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RECENSIONI

BOMPIANI

GINEVRA BOMPIANI, L’ULTIMA APPRIZIONE DI JOSE’ BERGAMIN
NOTTETEMPO, ROMA 2014

Ginevra Bompiani propone ai lettori in queste poche pagine un ritratto dello scrittore spagnolo José Bergamin (1895-1983), che fu combattente a fianco dei comunisti nella guerra civile, oppositore politico di Franco, due volte esule, animatore di riviste e pubblicazioni politiche e, verso la fine della sua lunga esistenza, sostenitore dell’indipendenza basca. Amico dei più importanti intellettuali contemporanei (Rafael Alberti, Garcia Lorca, Bunuel, André Malraux), Bergamin fu sempre e soprattutto amico del popolo, e dal popolo ricambiato con un affetto e un rispetto che rasentavano l’idolatria. Ginevra Bompiani lo conobbe negli anni ’60, e mantenne con lui un rapporto di reciproca stima e confidenza: ne ammirava la sterminata erudizione, l’acuta ironia, l’incredibile facondia, che si esprimeva in divertenti arguzie, stravaganti calembours, estemporanei ma profondissimi aforismi. La rievocazione del tempo trascorso in sua compagnia («un tempo così colorato, così vivo, così bagnato di emozione»), a discorrere di corride e d’altro (nei ristoranti, davanti a un piatto di “caldo de la casa”, con i camerieri che orecchiavano ammirati; oppure nelle passeggiate notturne attraverso Madrid) è velata da un sentimento di malinconica commozione, di consapevole, irreparabile perdita. Cosa raccontava Bergamin? «Non la vita, non le creature di Dio, non le continue catastrofi dell’esistenza, non le crudeltà, le empietà, le passioni: solo la lingua e i due luoghi nei quali raggiunge i limiti estremi di verità e menzogna: la poesia e la politica, Dio e il Diavolo».

E com’era, fisicamente? Magro, con mani e labbra sottili, «naso lungo, berretto basco, schiena un po’ curva, sguardo malinconico». La sua ultima apparizione, a 88 anni, fu sul pianerottolo di casa, con l’improvvisazione di qualche passo di flamenco, come sapeva fare lui, «per fondere, in un’essenza unica, la comicità e la grazia».

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

RECENSIONI

RASY

ELISABETTA RASY, FIGURE DELLA MALINCONIA– SKIRA, MILANO 2012

Le otto riflessioni che Elisabetta Rasy raccoglie in questo volume sono state pubblicate su Il Foglio  tra il 2010 e il 2011, in occasione di importanti mostre di pittura avvenute in diverse città italiane ed europee. Partendo da considerazioni estetiche (la natura della luce, l’importanza del paesaggio, lo scorrere inesorabile del tempo nelle espressioni dei volti, il rilievo politico della ritrattistica… E ancora: la malinconia, l’abbandono, l’ordine e il disordine…), l’autrice compie degli excursus culturali che abbracciano sapientemente letteratura e filosofia, storia e psicanalisi, in una scrittura insieme lieve e profonda, elegante e allusiva. Così le considerazioni sull’uso della luce in Turner e Goya trovano un loro puntuale contrappunto in rimandi e citazioni che spaziano da Rousseau a Poe, da Bachelard a Adorno, senza che la pagina risulti appesantita da un eccesso di esibizionismo nozionistico. Il paesaggio di Cima da Conegliano, quasi attonito e invariato («ogni cosa, se pure è soggetta al tempo, ha diritto alla sua intemporalità, ogni cosa vuole essere se stessa nel tempo immobile e interminabile della creazione»), viene commentato da passaggi tratti da Goethe e Zola, e attraverso i severi richiami critici di Cesare Brandi. La vecchia  di Giorgione offre lo spunto per una meditazione sulla vanitas come caducità e morte; i ritratti risorgimentali di Garibaldi suggeriscono riflessioni sullo sguardo e la tristezza. Ma è soprattutto nel capitolo dedicato ai gatti che l’ intelligente acutezza di Elisabetta Rasy manifesta una particolare seduzione: partendo da un ricordo infantile (i felini domestici della bisnonna, e il “pappone” di pesce che si preparava per loro quotidianamente), la scrittrice passa a illustrare il chiostro di Santa Chiara a Napoli, con i suoi colori lussureggianti e le scene profane animate dai personaggi più vari e, appunto, da gatti; per poi commentare l’annunciazione di Lorenzo Lotto e finire con la drammatica descrizione delle stragi di animali nella Mosca stalinista raccontata da Šalomov.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

