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INTERVISTE

MATTEI

SEI DOMANDE A PIERA MATTEI

Piera Mattei è nata e vive a Roma. Dopo gli studi di filosofia ha lavorato nell’ambito del giornalismo culturale e dello spettacolo, pubblicista per diverse testate, tra le quali, del quotidiano romano Paese sera. È stata autrice e realizzatrice di spettacoli teatrali, ha pubblicato volumi di

racconti e di poesie, saggi, recensioni, traduzioni e curatele. Suoi testi, tradotti in diverse lingue, sono presenti in antologie e riviste italiane e straniere. Ha vissuto per lunghi periodi negli Stati Uniti, in Giappone, a Parigi. Nel 2010 ha fondato a Roma le edizioni Gattomerlino, e alcuni anni dopo ha aperto uno Spazio per le presentazioni e anche incontri di arte e musica, nella stessa città, in Borgo Vittorio 95.

 

Quando, e incoraggiata da quali ambienti familiari e culturali, è iniziata la sua passione per i libri,
letti e scritti? 
Per la risposta a questa domanda, che intende riportarmi indietro nel tempo, premetto pochi versi tratti dalla mia poesia “Il volto-le mani”: non amo i ricordi – i racconti sul filo dei ricordi/ ma le immagini che giungono dal passato/ quelle sì- le afferro/in queste brevi mani le tengo strette (in “L’equazione e la nuvola”, Manni 2004).
Vorrei dire con questo che non si può mai essere certi che quanto appare come ricordo non corrisponda invece a immagini, a miti sedimentati nella nostra mente, addirittura creati dalla mente. Per questo motivo parlerò qui degli anni della crescita e della formazione in terza persona. Quella bambina che porta il mio stesso nome, che vedo dentro di me e guardo con meraviglia e rispetto, è legata, fin dai suoi esordi nel mondo, alla poesia. È una bambina che recita, prima ancora d’imparare a leggere, e non ricordo che qualcuno l’abbia spinta a farlo o glielo abbia insegnato. L’amore per la parola, la memoria delle parole che risuonano, la lettura e la scrittura, nascono in lei come fatto spontaneo, per il quale riceve naturale riconoscimento. Questo esordio forse però negli anni potrebbe averla portata a una certa chiusura, a sentirsi già pronta, a rifiutarsi al confronto, a non avvertire il bisogno di dover mostrare, e dimostrare.

Tra i poeti e i narratori, italiani e stranieri, quali ha sentito e sente più vicini? A chi in particolare ritiene di dover esprimere riconoscenza per il ruolo formativo e di stimolo della sua sensibilità
letteraria?
Si chiede del ruolo formativo, quindi non si farà riferimento agli scrittori e ai poeti che pure ha frequentato come conoscenti e amici nella sua piena giovinezza e anche dopo. Scriviamo qui delle letture dell’adolescenza, che sono i grandi romanzi russi, i racconti di Kafka e anche la poesia, Thomas Hardy, le Bronte e Dickinson. Studia appassionatamente i classici (a dieci anni, durante la pausa di un “trasferimento” impara a memoria il primo canto del Paradiso) ma l’attraggono anche i manuali di medicina e gli atlanti, la biografia di Marie Curie che scopre in casa. Una “casa” che è sempre un appartamento diverso, i suoi spazi sempre diversi, ogni volta che torna dal collegio.  Al liceo incontra, e studia poi appassionatamente, Catullo, Ovidio, Lucrezio e i lirici greci. Meno la interessano i contemporanei, preferisce Caproni a Montale.  Ama il latino e la riflessione filosofica. Ma cerca anche nei libri di scienza risposte alle sue domande, senza però arrivare a comprendere, ad afferrare bene, i concetti scientifici.  In tutte le poesie che scriverà, o in quasi tutte, sarà presente la domanda circa l’Esistere fisicamente, lo Spazio, il Movimento. L’ambiente scientifico diventa presto anche il suo ambiente, dopo l’incontro con un fisico che diventa suo marito e il padre, con lei madre, di una figlia che, allevata da lei amorosamente nel
ulto della letteratura e dell’arte, si realizza infine come brillante scienziata. A loro soprattutto, ai “miei” scienziati, per la possibilità che quotidianamente mi concedono di accedere al loro mondo, la mia gratitudine.

Quando ha deciso di fondare la sua casa editrice, e spinta da quali motivazioni? Il suo impegno editoriale ha limitato, influenzato o addirittura spronato la sua scrittura personale? 
Nei miei viaggi e residenze in altri paesi ho sempre cercato nelle librerie, ma anche con incontri diretti, di conoscere autori contemporanei, soprattutto poeti. Tornavo con il mio carico e lo proponevo in particolare alla rivista alla quale ho collaborato per lunghi anni, la “pagine”, rivista di
poesia internazionale di Vincenzo Anania, personalità certamente molto interessante, ma anche molto risentita, un ex-giudice. Mi concedeva una notevole libertà di proposte e avevamo insieme discorsi importanti, anche da punti di vista talvolta divergenti.  Gli sono grata per avermi
comunque fatto molto spazio in un progetto che, nel complesso, restava suo.  Infine è maturato il desiderio di creare una mia casa editrice, che rispettasse la mia personalità dedita alla letteratura e ai libri, ma lontana dai gruppi e dalle giurie dei premi, libera, anche se solitaria, in un contesto culturale per lo più abitato da scienziati.  In quel periodo moriva il mio gatto Merlino, per quasi due decenni fedele compagno delle mie letture. Così decidevo che la casa editrice, che doveva avere la porte aperte su poesia e scienza, si sarebbe chiamata con il suo nome.  Negli anni la fisionomia delle
edizioni è poi in parte mutata facendo molto spazio alla poesia di giovani esordienti italiani o in lingua italiana.
Infatti l’autore con il quale ho aperto la collana “Quaderni di pagine nuove” è stato un originale pittore edile romeno, che ci lasciava in dono i suoi scritti, stesi a mano anche su carta da parati – in un italiano da emigrato che non usa il dizionario, sua sola lingua della scrittura – ogni
volta che terminava la giornata di lavoro in casa nostra. Devo aggiungere che, tornando senza vera premeditazione al progetto originario di coniugare
poesia e scienza, in questi giorni è in lavorazione “La lavagna luminosa” una mia raccolta di poesie scritte a Erice, presso il centro Ettore Majorana, tra il 3 e il 9 dell’agosto appena trascorso, durante una conferenza scientifica internazionale alla quale sono stata, a mio modo, partecipe.  Intendo diffonderla anche nell’ambiente scientifico, che certo non sdegna la poesia.

In cosa Gattomerlino si differenzia da altre attività editoriali delle stesse dimensioni?  A quali forme espressive presta più attenzione, ritenendole meritevoli di incoraggiamento e curiosità?
A questa domanda credo di aver già risposto dichiarando il mio interesse per la poesia anche di altri paesi, e per la scrittura, sia in prosa che in poesia, dei più giovani. Inoltre cerco di creare rapporti d’amicizia tra gli scrittori Gattomerlino, anche invitandoli insieme agli incontri nello Spazio che abbiamo, a Roma, in Borgo Vittorio 95.

