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RECENSIONI

ATTANASIO

CLELIA ATTANASIO, LA STRADA DEGLI ULIVI – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

Un romanzo scritto con eleganza e profondità speculativa, questa prima prova narrativa a lungo respiro di Clelia Attanasio (1995) che, ottenuto il dottorato in Teologia a Cambridge, oggi è ricercatrice presso l’Università di Strasburgo. Finalista del Premio Campiello Giovani nel 2015, Clelia è autrice di racconti e dal 2020 dirige la rivista Quaerere.

La vicenda narrata ne La strada degli ulivi – ambientata in un soffocante paesino del Cilento -, si sviluppa all’interno di conflittuali rapporti familiari, che si riverberano non solo nel tempo (dal passato al presente, proiettandosi anche in un futuro avvertito come problematico), ma anche negli spazi circostanti, contagiati dalla stessa inquietudine respirata entro le mura domestiche.

L’esergo al libro riporta una citazione di J. Derrida, “Il mio lutto ha il volto di mia madre”, prodromo all’avvenimento iniziale, la morte dell’ottantenne Rachele Mele, vedova del medico Antonio Chirichella e madre di due figli, Angela e Ciro.  Quest’ultimo, voce narrante del romanzo, comunica telefonicamente alla sorella giorno e ora del funerale: da subito si intuisce la distanza, non solo fisica, esistente tra i due: Angela è docente universitaria a Napoli, dove si era trasferita anni prima per motivi di studio e per allontanarsi dalla famiglia. Ciro è rimasto a casa, accanto alla mamma cui è morbosamente legato, rinunciando a qualsiasi affermazione professionale e culturale. Considera sua sorella “una donna artificiale, costruita su sé stessa”, e non lo sorprende l’indifferenza con cui accoglie la notizia del lutto, quasi sbadigliando. Ciro e sua moglie Marisa si occupano di tutte le incombenze relative alle esequie, Angela risentita e rabbiosa farebbe volentieri a meno di partecipare alla cerimonia.

Da questo contrasto iniziale si dipana la storia del piccolo nucleo familiare, segnata da incomprensioni, torti, gelosie, segreti. Ciro alterna le sue riflessioni private a considerazioni più generali sull’ambiente in cui vive, freddo e ostile con i giovani, incurante verso gli anziani, desolato nell’abbandono paesaggistico e architettonico, spietato nei rapporti umani. Ma è soprattutto nell’esplorazione di sé e del proprio vissuto che esercita una severa e rancorosa analisi: consapevole di essere “uno dei pochi superstiti di una generazione fuggi tiva” sacrificata al nulla, “fratello santo che avrebbe potuto fare tantissime cose, se solo non ci fosse stata questa sciagurata sorella a prendersi tutto lo spazio del mondo”. Della propria scontrosa riservatezza dà una lettura sincera: “Dietro le psicosi si celano spesso solo piccole paure. L’estraneo mi spaventa, mi inibisce, negli occhi degli altri c’è qualcosa che mi fa temere d’essere visto”.

I due fratelli (tra di loro si chiamano ‘Ngelì e Cirù, unico segno di affettuosa tenerezza) avevano con i genitori rapporti antitetici: Ciro si sentiva inadeguato e imbarazzato di fronte al padre, e dipendente in maniera nevrotica e devota dalla madre; Angela cercava protezione e sostegno nella figura paterna, ed esibiva sadicamente il proprio odio per la mamma provocandola, insultandola, o ignorandola con crudeltà. Se la figlia mantiene negli anni la propria autonomia lontana da casa, dedicandosi con successo alla carriera accademica, Ciro si rassegna al lavoro modesto di insegnante in un paese vicino, e a “un rapporto matrimoniale monco – fatto di svogliato sesso e poche parole” con una coetanea comprensiva, mai realmente amata.

La morte della madre suscita nei due fratelli domande e curiosità prima represse, principalmente riguardo al passato dei genitori, con il desiderio di ricostruire le loro scelte di vita, e di indagarne i silenzi. La madre Rachele era “donna dall’amore lontano, percepibile ma mai concreto. Un amore raffreddato” persino agli occhi del figlio maschio, adorato e adorante. Figura algida ed egoista, era tuttavia donna intelligente, colta, con ambizioni personali non conformiste. Il padre medico, di vent’anni più anziano della moglie, sembrava desideroso di mantenere una serenità di facciata all’interno della famiglia, cercando di attutire i contrasti, di smussare ogni animosità.

“Non credo di poter dire di aver conosciuto i miei genitori per quelli che furono prima di me, forse nemmeno dopo di me: es sere genitore vuol dire conservare un segreto inconfessabile”, afferma Ciro. E casualmente alcuni segreti mai sospettati vengono alla luce con il ritrovamento delle lettere che Rachele e Antonio si erano scambiati durante il loro lungo fidanzamento. In primo luogo il precedente matrimonio del padre di cui non erano mai stati a conoscenza, ma soprattutto la natura sfrontata e dominatrice di Rachele: “La rivelazione, la scoperta di mia madre – nuda, provocante, sensuale – è scesa su di noi come una tenda incandescente”. A sorpresa viene poi svelata, mentre i due fratelli discutono sull’eredità di un uliveto da spartire tra loro, un’ultima intuizione materna, taciuta a tutti e affidata a un foglio nascosto in bagno, riguardante proprio l’amatissimo figlio maschio.

Il romanzo di Clelia Attanasio dimostra grande abilità nello scavo psicologico, e un’attenzione introspettiva severa, espressa senza condiscendenza nella forma letteraria puntuale e curata, capace di adeguarsi alle particolarità caratteriali di ognuno dei quattro protagonisti.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net         3 agosto 2023

 

RECENSIONI

KELLER

GOTTFRIED KELLER, LETTERE D’AMORE TRADITE – ELLIOT, ROMA 2015

Di Gottfried Keller (1819-1890), il più famoso scrittore svizzero dell’Ottocento, l’editore Elliot ha pubblicato nel 2015 un romanzo breve molto godibile, Lettere d’amore tradite, che unisce in sé i caratteri dello studio sociale, dell’introspezione psicologica e della commedia degli equivoci.

Il racconto esplora ironicamente i meandri dell’animo smanioso e risentito del protagonista, il commerciante Viktor Störteler, chiamato da tutti Viggi, sposato con una signora semplice e gentile, Gritli, soddisfatta del tranquillo ménage domestico e dell’esistenza piccolo borghese nel paesino di Seldwyla.

A differenza delle scarse ambizioni sociali della moglie, Viggi nutre tormentanti aspirazioni letterarie, una smodata brama di successo e di riconoscimenti culturali. Inizia a redigere alcuni saggi di costume, che invia a riviste locali, senza riceverne alcun riscontro. Passa allora a scrivere con lo pseudonimo di Kurt Dalbosco racconti che di tanto vengono pubblicati sui giornaletti della provincia, gonfiandolo di borioso orgoglio. Frequenta circoli di aspiranti artisti, riuniti nei locali pubblici della zona, tutti impegnati a commentare reciprocamente le proprie composizioni, con la speranza di ottenere imperitura fama nel mondo delle lettere. Nel tempo libero dal lavoro che lo porta spesso a girare per il cantone di Berna, Viggi si dedica all’osservazione puntuale delle persone, dei luoghi, della natura circostante, cercandovi ispirazione e prendendo appunti su un taccuino per una successiva rielaborazione formale. Si fa crescere i capelli e inforca sul naso occhiali con lenti di vetro, convinto così di assumere un aspetto più intellettuale. Ovviamente, diventa senza accorgersene oggetto di scherno per gli abitanti del paese, ma continua imperterrito a produrre articoli e novelle, nella convinzione di poter ottenere la meritata popolarità.

