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RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, VI AVVERTO CHE VIVO PER L’ULTIMA VOLTA – MONDADORI, MILANO 2023

 Paolo Nori (Parma 1963), romanziere, traduttore, saggista, docente universitario, si occupa soprattutto di letteratura russa, e il suo ultimo lavoro è dedicato alla poetessa (anzi, poeta, come giustamente pretendeva di essere definita) Anna Achmatova. Il libro, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ha come sottotitolo Noi e Anna Achmatova, esplicita indicazione di come vada letto, sottintendendo un’ammirata complicità con la vita e l’arte della protagonista. Ma non solo. Perché la tragica vicenda esistenziale di lei, perseguitata insieme alla famiglia dal potere bolscevico e impedita nella libera manifestazione del pensiero e degli scritti, riverbera riflessi anche sui tragici avvenimenti contemporanei di oppressione antidemocratica, intolleranza, aggressività ed egoismo.

Chi era, dunque, Anna Achmatova? Nata nei pressi di Odessa nel 1889 (quindi ucraina?), morì a Mosca nel 1966, essendo vissuta perlopiù a Leningrado, oggi Pietroburgo, o nel vicino centro di Carskoe Selo (perciò russa?), tornata a Kiev dopo il divorzio dei genitori (di nuovo ucraina, come Gogol’, Bulgakov e Isaak Babel’?), si sposò una prima volta con il poeta russo Nikola Gumilëv, passando però lunghe vacanze in Crimea. Paolo Nori sottolinea questa sua duplice ma univoca nazionalità, oggi messa dolorosamente in discussione: Anna Achmatova era poeta di lingua russa, e la sua scrittura ha superato confini, burocrazie, eserciti, alzandosi a livelli di tale eccezionale sensibilità e maestria formale da non poter venire ingabbiata in nessuna coercitiva definizione di genere o provenienza.

Il suo vero cognome era Gorenko, ma il padre – ingegnere navale ucraino e funzionario pubblico di origine nobile –, l’aveva diffidata dall’usarlo per le sue poesie, attività secondo lui decisamente “discutibile”. Scelse pertanto di firmarsi con il cognome della nonna materna, discendente da una principessa tartara erede di Čingis kan. Selvaggia da bambina, “strega” da sposa secondo la definizione del marito, Anna Achmatova era una donna bellissima, intensa, severa. Sembrava imperiosamente alta pur essendo di statura media, elegante anche se vestita in modo dimesso, aveva una voce roca eppure quando parlava calava intorno a lei un intimorito silenzio. In alcune situazioni si dimostrava arrogante, in altre addirittura spietata. Di sé sembra ripetesse: “da sempre vivo così, sconsolata”.

Del suo fascino catalizzante furono testimoni amici, intellettuali, poeti come Osip Mandel’štam e il premio Nobel Iosif Brodskij. Tre volte condannata dal Comitato centrale del Partito comunista sovietico, le uccisero due mariti e le arrestarono il figlio: veniva spiata, pedinata, censurata; per diffondere i suoi versi li recitava o dettava alle amiche, che li imparavano a memoria e li divulgavano clandestinamente. Il funzionario di partito Ždanov la fece escludere nel 1946 dall’Unione degli scrittori con l’accusa di falsità, decadenza, elitarismo, disimpegno politico: “Mezza suora, mezza prostituta, o meglio, sia suora che prostituta, mischia il sesso alle preghiere; questa è l’Achmatova, con la sua piccola, misera vita privata, le sue emozioni insignificanti e il suo erotismo mistico-religioso. La poesia dell’Achmatova è lontanissima dal popolo”.

Paolo Nori ripercorre gli snodi fondamentali dell’esistenza di lei inframezzandoli non solo con commenti e riflessioni personali, ma soprattutto con estese digressioni autobiografiche e memorie private: ci racconta della nonna Carmela (“a casa sua c’era una miseria che quando son diventati poveri hanno fatto una festa”), delle lezioni universitarie e dei frequenti viaggi in Russia sulle tracce di scrittori amati, di una lunga degenza ospedaliera nel reparto Grandi ustionati, di altre totalizzanti passioni (il tifo per la squadra del Parma, l’adorazione per il poeta futurista Chlebnikov, l’aria respirata nelle biblioteche, moglie e figlia soprannominate spiritosamente Togliatti e Battaglia, i mistici sufi, la carta oro di Trenitalia…). Si sofferma in particolare sulla propria angosciata reazione allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, con gli incredibili e farseschi episodi di censura verso la cultura e l’arte russa che ne sono seguiti: l’espulsione di sportivi e artisti da manifestazioni come la Champions League e la finale dell’Eurovision, il divieto di eseguire sinfonie e balletti di Čajkovskij, la rottura di contratti con musicisti di fama internazionale. In quel periodo uno stupido affronto diretto alla sua attività di docente lo aveva ferito e indignato, quando l’Università Bicocca di Milano arrivò ad annullargli seminario su Dostoevskij   programmato da tempo, tra le proteste di molti intellettuali italiani ed europei.

Con lo stile che gli è proprio, colloquiale e travolgente, scandito da frasi brevi, semplicissime, spesso ripetitive, intessuto di intercalari domestici in cui pare addirittura di ascoltare la cadenza dialettale emiliana, Paolo Nori ci coinvolge in un susseguirsi incalzante di episodi della propria vita, ironici e autoironici, per condurci empaticamente a riflettere su questioni di rilievo etico e politico, o ad approfondire alcuni tra i tanti temi e personaggi citati. Quando leggo i suoi libri, mi capita di scoppiare a ridere improvvisamente, poi di commuovermi, poi ancora di irritarmi: credo di dovergliene essere grata, perché mi evita la noia e il disappunto procuratomi da tanta narrativa italiana contemporanea.

Di Anna Achmatova qui scrive di sguincio, in rapporto a tutto ciò che le girava intorno, accennando a riunioni di scrittori, cabaret, riviste letterarie, poetesse rivali, Blok, Mandel’štam, Majakovskij, Cvetaeva, Bulgakov, Modigliani, mariti e amanti. Gli splendidi versi della poeta, pubblicati a partire dal 1912 con la prima raccolta, Sera, vengono citati con parsimonia, e soprattutto non commentati criticamente. Lontano da qualsiasi pretesa di interpretazione accademica, l’autore ne trascrive alcuni giusto per chiosare diverse sensazioni o circostanze biografiche della donna: il rapporto difficile con il figlio, le separazioni sentimentali, la nostalgia per l’illustre passato della Russia, la coraggiosa resistenza all’ottusità del potere. “Io sono un appassionato, non un esperto”, scrive per giustificare il proprio scarso interesse letterario verso ogni valutazione formale.

C’è una poesia dell’Achmatova che mi sembra bellissima, e purtroppo non è compresa in questo volume, Il canto dell’ultimo incontro, in cui lei per indicare il suo turbamento mentre si reca nella casa dell’amato prima di lasciarlo, non accenna a tristezza o paura, ma usa pochi indicatori, a metà tra metafore e correlativi oggettivi: il guanto destro infilato per sbaglio sulla mano sinistra, i gradini che sembrano tanti ma sono solo tre, la luce della candele nella casa buia che ardono di un lume “indifferente e giallo”. Non amava indulgere a introspezioni retoriche, ma era straordinaria nel rendere le emozioni attraverso l’uso di immagini puntuali e insolite.