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NEMIROWSKY

IRÈNE  NÈMIROWSKY, L’INIZIO E LA FINE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2013

“Camille Deprez non avrebbe accettato di piegare il rigore delle leggi per piacere nelle alte sfere, ma aveva come massima meta l’arte comune agli ambiziosi di armonizzare le sue convinzioni con i suoi interessi. Nel mondo della giustizia aveva sempre goduto di un prestigio che si rifaceva meno alle sue funzioni che alla sua austerità, alla sua integrità. La sua giustizia era temibile. Tuttavia non era odiato, ma rispettato così come temuto. Nel senso del rigore soltanto. Lui si sentiva moralmente autorizzato a mettere d’accordo il proprio dovere con le proprie passioni”.

Il protagonista di questo bel racconto di Irène Nèmirowsky è un inflessibile procuratore di provincia, interessato tanto alla sua carriera quanto al trionfo delle legge, impermeabile a qualsiasi supplica o corruttela, e insensibile a ogni commozione. Condannato da un tumore in fase terminale, si trova a riesaminare la propria vita con la stessa severità con cui ha sempre giudicato le esistenze altrui, senza fare sconti né a se stesso né a chi si trova di fronte a lui in qualità di imputato. In questo caso, il figlio di un importante e contestato uomo politico: accusato di aver ucciso la moglie per gelosia, il giovane sarà in realtà oggetto di diverse valutazioni morali proprio in conseguenza del potere paterno. Procuratore e assassino si fronteggiano davanti al tribunale definitivo della morte, entrambi colpevoli in modi diversi. L’autrice spinge il lettore a interrogarsi sul mistero insondabile del male, sulla sua inevitabilità esistenziale, sulla sofferenza che provoca sia nelle vittime sia nei suoi artefici, sull’impossibilità del perdono legale, e sulla difficoltà della clemenza. Irène Nèmirowsky scrisse questo racconto (finora inedito in Italia) nel 1935, contemporaneamente al romanzo Jezabel, che pure tratteggia una figura femminile condannata per omicidio, egocentrica e incapace di pietà, in cui l’autrice rifletteva forse il tormentato rapporto con sua madre.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