Improvvisamente gli attraversa la mente una luminosa idea: quella di includere l’ingenua mogliettina Gritli nella sua attività letteraria, utilizzando la formula dell’epistolario amoroso. Cerca pertanto di coltivare l’istruzione della sua sposa, imponendole approfondite letture filosofiche. Alla spaventata e sprovveduta donna il compito risulta da subito arduo e deprimente, in particolare quando il marito inizia a inviarle pretenziose lettere d’amore pretendendo da lei risposte stilisticamente adeguate.

Sentendosi incapace di esaudire le pretese di Viggi, Gritli escogita quindi un sotterfugio per uscire dall’umiliante situazione in cui si trova costretta. Il vicino di casa Wilhelm, un giovane maestro timido e introverso, affascinato dalle donne che non riesce ad avvicinare per un opprimente complesso di inferiorità, le sembra lo strumento più appropriato cui ricorrere per salvarsi. Ricopiando le lettere del marito e modificandone intestazione, suffissi e pronomi, fa credere al giovane che siano messaggi d’amore diretti a lui, e ne riceve di rimando risposte eleganti e appassionate. Di nuovo intervenendo sui testi, invia l’epistolario, sempre più fitto e intenso, a Viggi, che rimane commosso e grato.

Quando per un caso fortuito l’inganno viene alla luce, i rapporti tra i due coniugi diventano tesissimi, arrivando addirittura a un processo e al successivo divorzio. Ma mentre Gritli vive con dignitoso sollievo la separazione, Viggi sconta a caro prezzo il suo presuntuoso maschilismo. Finisce infatti per risposarsi con una donna avida e lagnosa, e per sfuggire dalle grinfie di lei si immerge con sempre maggiore testardaggine nelle sue insulse composizioni. L’unica persona che trae vero profitto da tutta questa vicenda è il giovane maestro Wilhelm, che allontanato dall’insegnamento per lo scandalo di cui era stato inconsapevole protagonista, finisce per dedicarsi con successo all’agricoltura e alla meditazione, creandosi nei dintorni la fama di eremita dispensatore di saggezza e spiritualità. E poiché tutto è bene quel che finisce bene, il romanzo di Gottfried Keller si conclude, secondo i canoni della narrativa popolare ottocentesca, in maniera inaspettata e romantica, che spetterà all’eventuale lettore scoprire.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        31 luglio 2023

 

 

 

 

 

RACCONTI

EREDITA’ MONTALIANE

QUELLO CHE DEVO A MONTALE

Il mio primo incontro con la poesia montaliana risale agli anni liceali, limitatamente a  poche pagine antologizzate in testi scolastici. Un’attenzione incuriosita, ma non ancora affascinata, avevo riservato alla più nota “Meriggiare pallido e assorto”, in cui tuttavia percepivo una ricerca quasi compiaciuta della resa formale. Più emotivamente vicine avevo sentito, invece, “La casa dei doganieri”, con gli splendidi e malinconici due versi conclusivi, e poi “Felicità raggiunta”, “Gloria del disteso mezzogiorno”, “Forse un mattino”, “Esterina”, “Dora Markus”… Tutte quelle poesie, insomma, che sapevano coniugare alla profondità del significato una vibrazione particolare del suono, esigendo da parte mia un’adesione non solo mentale, ma anche e assolutamente “sentimentale”.

All’ Università Statale di Milano avevo poi seguito il corso del Professor Antonielli proprio sui primi quattro libri di Montale, e ricordo ancora il silenzio commosso (in anni rumorosissimi!) con cui gli studenti che gremivano l’Aula Magna accoglievano la recitazione del docente, e la sua successiva illustrazione. Trasferitami a Zurigo, erano state le lezioni del Prof. Isella sui Mottetti, al Politecnico, ad aprirmi nuovi varchi di comprensione nell’universo poetico montaliano: l’eco di quella trepidazione è rimasta in una mia silloge (“Omaggio a Montale”, Einaudi 2012), in cui confondevo i miei versi con i suoi, in un tentativo – non so quanto riuscito – di ammirata parodia.

Come non ammirare, infatti, gli endecasillabi iniziali (“Ti libero la fronte dai ghiaccioli”, “Non recidere, forbice, quel volto”, “Lo sai: debbo riperderti e non posso”), evocativi e struggenti quanto potevano essere le canzoni che accompagnavano i nostri primi tremori adolescenziali. Una musica   particolare e innegabile, quella della poesia di Montale, una ricerca di composta armonia che continuo a ritenere sia doveroso compito e dono della scrittura poetica.

Più tardi ho letto l’interessante saggio di Edoardo Esposito, rivisitazione attenta di tutta la produzione del Maestro. Indiscutibilmente, meritatamente da considerarsi maestro: meritatamente e indiscutibilmente premio Nobel, che nulla ha tolto e moltissimo donato alla produzione in versi (non solo italiana) a lui posteriore.  Soprattutto oggi – quando una sorta di conformismo sembra voler livellare e omogeneizzare le diverse voci del panorama letterario, al punto da renderle indistinguibili le une dalle altre – il timbro esclusivo, inconfondibile della poesia montaliana continua a sembrarmi il merito maggiore del suo insegnamento, insieme alla sua capacità di regalare emozioni, dote ai nostri giorni presuntuosamente sottovalutata o sarcasticamente sbeffeggiata.

Se infine dovessi indicare una preferenza personale verso uno dei libri di Montale, non esiterei a pronunciarmi in favore de “La Bufera”, che nelle sue prove più alte è riuscita a scandagliare turbamenti privati e drammi pubblici, vicende personali e tragedie storiche: come nella poesia -capolavoro (una delle poche che conosco a memoria, e a cui ricorro spesso mentalmente come a un talismano) “Piccolo testamento”, al suo “smeriglio di vetro calpestato”, al “tenue bagliore strofinato laggiù”, tanto trascurato dalla cultura contemporanea, e tuttavia essenziale, riparatore, illuminante.

 

«Gli Stati Generali», 30 luglio 2023

 

 

RECENSIONI

REZZA

ANTONIO REZZA, CREDO IN UN SOLO OBLIO – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2023

La Nave di Teseo ripubblica un romanzo di Antonio Rezza (Novara 1965), uscito in prima edizione da Bompiani nel 2007 e vincitore del Premio Feronia: Credo in un solo oblio. Si tratta di una sorta di poema in prosa, provocatorio, angoscioso, ossessivamente autoreferenziale. In uno stile che sperimenta lo stream of consciousness, viene eliminata ogni barriera tra la percezione effettiva delle cose e la rielaborazione mentale. Ne risulta una narrazione surreale, scandita in frasi brevi e assiomatiche, separate nei primi capitoli da continui a capo, come nei versi di una poesia. Che della poesia, e della recita ad alta voce (Rezza è celebrato attore teatrale) mantengono il ritmo e le pause, la forza della declamazione stentorea. Già evidente nelle righe di apertura: “Era una giornata iniziata da poco. / Comincia così la giornata, da poco. / E a poco a poco si fa lunga, insopportabile, fino a sfinire. / E così i mesi. / E così gli anni. / E i secoli che non vedremo”. Più sotto, ancora, una definizione drammatica dell’esistenza: “Nasciamo morti e moriamo vivi. Questo è il problema”. Il gusto dello spiazzamento, dell’iperbole polemica che talvolta si fa ingiuria, istigazione, è già evidente dalla dedica in esergo: “A tutti coloro”, che potrebbe significare a tutti e a nessuno, a quelli come me e a quelli diversi da me.

La voce narrante è un alter ego ovviamente chiamato Antonio, la cui caratteristica principale è l’odio impaurito verso il mondo circostante e l’odio-amore verso sé stesso: “Da circa sette anni vivo in un inferno interiore. Brucio dentro. / Sono la mia ulcera. Sono il mio tormento. / Senza me vivrei meglio, ma mi occupo quel tanto da non darmi scampo”. Antonio ha un amico che lo fa ridere, ma si frequentano poco. Ha avuto una moglie morta di parto, e una bambina di nome Maria che nessuno ha mai visto, e lui rinchiude nei suoi pensieri compulsivi per non contagiarla del suo male oscuro.

