dopo Dio’ / come vorrei essere capito / come vorrei essere capito. / Ma non ò le parole. / Non sarò capito”.

Silesius racconta un Creatore che assume addirittura il modernissimo sembiante di divinità debole, che deve essere aiutato dall’uomo a esistere: “Inconcepibile! Dio ha perduto sé stesso, / Per questo egli vuole rinascere in me”.

 

Secondo le indicazioni della mistica classica, Dio è visione purissima, estasi in cui perdersi, perfezione irraggiungibile: “Dio è il mio bastone, la mia luce, il mio sentiero, la mia meta, il mio gioco, / mio padre, fratello, figlio e tutto quel che voglio”, “Dio è spirito, fuoco, essenza e luce, / ma a sua volta neppure tutto questo”, “Dio è un fiume possente che si porta via spirito e sensi. / Ah, che non sono ancora tutto trascinato via da lui”. Dalla contemplazione dell’Assoluto devono tenersi lontani anche i Serafini e gli “angeli tutti”, perché con il loro fulgore distraggono l’orante dal rapimento: “ora non vi voglio, ora mi immergo solo / nell’increato mare della pura divinità”.

Eppure, il confronto con l’Essere Supremo continua a essere ambivalente, talvolta inchiodando la creatura alla sua miseria, altre volte esaltandola in una comparazione quasi sacrilega: “Sono grande come Dio, egli è piccolo come me: / egli non può essere sopra di me, né io sotto di lui”, “L’abisso del mio spirito chiama sempre con forza / l’abisso di Dio. Di’: quale è più profondo?”, “Sono sconfinato come Dio, niente c’è nel vasto mondo / che mi tenga – o prodigio! – racchiuso in sé”, “Sono l’alter ego di Dio, solo in me egli trova / quel che gli sarà simile ed uguale in eterno”.

La consapevolezza della propria eccezionale irripetibilità può arrivare alla più presuntuosa delle convinzioni: “So che senza di me Dio non può vivere un attimo. / Se divento nulla, egli deve necessariamente morire” (se ne sarà ricordato Rilke, quando scriveva nel Libro d’ore: “Che farai, Dio, se muoio?”). Se il silenzio è spesso citato come modalità privilegiata di raccoglimento nell’interiorità, troviamo tra i distici anche umanissimi moti di protesta e ribellione verso l’indifferenza celeste: “A cosa mi serve, o Gabriele, il tuo saluto a Maria, / se non hai anche per me lo stesso messaggio?”, sottolineando l’orgogliosa rivendicazione della propria indipendenza: “Mettimi e stringimi tra mille catene, / resterò sempre libero e senza catene”. La stessa fierezza va attribuita a ogni cosa esistente, che nel suo semplice esserci reclama la propria dignità e magnificenza, come nei versi più famosi e citati del Viandante Cherubico: “La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce. / Non bada a sé. Non chiede se la vedi”. Farsi mezzo e fine della creazione, diventare insieme creatura e creazione, è il messaggio che Silesius affida a ciascuno, quello con cui conclude il suo libro (“Amico, ora basta. Se vuoi leggere di più, va’ e diventa tu stesso scrittura ed essenza”), aldilà di ogni teologia, ancora una volta oltre Dio.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 10 maggio 2023