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MESSORI

VITTORIO MESSORI, LA SFIDA DELLA FEDE – SAN PAOLO, MILANO 1993

Definito recentemente dal L’Europeo «ultra moderato» (in compagnia di Formigoni, Opus Dei, Giacomo Biffi), Vittorio Messori, giornalista e scrittore cattolico molto noto, e attualmente opinionista di  Avvenire  e  Jesus, è senz’altro ideologicamente di parte, e di parte non progressista, ma non risulta certo moderato nei temi e nei toni. Le Edizioni San Paolo hanno accolto in un volume di 500 pagine 216 articoli che Messori ha pubblicato con spirito militante negli ultimi anni, presentandoci un prodotto editoriale di grande valenza culturale e politica, provocante e barricadiero già nel titolo: La sfida della fede . Secondo Guitton, riportato da Messori, per un filosofo «scrivere un articolo di cronaca è cogliere ciò che vi è d’eterno nell’attualità che passa», e l’autore modenese si attiene saldamente a questo spirito di ricerca del duraturo nell’effimero, dello sconfinato nel limite. Infatti il punto di partenza di queste meditazioni è sempre uno spunto di cronaca, dall’ora di religione al Meeting di Rimini, agli Hooligans, alle polemiche sulla Sindone, e numerosissimi sono i personaggi citati, politici italiani o stranieri, intellettuali, teologi o gente comune. Ma il punto d’arrivo è comunque un altro, più universale e rispondente a una visione cattolica dell’esistenza, rigidamente e orgogliosamente chiusa nella consapevolezza della superiorità del cattolicesimo rispetto alle altre religioni, siano esse quella ebraica, quella protestante o quella islamica. Anche in ciò lontano dalle tendenze teologiche più moderne, Messori sembra divertirsi a far provocatoriamente boccacce all’ecumenismo. Si può forse tentare un giudizio formale di questa scrittura in cui stile e pensiero si porgono vicendevolmente soccorso, cementandosi in un tutto inscindibile: Messori stesso dà al proposito tre consigli per attuare un buon giornalismo e per preparare omelie d’effetto: semplificazione, cioè riduzione di ogni articolo ad un solo tema, che va smontato e svelato negli ingranaggi più nascosti; personalizzazione, cioè mettersi in gioco, parlare in prima persona; drammatizzazione, quindi cercarsi un antagonista da confutare e combattere, sia esso «un uomo, un’idea, il peccato che è in noi». Con il risultato che gli scritti di Messori sono concreti e di conseguenza anche nella forma suffragati da frequenti esempi o citazioni. Nel contenuto, il nostro autore ricorda lo sprezzo della modernità di un Ceronetti, gli strali rabbiosi contro il senso comune di un Cioran, l’astio verso la stupidità di un Canetti; caustico e diretto, mai conciliante o diplomatico, sa di attirarsi meno fulmini di quelli che scaglia. E gli oggetti della sua polemica sono tanti, e di successo, e vincenti: dal turismo di massa («nuovo, oppressivo obbligo sociale, potente devastatore antropologico e culturale»), alla rivendicazione gay e femminista, alla falsificazione attuata dai media sui dati scientifici, all’ecologismo fanatico, che più di ogni altra cosa sembra catalizzare le rabbie feroci di Messori, molto spesso sacrosante. Chi sceglie Messori come avversario sa di trovarsi di fronte a posizioni ben nette e tranciate senza sfilacciamenti, spesso a un’ironia feroce poco disposta a patteggiamenti. I mulini a vento contro cui combatte questo Don Chisciotte dell’Eucarestia, sono tanti e giganteschi, camaleontici soprattutto nella fazione in cui lo stesso Messori si situa. E allora giù bordate sulla burocrazia clericale, che rischia di soffocare con la sua elefantiasi lo scarso clero superstite, sull’enorme quantità di documenti, discorsi, encicliche che «assedia il piccolo gregge», sul cedimento teologico e catechistico che tende a ridurre la nostra fede a «un cristianesimo asettico, sterilizzato, tutto nei limiti del gusto da borghesia del terziario: una fede presentabile in società». E ancora, imbarazzanti difese d’ufficio delle pagine considerate più buie della storia del Papato, come la difesa argomentata di Papa Alessandro VI Borgia. Di fronte a tanto fervore savonaroliano, anche un miscredente qualsiasi e i tanti «cristiani della domenica» si trovano a leggere con ammirato stupore pagine di ardente animosità sulla fede, sulla necessità di «irrompere in chiesa» per affermare la generosa follia del messaggio divino, contro il buon senso, il tiepidume. Messori non annacqua la parola evangelica, la rende se possibile più cruda, pronuncia a voce chiara e forte il suo «credo quia absurdum», al punto da non sorridere all’ipotesi che l’ebreo errante esista davvero, che circoli qualcuno tra di noi che è stato testimone della vita di Gesù: «Possiamo anche fidarci, scommettere sul sì, accettare quella dimensione cui la ragione ci ha portati, ma che alla fine la travalica: non la contraddice, la supera…». Credere l’incredibile, altrimenti che fatica, che vanto ci sarebbe nel definirsi cristiani? Messori mette in crisi gli incerti, provoca i disinvolti laicizzanti, manda in tilt femministe radicali da mezza tacca, scrivendo banalità urtanti e offensive mescolate a verità trasparenti e sconvolgenti. Giù il cappello davanti a tanta spietata e faticosa coerenza.