Troppo poche le poesie presenti in un volume che voleva essere un omaggio alla più grande poeta russa del ’900. Ma almeno di un altro addio in versi Paolo Nori offre opportuna testimonianza, ed è raccontato in Ultimo brindisi. Mi sembra giusto riportarlo, come un regalo fatto a noi lettori, che “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati”:

“Bevo a una casa distrutta, / alla mia vita sciagurata, / a solitudini vissute in due / e bevo anche a te: / all’inganno di labbra che tradirono, / al morto gelo dei tuoi occhi, / a un mondo crudele e rozzo, / a un Dio che non ci ha salvato”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 3 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, L’ALBERO DI LUTERO – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1999

I cugini letterati Giorgio e Giovanni Orelli hanno animato la vita culturale ticinese per più di cinquant’anni. Entrambi coltissimi, erano tuttavia profondamente diversi sia caratterialmente sia nella produzione letteraria. Giorgio (1921-2013), docente di italiano, critico e traduttore, fu uno dei più raffinati rappresentanti della poesia post-ermetica del ‘900. Giovanni (1928-2016), anch’egli insegnante al Liceo di Lugano, fu romanziere di successo – insignito del prestigioso Premio Schiller –, poeta in lingua italiana e in dialetto, esponente del Partito Socialista e  deputato al Gran Consiglio del Canton Ticino. Il primo composto e garbato, il secondo irruente, provocatorio, generoso.

Giovanni Orelli ebbe il merito di reinventarsi il più tradizionale e collaudato genere poetico, il sonetto, pubblicando alla fine del secolo scorso due volumi editi da Marcos y Marcos: Né timo né maggiorana (1996) e L’albero di Lutero (1999), entrambi di sessanta composizioni. Il sonetto veniva da lui utilizzato e giustificato “come un giuoco per far rigare dritto il tessuto narrativo, il discorso della logica e quello della morale”. Una gabbia formale, insomma, in cui costringere temi e toni esuberanti, vivacissimi, scoppiettanti di ironia, di verve polemica, di gioia di vivere. Ottimismo, entusiasmo e speranza sono già evincibili dal titolo del volume di cui ci occupiamo, L’albero di Lutero: “Se sapessi che il mondo è domani che finisce / pianterei lo stesso un albero di melo: / così Lutero”. Una gaia filosofia del carpe diem tinge di ritrovata giovinezza la raccolta, nei motivi tipici rincorsi in ogni opera orelliana: la donna, l’amore, il sesso, la natura, la storia, la vita ticinese, e l’idiosincrasia per il sacro, il canonizzato, il codificato.

Un accento originale assume quindi in questi sonetti l’esacerbato anticlericalismo, che riecheggia gli sberleffi della nostra tradizione dialettale, da Carlo Porta al Belli, in omaggio a un paganeggiante inno all’eros: “Amore cosa sei? Vetriolo su carne non mai spenta, / mosca pantera nuda caduta nella rete, / occhi di ragno alla sua preda intenti? / amore cosa sei? / acqua salata alla mia sete? // Amori fuori del sacramento, dicono i preti, è guerra / sozza, ossessione, libido d’unghie, manicomio, / è il maligno, una Furia che gira per la Terra”; “O sacra unione coniugale, dove tua quiddità? / Se atto naturale è, e così è, viva natura. / Natura, nel parlar materno, è vulva, è duro / parto cui femmina in dolore sottostà. //… Voi preti lo chiamate sacro? A tanta enormità // non tremano i pilastri del mondo? E sacra unione / allora non vi attira? Perché non vi sposate? // … Vostre benedizioni / et laus et jubilatio sacri fanno così e pene e pube”.

È proprio la donna (anzi, il corpo, il sesso di lei) che merita i più alti peana della poesia di Orelli, e un ironico self-portrait dell’artista maturo ma non domo, come nel divertente sonetto d’apertura, dedicato alla provocante vicina di casa che si sporge in mutandine sul balcone, in un assolato mattino d’agosto: “O pompieri, gendarmi, / arrestatela: saracinesche giù, idranti, tra me e la vampissima”. O ancora, in versi che si esaltano della loro stessa sensualità, rasentando un linguaggio volgarmente plebeo: “Sentirai il solletico sulla guancia, sul molle / del volto, un bacio come un ragnetto in festa / ti correrà sul collo… // Dirai ‘cerca!’ piegando un poco la testa, / Avremo tutto il tempo per trovare la bestiolina / che cammina cammina…”; “ho macinato l’acqua nel tuo bel mulino, / ho sbattuto, come sull’alpe fa il mungitore, / col suo bastone su e giù nel foro, / dentro il tuo corpo-burro sulla terra supino”; “E sono al ventre, al varco, al tuo cancello / del paradiso, e un lieve epitaffio / scrivo, il pennino trema, sulla pelle; // sono alla coscia, ai piedi, e torno al graffio, / a diteggiare tra i versi capelli / serpenti già indomabili per Saffo”.

L’animalità del corpo scopre un suo contraltare nell’animalità tout-court, nella descrizione partecipe del brulicante regno zoologico: a farla da padrone sono gatti, uccelli, cervi, lucciole e serpi, presi sempre a esempio di libertà, di fame di vita, di felicità e innocenza brutale nell’accoppiamento: “La biscia intanto / presso il muro la vecchia pelle ha abbandonato, / una cravatta di lusso. Potessi fare io lo stesso / con pelo e pene, riavere un selvatico sesso”.

Un Orelli carnale, quindi, quello di queste poesie, ma che in alcuni sonetti sembra dibattersi ancora nel dubbio se concedersi o meno alla spiritualità, al volo alto, alla sublimazione del desiderio: ma sempre con un eccesso di vitalità, lontanissimo dall’esangue misticismo di chi sacrifica se stesso all’ Altro da sé: “Alla fine chi voglio? Venere con voluptas o la pace / domestica di Psiche?”; “voraginosa Notte del Giudizio: / un attimo anzi che sia cenere tra cenere / chi invocherà quel Giovanni, chi? Vergine o Venere?”

Lo scarso interesse metafisico di Orelli è comunque tutto cerebrale e intriso di scetticismo, se l’unico sonetto dedicato a un tema religioso si interroga causticamente sul tempo libero di Gesù, e se la dichiarazione programmatica del suo credo suona cinicamente così: “Noi uomini siam l’animale supremo e l’infimo. In letargo / ci lascia un dio che bisogno non ha di noi, che timidi o tumidi / di vanità per un poco di soldi o letame in lungo e in largo, // non abbiamo riguardo per lui. L’uomo fatto di humus / va sicuro come se sulla morte ci fosse lunghissimo embargo / poi nel volgere di un quarto d’ora è tutto cenere e fumo”.

Anche l’adesione, senz’altro progressista e democratica, ai temi sociali ha una sua valenza terragna, fisica, di solidarietà ai poveri, ai loro odori e sudori, ai loro riti collettivi, in una sorta di affresco da Pellizza da Volpedo. Mentre alla cultura da rotocalco patinato, ai cellulari e alla moda della medio-alta borghesia, al suo linguaggio servile e asservito, ai miti finanziari e pubblicitari è riservata l’ironia più feroce, il sarcasmo più impietoso.