In che misura il suo lavoro si avvale di collaborazioni interne ed esterne, e a quali aspetti crede di
aver dato un’attenzione più originale e innovativa nella creazione del prodotto librario? Editing,
grafica, traduzione, diffusione? 
Curo molto le copertine dei libri. Con il nostro grafico Paolo Alberti scelgo e controllo fino all’ultima bozza. Faccio per i miei autori quello che avrei voluto dagli editori ai quali mi sono rivolta.  Quanto alla distribuzione, le nostre tirature sono necessariamente di modesta entità e il sito credo offra una visibilità adeguata. Del resto capita anche di ritrovarsi in contesti importanti come è stato per il libro “Sacro e urbano” di Isabella Capurso, del quale si è parlato sia in Campidoglio sia a Venezia, nell’ambito del Premio Bookciak, nella giornata degli Autori.

Quali sono i vostri titoli che più hanno riscosso interesse in termini di critica e di vendite, e che obiettivi si propone di raggiungere in questi due ambiti fondamentali riguardanti il successo di un libro?

Vendite mai molte, in verità. Si scrive assai più che non si legga. Infatti ricevo ogni mese  decine di proposte, ma quelle stesse persone non  pensano di acquistare e leggere i nostri libri. Seleziono molto i premi ai quali inviare le pubblicazioni. A volte consegno di persona i libri a chi dovrebbe esserne interessato, e potrebbe scriverne, non sempre con successo.  Tuttavia alcune pubblicazioni hanno suscitato interesse in ambienti particolari: oltre a “Sacro e urbano” appena citato e premiato all’incontro tra letteratura e cinema, metterei ”La mia ombra è un leone danzante“ testi e disegni di Laura Corbu, protagonista in un episodio di malattia mentale; “Caro Omero ti scrivo”, nella collana azzurra dedicata ai ragazzi, testo che raccoglie, per la cura del loro insegnante di epica Giorgio Frontini, le lettere inviate all’autore e ai personaggi dell’Odissea, da parte degli alunni di una seconda media di una scuola romana; infine “Chiralità: la vita è asimmetria?” un libretto composito che comprende la prima traduzione italiana del discorso  di Pasteur, durante una conferenza  sul tema, un articolo scritto dal chimico e scrittore Primo Levi, e il contributo dello scienziato Gianni Jona Lasinio.
A proposito di ambienti particolari, le traduzione in italiano del poeta lettone Juris Kronbergs   sono state lette nella splendida cornice della biblioteca centrale di Riga, sospesa sulla città e il suo fiume Daugava, con grande successo di pubblico e attestazioni d’amore per la sonorità della lingua italiana, mentre le traduzioni italiane dei i poeti estoni Maarja Kangro, Doris Kareva e Kaliju Kruusa, con i quali si è sviluppato un durevole rapporto d’amicizia, sono state lette in più occasioni a Tallinn e a Tartu.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 7 settembre 2023

 

RECENSIONI

TODD

TRACY N. TODD, NINA. LA STORIA DI NINA SIMONE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Le edizioni pugliesi AnimaMundi regalano a noi tutti, anche se con un occhio preferenziale al mondo dei giovani, un bellissimo volume illustrato, dedicato alla cantante afroamericana Nina Simone. Scritto con commozione e lirismo da Tracy N. Todd, editrice e autrice di libri per l’infanzia, e accompagnato dalle tavole vivacemente colorate di Christian Robinson, Nina racconta la vita di una delle più famose interpreti di musica jazz del ’900, inserita al 29° posto nella classifica dei migliori cantanti al mondo dalla rivista Rolling Stones.

Nina Simone, pseudonimo di Eunice Kathleen Waymon, nacque a Tryon, nel North Carolina il 21 febbraio 1933, e morì a Carry-le-Rouet (in Francia dove si era trasferita, lasciando polemicamente gli Stati Uniti) il 21 aprile 2003, a settant’anni. Proveniva da una numerosa famiglia molto unita e molto povera: il padre era musicista, la madre faceva la cameriera presso una casa privata, ma svolgeva anche le funzioni di pastora e predicatrice in una congregazione religiosa. Furono proprio i genitori a incoraggiare la predisposizione naturale della piccola Eunice verso la musica, già evidente dalla più tenera età (“era in grado di cantare prima di saper parlare e di tenere il ritmo prima di saper camminare”). La mamma la faceva esibire nel coro domenicale in chiesa, il papà le impartiva sul pianoforte i primi rudimenti del blues. Tra musica sacra e devozionale e il suono “diabolico” dell’improvvisazione jazzistica, la piccola sembrava comunque a proprio agio con qualsiasi tipo di suono e melodia, fino ad appassionarsi alle composizioni di Bach, sotto la guida esperta di un’insegnante professionista. Nell’adolescenza frequentò la Juilliard School a New York, ma in seguito la sua domanda di iscrizione al prestigioso Curtis Institute di Philadelphia fu rifiutata, probabilmente per motivi razziali. Da allora, frequenti furono le umiliazioni che Eunice dovette subire a causa del colore della sua pelle. Per poter continuare gli studi, iniziò a suonare e a cantare (“con voce profonda e dolce come un tuono”) nei bar e nei locali notturni di Atlantic City, con il nome d’arte di Nina Simone, connubio tra lo spagnolo Niña (piccola) e l’omaggio all’attrice francese Simone Signoret, da lei molto ammirata. Mentre la sua versatilità di pianista e cantante si andava sempre più imponendo tra New York e Philadelphia (leggendaria fu la sua interpretazione di I loves You Porgy, brano di George Gershwin, che vinse il Grammy Hall of Fame Award 2000), l’America iniziò a interrogarsi sul fenomeno irrisolto del razzismo contro la popolazione nera, decisa a non a subire ulteriori violenze e persecuzioni: “Un sordo rimbombo fatto di rabbia e paura: il rumore dei neri che si sollevavano, si sollevavano, non più disposti ad accettare di essere trattati come esseri inferiori”.

Il clima politico incandescente pretendeva da Nina Simone una partecipazione diretta, soprattutto dopo il famoso discorso di Martin Luther King del 1963, I have a dream, e la sua successiva incarcerazione, e dopo l’uccisione dell’attivista Medgar Evers, seguita da altri numerosi attentati contro la gente di colore.

L’indignazione di Nina trovò espressione non solo nell’adesione pubblica alla domanda popolare di giustizia e uguaglianza tra i cittadini, ma anche nell’alzare la propria voce di protesta, incidendo canzoni come Old Jim Crow, Mississippi Goddam e To Be Young, Gifted and Black (Giovane, di talento, e nera) divenute subito inni della lotta per i diritti civili.