Caducità del tempo, caducità degli avvenimenti e dei sentimenti sono il leitmotiv della riflessione filosofica e morale dell’autore: vanità del Qoèlet, indifferenza sartriana, finzione borgesiana, Cioran e Houellebecq rivisitati. Ripetizione, inutilità di ogni sofferenza, noia. “Non c’è noia che non sia eterna. / La noia è immortale. / La noia è come Dio. E in più esiste. / Tutto riesce ad annoiare”.

La miseria in cui ci dibattiamo non è colpa del Cielo, dello Stato, del destino: è colpa nostra. “Siamo quel che meritiamo, non siamo quel che siamo. / Fossimo ciò che siamo saremmo felici. / Ma non siamo felici. / Forse neanche siamo. / Siamo a sprazzi”. Siamo tutti “Sfottuti. Sfittati. Sfiniti. Finiti. Finiti per sempre. / Finiti in vita. / E pronti a ricominciare”.

Come vive, cosa fa Antonio? L’elenco delle sue banali azioni quotidiane (dormo mangio fumo parlo esco) viene subito contraddetto dal loro contrario (non dormo non mangio non fumo non parlo non esco). “Non lavoro, non ho rapporti sociali, mi sveglio ogni giorno e cado in balia di una deriva implacabile che mi condurrà all’infermità mentale”.

Ma improvvisamente gli capita qualcosa di incredibile e dirompente, che rivoluziona la sua intera esistenza e il suo modo di rapportarsi col mondo: decide di andare a farsi una foto per “vedersi chiaro”, per dare sostanza alla sua faccia, alla sua fisicità, e avere un riscontro concreto di sé in un documento ufficiale. La foto esce mossa perché Antonio si distrae e scompone: “Scatto durante lo scatto. / E vengo mosso. Mosso nella foto. Nella foto mosso come vorrei nella vita”. Il ritratto non corrisponde realmente al suo viso, non gli assomiglia. Quindi, al primo controllo della carta d’identità da parte della polizia stradale, lo straniato e incolpevole protagonista viene arrestato per detenzione di documenti falsi.

Alla narrazione cadenzata dalle pause e dagli a-capo si alternano brani pseudo-normalizzati tipograficamente, ma ancora febbrili nello stile e deliranti nei contenuti. Inizia infatti un vorticoso accavallarsi di avvenimenti paradossali, privi di logica, che conducono Antonio a uno sdoppiamento della personalità, a uno schizofrenico incarnarsi nei corpi di tutti coloro che incontra, e sulle cui facce si sovrappone la fotografia della sua carta d’identità. “Chiunque mi è di fronte io sono. Ma pur essendo in tutti continuo a non essere nessuno. Muovendomi nello studio del fotografo al momento dello scatto sono entrato nelle foto dell’umanità”. L’unico modo di uscire dal suo bloccato, atonico egotismo è il movimento subitaneo e involontario che, squarciando i confini rigidi e incasellanti del ritratto, lo mette in comunicazione con un esterno perturbante e maniacale, ma comunque concreto. L’ossessione per la fotografia prende di mira l’esibizione di sé oggi imperante sui social e nei media (“se un giorno m’impicco lo faccio in autoscatto”) e nello stesso tempo esprime la convinzione che noi siamo “l’immagine del nulla”.

Antonio evade dalla prigione e scopre il suo viso su tutti i cartelloni pubblicitari, nel casellario della polizia, nelle riviste, nei bar, sui tram, nei ritratti dei defunti al cimitero. “Entrando e uscendo dalla carta d’identità posso vivere due vite. Nessuna come vorrei. Ma almeno due”. Gira per la città a volte deserta a volte affollata, sentendosi privato della propria personalità e dei connotati fisici ora trasformati in una tragica maschera fittizia, diffusa ovunque. Il cimitero è l’habitat abituale del protagonista, a significare che la vita dei morti equivale o supera in autenticità quella dei vivi. Prova a recuperare il passato riesumando i corpi sepolti di madre padre e nonna, anch’essi incorniciati in un’inespressiva fotografia, e con loro si ritrova protagonista in un film pornografico e in diverse trasmissioni televisive. Come un becchino impazzito continua a disseppellire salme di parenti e sconosciuti, per poi interrarli di nuovo, sostituendo i ritratti sulle lapidi nel tentativo di ripristinare un ordine che lui stesso ha sconvolto. L’incubo da tragico si trasforma in comico, creando situazioni farsesche di agnizioni e sconfessioni continue, omicidi e resurrezioni, fughe e ricomposizioni. I defunti si aggirano come ectoplasmi, ombre di un Ade ciclicamente svuotato e ripopolato da proiezioni allucinate di anime inconsistenti. Antonio si innamora del cadavere di una donna, la sposa e la rende madre di un bambino nato morto. Poi ne sposa un’altra, da cui nascerà un esserino con l’unico carattere distintivo di una voce urlante. Infine appare luminosa tra le tombe Maria, “bimba riemersa…figlia del buio”, tenuta nascosta per preservarla dal male paterno e universale. È la sua bambina, ma è anche sua moglie, le loro foto si sovrappongono in un delirante incubo incestuoso. Infine, mentre la follia si impossessa della mente ferita del protagonista, il suo corpo si sgretola e si spande nell’universo.

Antonio Rezza, che da sempre si muove sui nostri palcoscenici in un teatro dell’assurdo e della crudeltà sulle tracce di Artaud, Ionesco, Genet, può ben affermare, in conclusione di questo volume spietato, geniale e disturbante nel suo ostentato narcisismo, che “la realtà senza recita è la più tragica recita della realtà”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 24 luglio 2023

 

RECENSIONI

LINGIARDI

VITTORIO LINGIARDI, L’OMBELICO DEL SOGNO: UN VIAGGIO ONIRICO – EINAUDI, TORINO

L’ultimo saggio pubblicato dallo psichiatra e psicanalista Vittorio Lingiardi (Milano 1960) è dedicato all’attività onirica, esplorata nella sua complessità neurologica, psichica, letteraria, culturale. “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”, scriveva Shakespeare ne La tempesta, assimilando l’impalpabile e misteriosa indeterminatezza che da sempre abita e agita le notti degli esseri umani (inquietandoli, interrogandoli) alla labilità della loro esistenza. Astratti, nebulosi, oscuri, difficilmente interpretabili, anticipatori di sorprese e presagi, ricordi ed emozioni, turbamenti o improvvise euforie, i sogni sono varchi che ci aprono alla conoscenza di noi stessi e del mondo.

Lingiardi suddivide la sua ricerca in tre sezioni, in cui espone i diversi punti di vista da cui poter esplorare il lavoro onirico nelle sue diramazioni (divinità, inconscio, cervello), utilizzando suggerimenti tratti dal mito, dalle religioni, dalla letteratura, dall’arte e dal cinema.

L’umanità ha sempre sognato, e ha sempre cercato di descrivere e comprendere il significato delle visioni notturne: dall’epopea di Gilgamesh alla Genesi, da Omero ai tragici greci, da Platone ai poeti latini (Ovidio, Virgilio, Lucrezio), tutto il mondo antico ha elaborato una propria cultura del sogno, ritenuto spesso di derivazione divina, e in quanto tale profetico, a volte presagio di avvenimenti favorevoli, o al contrario ingannatore, e temibilmente sinistro: gli antichi Romani chiamavano Incubus (“che sta sopra”), i Greci Efialte (“che ti salta sopra”), quello più spaventoso, foriero di angoscia, paralisi e soffocamento. La duplicità di benevolenza e pericolo viene espressa da Penelope nel XIX libro dell’Odissea (“Straniero, sono inspiegabili e ambigui i sogni”), quando illustra a Ulisse come si presentino le porte da cui le immagini fanno ingresso nel sonno, una con battenti di corno, l’altra d’avorio: queste ultime avvolgono la mente di inganni, mentre le prime sono rassicuranti e veritiere.