D’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da chi ha bistrattato il sonetto, esempio fulgido della storia letteraria italiana? L’albero di Lutero non mostra alcun rispetto per la metrica, e l’uso di rime e assonanze è assolutamente dissacratorio (ad esempio, nel primo testo: mattino-mutandine; Dio-follia-Caino; stoccafisso-Calipso-vampissima). L’omaggio che Giovanni Orelli ha reso nel volume alla nostra letteratura rimane in realtà un ironico e coraggioso omaggio a se stesso, intellettuale non organico, non intruppato, capace di burleschi e ammiccanti (ma quanto eruditi!) brindisi alla vita.

 

© Riproduzione riservata              Gli Stati Generali, 31 marzo 2023

 

RECENSIONI

TERRANOVA

NADIA TERRANOVA, IL CORTILE DELLE SETTE FATE – GUANDA, MILANO 2022

Nel quartiere Ballarò di Palermo si trova Piazzetta Sette Fate, luogo in cui credenze popolari hanno ambientato oscure leggende. “Racconta Giuseppe Pitrè, collezionista e narratore di storie siciliane, che a Palermo, nonostante i controlli della feroce Inquisizione, c’era un cortile dove di notte si davano appuntamento sette donne misteriose, una più bella dell’altra. Quando decidevano di portarsi dietro qualcuno gli facevano fare cose mai viste: danze mistiche, canti paradisiaci, voli eterei, camminare sull’acqua e altri prodigi. All’alba i fortunati si risvegliavano come se nulla fosse successo, però di quell’avventura ricordavano ogni dettaglio”.

Con queste parole si apre la fiaba che Nadia Terranova ha pubblicato per le edizioni Guanda, Il cortile delle sette fate, immaginosamente illustrato – come si conviene per l’argomento – da Simona Maluzzani. Nadia Terranova (Messina 1978) nella sua produzione letteraria ha alternato romanzi classici a libri per ragazzi. Tradotta in diverse lingue e pluripremiata, lo scorso anno ha vinto il Premio Andersen con Il segreto.

Questo suo nuovo testo è ambientato nel 1586, in un’epoca in cui essere donne (e soprattutto donne non conformi al sentire ufficiale di Chiesa e autorità, e a quello popolare imbastito di superstizione e ignoranza) non doveva essere facile, sia in Sicilia che altrove.  Anche essere gatte nere poteva essere molto pericoloso, a quanto afferma la co-protagonista del racconto: “Provateci voi a essere una gatta nera al tempo dell’Inquisizione. Voglio dire, non `e facile. Innanzitutto non `e detto che possiate tenere il vostro nome, anzi conviene che ve ne troviate uno buono per salvarvi la pelle. Io, per esempio, mi presento come Arte ma in realtà mi chiamo Artemide, come la dea della caccia: pensate a cosa succederebbe se qualcuno sapesse che porto il nome di una divinità pagana, no, non voglio neanche immaginarlo, già la mia vita è difficile così”.

Perseguitata perché ritenuta creatura diabolica, la gatta Arte gira con circospezione nei vicoli del capoluogo siciliano, dove gli inquisitori, affidandosi al Malleus Maleficarum, un manuale per la caccia alle streghe, istillano ovunque sospetti e diffidenza. Eppure, nelle sue due vite precedenti in Egitto e in Grecia, Arte era stata rispettata e onorata, addirittura con la considerazione dovuta a un essere di origini divine. Una notte il suo fortuito incontro con Carmen la mette in contatto con le forze indomabili e ribelli della natura. Carmen è una bambina “furtiva e zingaresca… libera come il vento e zozza come la pece, vestita di stracci sotto un mantello damascato e i piedi nudi incrostati di strada fin dentro le unghie”. È cresciuta in un bosco, accudita da lupi, donnole, lepri, ricci e ghiri, nutrita con “bacche, frutti ed erbe”, assimilando così comportamenti ed espressioni selvatici, lontani dalla sensibilità della gente comune. Ora vaga per le vie della città, impaurita e affamata. La notte in cui Carmen e Arte si incrociano     per la prima volta  nei pressi della Chiesa di Santa Chiara, vicino a una torretta d’acqua, è animata da voci e sussurri indecifrabili, da passi femminili leggeri, da intensi profumi di piante aromatiche. Mentre la gatta si rifugia spaventata dietro a un muro, la ragazzina viene circondata da sei bellissime donne che intorno a lei ballano e cantano, vestite d’oro e d’argento, prima di dissolversi nel nulla. L’irruzione di due ossessionati inquisitori marchia Arte e Carmen dell’accusa di stregoneria, conducendo la prima alla fuga, e la seconda in prigione con l’accusa infamante di “guaritrice”, di “ciamavermi”. A salvare entrambe, ecco che arrivano le sei donne concretizzatesi dal buio, streghe o fate: comunque figure libere e liberanti, capaci di ribellione, allegria e lievità in un’epoca di gretta repressione. Raccolgono erbe mediche per preparare infusi magici che inducono sogni rasserenanti in chi dorme. Manifestano una saggia teoria sugli inquisitori: “I pensieri negativi sono quelli che qualcuno chiama diavolo. Si impossessano della mente di chi li partorisce e non se ne vanno più, inquinano il  cuore  e  i  sentimenti,  fanno calare le tenebre, creano paura, odio, sospetti.  Anche se certi signori lo vanno cercando per le  strade  di  Palermo,  in realtà   il  diavolo `e solo dentro di noi, pronto ad apparire e a rovinarci la vita quando non siamo consapevoli di poterla godere appieno”. Regalano alla gatta nera esperienze gioiosamente visionarie, sollevandola in atmosfere sconosciute. Si rendono invisibili per penetrare nella prigione in cui è rinchiusa Carmen, e immobilizzano l’inquisitore che la sta sottoponendo a un interrogatorio brutale per farle confessare peccati mai commessi.

Una delle fate, Pia, rivela alla bambina di essere stata la sua levatrice, raccontandole i misteri della sua nascita: figlia di una guaritrice, la bambina aveva ereditato le stesse facoltà taumaturgiche della mamma, e ora che ne è consapevole può unirsi a loro sei, diventando la settima fata fornita di ali, capace di volare più in altro di ogni pregiudizio, vessazione e ingiustizia, tenendosi stretta una gatta nera, decisamente portafortuna!

 

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SoloLibri.net › … › Il cortile delle sette fate di Nadia Terranova           31 marzo 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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FATICA

OTTAVIO FATICA, LOST IN TRANSLATION – ADELPHI, MILANO 2023

Nel tradurre un testo ci si perde, e si perde qualcosa (del testo stesso, e di sé nell’immersione di parole altrui). Altro si recupera, si ricrea, si offre a chi parla una lingua differente. Lost in translation, titolo ripreso dal famoso film di Sofia Coppola, è un libriccino pubblicato da Adelphi nella collana Microgrammi. L’autore è Ottavio Fatica, poeta (ha pubblicato da Einaudi Le omissioni e Vicino alla dimora del serpente) e leggendario traduttore di capolavori: Il Signore degli Anelli e Moby Dick, tra i più citati. Inoltre, traghettatore in italiano e acuto interprete di romanzieri come Kipling, London, Celine, Joyce Nabokov e poeti come Byron, Yeats, Edward Lear, Auden, Frost, Nina Cassian.