La tormentata esistenza privata dell’artista, con i suoi infelici matrimoni, il difficile rapporto con la figlia, i continui tentativi di trovare serenità all’estero per sfuggire alle ostilità dell’America bianca e razzista, non viene affrontata nel libro di Tracy N. Todd, che rimane invece fedele a una narrazione quasi fiabesca della vita di Nina, maggiormente adatta a catturare l’attenzione dei lettori più piccoli, grazie anche allo stile semplice e accattivante della scrittura, e all’espressiva gioiosità dei disegni di Christian Robinson. L’autrice affida la dettagliata biografia dell’artista, e un essenziale repertorio bibliografico, alle pagine conclusive del volume, mantenendo così il carattere didatticamente divulgativo e formativo del suo lavoro, mirato a far conoscere la figura coraggiosa di una donna e di un’artista, interprete delle istanze di libertà, democrazia e parità sociale ancora oggi purtroppo messe in discussione.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net          4 settembre 2023

 

 

RECENSIONI

CAPURSO

ISABELLA CAPURSO, SACRO E URBANO – GATTOMERLINO, ROMA 2022

 Sacro e urbano di Isabella Capurso (Gattomerlino Edizioni) è tra i tre titoli vincitori della seconda edizione di Bookciak Legge, premio letterario che trasforma in corti, realizzati da giovani filmmaker, libri di autori italiani pubblicati da editori indipendenti. Il tema di questa edizione 2023 di Bookciak è stato “Storie per restare umani”, e ad esso si è adeguata l’intensità delle pagine di Isabella, milanese, specializzata in Sociologia urbana e studiosa del rapporto tra società e natura. Impegnata professionalmente nell’ambito di progetti inerenti a temi ambientali e sociali in alcune aree urbane dell’Europa, dell’Africa francofona e del Sud Africa, l’autrice è appassionata di scrittura e arti grafiche, e ha aperto a Milano il laboratorio Le Poisson Lumière in cui organizza mostre ed eventi culturali. Dal 2020 vive tra il capoluogo lombardo e una piccola comunità rurale in Calabria. Autrice di poesie e racconti, illustra con i suoi disegni copertine di libri, come nel caso di questa sua ultima pubblicazione.

Nel prologo a Sacro e urbano, afferma: “Questa raccolta nasce dalla volontà di riunire e sistematizzare una serie di piccole storie e riflessioni a oggetto la città, sia come diario di vissuti che come orizzonte di movimenti contemporanei di geografia umana e fisica”.

Il libro presenta descrizioni, brani di lettere, considerazioni – per lo più risentite e polemiche – riguardanti i contesti urbani in cui le persone si sono ridotte a vivere, rinunciando passivamente a interpretarli e modificarli, con una rassegnazione vicina all’abulia e al fatalismo. Sentimenti, questi, molto distanti dalla coscienza civile di Isabella, dal suo impegno culturale ed etico, vitalmente capace di sdegno e ribellione. La sua denuncia si rivolge contro il capitalismo inquinante, che depreda le risorse naturali, non sa smaltire i rifiuti, riduce gli spazi individuali domestici in favore di costruzioni industriali, magazzini e funerei falansteri.

Palcoscenico privilegiato della narrazione è la città in cui l’autrice è nata e cresciuta, Milano, con le sue due anime contrastanti, ricchezza-successo-eleganza da una parte, fatiscenza-disperazione-sfruttamento dall’altra.

Dal famigerato Parco Lambro, invaso da consumatori e spacciatori di droga, assediato da violenze di ogni genere, frequentato da migranti e senza tetto spesso in contesa tra loro, si passa ai vagoni della metropolitana dove si rifugiano mendicanti e storpi, al degrado assoluto in cui è lasciata la stazione centrale, ai fast food che smerciano cibo spazzatura, ai supermercati affollati, agli animali abbandonati o malati: “I colombi avvelenati dai metalli si ammalano di malattie / neurologiche. Girano intorno al proprio asse”.

In opposizione a questa realtà avvilente, esiste la Milano della finanza e della moda, delle cliniche private monopolizzate dall’Opus Dei, delle arterie stradali e dei treni ad alta velocità, dei Navigli ammorbati da cocaina e antidepressivi, delle discoteche come luoghi di rapporti superficiali e alienanti.

Il sarcasmo di Isabella è spietato verso l’ideologia dominante, che spaccia per opportunità e progresso la disumanizzazione delle relazioni umane, la conflittualità e la concorrenza, l’ingordigia economica.

“Sii felice!

Impongono imperiosamente!

In cambio avrai due punti aperte le virgolette

Privazione del sonno, cemento, anidride carbonica, piombo, prossimità forzata, cibo contaminato

Una imperiosa strenue implacabile richiesta di presentabilità sociale”

Là dove la ricerca del benessere materiale è spinta fino al parossismo, non esiste più alcun interesse per valori diversi: “Ci parliamo addosso. Ci siamo esauriti. E siamo pure vecchi… Siamo sempre costretti dentro ad argini pregressi… Piccoli, siamo diventati piccoli, e più volevano farci credere che consumando saremmo diventati grandi e ci saremmo distinti, più siamo diventati piccoli e tutti uguali”. Scollati dalla realtà, gli occidentali si vedono superare in energia, rabbia e speranza dai paesi sottosviluppati. L’autrice cita i luoghi che ha visitato, dalla Cina all’Africa all’ Australia, constatando ovunque la fine del sacro messa in atto da una livellatrice urbanizzazione internazionale. Alla propria ricerca di verità e autenticità non trova più rispondenze: “Nella mia anima vive un patimento sovversivo e un inestimabile amore”, sentimenti che dovrebbero aiutarci a “restare umani”, ma raramente vengono accolti e apprezzati, nel loro prezioso proporsi alla contemporaneità.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           29 agosto 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

DELFANTI

ALESSANDRO DELFANTI, IL MAGAZZINO – CODICE, TORINO 2023

Nella nota metodologica in calce al volume Il magazzino, Alessandro Delfanti (piacentino, docente di Politiche dei media e della tecnologia all’Università di Toronto) dichiara: “Questo è un libro di parte, che sta con le lotte per migliorare le condizioni di lavoro nel magazzino. Non esisterebbe senza i sindacati e i gruppi di lavoratori e lavoratrici che mi hanno donato il loro tempo e le loro idee”.

Il magazzino. Lavoro e robot ad Amazon è un saggio-inchiesta che indaga l’attività produttiva nei magazzini Amazon, e più in generale il rapporto tra automazione e prestazioni umane nell’economia digitale. Si basa su interviste condotte tra il 2017 e il 2021 con dipendenti ed ex-dipendenti delle aziende Amazon in Italia e in altre nazioni, oltreché di differenti industrie dell’e-commerce.

In sei capitoli Delfanti analizza la brutale realtà di sottomissione, sorveglianza e tattiche antisindacali attuata nelle società di Jeff Bezos, realtà da tempo nota all’opinione pubblica mondiale, ma raramente oggetto di critica dal punto di vista etico e ideologico. Il primo e più grande magazzino Amazon d’Italia, inaugurato nel 2011, si trova a Castel San Giovanni, a un quarto d’ora di strada da Piacenza, città natale dell’autore: è un edificio lungo 400 metri, situato in posizione strategica per servire gli importanti mercati settentrionali, e occupa più di tremila dipendenti organizzati in turni, ventiquattr’ore al giorno per sette giorni la settimana, confezionando un milione di prodotti al giorno.