«L’Arena», 30 dicembre 1993

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SAPIENZA

GOLIARDA SAPIENZA, L’UNIVERSITA’ DI REBIBBIA – EINAUDI, TORINO 2012

Einaudi ristampa dopo trent’anni il romanzo che Goliarda Sapienza (intellettuale, attrice, femminista siciliana: donna libera e anticonformista) scrisse dopo la sua detenzione a Rebibbia per furto. Si tratta di pagine dense e veloci, dettate da un’ansia di resoconto e confessione che sopraffa anche la riflessione su ciò che significano colpa e castigo, pena e riscatto. «A sirene spiegate» l’autrice viene introdotta nel carcere, dapprima in una cella isolata, costretta in un silenzio e in un’immobilità innaturali che debilitano da subito anima e corpo e annullano qualsiasi fantasia o progettualità di futuro. Quindi trasferita in una cella comune, costretta a una promiscuità fisica e di pensiero che dapprima la sconcerta e spaventa, ma lentamente finisce per conquistarla a una consapevole, riconoscente solidarietà. Le sue compagne di prigionia appartengono in genere al popolo, si esprimono in romanesco, con un gergo colorito e iniziatico: sono condannate per spaccio di droga, furto, rissa, prostituzione, omicidio. Ma ci sono anche le detenute politiche, con una loro rabbiosa coscienza critica e utopistica. Hanno soprannomi di fantasia: Marilyn, Mamma Roma, James Dean, Annunciazione, Suzie Wong… Si amano e si odiano tra di loro, si picchiano e si denunciano alle guardiane, si invitano vicendevolmente nelle celle a prendere il tè, organizzano un loro mercatino interno, scrivono leggono cantano e imprecano, o vivono in una sorta di immobile catatonia. Ma le differenze di classe e di cultura rimangono inalterate come nel mondo di fuori: «Qui dentro noi privilegiati dalle famiglie, protetti fin da bambini dal bisogno vero, restiamo larve anemiche, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, a confronto di questa masnada di bucanieri che in un modo o nell’altro non s’è piegata ad accettare le leggi ingiuste del privilegio».

Una scuola di vita, anzi un’ università da cui si esce marchiati per sempre, diversi, e convinti che non si esiste se non nella collettività.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

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VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, LIBRO DELLE LAUDI – EINAUDI, TORINO 2012