In sei brevi capitoli, “sei appuntamenti al buio con lo straniero”, Fatica ci illustra l’improba ed esaltante arte del tradurre, e il ruolo (la vocazione!) di chi la esercita. Kipling, il primo narratore a essere da lui omaggiato, è stato anche il primo a iniziarlo ai misteri della giungla e al gusto di imboscarsi nella selva intricata dei significati, dei suoni, delle allusioni, delle metafore. E di sagaci metafore si serve l’autore per introdurci alla propria competenza tecnica: come i piccoli protagonisti di Kipling (Mowgli, diviso e conteso tra due mamme, e Kim, protetto da due diverse figure paterne) anche il traduttore soffre di inquietudine e di un timoroso senso di inappartenenza, sapendosi “creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere”, “san Cristoforo in sedicesimo” che trasporta da una sponda all’altra il carico di una parola.

Metafore diverse ma altrettanto incalzanti sono quelle utilizzate nel capitolo dedicato al Signore degli Anelli, in cui lo hobbit Sam, caricatosi Frodo sulla schiena, lo sostiene lungo l’ardua e scoscesa salita verso il monte Fato: così fa il traduttore, novello sherpa che si mette al servizio di un altro scrittore, sottoponendosi con abnegazione a ogni difficoltà interpretativa, e infine, giunto “all’agognata meta, ecco – si ferma un passo prima, un passo indietro, e lascia allo straniero il dubbio privilegio di piantare la bandiera sulla vetta”. Illuminato di riflesso, esattamente come la parrucchiera delle dive, che si entusiasma del premio loro attribuito se solo per un attimo viene inquadrata dalle telecamere la sua acconciatura.

Quella di chi traduce è quindi un’arte umile, misconosciuta, vicaria, suppletoria? Ottavio Fatica rivendica con risolutezza e orgoglio straordinarie conquiste personali. Animato dallo stupore del fanciullino di fronte al mistero racchiuso nello scrigno del “verbo”, incalzato dall’interesse dello psicanalista che penetra nei sogni del suo paziente, infervorato nella comprensione della poesia più criptica, si riconosce parimenti ermeneuta e creatore. Soprattutto per ciò che riguarda la poesia che, intraducibile per definizione – poiché prigioniera di ritmi, misure metriche, rime –, richiede una resa rigorosa e circostanziata. Poeta egli stesso nella decodificazione e nella restituzione dei poeti, “poeta del poeta”, sa che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”. “Se tradurre è masochistico, tradurre poesia in poesia è disciplina da fachiri e da contorsionisti, da aspiranti suicidi”, in quanto si deve non solo ottenere una versione il più possibile fedele, ma anche “ridestare l’eco dell’originale, la tonalità affettiva, la sostanza sonora”.

Altri interessanti argomenti sono trattati nel volumetto adelphiano: quanta empatia occorra per sintonizzarsi realmente con la produzione letteraria di uno scrittore straniero, quando un romanzo o una poesia si possano definitivamente considerare conclusi e non più modificabili o migliorabili, per quale motivo veniamo sorpresi negativamente leggendo un testo italiano tradotto in una lingua non nostra, in che misura la conoscenza e l’uso di un unico codice linguistico contribuisca a rinchiudere gli esseri umani in confini angusti e soffocanti, aumentando gli attriti e i conflitti con chi si esprime diversamente.

Ma è soprattutto l’ultimo saggio che indica quale sia il trasporto di Ottavio Fatica verso gli autori di cui si occupa. In particolare, l’amatissimo Louis Ferdinand Céline. Solo con lui, e con Artaud, ha visceralmente desiderato di immedesimarsi: “Ricordo bene, ricordo come fosse ieri che, non appena mi mettevo a leggerlo, qualcuno ecco attaccava a parlare dentro me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi – parlava attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”. Lasciandosi trasportare dal parlottio celiniano, “sbracato, virulento, garrulo, sublime, grondante amaritudine, venato di lirismo, sotteso di pietà”, Ottavio Fatica ha rischiato spesso uno “stato di fuga irreversibile, cogente”, quello che teme o spera di raggiungere ogni traduttore appassionato: “la perdita del possesso, della disponibilità della lingua, di se stessi in fondo, lo smarrimento ultimo”.

Lost in translation, appunto.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 25 marzo 2023

 

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ORSENIGO

VITTORIO ORSENIGO, MULINO DA PREGHIERA – MIMESIS, MILANO 2023

È sempre difficile recensire un libro di aforismi, riflessioni sparse, illuminazioni poetiche, squarci narrativi, sentenze icastiche: lo è per l’eterogeneità degli argomenti trattati, per la diversità di stili messi in campo, per il ventaglio di sentimenti evocati (dal sarcasmo alla malinconica, dal biasimo all’indulgenza). Lo è in particolare se la ricchezza degli spunti d’ispirazione introdotti si eguaglia alla finezza espressiva della scrittura, per cui a chi commenta si pone imbarazzante il quesito della scelta da compiere, nel citare i più sapidi o toccanti tra i tanti suggerimenti proposti.

Vittorio Orsenigo (Milano 1926), instancabile e versatile produttore di cultura, procacciatore di idee, diffusore di fantasia – è stato regista, pittore e fotografo –, vicino a raggiungere il traguardo del secolo di vita, si cimenta ancora nell’esplorazione del mondo, quello della propria interiorità e quello che lo circonda. Lo fa con invidiabile entusiasmo, sia nell’affondare impietosi strali di disapprovazione, sia nell’alleggerire ironicamente i temi più scomodi.

Già il titolo scelto per la raccolta delle sue divagazioni si presenta come un provocatorio ossimoro: Mulino da preghiera accosta l’immagine clemente del perdono e dell’invocazione a quella roteante della macina che smuove le acque o setaccia la crusca dal grano. Il libro si compone di tre capitoli: il primo, suddiviso in cinque tempi, dà il nome alla raccolta, Mulino da preghiera. Il secondo, I pizzini di Amblar, allude minacciosamente a qualche realtà segreta e infida. Il terzo, Le cancellerie, suona di beffarda derisione nei riguardi di ogni pomposa diplomazia ufficiale.

Ecco dunque alcuni esempi tratti dalle varie sezioni del volume.

“Il futuro non ci sembra mai abbastanza esagerato. Se riuscissimo ad immaginarlo come un frammento di presente caduto in avanti, avremmo idee meno stravaganti su di lui”, “Il fumo del caffellatte appanna gli occhiali. Sono vecchio. I sorsi di quella bevanda infantile vezzeggiano. Non possono più nutrire”, “Parlo troppo spesso di orrore: dunque non ci credo più e le piramidi d’ossa scoperte qua e là da un contadino alla semina delle patate costituiscono appena qualche intralcio al furore delle radici”, “Esposizioni: non sempre riguardano i girasoli di Van Gogh: ieri mi sono trovato di fronte in macelleria la lingua del bue che (un’idea vale l’altra) avevo visto brucare erba di alpeggio a quota milleseicento fra genziane e stelle alpine”, “E le Cancellerie? In coscienza, ognuno sa bene cosa dovrebbero cancellare: le guerre, ma figuriamoci se proprio loro si perdono in un tale bicchierozzo d’acqua! Non sono certo neonate ma vien da chiedersi: sono davvero così brave nel loro mestiere? Con i cassetti riforniti dall’Economato di gomme per cancellare Marca Pelikan (siamo all’eccellenza), battono la classica, stracca, mala pianta dell’ Apparato Burocratico. Per dirla tutta, fanno e disfano un quasi zero che, tuttavia, vale la seggiola o la poltrona”, “Nessuno è tanto intelligente da proibirsi le piccole, medie e grandi crudeltà”.