Nell’area circostante centinaia di ettari di terreno agricolo sono oggi occupate dai magazzini di Ikea, H&M, FedEx, Zalando, che hanno modificato non solo la struttura del paesaggio, ma anche la mentalità e la concezione del lavoro degli abitanti della provincia piacentina. Amazon sta infatti riplasmando il tessuto sociale di intere nazioni, agendo sui desideri compulsivi di acquisto delle persone, attraverso un unico messaggio: “compra più cose, più in fretta, più comodamente, spendendo meno e senza dover cercare da qualche altra parte”. Il consumismo è diventato istantaneo, tassativo, vincolante, pena l’esclusione dai rapporti interpersonali, grazie a un’intuizione vincente di Jeff Bezos, che fondò la sua azienda nel 1994 come libreria online. Attualmente, con 1,5 milioni di dipendenti, Amazon è la seconda società privata al mondo, dopo Walmart. Vanta un’anima relentless, ovvero implacabile, inarrestabile nell’essere sempre operativa, ossessionata nel rispettare le scadenze e nel pretendere dalle maestranze il massimo rendimento. Da azienda leader nell’e-commerce, in grado di offrire qualsiasi tipologia di oggetti nell’arco di 24 ore, è diventata anche il maggior fornitore di spazio web e di cloud computing al mondo (AWS), ai cui server si appoggiano giganti come Netflix, Zoom e Uber. “Con il programma Rekognition vende tecnologia di sorveglianza ai governi, produce inoltre gadget digitali come l’e-reader Kindle e il tablet Fire. Il suo speaker Echo per la domotica consente di utilizzare Alexa, un assistente virtuale sostenuto da algoritmi in grado di processare il linguaggio naturale… Possiede e gestisce una piattaforma streaming, Prime Video, e grazie agli Amazon Studios ricopre oggi un ruolo importante nella produzione di film e serie tv. Possiede anche Amazon Go, una catena di supermercati completamente automatizzati e i supermercati biologici Whole Foods”.

Amazon investe la propria potenza economica soprattutto nell’innovazione tecnologica, per incrementare il tasso produttivo nei propri magazzini attraverso una capillare robotizzazione e per monitorare i dipendenti, estraendo dati preziosi dalle loro prestazioni. I lavoratori rappresentano infatti la variabile più problematica della produzione, pertanto vengono strettamente controllati e governati per evitare che rallentino o arrestino il flusso delle merci. Il controllo ossessivo agisce a tutti i livelli: sul ritmo e la velocità dettati dagli algoritmi aziendali, attraverso un sistema di sorveglianza invasivo e un lavaggio del cervello dei quadri impiegatizi addetti al marketing e all’amministrazione, su cui fa leva l’idea di emancipazione individuale e modernizzazione collettiva. L’uso didascalico di slogan ripetuti e disegnati ovunque (“I leader sono spesso nel giusto”, “Pensare in grande”, “Passione per il cliente”, insieme ad altre parole d’ordine culturalmente più ambiziose e universali: Work hard, Have fun, Reimagine now, Make history), mirano a introiettare ideali di successo, competizione, orgoglio aziendale e una subdola creazione del consenso nei subalterni, da attuarsi sia attraverso misure disciplinari sia con incentivi e promesse paternalistiche di felicità e divertimento.

Il volume di Alessandro Delfanti analizza in maniera particolareggiata non solo le tecniche di produzione e di vendita di Amazon, ma anche l’ideologia che ne è sottesa, manipolatrice e monopolizzatrice, per cui a livello globale sembra che non possano esistere alternative all’e-commerce di Seattle, sebbene non sempre ai posti di lavoro creati corrisponda un’effettiva crescita dell’economia e dei redditi familiari nelle aree limitrofe agli stabilimenti.

Nei vari capitoli del volume vengono utilizzati gli strumenti dell’intervista e dei sondaggi per analizzare le opinioni di dirigenti, manovali, trasportatori, impiegati, stagionali, ingegneri, programmatori: si raccolgono confidenze, lamentele, rancori, rabbie, speranze di riscatto. Testimonianze toccanti di un’attività frenetica e faticosa, in modalità always-on, che spesso provoca infortuni e malattie professionali legate allo stress. In spazi sempre più robotizzati, asettici, illuminati da luci al neon e attraversati da chilometri di nastri trasportatori, le persone si riducono anch’esse a robot identificati da un codice a barre come quelli stampati su ogni prodotto di cui si occupano. Insomma, sembra che tecnologia e automazione non ambiscano tanto ad alleviare il lavoro umano, quanto a direzionarlo e a sottometterlo. La produzione, scandita in quattro passaggi (receive, stow, pick, pack), che Delfanti esamina scomponendoli dettagliatamente, è pensata in funzione della velocità e dell’efficienza che l’azienda promette ai consumatori, per “raggiungere le quote” e “gli obiettivi” necessari al consolidamento della sua crescita.

Il capitalismo digitale sta soppiantando ovunque quello industriale non solo servendosi della riduzione del potere contrattuale dei lavoratori e della precarizzazione, ma soprattutto mirando all’ espansione dei processi di globalizzazione e all’ascesa del mercato finanziario.

Sarà sempre così? Cominciano ad aprirsi spazi di critica e contestazione, germi di ribellione tra i dipendenti, una nuova coscienza ecologica ed ambientale tra i clienti, e un revival sindacale che appoggia le rivendicazioni e gli scioperi delle maestranze in vari paesi del mondo: il primo è stato proprio nel magazzino di Piacenza, il 24 novembre 2017, a cui hanno partecipato centinaia di lavoratrici e lavoratori. “Le loro lotte possono aiutarci a immaginare un futuro diverso, un nuovo percorso di liberazione dalla morsa del capitalismo digitale”.

 

© Riproduzione riservata                          «Gli Stati Generali», 26 agosto 2023

 

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, QUEL CHE HO VISTO, UDITO, APPRESO… – EINAUDI, TORINO 2022

Sulla quarta di copertina del volumetto di Giorgio Agamben pubblicato da Einaudi lo scorso anno, Quel che ho visto, udito, appreso… leggiamo: “parole ultime o penultime, vergate in fretta, come da chi prende appunti per il suo testamento”. Si tratta in effetti di una serie di riflessioni “serotine”, crepuscolari non tanto in senso letterario, ma perché scritte al tramonto di una lunga esistenza, tentando un inventario di ciò che si è riusciti a fare, tra obiettivi raggiunti e mancati, occasioni perse e afferrate al volo, incontri arricchenti o frustranti, amicizie, rimorsi, tradimenti. E più che un elenco di stampo diaristico, assistiamo a una serie di illuminazioni, squarci di verità che improvvisamente diradano la nebbia, accendono il buio, rivelano.

Ho visto… ho udito … ho appreso: ogni capitoletto, nell’estensione limitata di un aforisma, si apre con tali dichiarazioni. Dai due sensi fondamentali deriva la conoscenza di ciò che si sa e di ciò che si è, trasformati dalle sedimentazioni di diverse impressioni, accresciuti nella consapevolezza di noi da quanto si presenta – inatteso e vivificante – alla nostra coscienza assopita.

Cos’ha visto dunque Agamben? Una “capretta snella, esitante, divina” che ricambiava umanamente il suo sguardo, esplosioni di colori sotto forma di estasi e inaspettata felicità, uomini malevoli e calunniatori in ogni paese del mondo. Cos’ha udito? Le campane che dicono “qualcosa senza bisogno di parlare”, il grido di un unico poeta “in luogo di un popolo assente”, donne analfabete cantilenanti la Bibbia.

E cos’ha imparato da tutto il veduto e l’ascoltato? “Che noi esistiamo solo nelle intermittenze del nostro esserci, che quello che chiamiamo «io» è solo un’ombra sempre in congedo e in annuncio, memore appena del suo dileguare”. Viviamo infatti nella precarietà e nell’illusione, e nessuno è essenziale nell’economia dell’universo, essendo creazione e distruzione adiacenti. Ha appreso che il mito sa insegnarci più della storia, perché è indifferente tanto al vero che al falso, dato che non esistono verità, ma solo errori: i propri. Che non la conoscenza è importante, ma solamente la spinta che se ne ricava. Invece è fondamentale accorgersi che Dio è nelle cose e le cose sono in Dio, e che “la semplice, giornaliera sensazione di esistere” deriva dal “destarsi al mattino con questa minuscola gioia”. L’arte di vivere e di farsi divini implica la capacità di abitare non “la casa, ma la soglia, non il centro, ma il margine”.