Se dall’antichità fino al Rinascimento si sono avuti interpreti e catalogatori di sogni propensi a crederli di origine divina (Macrobio, Elio Aristide, Artemidoro, Tertulliano, Silesio di Cirene, Macrobio, Achmet fondatore della oniromanzia islamica, Gerolamo Cardano, per non parlare delle cento e più citazioni contenute nell’antico Testamento e nel Talmud), era altrettanto nutrita la corrente razionalista, che dava della funzione onirica un’interpretazione fisiologica, meccanicista, con i suoi autori più rilevanti: Aristotele, Epicuro, Cicerone, Lucrezio, Tommaso d’Aquino, fino a Cartesio e alle spiegazioni laiche e scientifiche degli psichiatri e dei neurologi ottocenteschi.

Nella seconda parte del saggio, Lingiardi affronta (con “le mani nei capelli”) le diverse interpretazioni psicanalitiche dell’attività onirica, a partire da quelle di Sigmund Freud (autore nel 1900 della fondamentale Die Traumdeutung), che si proponeva di darne una definizione scientifica e razionale.

Se gli antichi guardavano ai sogni in funzione del domani, come profezie o premonizioni, Freud li indagava in funzione del passato, in quanto produzione inconscia di residui diurni, paure infantili, legami perduti, associazioni involontarie derivate da traumi sequestrati nel corpo perché la mente non poteva ospitarli: un trucco per proteggere l’Io dalle forze oscure dell’inconscio, e insieme “appagamento di un desiderio” censurato a livello cosciente, perché ritenuto riprovevole per la sua natura sessuale o aggressiva. “L’ombelico del sogno è il punto in cui esso affonda nell’ignoto”, e rappresenta la “via regia per la conoscenza dell’inconscio”. Secondo il medico viennese, questo fenomeno psichico, rielaborato nel sonno attraverso processi di condensazione, spostamento, raffigurabilità, può riemergere nel reale significato attraverso la tecnica dell’analisi, e venire curato nelle sue manifestazioni nevrotiche.

L’amico-nemico di Freud, Carl Gustav Jung, prese presto le distanze dalla posizione del maestro, sottolineando la dimensione mitica e collettiva del mondo onirico, di cui esaltava la finalità creativa non falsificata, in grado di esprimere “qualcosa che l’Io non sa e non capisce”, in un linguaggio allegorico intraducibile in termini logici. Più visionario e meno sistematico di Freud, Jung rivalutava l’alterità onirica in quanto forma diversa di pensiero, che ci aiuta a definire chi siamo attraverso un continuo lavoro al confine tra coscienza e inconscio.  Il sogno dà accesso “all’uomo più profondo, universale, vero ed eterno, ancora immerso in quelle tenebre della notte primitiva in cui egli era ancora tutto e tutto era in lui”. Convinto dell’esistenza della dimensione archetipica dell’inconscio collettivo, sedimento di esperienza acquisite dagli antenati nel corso dell’evoluzione e trasmesse per via ereditaria, considerava l’inconscio non solo ricettacolo di ricordi personali rimossi, ma anche scrigno di nuovi pensieri non ancora coscienti, vitalizzanti e creativi.

Dopo aver esposto le contrapposte teorie dei due giganti Freud e Jung, Vittorio Lingiardi offre ai lettori un ricco elenco di seguaci e innovatori novecenteschi dell’indagine psicoanalitica sull’attività onirica. Partendo da Melanie Klein per soffermarsi in particolare su Bion, Hillman, Ogden, Bromberg, Fosshage (citando anche Kiefer, Kohut, Pontalis, Grotstein, Bollas, Fonagy, Fairbairn, Lacan), Lingiardi sostiene che la psicoanalisi contemporanea non considera più i sogni solo come “materiale cifrato da rivelare, ma come prodotti di un neurolaboratorio da cui emergono visioni e narrazioni che possono suggerire ipotesi sul nostro funzionamento psichico… Un modo di alfabetizzare sensazioni, percezioni, emozioni e trasformarle in matrici visive pensanti”.

Dell’inglese Wilfred Bion (1897-1979) sottolinea l’importanza di aver intuito che il sognare è un elemento strutturante della vita mentale, un apparato per “pensare i pensieri”, non riducibile negli stretti confini del sonno notturno: processo attivo anche nello stato di veglia, ci permette di dare un senso a elementi altrimenti destinati a restare impensati e impensabili.

Secondo le recenti prospettive cognitive e sociali, l’evento onirico viene sempre più considerato strumento di narrazione e relazione, studiato in quanto processo di pensiero che serve a elaborare informazioni vitali, esercizio psichico che ci prepara all’ignoto, modo di elaborare le preoccupazioni e testare la nostra resistenza alla minaccia, possibilità di risolvere i conflitti e riparare i traumi, mezzo per la regolazione affettiva nel complesso rapporto mente-corpo-cervello.

Negli ultimi decenni l’interesse per la funzione onirica si è straordinariamente sviluppato, focalizzandosi sull’indagine neurocognitiva dei circuiti cerebrali coinvolti, dei neurotrasmettitori, delle fasi del sonno e delle amnesie post-sonno: ed è nella terza sezione del libro che Lingiardi esamina l’argomento dal punto di vista scientifico. Il sogno come evento puramente neurale è stato asserito da numerosi e celebri fisiologi, che hanno duramente contestato le teorie psicanalitiche, affermando che il sogno è il risultato di un assemblaggio casuale di impulsi neuronali attivati soprattutto dal tronco encefalico, del tutto estranei a memorie del passato, censure, desideri rimossi. Si sono approfondite le ricerche sulla fase REM del sonno, in cui si modula l’80 per cento dei sogni, determinata da fattori puramente biologici: l’attivazione delle cellule che producono acetilcolina e la disattivazione di quelle che producono serotonina e noradrenalina. A tali cambiamenti sarebbero imputabili le immagini visive, vivide e allucinatorie che caratterizzano il sogno, provocando emozioni intense e acritiche dal contenuto illogico, difficili da ricordare al risveglio.

Si è scoperto che i sogni che facciamo prima del risveglio sono i più intensi, che gli anziani sognano di meno, che esistono sogni collettivi e ricorrenti, provocati da fenomeni sociali condivisi (terrorismo, catastrofi naturali, epidemie). I contenuti più comuni riguardano: “impotenza/incapacità, essere aggrediti/inseguiti, incidenti stradali, conflitti interpersonali, preoccupazione per salute/morte propria o di persone care”, e provocano ansia, tristezza, rabbia, disgusto, senso di colpa.  Ciascuno di noi sogna ad occhi aperti, e il fenomeno del daydreaming si ripete con circa duemila episodi al giorno, rielaborando ricordi o creando mondi immaginari, fantasticando su vendette, successi, recriminazioni, in un continuo vagare narcisistico su sé stessi: il sogno, notturno o diurno che sia, è sempre egocentrico.

Comunque sia, sognare (funzione intesa in senso meccanicistico oppure come rielaborazione del proprio vissuto) rappresenta un altrove, un ambito in cui l’individuo incontra una diversa esperienza di sé: “I sogni sono nostri, l’ultimo spazio di vita privata, forse di libertà”. Teniamoceli stretti.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 20 luglio 2023

 

RECENSIONI

FRATUS

TIZIANO FRATUS, LETTERE A UNA SEQUOIA – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Un albero pensa? Ci osserva e ci giudica? Conosce il significato della vita e della morte, prova sentimenti benevoli od ostili nei confronti dell’ambiente in cui affonda le sue radici? Tiziano Fratus (Bergamo 1975) ha fatto della sua passione per gli alberi una missione e una professione. Scrittore, poeta, fotografo, pubblicista, ha pubblicato numerosi volumi di versi, narrativa, saggistica e viaggi, dedicandosi anche alla letteratura per l’infanzia e collaborando con vari quotidiani e programmi tele-radiofonici. Dichiaratamente buddista, infaticabile viaggiatore nel mondo, ha coniato i concetti di “uomo/donna radice”, “dendrosofia” e “alberografia”, utilizzati nelle sue opere legate al mondo vegetale, tradotte in varie lingue.