Saggezza, amarezza, nostalgia, disdegno: tutto concorre alla fondamentale esigenza di condividere idee e immagini, con chi sappia ascoltare e abbia voglia di fermarsi a pensare.

 

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SoloLibri.net › … › Mulino da preghiera di Vittorio Orsenigo               24 marzo 2023

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VITALE

IDA VITALE, TEMPO INSOLUTO – ENSEMBLE, ROMA 2023

IdaVitale (Montevideo,1923)  poetessatraduttricesaggistadocente e critica letteraria uruguaiana, è la più longeva esponente del movimento Generación del 45 e dell’ essenzialismo sudamericano. La sua poesia rappresenta un punto di incontro fra l’attenzione sensoriale di radice simbolista ai fenomeni naturali e la profondità concettuale, caratterizzata da un’estrema concisione e da un linguaggio ricercato, ricco di metafore e acutamente ironico. La produzione poetica di Ida Vitale, da Luz de esta memoria (1949) a Tiempo sin claves (2021), ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi, come il Premio Octavio Paz (2009), il Premio Internacional García Lorca (2016) e nel 2019 il Premio Cervantes, massimo tributo letterario in lingua spagnola. Cresciuta in una famiglia colta e cosmopolita di lontane origini italiane, ha dovuto lasciare a più riprese l’Uruguay per ragioni politiche, trasferendosi dapprima in Messico e successivamente in Texas, dove è rimasta per trent’anni, sempre impegnandosi attivamente sia nell’insegnamento universitario, sia in ruoli editoriali e culturali di rilievo. Dal 2016 è tornata a vivere a Montevideo.

Nel 2020 Bompiani le ha dedicato la prima antologia uscita in Italia, Pellegrino in ascolto, e oggi la casa editrice romana Ensemble festeggia i cento anni della poetessa pubblicando la sua ultima raccolta, Tempo insoluto, a cura di Pietro Taravacci, che firma anche l’approfondita ed entusiastica introduzione. Il volume raccoglie una cinquantina di composizioni con testo originale a fronte, e spazia fra temi diversi: la natura, i ricordi, la creazione artistica, racchiusi tutti nella cornice della riflessione sul tempo. Il tempo lungo e lento del passato, quello veloce verso un futuro a scadenza ravvicinata.  “Raccolta liminare”, viene giustamente definita dal prefatore, questa che Vitale ha firmato con un titolo che nell’originale suona come “Tempo senza chiavi”, volendo indicare forse un’impenetrabilità all’interno, o un’impossibilità di varcare il limite esterno determinato dall’età: come se ogni pagina dovesse essere letta semplicemente per quello che esprime. Nessun pietismo o autocommiserazione, l’esistenza va accettata per quello che ha dato e continua a dare, regalo gratuito di bellezza da godere fino all’ultimo istante: “Giacché da niente puoi salvarti, prova tu a essere / salvezza di qualcosa. // Cammina piano, e vedi se, per tentazione, il tempo fa lo stesso”. Il paradiso è qui, insomma, basta averne e averne avuto coscienza: “un tempo qui ci era piaciuto molto”, “Paradiso: pace ma senza tedio, / la quiete anelata, ma anelante, / lievi incombenze, niente ozio/noia”.

La ricerca di un equilibrio tra gioia e sofferenza, attività e riposo, viene sottolineata dal desiderio di raggiungere e mantenere una tranquilla e consapevole serenità: “Dormirsene straniata / davanti a ciò che inizia / o forse, sta finendo. / Stare, alla mattina, / come a fine giornata”, “Un volume d’aria calma, / fuori dal corpo, dentro l’anima / tutto tranquillo, la successione / di passi, parole, silenzi, / la mancanza di ansie/ … e lo strepito mai”. La parola “fine”, così spesso ripetuta, insieme alla congiunzione “senza” (che il curatore scopre reiterata ben 63 volte nel volume) indicano certamente la consapevolezza di una privazione, presente e futura, di un’assenza e impossibilità di ulteriore sviluppo, ma non arrivano mai a esprimere paura o disperazione, piuttosto una rassegnata cognizione della realtà, e insieme la volontà di trovare motivi per proseguire nel cammino dell’esistenza. Consolanti ormeggi alla vita quotidiana sono quindi le presenze degli animali (corvi, farfalle, gatti, elefanti, conigli, delfini, tartarughe, cagnolini), della vegetazione (“sambuchi, salici e cipressi”, viticci, felci, tulipani), della pittura (“un Klee nel quale cantano i colori, / la geometrica linea, lo sproposito”) e della musica (“Solo aprirti alla musica ti salva”).  Oltre all’elegia, sia che indichi speranza o rimpianto, in Ida Vitale mantiene una decisa pregnanza la riflessione etica e teorica sul contrasto eterno tra bene e male: “Quando la luce fende l’ombra, / cos’è: raggio o spada?”, e l’indignazione civile per chi dal male trae profitto, per gli “operai del male” che fanno circolare “la loro gelata monetina”: “Forgiano il male lentamente, / con inclemenza, in giorni non contati, / giorni di trasandato sole,/ quando la notte inizia con fastidio”, “Il male con il male, fianco a fianco, /  il bene, senza alcun patto, solo”.

Davanti al nero della morte, della negatività, della cattiveria, abbiamo il dovere di glorificare la materia innocente, che esibisce la sua umile concretezza, incurante di ogni trascendenza. Dobbiamo riconoscenza a “una matita, / un foglio, di carta soltanto”, e al legno con cui sono costruite “le porte e le bare, / i pianoforti, i liuti”.

Nell’inventario del dato e avuto, Ida Vitale dedica al marito e mentore artistico Enrique Fierro, scomparso nel 2016, versi struggenti di nostalgia (“Tutto sembrava molto e fu breve”), ma ammette che i cinquant’anni vissuti insieme sono stati comunque un grande privilegio, così come gli arricchenti incontri con tante “anime amiche”. Tutto il bene goduto deve bastare “a compensare i danni di ogni giorno”, e alla soglia del centesimo anno la poetessa riesce a trovare dentro e intorno a sé la voglia e il bisogno di “incidere nel domani / quest’oggi così schietto, / così azzurro e dorato”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 20 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

ÐIKIĆ

IVICA ÐIKIĆ, METODO SREBRENICA, BOTTEGA ERRANTE, UDINE 2020

Un romanzo-documentario, quello che Ivica Đikić (Tomislavgrad 1977), giornalista ed editore bosniaco, ha scritto nel 2016 per raccontare come è avvenuto l’eccidio di Srebrenica, e secondo quali modalità pratiche sono state uccise 8000 persone nell’arco di quattro giorni, dal 12 al 16 luglio 1995.