Assunta la consapevolezza della propria marginalità, l’essere umano può raggiungere la beatitudine attraverso la contemplazione, con il compito di condividere sia la visione sia la cecità con l’altro, in un rapporto di scambio, apertura, amore, coltivando “la memoria del non ancora e del non più umano – del bambino, dell’animale, del divino”.

In queste meditazioni è il filosofo che parla, con la lingua del saggio, del sapiente antico, nutrito in spirito e mente dai testi sapienziali di tutte le religioni, dai grandi pensatori (Epicuro, Lucrezio, Platone, Averroè, Spinoza), da poeti e scrittori (Kavafis, Annamaria Ortese, Elsa Morante, Kafka).

Uomo del XX secolo, Agamben ha provato ad affacciarsi al nuovo millennio, ma se ne è ritratto con timore e tremore, senza riuscire a comprenderlo, e senza riuscire a recuperare un’altra dimora del pensiero: “Come la colomba, siamo stati mandati fuori dall’arca per vedere se c’era sulla terra qualcosa di vivo, anche soltanto un ramoscello di ulivo da prendere nel becco – ma non abbiamo trovato nulla. E, tuttavia, nell’arca non abbiamo voluto tornare”. Il filosofo, l’autore, ha il dovere di testimoniare, anche nel silenzio, nel taciuto e nel non vissuto. Già da bambino aveva intuito l’invivibilità, l’inesplicabilità e il vuoto dell’esistenza, inesprimibile, a cui lasciare uno spazio bianco nella pagina: “la sorte che ci è stata assegnata è fallire: in ogni arte e studio come e soprattutto nella casta arte di vivere bene… Ci dimentichiamo di noi e ci perdiamo, così come Dio, perdendosi in noi, si smemora di sé”. Ammettere il fallimento è l‘unico modo per salvare le piccole creature che siamo.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 20 agosto 2023

 

RECENSIONI

SACERDOTI

GILBERTO SACERDOTI, PELTRO E ARGENTO – MOLESINI, VENEZIA 2023

L’intensa postfazione di Bianca Tarozzi a Gilberto Sacerdoti (come lei anglista di fama, traduttore di Shakespeare, Thomas Hardy e Seamus Heaney) e al suo libro Peltro e argento, antologia poetica pubblicata quest’anno dall’editore veneziano Molesini, fornisce al lettore alcune chiavi di lettura importanti per penetrare i vari e stratificati caratteri della raccolta. Un’attenzione meditata alla natura (acqua e cielo, in primis), ai fenomeni meteorologici (pioggia), ai colori in tutte le loro sfumature, segna la “complessità espressiva e di pensiero” di questo autore dalla “vocazione metafisica” e dall’ “anima musicale”.

Gilberto Sacerdoti (Padova 1952), già docente di letteratura inglese a Roma Tre, ha pubblicato tra il 1978 e il 2001 tre importanti libri di versi, da cui sono tratte alcune poesie inserite nel volume di cui ci occupiamo, insieme ad altre composizioni inedite. La poesia che apre il libro (tratta da Fabbrica minima e minore) è assolutamente esemplificativa della tecnica compositrice del poeta, non solo per l’accuratezza descrittiva, ma proprio per l’accorta sensibilità al suono. Musicalità raggiunta metricamente sia con l’alternarsi armonioso di endecasillabi e decasillabi, sia con le insistite rime in -are (mare, pescare, respirare, tornare), sia attraverso la ripetizione avvicinata dello stesso verso (“mezzogiorno tiepido di marzo”) e con il reiterarsi di sostantivi (“acqua” quattro volte, “mare” cinque volte). L’immagine della laguna veneta colta nella sua placidità primaverile viene ribadita poi dalla scelta meditata degli aggettivi (lenta, chiusa, tiepido, calmo, liquido, fermo), con l’intenzione di suggerire al lettore il respiro rasserenante di una tarda mattinata veneziana, sebbene in contrasto con l’affermazione malinconica degli ultimi due versi: “ed io rimango fermo nei miei occhi / e sono senza mare a cui tornare”.

Mi sono soffermata sul commento di questa poesia di apertura perché mi sembra caratterizzante dell’atmosfera di molte altre composizioni contenute nella prima sezione. Come giustamente sottolinea Bianca Tarozzi nel suo intervento, l’io del poeta più che definirsi nell’esplorazione introspettiva, è un io che osserva e ascolta gli elementi ambientali, e nel rendere con gentilezza visioni e suoni rivela dichiaratamente l’eredità di due “numi tutelari”: Saba e Penna. Troviamo molta luce e molta Venezia in questa prima parte del libro, colori luminosi (azzurro, arancione, verde, bianco, oro) e fiori, gabbiani, cani addormentati, lucertole, insetti. Si mostra “dolce e docile la vita”, da celebrare con un’eccedenza di cantabilità volta a esprimere gratitudine per l’esistente: “Sono come fumo bianco le parole / che m’escono asciugandomi qui al sole”. I “momenti estatici” di cui scrive Tarozzi si susseguono nella contemplazione silenziosa del paesaggio, favoriti dal tepore delle giornate, dalla consolante bellezza del panorama.

Ma già nelle ultime composizioni la città amata mostra il suo aspetto negativo, addirittura nauseante: improvvisamente bizantina, corrotta e corruttrice, invasa da “popoli bastardi”, da “giovani lascivi ed indolenti”, bagnata da acqua resa rancida da “alghe voraci”. Sacerdoti cambia decisamente registro nei versi assunti da Il fuoco, la paglia (1988), che risultano severi e risentiti, quando l’esaurirsi dell’idillio incoraggia uno sguardo più critico sulla società, sulla storia e sulla natura. Si affacciano figure umane, non solo comparse sullo sfondo, ma veri e propri interlocutori ideali del poeta: Sant’Antonio, Amundsen, i pittori Claesz, Bellini e Guercino. Cancellata la tiepida brezza primaverile delle prime poesie, regna ora un luglio torrido e fradicio di sudore. Ai nuovi contenuti risponde uno stile franto e talvolta colloquiale, e accanto agli endecasillabi appaiono novenari e settenari, le rime si attenuano, la musicalità è meno distesa.

In tal modo ci si avvicina alla produzione del nuovo millennio, con le poesie di Vendo Vento (2001) e gli inediti, in un acuirsi di consapevolezza interpretativa che scava sotto la superficie per arrivare alle falde del vero, della realtà. Farfalle, api, mosconi sprofondano “nel cuore marcio del crisantemo”, il miele da biondo si tinge di nero, rondoni e gabbiani stridono, spuntano “fioracci” tra i detriti, la notte è infetta e la penna si trasforma in un bisturi a cui è demandato il compito di sezionare “l’ameba irrancidita” che divora corpo e mente. Non più marzo, e nemmeno luglio: sono adesso i mesi autunnali quelli più indagati, pioggia vento e nuvole sostituiscono il sole gentile delle poesie giovanili.