Questo nuovo, esile, volumetto di poesie di Patrizia Valduga, con dedica iniziale a Giovanni Raboni, «infinitamente amato», è suddiviso in tre sezioni, formalmente del tutto omogenee ( si tratta sempre di distici in endecasillabi), ma diverse nei temi, nei toni e nei destinatari cui la poetessa si rivolge. La prima parte, che ricalca modalità delle litanie e delle laudi medievali, fino ad imitare le giaculatorie popolari della devozione cattolica a noi più vicina, è tutta dedicata alla malattia e alla morte del suo compagno, che viene scongiurata, maledetta, temuta, ricattata, in versi che talvolta raggiungono l’altezza della perfezione («che tu sei il mio permesso di soggiorno / per dovunque, non solo per Milano», «Hai raddrizzato questo cuore storpio / restando muto, immobile e lontano», «Io sempre al limitare del mio niente»), altre volte si limitano a risultati un po’ troppo facili e banali: «Signore di ogni tempo di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita», «Sono preghiere, versi veri e vivi, / perché tu viva, amore. Amore, vivi!». La seconda parte scandaglia le ragioni di un’angoscia esistenziale che attanaglia l’autrice dalla primissima infanzia, e che ha trovato requie e scampo solo nella solidità rassicurante del suo amore per Raboni : «Adesso, amore, metti insieme tutto :  / angoscia e rabbia, panico e piacere», «Ma questo male impresso nella mente / mi ha portato da te, vero?, Giovanni…», salvandola da memorie di violenze, malattie, sessualità precocemente vissuta e patita, più di qualsiasi terapia psicanalitica. La terza sezione del libro ritrova l’amaro sarcasmo e l’invettiva di prove precedenti di Patrizia Valduga, quando depreca «la prosaglia di tutti i giornalisti», e la cultura modaiola, effimera, superficiale che ormai domina Milano e l’Italia, escludendo dai suoi giri verità e grandezza. Ma da tutto il libro il lettore ricava il sospetto di un compiaciuto concedersi a una sorta di atteggiato manierismo, assolutamente scaltrito nei suoi esiti formali, ma alla fine simile a un collaudato esercizio di retorica, che perciò suona poco autentico, poco sincero.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

RECENSIONI

FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PARIGI, SENZA PASSARE DAL VIA – LATERZA, BARI 2013

«I miei erano molto preoccupati, in quel 21 giugno del ’91, perché non avevo un lavoro, non parlavo la lingua e non eravamo ricchi di famiglia. Io mi ricordo soltanto che ero partito con la valigia da mimo, di cartone puro, che scendendo dal treno si era rotta, aperta in due, come se quei milleduecentonovantuno chilometri se li fosse fatti tutti da sola».

Non è l’amarcord di un tradizionale emigrato che dal nostro sud abbia cercato lavoro e successo all’estero, ma la rievocazione antiretorica che Francesco Forlani fa della sua partenza da Caserta, dopo la laurea in filosofia, per raggiungere Parigi: città-mito in cui ha cercato riparo e consolazione, soprattutto intellettuale, al sorgere del ventennio berlusconiano, e dove saltuariamente risiede tuttora. I trentatré capitoli in cui si suddivide questo vivacissimo e coinvolgente romanzo sono scanditi logisticamente secondo i suoi spostamenti (abitativi-lavorativi-trasgressivi-esistenziali) nei vari arrondissements della metropoli francese. Quindi dalla sua abitazione in un sottotetto «pittoresco e basso» (con travi a vista, cesso che si ottura in continuazione, invasione di blatte e una seducente vicina tentatrice), condivisa con l’amico scrittore Massimo Rizzante, il giovane e vulcanico Francesco si muove inquieto e perennemente affamato – di cibo, letture, sesso, amori, incontri – nei vari quartieri parigini, circondato da un universo cosmopolita di personaggi dalle occupazioni più varie: librai, cuochi, poeti, jazzisti, grafici, manovali. Sulle orme di altri celeberrimi stranieri che avevano fatto della città la loro patria (Cioran, Hemingway, Cvetaeva, Modigliani, Henry Miller, Anaïs Nin…), questa banda squattrinata insegue il sogno di fondare una rivista letteraria,  La bête étrangère, e il miraggio di un riconoscimento non solo culturale, ma vivaddio magari anche economico. Tra lezioni private di italiano, performances teatrali, occupazioni saltuarie e spesso umilianti, i protagonisti del libro trascorrono il loro tempo in avventure varie, pigiati nei metrò o sfidati da estremisti di destra a colpi di forchetta in un ristorante, in lavanderie a gettone o in musei e biblioteche, negli uffici finanziari dell’Unesco o al cimitero di Père-Lachaise, sui boulevards o nei parchi lussureggianti del centro. In una Parigi in cui però scoppiano anche le bombe, e si viene costretti a passare la notte in un commissariato per schiamazzi, o ancora si accompagna una ragazzina italiana in ospedale perché si sottoponga a una inutile e crudele terapia di chemio. Cementati da un’amicizia solidale e incrollabile, da un’utopistica fede nell’arte e nella letteratura come panacea dalla fatica di vivere, i personaggi di Forlani abitano questo «immaginario Monopoli parigino»» senza passare dal via, ma anche senza arrivare mai a una meta definitiva. E se i genitori dell’autore lo raggiungono, intimoriti e orgogliosi, nella metropoli trovandolo «sciupato», ecco che torna la tentazione ricorrente di un rientro alla base, di una sistemazione più tranquilla e appagante (tentazione a cui cede l’amico più caro, Massimo, lasciando Francesco nel baratro di una sconsolata solitudine). Ma è più giusto e poetico resistere, rimanere attaccati a un desiderio di libertà e sradicamento da confortanti abitudini borghesi: «Chiunque cerca chiunque e, quando l’ha trovato, il vento lo riporta dovunque», creando dalla propria esperienza una suggestiva e scoppiettante mappa letteraria, ad uso e consumo di lettori curiosi e non conformisti.