Il suo ultimo volume, Lettere a una sequoia, uscito per le edizioni pugliesi di AnimaMundi e illustrato dalle foto che ha scattato nelle sue peregrinazioni, raccoglie dodici messaggi rivolti a una sequoia, in un colloquio epistolare che si evolve via via in confessione, sostegno reciproco, senso di fratellanza, riflessione sull’esistenza.

Fratus ci parla di sé, dell’amore che lo ha portato a girare l’Italia per studiare gli alberi, catalogarli e fotografarli, spinto da un’incontenibile ansia di conoscenza e raffronto, fino a farsi lui stesso Homo Radix, confondendosi nel verde, recuperando serenità nel loro silenzio “risorgivo e madornale”, trovando nell’habitat boschivo la sua casa, la famiglia accogliente e generosa che non ha avuto: “Ho girato tutte e venti le regioni, ho attraversato tutte le province, ho raggiunto alberi nostrani e alberi esotici, ho potuto abbandonarmi in parchi nazionali, parchi regionali, parchi naturali, giardini storici di proprietà privata e giardini storici di proprietà pubblica, boschi, foreste, montagne, isole, campagne e città”. Ha viaggiato dall’Italia fino in America e in Oriente, sempre sulle tracce di continui arricchimenti culturali e di una crescita spirituale, incoraggiata dai suoi frondosi maestri elettivi. Si dichiara tuttora scandalizzato dall’avidità e dall’incuria degli uomini, che tra il 1850 e il 1900 hanno distrutto il sistema forestale del mondo, abbattendone l’80%.

In particolare, sono state le sequoie a catalizzare il suo interesse, questi “dinosauri arborei” millenari che si trovano soprattutto in Nord America, con gli esemplari più giganteschi in California.

Le sequoie sono state importate anche da noi, se ne trovano in tutte le città italiane: a Torino, a Roma, in Sardegna, per “il nostro continuo prevaricare, la nostra mania persecutoria, se vogliamo anche gentile, anche agitata da un curioso amore possessivo, di andare e pretendere, di comprare e collezionare”.  Nel Comune di Pollone, un paesino in provincia di Biella, si possono ammirare cinque sequoie gemelle, piantate nel 1848 nel parco di Burcina.

“Tra i 12 miliardi di alberi presenti in Italia, un miliardo sono faggi e un altro miliardo o poco più querce, lecce e farnie anzitutto, e quindi roveri, roverelle, cerri, cerrosughere, sughere”. Le sequoie non sono moltissime, ma attraggono la curiosità di molti visitatori, colpiti dalla loro imponenza.

La sequoia più alta del mondo si trova nella Foresta gigante nel Parco nazionale di Sequoia, a est di Visalia in California; l’hanno chiamata Generale Sherman, in onore dell’eroe della guerra civile: ha circa 2500 anni, è alta 83 metri, pesa 1910 tonnellate e ha una circonferenza del tronco alla base di 31 metri. Un colosso buono, che si lascia osservare da centinaia di turisti ogni giorno, offrendosi mansueto ai loro selfie, insegnando la pazienza di esistere senza opporsi allo scorrere del tempo. Tiziano Fratus interroga gli alberi, consapevole che noi e loro abitiamo lo stesso respiro selvatico. Li vive nella loro naturale fisicità, interrogandosi su quali siano i pensieri, le emozioni, i rapporti che instaurano con la vegetazione circostante. “Mi chiedo se voi ragionate in termini di “io” o di “noi”, o di un “essi” onnipresente e onnisenzien te, o asenziente… Abitate i secoli, siete stabili, fate soltanto quel che vi occorre: è in queste geometrie chimiche che vi giocate tutto il senso della vita, senza perder tempo in agitazioni ipotetiche, forse voi non conoscete nemmeno il senso di un verbo come ‘provare’ … Voi vivete, non “provate” a vivere… Noi sì, invece, noi siamo creature che per eccellenza ‘provano’ a vivere”. Superiori a noi, migliori di noi, nella loro tranquilla, innocua, generosa imperturbabilità, gli alberi ci propongono esempi di saggezza, di non prevaricazione, in accordo con la natura-madre.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 9 luglio 2023

 

 

RECENSIONI

MOSES

EMMANUEL MOSES, OSCURO COME IL TEMPO – MOLESINI, VENEZIA 2022

Oscuro come il tempo, di Emmanuel Moses, è un libro-scrigno, ricco di tanti materiali diversi: oggetti, paesaggi, facce, voci, colori. Gode dell’atmosfera nordafricana e mediorientale, solare e speziata, da cui l’autore proviene, e insieme della sottile ironia e feroce abilità introspettiva della cultura francese che ha nutrito i suoi anni più maturi. Nato a Casablanca nel 1959 da una famiglia di intellettuali e artisti cosmopoliti e poliglotti (il padre era il filosofo franco-israeliano Stéfane Mosès, la madre la pittrice Liliane Klapisch, nipote dello scrittore tedesco Heinrich Kurtzig), a dieci anni si trasferì a Gerusalemme, dove si laureò in storia, e dal 1986 vive e lavora a Parigi. Ha pubblicato una trentina di pluripremiati volumi di poesia e narrativa, ed è ricercato traduttore dall’ebraico moderno.

Questa vivace duttilità di esperienze personali ben si rispecchia nella forma e nei contenuti dei suoi versi, che variano dalla struttura facile del motivo musicale ai toni più meditativi della riflessione filosofica, dalla saggezza dei proverbi arabi allo scherno contro ogni conformismo.

Sembra di intuire in Emmanuel Moses una predisposizione a giostrarsi tra gli opposti, tra l’adesione e il rifiuto dei sentimenti, delle ideologie, dei panorami in cui si immerge, attratto sia dalla realtà che dall’irrealtà, come suggerisce il titolo della prima composizione antologizzata. L’amore, ad esempio, che è uno dei temi più presenti nel libro, è raccontato nell’esaltazione del suo manifestarsi, nel fiero irrobustirsi della passione, per arrivare poi al disincanto amaro e fatalistico del tradimento, della stanchezza, dell’abbandono: “In cammino con gli uccelli migratori /  In viaggio con te, amore mio / Sulla strada verso di te / Sulla strada, mia fuggiasca con le guance rosa”, “La musica accompagna l’amore / Dio ama gli uomini / Io ti amo con grazia danzante”, “Il mio amore capisce così bene il mio silenzio / Che capirà anche queste parole autunnali”, “Il desiderio, l’amore, il sospetto, l’odio / Sono il linguaggio che parleranno sempre meglio // … Prima di spingere di nuovo la porta di casa / Devastati dal silenzio”. Alla stessa maniera il rapporto con la natura e l’ambiente urbano affascina e intimorisce, seduttivo e inquietante nel suo febbrile manifestarsi.

La scrittura risulta evocativa e rigogliosa, talvolta al limite della retorica, in un lirismo che può ricordare Prévert ma subito si corregge con una sterzata canzonatoria e pudica, scegliendo una cadenza narrativa e quietamente descrittiva. L’andamento colloquiale sfora inaspettatamente nella visionarietà più immaginosa, il sarcasmo nella devozione, la prosaicità nel sublime, mantenendo però una costante uniformità e coerenza formale, ed esibendo una particolare acutezza nelle spiazzanti metafore.