Una negatività prima sconosciuta adesso viene accettata perché rivelatrice del male da non tacere. Gilberto Sacerdoti prega quindi un san Giorgio vendicatore: “parti lancia in resta, / spurga, prosciuga, sana, cauterizza, / spalanca i vetri, lascia entrare il vento”. Nella maturità si affrontano dilemmi esistenziali, si cercano risposte negli altri poeti (Whitman, Hopkins), si interrogano le divinità rimaste a lungo sorde e mute: “tocca vivere, morire e non capire?”. E nei versi inediti si affaccia per la prima volta l’ironia, l’unghiata sarcastica, evidente anche nei disinvolti inserti linguistici (glu, glu e glu; c!; ha-ha-ha-ha). Con gli anni, “Gela, ispessisce il sangue”, e “l’argento si spegne nel peltro”, razionalmente, laicamente.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           14 agosto 2023

 

RECENSIONI

SNEGIRËV

ALEKSANDR SNEGIRËV, LA STRADA FANTASMA – GATTOMERLINO, ROMA 2022

Del romanzo La strada fantasma di Aleksandr Snegirëv, il traduttore Raffaele Marchi mette in luce nella postfazione “la struttura svagata, la prosa asciutta, quasi schiva, sicuramente restia alla descrizione ma non assente da lirismo, l’ironia solforica, l’individualismo nervoso”. Si tratta infatti di uno stile particolare, quello utilizzato dall’autore, per narrare vicende altrettanto particolari, divaganti tra storia, cronaca, fantasia, sperimentazione. Pubblicato in Russia nel 2019, è la prima opera di Snegirëv uscita in Italia, per le edizioni romane Gattomerlino. Alexandr Snegirëv (pseudonimo di Alexei Vladimirovich Kondrashov) è nato nel 1980 a Mosca. Autore di testi narrativi tradotti in molte lingue, si occupa di belle arti e insegna letteratura nella sua città natale. Nel 2015, ha vinto il Russian Booker Prize per il romanzo Vera.

In questo testo (una cinquantina di capitoli brevi, suddivisi in stringati paragrafi che parcellizzano il racconto utilizzando frasi minime e costanti a-capo) il protagonista si esprime in prima persona, soggettivamente, per poi esternarsi in uno sguardo astratto, narrando di una realtà che da vissuta interiormente si fa collettivamente oggettiva. Aprendosi in uno spazio assolutamente domestico, l’io narrante si svela come scrittore di successo, inquieto e bulimico di rapporti interpersonali, analizzati e descritti con ironia e autoironia, ma anche con lo stupefatto, continuo interrogarsi sulle motivazioni dell’agire umano nella quotidianità e negli eventi storici. Vive con una compagna sensuale e svampita, che tratta con buona dose di maschilismo già nell’attribuzione del nomignolo sprezzantemente misogino: “I nostri orari sono regimentati dalla sfasatura: io dormo – Micetta fuma, io mi sveglio – Micetta dorme. Un piccolo zig-zag nel reciproco timing mantiene saldo il rapporto… Annuso Micetta come un cane annusa un tesoro edibile. La afferro come un cuoco afferra l’impasto. La accarezzo, la sculaccio e la rivolto. E come lei risorge dal sogno, io, al contrario, cado addormentato”. Con loro, un cane razzista che abbaia agli islamici, due artigiani chiamati a riparare i perduranti guasti dell’abitazione, un vicino erotomane appassionato di storia, una vicina platinata diva di Instagram, che “riesce a gustare la dolcezza dell’interattività e al contempo guadagnare”, avendo come motto “Vivi come se dovessi postare”. Il diario quotidiano del protagonista elenca non solo varie comparse e le loro attività, ma anche i vorticosi pensieri di chi scrive, le sue fantasie e allucinazioni, cambiando continuamente punto di vista e materia di osservazione, con un pungente senso dello humor che aborre sia il patetico sia gli stereotipi.

Erede dello sguardo ferocemente caustico dei suoi connazionali Gogol’ e Bulgakov, Snegirëv tratta la storia passata e quella recente con lo stesso disincanto: se la strada in cui abita è stata percorsa dall’armata di Napoleone in ritirata, la cronaca politica attuale pone sugli altari Kim Jong-un e i vari Congressi del Partito Cinese. Il conflitto con l’Ucraina (al momento della composizione del romanzo limitato al Donbass), viene raccontato attraverso una lettura sarcastica degli imbonimenti propagandistici dei due paesi nemici: “Tutto ha avuto inizio nella prima fase operativa della guerra ucraina. Allora la gente teneva lo sguardo fisso sulle vicende e si strappava i capelli per una parte o per l’altra. C’erano dei profughi: alcuni andavano a ovest, verso Kiev, altri a est, in Russia”.

È comunque il presente a imporsi, ma un presente immaginoso, inventato e inventivo, paradossale negli accadimenti che si incalzano, cancellandosi e ricreandosi in continuazione, perché “La realtà si è sdoppiata”, e lo scrittore spavaldamente può annunciare: “È il mio libro e faccio quello che mi va”. Se il narrato si rivela falso, ebbene diventa vero dopo essere stato scritto: omicidi per gelosia, squartamento di cuori, tentativi di liquefare un cadavere nell’acido, resurrezioni improvvise, l’adozione di un’orfanella pestifera, lo smaltimento dei rifiuti, una Mosca post-moderna e cibernetica, nel vertiginoso accavallarsi di eventi inverosimili. L’autore-demiurgo vanta in continuazione la propria autonomia di ideare e depennare personaggi e situazioni, nella necessità di rendere sulla pagina il caleidoscopico trasformarsi della società e degli individui: “Merda, io sono uno scrittore, merda, e ho bisogno di un’idea”.

Quello che risalta nel magma incontrollato del racconto, è l’idea liberatoria della letteratura e dell’arte come emancipazione dalla verità, diritto all’immaginazione, indipendenza assoluta della creatività.

Nel flusso continuo di associazioni e immagini proposto da Snegirëv, domina l’introspezione maniacale, venata da incertezza e insoddisfazione (“La cosa più dura è abituarsi a sé stessi”), soprattutto per ciò che riguarda il proprio ruolo di intellettuale e di narratore. “A dirla tutta, volevo scrivere qualcosa di importante. Qualcosa di originale e di saggio. Ma l’ho dimenticato. Ho dimenticato quel che volevo scrivere. Riempio queste pagine con una grafia a volte piana, a volte convulsa, ironizzo sul passato, lo metto persino in dubbio, e oltre a ciò penso al futuro. Penso a come accoglierà il mio lavoro il redattore, come lo valuteranno i critici. Mi rinfacceranno il disprezzo di una struttura consueta, mi daranno la colpa d’aver rovesciato sui lettori un gran mucchio di avanzi del mio pensiero sbrindellato. Ho raccolto un po’ di tutto in bocconi diseguali, poi l’ho buttato giù in tocchi alla maniera di un’insalata”.