In quella tragica estate, Đikić si era appena iscritto alla facoltà di scienze politiche a Zagabria, e il genocidio operato dall’esercito serbo l’aveva solo sfiorato emotivamente: viveva imbozzolato nel dolore dopo quattro anni di guerra e inedia, la morte precoce del padre e la paura del futuro per la propria famiglia: “Si moriva, erano mancati alcuni nostri cugini, vicini di casa, amici, gente che conoscevamo. Le granate cadevano per la strada, potevo vedere da vicino corpi di morti sfigurati su cui volavano le mosche”.  Srebenica si trovava a 400 km di distanza dalla sua città natale, nella Bosnia orientale, e solamente dieci anni dopo il massacro si era recato a visitarla, insieme a due colleghi. “La guerra restringe e sminuisce ogni cosa”, e il giovane reporter per molto tempo si era accontentato, come altri intellettuali e la maggior parte dell’opinione pubblica, delle versioni ufficiali fornite da vari governi, e dei resoconti confusi dei media internazionali. La responsabilità dell’eccidio veniva genericamente attribuita al generale Ratko Mladić e al presidente della Repubblica Serba Radovan Karadžić, ritenendo gli esecutori materiali semplice e oscura manovalanza.

In Metodo Srebrenica, Ivica Đikić ha ricostruito poi, sulla base di minuziose ricerche sul campo, “i procedimenti minimi ed elementari, davvero concreti, di tante persone in carne e ossa: dall’espressione sul viso delle vittime al momento dell’uccisione a quella di chi pronuncia l’ordine di uccidere, fino alle parole e ai codici che vengono utilizzati nella comunicazione fra le persone coinvolte nell’esecuzione della strage”.

La prima parte del volume ricostruisce puntualmente le vicende storiche dei conflitti nella penisola balcanica, iniziati alla morte di Tito nel 1980 e intensificatisi a partire dal decennio successivo, con la proclamazione dell’indipendenza dall’ex Jugoslavia della Bosnia Erzegovina, di Slovenia e Croazia nel 1992, e l’inizio della guerra civile, nell’aprile dello stesso anno, con l’aggressione della Serbia alla Bosnia-Erzegovina già dilaniata da tensioni etniche ed esasperati nazionalismi, che opponevano i serbi ai musulmani e ai croati.

Srebrenica contava allora trentasettemila abitanti, al 73% musulmani, al 25% serbi, ed era considerata un obiettivo strategico per collegare le parti nord e sud della Repubblica Serba attraverso un corridoio da creare lungo il fiume Drina. Benché i musulmani costituissero la maggioranza degli abitanti, le formazioni serbe volontarie e quelle mercenarie erano riuscite ad assumere il comando nella cittadina,

dove i bosgnacchi venivano uccisi in esecuzioni sommarie, cacciati di casa e deportati, o si riducevano a vivere in condizioni disumane per la carenza di cibo e l’allarmante situazione igienica.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 16 aprile 1993 proclamò Srebrenica “zona protetta”, sotto la tutela militare dell’ONU, composta da cinquecento militari, cui nel gennaio del 1995 si unì il battaglione olandese dell’UNPROFOR.

L’operazione serba (denominata in codice Krivaja 95) per l’eliminazione dell’enclave protetta della regione ebbe inizio la mattina del 6 luglio, nella totale impreparazione e passività delle forze delle Nazioni Unite, incapaci di opporsi all’assalto delle truppe di Mladić.  L’11 luglio circa venticinquemila civili bosgnacchi trovarono rifugio nella base delle truppe dell’ONU, convinti di trovarsi al sicuro. Altre migliaia di persone, soprattutto maschi adulti, cercarono riparo in villaggi vicini e nel bosco di Buljim, nella zona nord-occidentale della regione. Il mondo occidentale non reagì in alcun modo alla strage successiva, sebbene documentata dalle immagini satellitari delle uccisioni in massa e della realizzazione delle fosse comuni.

Il generale Mladić proclamò con orgoglio davanti alle telecamere: “Eccoci in questo 11 luglio 1995 nella città serba di Srebrenica. Alla vigilia di un’altra grande festa serba, offriamo al popolo serbo questa città. E finalmente è venuto il momento, dopo la rivolta contro i condottieri giannizzeri, di vendicarci dei turchi proprio in questi luoghi”. L’identificazione dei bosgnacchi con i turchi ottomani che avevano governato nei Balcani per quasi cinque secoli, era tornata a rivivere anche prima di allora nella propaganda, nelle menti e negli animi dei serbi, che manifestavano l’odio, il disprezzo e la sottostima tramandati di generazione in generazione per chi li aveva discriminati in passato.

A dirigere e organizzare lo sterminio fu il colonnello Ljubiša Beara, capo della Direzione di sicurezza nel Comando supremo, già capitano di vascello di stanza a Spalato: a lui Ivica Đikić dedica la seconda parte del libro, non solo in una ricostruzione fedele dei fatti avvenuti nei quattro giorni del massacro, ma anche ripercorrendo la vita del criminale prima e dopo la guerra, attraverso numerose testimonianze e documenti processuali. Occhialuto, massiccio, stempiato e brizzolato, proprio quel 14 luglio 1995 Beara compiva 56 anni: era stato sempre ciecamente fedele agli ordini che gli venivano impartiti, e non aveva messo in discussione nemmeno per un attimo la disposizione affidatagli di annientare la popolazione maschile dell’enclave di Srebrenica.

Da quali motivazioni fu spinto a tali atrocità? Sentimento di lealtà alla Repubblica Serba, sete di vendetta e odio etnico verso i bosgnacchi, fanatismo religioso, megalomania e vanità, pressioni esterne e debolezza, carrierismo e fascinazione nei confronti di Mladić, ingannevole assimilazione dei concetti di devozione e onore, abuso di sostanze e di alcol, o il subdolo tentativo di provocare uno shock internazionale che avrebbe portato alla conclusione della guerra?

Sua prioritaria preoccupazione fu individuare le località dove effettuare l’esecuzione dei prigionieri, occultandone i cadaveri senza lasciare tracce. Đikić elenca nomi e ruoli di chi collaborò con Beara nell’ideazione e realizzazione dell’eccidio: autorità politiche, ufficiali dell’esercito serbo, reparti speciali di polizia, paramilitari regionali e locali, mercenari e volontari. In particolare agirono in tal senso il sessantacinquesimo reggimento motorizzato di difesa e il decimo reparto guastatori. Più di cento uomini furono implicati a vario titolo nella strage, altrettanti nel seppellimento dei corpi.

Oltre a Srebrenica, teatro della carneficina erano stati i paesi di Kravica, Cerska, Zvornik, Bratunac, secondo le stesse modalità di azione, evidentemente imposte dai vertici militari. I maschi giovani e adulti (ma tra le vittime ci fu anche un undicenne), separati dalle donne, dai bambini e dagli invalidi, vennero ammassati in camion e autobus, portati in campi di raccolta, in scuole, magazzini, fabbriche dismesse, poderi agricoli, cave di ghiaia, e poi sterminati con raffiche di fucili automatici, mitragliatrici e bombe. Nel frattempo si impiegavano operai e macchinari nello scavo di fosse comuni in cui gettare i cadaveri, ricoperti con terra e sabbia. Dal 12 al 16 luglio 1995 furono uccisi ottomila musulmani bosniaci: fino ad oggi sono stati identificati e sepolti circa settemila trecento corpi, e si continuano a cercare le ossa delle restanti vittime.

I principali responsabili del genocidio furono condannati all’ergastolo dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra dell’Aja: tra loro, ovviamente anche Ljubiša Beara, che si ostinò a respingere tutte le accuse, sostenendo che in quei giorni si trovava a Belgrado per festeggiare il suo compleanno.