Nella nota finale, Moses afferma di aver composto la raccolta (uscita in Francia nel 2014) seguendo un percorso eccentrico, “al culmine della coscienza, evitando la coscienza”, in una lotta che ambisce a sottrarre al “Tempo-Caino” ricordi ed emozioni, oscillanti tra l’eternità e “il ritmo discontinuo, caotico, delle ore grigie” quotidiane. Solo la poesia può resistere al dissolvimento, con la sua forza mite che l’autore non riesce a definire, quando gli si chiede cosa sia: “Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora // La poesia continua là il suo viaggio / Galleggia / Hai mai visto una poesia fare naufragio?” Essa si oppone allo scorrere implacabile dell’esistenza, e alla morte odiosa (“Possa la luce respirare ancora / Possa il giorno continuare a riversarsi sui campi”).

La concretezza della vita viene celebrata attraverso la concretezza degli oggetti: una finestra, un muro, la cucina, un carciofo, la sigaretta (pantheon dei poeti!), a cui viene dedicata un’ode spiritosa e riconoscente. Eppure, anche nel glorificare l’esistente, il poeta è assillato da fosche previsioni sul futuro: “Quando non ci sarà più la banchisa dove nascondere gli orsi bianchi, loro cosa faranno? / Quando la metà delle isole sarà scomparsa, con le loro vecchie città costiere coloniali / Cosa faranno?”, “Cosa succede alle cassette postali delle case demolite?”

Se il tempo si fa oscuro, Moses si aggrappa all’illusione di un dio vicino e benevolo, a cui rivolge una laicissima e panica Preghiera: “Dio della pioggerella e della terra sonora / Dacci la forza di attraversare i giorni infausti / Dio degli uccelli esotici e dei fiori stupefacenti / Dacci la gioia del sole che cola nel groviglio dei rami / Dio della linfa e della nebbia / Dacci la dolcezza sensuale e la malinconica dolcezza / Delle stagioni che passano”.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei Libri del Mese» n. VII, luglio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CERESA

ALICE CERESA, LA FIGLIA PRODIGA – LA TARTARUGA, MILANO 2023

Esploratrice dei disvalori trasmessi dalla famiglia di stampo patriarcale, Alice Ceresa (Basilea 1923 – Roma 2001) nei suoi libri, in tutta l’intensa attività culturale svolta, e soprattutto nella radicalità delle scelte esistenziali, ha offerto una preziosa testimonianza letteraria e civile, sia dal punto di vista dell’originalità innovatrice della scrittura (aderì allo sperimentalismo del Gruppo ’63), sia nella coraggiosa denuncia delle discriminazioni patite dalle donne nell’ambiente domestico e nella società. Giustamente quindi la rediviva e storica collana La Tartaruga, diretta oggi da Claudia Durastanti, ha deciso di riproporne l’opera.

Alice Ceresa nacque, crebbe e lavorò in Svizzera come giornalista e traduttrice, per trasferirsi nel 1950 a Roma, dove assunse ruoli di primo piano nel mondo dell’editoria e della pubblicistica. Dopo La figlia prodiga (Einaudi 1967, Premio Viareggio Opera Prima), pubblicò solamente un altro romanzo, Bambine (Einaudi 1990). Sono usciti postumi il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo 2007) e La morte del padre (Baldini&Castoldi 1922). Pur aderendo ideologicamente alle tematiche femministe, ne rifiutò gli stereotipi più banali, approfondendo invece l’analisi introspettiva dei caratteri e le motivazioni delle scelte individuali delle donne: temi trattati con ruvida ironia, lontani da sentimentalismi retorici, da rancorose rivendicazioni o inutili vittimismi. La sua narrativa ha stigmatizzato le contraddizioni e le rimozioni che la società contemporanea manifesta nei riguardi dell’altra metà del cielo, e lo ha fatto attraverso moduli stilistici già di per sé perturbanti nella loro originalità. Lo testimoniano i giudizi con cui importanti critici (Vittorini, Calvino, Fortini…) lodarono il suo primo romanzo, proponendolo e votandolo al Premio Viareggio. Maria Corti scrisse: “In un impianto trattatistico atemporale i personaggi, depurati di ogni concretezza e modellati in un vuoto ambientale e storico, si muovono al tocco di una logica formale che li rende esemplari”. E Giorgio Manganelli fu ancora più entusiasticamente munifico: “Scritto in una prosa scandita, quasi versetti, La figlia prodiga si distingueva per la sua perfetta mancanza di riferimenti ad alcunché di concreto. Non era il racconto di una figlia prodiga, né l’analisi psicologica, né la descrizione, ma piuttosto una chiosa elaborata e capziosa su un concetto mantenuto del tutto intangibile. Alcuni, e io tra questi, lo trovarono un libro affascinante, per certo versi unico; pertanto, sicuri di non sbagliare, ci mettemmo in attesa del secondo libro. Eravamo impazienti; eravamo curiosi. Mai scrittore al mondo riuscì a frustrare una impaziente attesa in modo più meticoloso. Passarono gli anni, e ogni tanto giungeva una voce: la Ceresa lavora al secondo libro. Gli anni divennero decenni”.

La figlia prodiga è più di un romanzo, e ben si merita l’attenzione che le è stata attribuita alla fine degli anni ’60. È infatti anche saggio, pamphlet polemico, parabola allegorica, racconto formativo, che segue, più che una trama concreta di fatti e azioni, i meandri della riflessione irrequieta e ombrosa dell’autrice. Del suo libro, l’autrice ebbe a dire: “Il personaggio di cui si parla è un personaggio incredibile e improbabile… Ho tentato di narrare un’avventura individuale nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e ‘probabile’ un tessuto astrattoPrima e oltre che essere un prodotto sociale, è un fenomeno semantico”.

Oggetto della narrazione è la ribellione di una ragazza all’interno della propria famiglia, ribellione che si protrae nel tempo contro ogni tipo di istituzione feroce nel sottoporre le donne a regole indiscusse e indiscutibili, persino nella loro plateale ingiustizia. La protagonista si oppone, con protervia e orgogliosa autonomia, al ruolo cui la si vuole obbligare, e a differenza del figliol prodigo evangelico, che dilapida i beni materiali del padre, il suo sperperare si manifesta attraverso una libertà di pensiero e di scelte di vita del tutto anticonvenzionali, che la rendono invisa ai parenti, ripudiata perché ripudiante l’ordine imposto. La radicalità sovversiva di questa posizione (che ricalca la biografia dell’autrice, allontanatasi dalla casa paterna ticinese a sedici anni per inserirsi nell’ambiente intellettuale germanofono) viene ribadita dall’impianto formale del romanzo, di cui Laura Fortini afferma, nella penetrante e intensa prefazione al libro: “Scritta con un linguaggio preciso e quasi micidiale nella sua tagliente microchirurgia del dettaglio”, propone una “prosa scandita da pause impervie e al tempo stesso furiosamente fluente nel distillare i termini del problema, lo scandirsi dell’infanzia, la presa di coscienza, l’età adulta della figlia prodiga, ovvero il divenire una soggettività femminile imprevista”. Non solo imprevista, ma addirittura sconcertante nella sua indomita disobbedienza. “Una figlia prodiga è senza dubbio una persona da una parte unica e dall’altra esemplare”, perché scardina e corrode i rapporti familiari già da bambina, estranea all’istinto filiale, lontana dalle “sante, sacre e buone cose della famiglia”, eccentrica nella sua provocatoria innocenza, capace di usare la dissimulazione “contro il mondo e per difendere non difendibili e dal mondo messe al bando cose”. “L’ordine delle famiglie, è risaputo, non prevede le figlie prodighe… perché

non appena sono prodighe

le considera figlie degeneri o figlie sbagliate e dunque figlie

solo fino ad un certo punto”.