Un romanzo spiazzante, La strada fantasma, con tratti di comicità pura e altri di scandalosa provocazione, che il giovane slavista Raffaele Marchi ha tradotto in una prosa limpida, sciolta e accattivante.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 13 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TARCHETTI

IGINIO UGO TARCHETTI, STORIA DI UNA GAMBA E ALTRI RACCONTI FANTASTICI

ERETICA, BUCCINO (SA) 2022

 

Tra gli esponenti più radicali della Scapigliatura milanese, si deve senz’altro annoverare Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839-Milano 1869) che, sia negli scritti teorici, sia nelle poesie e nelle opere narrative, seppe interpretare le istanze più radicali di questo movimento letterario, attivo per un ventennio nella seconda metà dell’800. In primo luogo per il gusto della ribellione antiborghese e della dissacrazione delle convenzioni morali e sociali dell’epoca, secondariamente per l’interesse a indagare gli aspetti crudi e patologici dei comportamenti umani, con una predilezione quasi ossessiva verso il macabro e la malattia. Suo capolavoro fu il romanzo Fosca pubblicato nel 1869, e ancora oggi ristampato e analizzato criticamente soprattutto per la penetrante rappresentazione della personalità della protagonista, donna colta e intelligente che riesce ad affascinare e turbare la psiche del coprotagonista maschile nonostante – o proprio a causa – del suo infelice aspetto fisico, al limite dell’anormalità.

Anche i racconti di Tarchetti, nella recente edizione proposta da Eretica, risentono dello stesso clima aderente all’ideale estetico della decadenza, scisso tra morbosità e grottesco, iperrealismo e illusione fantastica, che in quegli anni ebbe tra i massimi rappresentanti E.T.A. Hoffmann, Heinrich Heine, Charles Baudelaire, Mary Shelley ed Edgar Allan Poe.

Dei sei racconti presentati in questo volume, i più famosi sono il primo e l’ultimo, Storia di una gamba e La lettera U, entrambi incentrati su una fissazione maniacale del personaggio principale. Nel primo caso, il ventiquattrenne Eugenio, amputato della gamba sinistra (forse pretestuosamente) da un amico chirurgo cui era legato da un complicato rapporto di rivalità amorosa per la stessa donna, mantiene con l’arto asportato un legame angoscioso: non solo perché continua a viverlo attraverso assillanti sensazioni psicofisiche, ma anche perché non riesce a staccarsene nemmeno materialmente, e lo conserva in una teca con devozione abnorme. Sofferente di “ipocondria inguaribile” e di tetra malinconia, il giovane si sente parimenti vivo e morto, tormentandosi nell’osservazione ansiosa della parte vitale del suo corpo e di quella scheletrita. “Quella gamba? Io mi sento attratto continuamente, incessantemente verso di lei; è impossibile che io possa sottrarmi un istante a quella attrazione. Di giorno la vedo, di notte la sogno. E spesso anche la notte devo balzare dal letto, accendere la mia lampada, guardarla e ricoricarmi più tristo e più atterrito di prima”. Quando gli viene proposto di liberarsi dal suo incubo e di sotterrare “la reliquia”, preferisce lasciarsi morire.

Se in questa novella perturbante è la corporeità offesa e ferita ad avere il predominio nella psiche del protagonista, ne La lettera U è invece la follia psicotica, ammessa fieramente dall’io narrante già nel sottotitolo (manoscritto di un pazzo), ad annidarsi tra le righe del narrato, coinvolgendo nelle sue spire ipnotiche lo stesso lettore. Perseguitato dalla visione nefasta della vocale U, cui attribuisce la negatività che pervade l’intera umanità, già dall’infanzia combatte una sua personale e sanguinosa battaglia per cancellarla dall’alfabeto: “Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore? Sì, io l’ho scritta… Quella linea che si curva e s’inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio… Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!! Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!”. L’infelice si allontana dalla scuola, dai luoghi di lavoro, da tutte le donne di cui si innamora non appena scopre la mefistofelica traccia di una U nei loro nomi (Giulia, Ulrica, Susanna, Lucia…), e solamente il ricovero e il successivo decesso in manicomio lo liberano dalla sua angustia.

Anche gli altri quattro racconti presenti nel volume (Le leggende del castello nero, Un osso di morto, Uno spirito in un lampone, I fatali), calibrati con intelligenza tra atmosfere metafisiche e realistiche, sarcasmo e comicità, evidenziano la compenetrazione esistente nell’individuo e nella società di vita concreta e apparenza, salute e malattia, partecipazione e marginalità. Nell’approfondita postfazione di Daniele

Palmieri (che introducendo il libro offre una visione d’insieme della Scapigliatura milanese), Iginio Ugo Tarchetti viene definito un anticipatore delle angosce novecentesche espresse da Sartre, Camus e Cioran: “la perdita di senso, la morte dell’anima che rende l’uomo un involucro vuoto schiacciato tra due dimensioni, quella della vita quella della morte”. L’assurdo inspiegabile, insomma, che attanaglia le menti degli esseri umani, con interrogativi privi di risposta.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 6 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARCHI

RAFFAELE MARCHI, DA GIOVANI SI MUORE COSÍ TANTE VOLTE

GATTOMERLINO, ROMA 2023

 

Raffaele Marchi (Ostiglia 1991), slavista e traduttore dal russo, ha pubblicato presso le edizioni romane Gattomerlino la raccolta di racconti Da giovani si muore così tante volte, titolo che suona un po’ come amara constatazione un po’ come memento rimproverante verso chi da tempo giovane non è più, e forse dimentica che non esistono età assolutamente felici. Sembra proprio la scontentezza di sé e del proprio ruolo sociale il leitmotiv del volume, insieme all’insoddisfazione lavorativa e all’alienazione determinata dal neocapitalismo, più ancora che l’infelicità personale dovuta a inquietudini, disagi o sofferenze interiori. Solitudine, mancanza di dialogo, rapporti affettivi precari, caratterizzano queste diciannove storie brevi, dal registro stilistico multiforme: si susseguono monologhi, dialoghi, meditazioni filosofiche e teologiche, commenti a fatti di cronaca, spesso scritti in prima persona, addirittura facendo parlare un pub “modestamente frequentato”, testimone afflitto dello squallido viavai degli avventori.

I protagonisti dei racconti appartengono in genere al ceto sociale più modesto: sono operai, commesse, insegnanti, impiegati, casalinghe, tutti frustrati e infiacchiti dalla routine quotidiana.  Il loro habitat è il condominio popolare, il bar del quartiere, il negozio alimentare. Manifestano indifferenza verso l’impegno civile, insieme a una generica ostilità per i detentori del potere: “una razza che sembra perennemente sul filo dell’estinzione, e poi non muore mai. Sempre un erede si trova”.

La realtà in cui questi personaggi si muovono appare come una recita imposta, una finzione in cui essi sono solo comparse, mai attori principali: “Sempre si finge. Somma due occhi ad altri due occhi e avrai un uguale infinito di bugie”. Poiché verità e giustizia rimangono utopie irrealizzabili, ci si rifugia nell’agnosticismo, nel disincanto o peggio, nello scherno: “Un altro mondo non c’è… Noi sappiamo d’esser qui, e pure che là non ci saremo”. Leggiamo nel susseguirsi delle pagine il monologo sospiroso di una cassiera del supermercato, che attende la fine del turno tra pazienza dovuta ai clienti e giustificabile irritazione; il dialogo di tre professori che durante la ricreazione conversano di tutto: guerre, capitalismo, poesia, d’accordo solo sulla capraggine insulsa degli allievi (“Bombe! Bombe! Andiamo a fare l’educazione col tritolo”). E ancora il rito del caffè mattutino raccontato da un misantropo cui pesa affacciarsi alla vita, o due amici musicisti “inseparabili, incicciati come sardine nella scatola”, in perenne litigio riguardo alle loro abilità di interpreti.