 

© Riproduzione riservata                         «Gli Stati Generali», 17 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

NIERO

ALESSANDRO NIERO, OLGA. UNA BADANTE PER AMICA

VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI) 2022

 

La poesia è un’arte negletta, forse la meno considerata tra le forme letterarie praticate in Italia, non tanto nella produzione (addirittura sovrabbondante!) quanto nella fruizione. Pochissimi la leggono, e i volumi di versi rimangono tristemente invenduti sui due o tre scaffali che le librerie mettono loro a disposizione. I poeti appaiono creature in via d’estinzione, rassegnati a un soliloquio autoreferenziale che li riduce in spazi editoriali sempre più ristretti, e tuttavia ambiti a tal punto da creare nella categoria rivalità, guerre sotterranee, rancori perenni. Alcuni di loro, esasperati dal silenzio critico che li circonda, arrivano a recensirsi e intervistarsi da soli. Come scriveva Palazzeschi, sentendosi trascurati o addirittura scherniti dalla cultura che crea reddito, finiscono per riconoscere a sé stessi un ruolo giullaresco e innocuo, sostanzialmente consolatorio: “Tri tri tri, / fru fru fru, / ihu ihu ihu, / uhi uhi uhi. // Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Forse per questa malinconica consapevolezza della propria vanità e inconsistenza, molti poeti finiscono per frequentare settori più redditizi della letteratura: la memorialistica, il giallo, il noir, la satira, o l’unico davvero trainante nel mercato editoriale: quello dedicato all’infanzia.

Così ha scelto recentemente di fare Alessandro Niero, non solo elegante autore di apprezzate raccolte di versi, ma stimato docente universitario a Bologna, esperto slavista, ricercato traduttore dal russo, sottile interprete dell’arte traghettatrice tra lingue diverse. Il suo ultimo prodotto librario è appunto un testo rivolto ai lettori delle scuole elementari, Olga. Una badante per amica, che racconta in versi accattivanti e di facile comprensione una favola ambientata nell’oggi, dalla finalità pedagogica, con una morale positivamente educativa.

La voce recitante è quella di un bambino che chiede al padre chi sia la giovane donna incaricata di accudire il nonno novantenne, e in questa sua curiosa indagine sul ruolo della signora, lentamente si avvicina a una realtà culturale e umana prima ignorata. Olga è una badante moldava, arrivata da un paese lontano in cerca di un’occupazione: “E per trovare un qualsiasi lavoro / tanti laggiù hanno lasciato la famiglia / e, come cercatori d’oro, / hanno percorso miglia, miglia e miglia / per arrivare dalle nostre parti. / Non stanno certo con le mani in mano, / non c’è lavoro che scartino, / fanno ogni tipo di mestiere, anche il più stranio / o quello che nessuno vuole fare: devono guadagnare”.

Olga si fa volere bene; è attenta, coscienziosa, sensibile, colta; offre aiuto materiale e compagnia affettiva alle giornate faticose dell’anziano che le è stato affidato. Legge molto, si è addirittura iscritta all’università, e sta per portare a termine la sua tesi di laurea. Il nipotino narrante cerca di conoscerla meglio, si fa aiutare nei compiti e divide con il nonno le cure premurose della badante, diventata anche baby sitter part-time. Tutta la famiglia che ospita Olga le è riconoscente, festeggia orgogliosa la fine dei suoi studi come fosse una cara parente, e instaura con lei un rapporto di reciproca stima e amicizia.

Il volumetto di Alessandro Niero, attraverso un linguaggio semplice, lieve e musicalmente ritmato, ha il pregio di stimolare la sensibilità dei piccoli lettori verso sentimenti di solidarietà e apertura nei riguardi degli stranieri che lavorano nel nostro paese, invitandoli alla considerazione e all’apprezzamento che essi meritano. Le illustrazioni di Elena Miele, a partire dalla vivace e coloratissima copertina, arricchiscono le pagine di immagini fantasiosamente allusive al mondo infantile, popolato da gatti, topi, zucche, draghi, serpenti, stelline, cactus, pesci, uccelli, farfalle, occhi verdi, sotto lo sguardo meditabondo di una grassa regina distesa sul letto a pancia in giù. Olga, una badante per amica è un libro destinato a un pubblico di bambini, adulti e poeti, nella collana a loro dedicata dalla casa editrice toscana Valigie Rosse.

 

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15 marzo 2023

RECENSIONI

BUBER

MARTIN BUBER, IL CAMMINO DELL’UOMO – EINAUDI, TORINO 2023

Einaudi ripropone un testo canonico di Martin Buber, Il cammino dell’uomo, definito da Herman Hesse “un dono prezioso e inesauribile”. Nato come conferenza tenuta in Olanda nel 1947, e uscito per la prima volta come libro l’anno successivo, questo testo propone al lettore un itinerario in sei capitoli volto alla conoscenza del sé, per progredire verso la maturità spirituale e comportamentale. Secondo Enzo Bianchi, che ne ha scritto la prefazione, “Buber ci vuole parlare dell’uomo nel suo rapporto con sé stesso, con gli altri esseri umani, con il mondo e con Dio, e lo fa con una preoccupazione pedagogica”.

Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), è stato uno dei maggiori studiosi del Ḥasidismo, corrente mistica dell’ebraismo nata in Polonia nel 1700, tesa a rinnovare il giudaismo attraverso un processo di riscoperta nella vita quotidiana di un sentimento interiore di pietà, finalizzato al raggiungimento di uno stato di eterna gioia e unione con Dio. Nella sua vasta produzione filosofico-teologica, oltre alla raccolta di una serie di leggende e racconti ḥasidici e al fondamentale saggio Io e Tu del 1923, Buber si impegnò in una laboriosa traduzione della Bibbia dall’ebraico al tedesco.

Per lui, la vita va modulata come relazione, intersoggettività, dialogo, comunicando con  la creazione e il Creatore, in una concezione unitaria dell’essere.

Ne Il cammino dell’uomo sono numerosi i riferimenti alla tradizione ḥasidica e alle varie interpretazioni sapienziali delle Sante Scritture di Israele, intervallati da esempi, parabole e brevi resoconti di leggende talmudiche. I sei capitoli in cui si suddivide il volumetto portano titoli esemplificativi: Prendere coscienza di sé, Il cammino particolare, Risolutezza, Cominciare da sé stessi, Non dedicarsi a sé stessi, Là dove ci si trova, e indicano come progredire gradualmente alla realizzazione del proprio essere più profondo e autentico. Un viaggio verso la trasformazione da intraprendere senza rimpianti o ripensamenti, per ritrovare la pace interiore. “Solo quando un essere umano ha trovato la pace in sé stesso, può andare a cercarla nel mondo intero”. Si tratta di un lungo cammino, che può durare l’intera vita, e si compie inizialmente da soli per individuare debolezze, paure, fallimenti, ma esplorandosi con sincerità, rimettendosi continuamente in discussione. “Primo: ognuno deve custodire e santificare la propria anima secondo l’indole e il luogo a lui propri, senza invidiare l’indole e il luogo di altri; secondo, ognuno deve rispettare il mistero dell’anima dei suoi simili, senza penetrarlo con impudente curiosità e servirsene; terzo, ognuno, nella vita con sé e nella vita col mondo, deve guardarsi dal mirare a sé stesso”.