 

Di questa bambina “infingarda” non veniamo a sapere nemmeno il nome, quasi ci bastasse a definirla il suo atteggiamento ostinato e arrogante, indifferente al turbamento dei genitori, fomentatore di reciproco malessere e fastidio. Il corso della sua esistenza verrà scandita a tappe: infanzia, adolescenza, maturità, con un’attenzione meticolosa al suo indecifrabile mondo interiore, all’unicità e al differenziarsi del proprio esserci rispetto a ciò che è altro da sé, tra adeguamento alla norma ed eccezione alla norma.

Non è solo la famiglia patriarcale a venire presa di mira da Ceresa, né la società maschilista o l’eterosessualità imposta come regola, bensì la letteratura stessa, ossidata e immobile, incapace di reinventarsi, di giocare e di mettersi in gioco.

la letteratura non esiste. Solo esistono le storie. Le

quali, prima di venire raccontate

accadono

e storie sono quando accadono

e non quando più o meno casualmente vengono raccontate.

Ceresa usa infatti abilmente vari codici formali (dalla parodia alla satira, dall’esposizione sistematica all’allegoria e alla provocazione polemica) e figure retoriche poco utilizzate in narrativa (anacoluti, anastrofi, iperboli, pause, circonlocuzioni, ripetizioni ossessive, spaziature, continui e imprevedibili a capo, arcaismi e neologismi), con l’evidente intenzione di provocare in chi legge un continuo stimolo all’analisi, alla riflessione, forse anche un’inasprita concentrazione sulle soluzioni lessicali e semantiche proposte.

Già dalle pagine iniziali troviamo una sorta di dichiarazione d’intenti, una disquisizione sia letteraria sia filosofica su cosa significhi appartenere ai due differenti sessi, bloccati in sedimentazioni culturali, e in che modo si possa/debba decifrare tale opposta diversità. La frase d’apertura del romanzo appare subito spiazzante, non solo per la disposizione grafica:

Sarebbe giocare di malriposta astuzia

raccontare una storia di questo genere come si potrebbe

raccontare una storia qualunque.

 

Non si tratta, infatti, di una storia qualunque, ma di una storia paradigmatica mai circostanziata nei particolari, che nel finale dichiara beffardamente, scandalosamente, la propria simulazione programmata:

 

l’unica verità possibile di una storia, che sarà sempre sia poi

nell’un modo, sia poi nell’altro,

solamente ed eternamente

un inganno.

 

Nei due romanzi successivi (La morte del padre e Bambine) è ancora il modello tradizionale e patriarcale di famiglia ad essere preso di mira, con durezza e caustico sarcasmo, e senz’altro ciò ha fatto di Alice Ceresa un faro della letteratura di genere, anticipatrice delle tematiche femministe e omosessuali del terzo millennio. Ma è soprattutto l’originalità e l’estrema maestria stilistica di questa appartata, scontrosa, destabilizzante scrittrice a meritarle, nel centesimo anniversario della nascita, un posto di eccellenza tra i narratori italiani del secondo Novecento.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 4 luglio 2023

 

RECENSIONI

BENNETT

ALAN BENNETT, ARRESTI DOMICILIARI, ADELPHI MILANO 2023

Nato a Leeds nel 1934, il drammaturgo e sceneggiatore Alan Bennett è noto per lo humor tagliente
che caratterizza le sue pièce teatrali (le più famose rimangono La pazzia di Re Giorgio del 1991 e Gli
studenti di storia del 2004) e i suoi pamphlet, in cui vengono stigmatizzati ipocrisie e compromessi
della società occidentale contemporanea. L’ultimo lavoro di Bennett pubblicato nella collana
Microgrammi del suo unico editore italiano, Adelphi, consiste in un diario scritto durante la pandemia
del Covid 19. Diario polemico già dal titolo: Arresti domiciliari. All’effettiva tragedia che per quasi
tre anni ha tenuto il mondo sull’orlo della catastrofe sanitaria, minacciandone oltre che la salute fisica
quella mentale, si è infatti aggiunto il flagello di una comunicazione mediatica ossessiva, morbosa,
ansiogena, dai risvolti spesso ridicoli, che il sarcasmo dell’autore, acuito dall’acredine dei suoi quasi
novant’anni, non manca di sottolineare.
La proverbiale unghiata del vecchio leone in questo libretto si limita ad alcune riuscite battute: “14
marzo, Da buon over 70 sono ufficialmente esortato a starmene isolato e in casa. Il mio normale
trantran adesso ha l’endorsement del governo”, “10 aprile, Venerdì Santo, quest’anno Pilato non è il
solo a lavarsi le mani”, “15 maggio, Le mie mani non mi sono mai piaciute molto. Ora, ultralavate
come prescritto, sono quasi inguardabili: lucide, venose, trasparenti come un’illustrazione
anatomica”, “31 dicembre, Purtroppo la malattia e il rimedio iniziano ambedue con la «v» e, visto
che a ottantasei anni (chiedo scusa) li confondo, in testa alla coda per il vaccino dico che devo fare il
virus – comincia anch’esso con la «v».
È invece una malinconica tenerezza il sentimento che prevale nella narrazione: compassione verso di
sé e verso gli altri, indulgenza per i piccoli sotterfugi cui la comunità di amici e vicini di casa è
costretta per non sottostare ai diktat governativi, benevolenza nei riguardi di luoghi abbandonati nella
solitudine, rimpianto per il passato.
I ricordi si fanno pressanti, quando si è impediti ad affrontare le giornate con i ritmi e gli impegni di
prima della malattia. Memorie infantili improvvisamente tornate incalzanti: il timore materno per
l’unico contagio ritenuto pericoloso in passato, quello della tubercolosi; le insopportabili sedute dal
barbiere; il rito della pesca domenicale cui il padre obbligava tutta la famiglia. Un padre macellaio
amato e temuto dai figli, e ricordato con stima dai vicini, secondo l’impertinente affermazione che
uno di loro aveva rivolto al famoso scrittore: “Pazienza se è famoso, lei. Non varrà mai come suo
papà”.
Ma anche ricordi più recenti, come le prove teatrali, i bisticci con gli editori, le morti degli amici, un
deludente incontro con Graham Greene (“la sua mano fu la più molle che avessi mai stretto”), e le
caustiche considerazioni politiche sulla monarchia inglese e la Brexit, su Trump e Biden, sull’insulso
Boris Johnson: “È un pessimo oratore e parlatore in generale, fa quasi pena”.
E poi il deprimente momento attuale, con i problemi fisici che impongono “una vita sempre più
medicalizzata”: l’artrite, il bastone cui appoggiarsi, l’apparecchio acustico, la rinuncia alla bicicletta.