A riprova della versatilità dell’autore, troviamo anche alcune storie più intenerite, con un alone di romantica ingenuità che le rende particolarmente godibili. Come L’asprezza chiama sul labbro, in cui il giovane protagonista viene avvicinato da una donna anziana mentre sta raccogliendo le prugne su un albero in giardino, e le permette gentilmente di approfittare della stessa operazione per portarsi via un cestino ripieno di succosi frutti: solo dopo aver risposto a un serrato e importuno interrogatorio della vecchia sulle abitudini dei proprietari della casa, capisce di essere stato generoso con una ladra che cercava informazioni per poter rubare nell’abitazione. Oppure, nel bellissimo Storia senza una vera fine la descrizione puntuale della passeggiata di una coppia, “leonessa e babbuino”, scandita dalla diversa velocità dei passi, dei pensieri, degli sguardi, dei gesti, fino all’arrivo nel bilocale in cui abita e al sonno condiviso senza amore nello stesso letto.

Usando un linguaggio lineare e pacato, impreziosito da innovazioni lessicali, dialettismi e neologismi, Raffaele Marchi ci introduce in un mondo in cui la banalità del quotidiano affossa ogni speranza di riscatto, ogni illusione di cambiamento, riducendo i rapporti umani a uno scambio di contatti superficiali, a volte basati sull’inganno e lo sfruttamento, più spesso sull’apatia e la rassegnazione che contrassegnano il nostro “piccolo spettacolo del vivere”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            4 agosto 2023

 

RECENSIONI

ATTANASIO

CLELIA ATTANASIO, LA STRADA DEGLI ULIVI – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

Un romanzo scritto con eleganza e profondità speculativa, questa prima prova narrativa a lungo respiro di Clelia Attanasio (1995) che, ottenuto il dottorato in Teologia a Cambridge, oggi è ricercatrice presso l’Università di Strasburgo. Finalista del Premio Campiello Giovani nel 2015, Clelia è autrice di racconti e dal 2020 dirige la rivista Quaerere.

La vicenda narrata ne La strada degli ulivi – ambientata in un soffocante paesino del Cilento -, si sviluppa all’interno di conflittuali rapporti familiari, che si riverberano non solo nel tempo (dal passato al presente, proiettandosi anche in un futuro avvertito come problematico), ma anche negli spazi circostanti, contagiati dalla stessa inquietudine respirata entro le mura domestiche.

L’esergo al libro riporta una citazione di J. Derrida, “Il mio lutto ha il volto di mia madre”, prodromo all’avvenimento iniziale, la morte dell’ottantenne Rachele Mele, vedova del medico Antonio Chirichella e madre di due figli, Angela e Ciro.  Quest’ultimo, voce narrante del romanzo, comunica telefonicamente alla sorella giorno e ora del funerale: da subito si intuisce la distanza, non solo fisica, esistente tra i due: Angela è docente universitaria a Napoli, dove si era trasferita anni prima per motivi di studio e per allontanarsi dalla famiglia. Ciro è rimasto a casa, accanto alla mamma cui è morbosamente legato, rinunciando a qualsiasi affermazione professionale e culturale. Considera sua sorella “una donna artificiale, costruita su sé stessa”, e non lo sorprende l’indifferenza con cui accoglie la notizia del lutto, quasi sbadigliando. Ciro e sua moglie Marisa si occupano di tutte le incombenze relative alle esequie, Angela risentita e rabbiosa farebbe volentieri a meno di partecipare alla cerimonia.

Da questo contrasto iniziale si dipana la storia del piccolo nucleo familiare, segnata da incomprensioni, torti, gelosie, segreti. Ciro alterna le sue riflessioni private a considerazioni più generali sull’ambiente in cui vive, freddo e ostile con i giovani, incurante verso gli anziani, desolato nell’abbandono paesaggistico e architettonico, spietato nei rapporti umani. Ma è soprattutto nell’esplorazione di sé e del proprio vissuto che esercita una severa e rancorosa analisi: consapevole di essere “uno dei pochi superstiti di una generazione fuggi tiva” sacrificata al nulla, “fratello santo che avrebbe potuto fare tantissime cose, se solo non ci fosse stata questa sciagurata sorella a prendersi tutto lo spazio del mondo”. Della propria scontrosa riservatezza dà una lettura sincera: “Dietro le psicosi si celano spesso solo piccole paure. L’estraneo mi spaventa, mi inibisce, negli occhi degli altri c’è qualcosa che mi fa temere d’essere visto”.

I due fratelli (tra di loro si chiamano ‘Ngelì e Cirù, unico segno di affettuosa tenerezza) avevano con i genitori rapporti antitetici: Ciro si sentiva inadeguato e imbarazzato di fronte al padre, e dipendente in maniera nevrotica e devota dalla madre; Angela cercava protezione e sostegno nella figura paterna, ed esibiva sadicamente il proprio odio per la mamma provocandola, insultandola, o ignorandola con crudeltà. Se la figlia mantiene negli anni la propria autonomia lontana da casa, dedicandosi con successo alla carriera accademica, Ciro si rassegna al lavoro modesto di insegnante in un paese vicino, e a “un rapporto matrimoniale monco – fatto di svogliato sesso e poche parole” con una coetanea comprensiva, mai realmente amata.

La morte della madre suscita nei due fratelli domande e curiosità prima represse, principalmente riguardo al passato dei genitori, con il desiderio di ricostruire le loro scelte di vita, e di indagarne i silenzi. La madre Rachele era “donna dall’amore lontano, percepibile ma mai concreto. Un amore raffreddato” persino agli occhi del figlio maschio, adorato e adorante. Figura algida ed egoista, era tuttavia donna intelligente, colta, con ambizioni personali non conformiste. Il padre medico, di vent’anni più anziano della moglie, sembrava desideroso di mantenere una serenità di facciata all’interno della famiglia, cercando di attutire i contrasti, di smussare ogni animosità.

“Non credo di poter dire di aver conosciuto i miei genitori per quelli che furono prima di me, forse nemmeno dopo di me: es sere genitore vuol dire conservare un segreto inconfessabile”, afferma Ciro. E casualmente alcuni segreti mai sospettati vengono alla luce con il ritrovamento delle lettere che Rachele e Antonio si erano scambiati durante il loro lungo fidanzamento. In primo luogo il precedente matrimonio del padre di cui non erano mai stati a conoscenza, ma soprattutto la natura sfrontata e dominatrice di Rachele: “La rivelazione, la scoperta di mia madre – nuda, provocante, sensuale – è scesa su di noi come una tenda incandescente”. A sorpresa viene poi svelata, mentre i due fratelli discutono sull’eredità di un uliveto da spartire tra loro, un’ultima intuizione materna, taciuta a tutti e affidata a un foglio nascosto in bagno, riguardante proprio l’amatissimo figlio maschio.

Il romanzo di Clelia Attanasio dimostra grande abilità nello scavo psicologico, e un’attenzione introspettiva severa, espressa senza condiscendenza nella forma letteraria puntuale e curata, capace di adeguarsi alle particolarità caratteriali di ognuno dei quattro protagonisti.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net         3 agosto 2023