Assumersi come punto di partenza, non come meta finale; conoscersi, ma senza preoccuparsi troppo di sé; cercare la via migliore, ma non senza gli altri. E non è necessario spingersi in terre lontane per realizzarsi come esseri umani, né si devono affrontare esperienze straordinarie per imparare a conoscersi: “L’ambiente che percepisco come naturale, il contesto che mi è stato assegnato come destino, ciò che mi accade giorno dopo giorno, ciò che mi si richiede giorno dopo giorno: eccolo qui il mio compito essenziale, eccola qui la completezza esistenziale così come mi si apre di fronte”.

Un libriccino di sapienza millenaria, un insegnamento che travalica la sua stessa origine ebraica, ricco di massime illuminanti, venate talvolta di amara ironia, ma sempre con un fiducioso abbandono al progetto divino.

 

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9 marzo 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE BENEDETTI

CARLO DE BENEDETTI, RADICALITÀ – SOLFERINO, MILANO 2023

L’Ingegner Carlo De Benedetti ha ricoperto ruoli di grande rilievo nel settore industriale, finanziario, culturale del nostro Paese. Nato a Torino nel 1934, a quarant’anni ha costituito il gruppo C.I.R, è stato amministratore delegato della Fiat e dell’Olivetti, Presidente del Gruppo Editoriale L’Espresso e nel 2020 ha fondato il quotidiano Domani. Già autore in passato di due saggi politici per Mondadori ed Einaudi, ha da poco pubblicato con Solferino un agile e interessante volume, “Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia”, sostenendo la necessità di una decisa trasformazione dell’assetto politico e sociale della nostra nazione.

La prima parte del libro offre un’analisi spietata delle condizioni in cui versa l’Italia, stretta tra la crisi energetica e quella climatica, economicamente sull’orlo della recessione, guidata da una classe politica inadeguata, con vasti strati della popolazione in povertà. La stagnazione, aggravata dalla corruzione dilagante e dalle infiltrazioni mafiose negli apparati dello stato, esige quindi che si operi un cambiamento radicale, ben al di là dei timidi aggiustamenti tattici dell’esistente che vengono proposti dalla prudenza di tutti i partiti. Il giudizio dell’autore sia sul ventennio berlusconiano, sia sui pasticciati governi che l’hanno seguito è severissimo. Implacabile la sua valutazione della condotta del PD: “una compagine dominata da baroni stanchi, generali rimasti senza esercito dopo aver conquistato la borghesia e perduto il popolo… Un partito irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali: l’equivalente di una seduta psicoanalitica sul ponte della nave che affonda, senza neanche l’orchestrina”. Ritiene pertanto indispensabile sia la formazione di una classe dirigente che abbia la competenza necessaria a guidare il paese in una contingenza difficile come l’attuale, sia l’irrobustimento di un’opposizione che sappia contrastare il declino democratico cui siamo avviati.

La debacle del socialismo europeo, fatta eccezione per la Spagna, è una realtà incontestabile, sotto gli occhi di tutti. Si impone quindi la nascita di un nuovo socialismo, solidamente ambientalista e orientato in primo luogo a difendere la dignità del lavoro. Salvezza del pianeta e occupazione sono i temi su cui si gioca la partita del futuro. Per ciò che riguarda la nostra nazione, le condizioni da rispettare perché il paese ritrovi le coordinate su cui muoversi sono una nuova legge elettorale per recuperare il concetto di rappresentanza e il ripristino del finanziamento pubblico, onde evitare l’instaurarsi di una pericolosa plutocrazia che garantisca la gestione del potere solo a chi ha i mezzi finanziari per farlo.

Le proposte caldeggiate da De Benedetti per la salvaguardia dell’ambiente sono dettate dal buon senso: fermare il consumo del suolo e l’edificazione selvaggia attraverso la rigenerazione e la riutilizzazione delle costruzioni esistenti, incentivare le energie pulite e l’economia circolare, riqualificare abitazioni e mezzi di trasporto con il risparmio energetico, prendendo esempio dalle leggi e dai controlli più rigidi applicati in Svizzera e nell’Europa del nord.

Dove recuperare le risorse per attuare le riforme? Indirizzando il Pnrr verso progetti mirati di interesse comune, senza vagheggiare inutili e pionieristiche “grandi opere”. A tal fine bisogna ripensare il sistema di tassazione con l’introduzione di una patrimoniale che colpisca i grossi capitali, alzare la tassa di successione e combattere l’evasione fiscale anche attraverso un drastico abbassamento della soglia dei pagamenti in contante, accrescere gli introiti nelle casse comunali commisurando al reddito le multe e le sanzioni stradali. È indispensabile ridistribuire ricchezze e risorse per salvaguardare il potere d’acquisto delle classi più povere, introdurre il salario minimo e adeguare gli stipendi esistenti al costo effettivo della vita, garantendo parità di retribuzione tra donne e uomini.

La politica deve soprattutto accelerare il rinnovamento nel modo di pensare il lavoro e le strutture produttive del nostro paese. Tante sono le proposte suggerite a tale fine: incentivare le persone a specializzarsi e a formarsi, anche introducendo una forma di servizio civile per i giovani; aumentare la competitività nei mercati, sostenere il welfare per appoggiare l’impiego femminile liberandolo dalle cure domestiche, dinamizzare il marketing, promuovere la digitalizzazione e l’innovazione informatica, valorizzare la ricerca universitaria, gestire correttamente lo smart working, motivare la creatività, riscoprire un ruolo più combattivo dei sindacati (l’autore rivolge un commosso ricordo a Luciano Lama e Bruno Trentin),

Il capitalismo non è all’altezza del nuovo mondo che si sta configurando: la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, la ridotta competitività nelle esportazioni, l’aumento del costo del debito, l’inflazione, l’aumento dei tassi d’interesse sono fattori che produrranno meno consumi, meno produzione, meno occupazione, e quindi un’inevitabile recessione. In Italia questo stato di cose finirà per aggravare la frattura esistente tra nord e sud, che la proposta dell’autonomia differenziata presentata dall’attuale governo renderà inevitabile. A un quadro economico e finanziario molto critico, si aggiungono le minacce del cambiamento climatico, con la siccità che mette in pericolo la produzione agricola, la guerra in Ucraina e il pericolo di nuove epidemie, al punto che il mondo sembra vacillare sull’orlo di un burrone.

Sulla base di un’attenta analisi dell’attuale situazione geopolitica, De Benedetti azzarda una tragica profezia: l’ineludibile conflitto militare che opporrà Cina e Stati Uniti, probabilmente innescato dalla crisi di Taiwan e poi combattuto per il dominio del Pacifico. “Le mosse americane in Estremo Oriente sono del tutto analoghe a quelle già fatte in Ucraina: addestramento per le truppe locali, mappatura del territorio per capire dove e come offrire sostegno, fornitura di materiali per anticipare le necessità. Si chiama setting the theatre, preparare il terreno”.

C’è spazio ancora per qualche ottimismo? De Benedetti ritiene di sì. L’Italia, che gode di una straordinaria concentrazione di bellezza, cultura e intelligenza, può dare un contributo reale al mondo e alla democrazia, giocando al proprio interno una partita di civiltà per ricostruire uno spazio sociale equo e coeso, rieducando i propri cittadini alla partecipazione politica, valorizzando le virtù e i talenti che possiede e diventando così la testa di ponte del Rinascimento europeo.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 9 marzo 2023