Il Covid permette solo qualche incontro sporadico nel parco vicino a casa, brevi colloqui da un marciapiedi all’altro, nessun girovagare tra i negozi dei rigattieri: Rupert, il compagno di Alan Bennett, non deve più uscire per recarsi all’ufficio, fa pilates collegandosi a Zoom, e quindi può dedicarsi a lui con tutta la dedizione possibile. Gli taglia i capelli, gli prepara il tè, lo accompagna nelle passeggiate, lo distrae con conversazioni spiritose. Leggono libri, commentano i programmi televisivi, sono rassegnatamente “agli arresti domiciliari”, reclusi insieme.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 giugno 2023

RECENSIONI

SERGE

VICTOR SERGE, ANNI SENZA PERDONO – PAGINAUNO, MILANO 2022

Proveniente da una famiglia di rivoluzionari russi, Victor Serge (Bruxelles 1890 – Città del Messico 1947), anarchico dall’adolescenza, dal 1912 al 1917 fu imprigionato in Francia. In Russia aderì al bolscevismo e a partire dal 1926 partecipò all’opposizione di sinistra ispirata da Trockij. Arrestato nel 1928, venne confinato fra il 1933 e il 1936; espulso dall’URSS, visse in Belgio, in Francia e dal 1940 in Messico. Nella sua intensa attività pubblicistica sviluppò un’acuta critica di ispirazione socialista allo stalinismo. Sua opera principale è l’autobiografia Memorie di un rivoluzionario; l’ultimo fra i suoi romanzi fu Gli anni senza perdono, pubblicato postumo nel 1971 e ora riproposto dalle edizioni Paginauno.
I due racconti di cui si compone il volume (Il vicolo di San Barnaba e L’ospedale di Leningrado) sono ambientati nella Russia degli anni Trenta, in pieno stalinismo, e risentono entrambi dell’atmosfera cupa determinata non solo da una povertà diffusa e dalle prevaricazioni esistenti tra la popolazione civile, ma soprattutto dalla coercizione politica messa in atto dal regime sovietico nei confronti di qualsiasi dissidenza.
Ne Il vicolo di San Barnaba, uscito per la prima volta nel 1931, è l’aspetto umano della vicenda che attira l’attenzione dei lettori, perché in uno scenario di miseria, fame, solitudine e abbrutimento fisico si innestano processi di malvagità e sopraffazione reciproca tra esseri umani che condividono la stessa sofferenza.
In una Mosca in cui i cittadini sono costretti a fare lunghe file davanti alle panetterie e ai pochi negozi alimentari rimasti aperti, in cui si consumano quotidianamente centinaia di furti e violenze fisiche, e le forze dell’ordine si lasciano facilmente corrompere, non viene garantito né il diritto alla salute, né quello all’abitazione: a ciascun paziente i rari dottori a disposizione possono dedicare solo otto minuti di consultazione, e nessun abitante o nucleo familiare può avere in locazione più di nove metri quadri di spazio domestico. Sporcizia, epidemie di tifo e scorbuto, rachitismo, mancanza di medicinali, baratto di cibo e mercato nero si diffondono tra la popolazione sconfortata e litigiosa.
Il disfacimento del corpo di Lenin nel Mausoleo dedicatogli nella Piazza Rossa, diventa metafora del fallimento degli ideali rivoluzionari, mentre il finto attivismo di una mancata ricostruzione della capitale viene celebrato da una propaganda martellante e ipocrita: “esortatevi l’un l’altro al successo, alla vittoria, al socialismo, questa città è un’immensa trireme e noi ne siamo i vogatori – cantate e remate, ancora uno sforzo, il porto è vicino… Le rotative moltiplicano il ritmo, le canzoni del lavoro vengono diffuse dalle onde aeree, lo schermo le imprime nei cervelli, i manifesti urlano, forza, compagni, in coro!”
Se le ruspe abbattono vecchie chiese e tuguri mentre l’attività edilizia tenta convulsamente una ripresa anche impiegando manodopera straniera, la guerra tra poveri non ha tregua, e nel Vicolo Sa Barnaba si vedono “persone muoversi simili agli insetti, uscire per un istante dalle tane, in abiti di grisaglia… letame della storia”.
La vecchia Anissia vive da sola in una camera umida e buia, le cui pareti sono tappezzate da decine di icone sacre cui l’anziana dedica continue preghiere e domande di intercessione per i peccati del mondo. Rinsecchita, maleodorante e malata, è circondata dall’ostilità e dal sospetto dei vicini (“quell’odio infinito per il prossimo che la miseria fa nascere nell’uomo”). La convivenza forzata rende le persone crudeli e fameliche, invidiose anche del poco posseduto dagli altri: “Come le disgrazie, un tetto avvicina gli uomini senza unirli”. La stanzetta di Anissia fa gola a tutti, poveracci e professionisti, soldati e madri di famiglia: l’assedio intorno all’anziana, in attesa che la sua agonia si concluda, innesca una disumana competizione tra i vicini, in un susseguirsi di omertosi silenzi e dispetti vicendevoli, finché la vecchietta inaspettatamente riprende vigore, si alza dal suo giaciglio ed esce dal condominio brulicante per andare a comperare il pane, in fila tra tanti disperati come lei.
Il secondo racconto, L’ospedale di Leningrado, è più caratterizzato politicamente, e la sua denuncia contro il potere coercitivo che annulla le libertà individuali e mette a tacere il dissenso assume toni sarcastici e indignati. Emblematiche sono le righe di apertura del testo: “Nel 1923, mentre abitavo a Leningrado, conobbi direttamente la psichiatria e le sue istituzioni poiché una persona a me carissima era stata colpita dai sintomi della malattia mentale. In quegli anni già correvano avvenimenti inquietanti: alla carestia nelle città e alla miseria nelle campagne si accompagnavano le prime avvisaglie del terrore; oscuri omicidi e implacabili persecuzioni colpivano i tecnici, gli oppositori del Regime, i contadini e persino le idee. Io ap partenevo alla categoria dei dissidenti; il che si gnificava che ogni notte, nel cuore del sonno, mi destavo al primo rumore, immaginando i passi di quelli che salivano lentamente le scale per venire ad arrestarmi…”.
Invitato da un amico medico a visitare l’ospedale psichiatrico di San Giovanni Dispensatore di Miracoli a Leningrado, Victor Serge rimane da subito impressionato dall’aspetto fatiscente e sinistro dell’edificio, “un piccolo inferno ignorato dal mondo”. Assiste all’arrivo di detenuti scaricati dalle camionette della polizia politica, la Ghepeu: gente comune, spaventata e dimessa, “grumi di uomini taciturni, di donne sospette, avvolti da tutti i colori della miseria”. Condannati a lavori forzati in Siberia per piccoli reati (contrabbando, spaccio di alcol, furto), e poi di nuovo internati in clinica, brutalizzati, sedati con psicofarmaci. L’incontro con uno dei degenti, Nestor Petrovi ch Iouriev, si rivela illuminante. Uomo colto, amico personale di molti letterati, collezionista di testi rari, fornito di una sottile capacità di analisi, segregato in quanto controrivoluzionario, Iouriev aveva scritto, stampato e diffuso un Appello al popolo in cui invitava i cittadini e gli intellettuali russi a liberarsi dalla paura che controlla gli animi, avvilisce il pensiero, oscura l’intelligenza.
“I lavoratori hanno paura di morire di fame se non rubano, paura di rubare, paura del Partito, paura del piano, paura di sé medesimi. I colpevoli hanno paura di confessa re il loro misfatto, gli innocenti hanno paura di non aver niente da confessare e di essere inno centi. Gli intellettuali hanno paura di capire e di non capire, di poter comprendere o di non po ter comprendere. Gli ideologi hanno paura delle idee, i credenti hanno paura di essere scoper ti e hanno paura di tradire la loro fede. Il popo lo ha paura del potere e il potere ha paura del popolo… Al vertice dello Stato, gli uomini che occupano le più alte cariche politiche, hanno paura gli uni degli altri; hanno paura di agire e hanno paura di non agire, hanno paura della crisi economica, paura delle conseguenze dei loro stessi gesti, paura delle masse, paura della guerra. Il capo ha paura del proprio seguito, al punto da temere il veleno in un semplice bicchiere d’acqua e da diffidare delle sue più fedeli guardie del corpo. Ma a sua volta il seguito ha paura ed è terrorizzato dal capo…”.
Parole scritte un secolo fa, che sebbene rivolte al sistema liberticida staliniano, stigmatizzano qualsiasi tipo di potere antidemocratico, anche attuale e di diversa colorazione politica, là dove l’anticonformismo ideologico, la protesta sociale, la refrattarietà all’omogeneità dei costumi e delle mode imperanti produce isolamento, discriminazione, persecuzione; da sorvegliare e punire, come ci ha insegnato Foucault, e come ben ha sperimentato sulla sua pelle Victor Serge.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 giugno 2023