 

«incroci on line», 14 maggio 2015

RECENSIONI

GUERRI-MAGLI

GIORDANO BRUNO GUERRI, POVERA SANTA, POVERO ASSASSINO – MONDADORI,
MILANO 1993

IDA MAGLI, SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA – GUANDA, MILANO 1993

Meritano un’unica riflessione due libri usciti quest’anno, uno prima dell’estate, l’altro poche settimane fa. Libri di diversa mole, diverso impianto formale e concettuale, diverso autore: Giordano Bruno Guerri, storico-polemista-studioso del costume, ha ripubblicato una sua ricerca sulla santità di Maria Goretti che aveva fatto scandalo otto anni fa; Ida Magli, docente universitaria-giornalista-antropologa (quindi dotata del riconosciuto diritto a esprimersi con indiscutibile competenza su tutto: uomo donna sesso scienza religione, e chi più ne ha più ne metta) ha rielaborato alcune sue recenti prese di posizione sulla violenza perpetrata sulle donne dal pensiero cattolico. Questi due volumi hanno il comune denominatore di parlare di donne (e pertanto di sesso: i due termini sono ormai diventati su qualsiasi pulpito un’endiadi indissolubile), ma mirando soprattutto a colpire la coercizione culturale, la violenza sociale, lo sfruttamento ideologico messo in atto dalla gerarchia ecclesiastica nei riguardi del mondo femminile. Giordano Bruno Guerri ha condotto un’operazione a nostro parere legittima già nella sua contestatissima edizione dell’85, compiendo ricerche, effettuando rilievi, dibattendo teorie riguardo alla morte e alla successiva santificazione di Maria Goretti. Il suo era, allora come ora, un libro a tesi, intento a dimostrare che «esibita come martire della purezza, fu invece martire della miseria e dell’ignoranza, come il suo assassino. Perché Maria non ha mai contato, non ha mai voluto o potuto, in vita e in morte, prodotto e vittima di sistemi a lei misteriosi». Opinabile, se si vuole, tuttavia legittimamente perseguita e dimostrata: per contrastare le tesi di Guerri, Giovanni Paolo II istituì una Commissione di studio che riscontrò nella narrazione ben 79 errori di documentazione o falsificazioni. A tale analisi ora Guerri risponde ripubblicando il libro senza alcuna variazione, ma aggiungendo alla fine un capitoletto in cui si difende da ogni confutazione degli esperti, e così compiendo un’operazione editoriale scaltra e meditata, perché il suo lavoro, anche se può infastidire per quel tanto di pruriginoso che si avverte tra le righe, è comunque un buono scoop giornalistico, vivace e coinvolgente.
Ben altra è la portata del libro di Ida Magli, che si presenta, già dalla lettera aperta di prefazione, più violento, duro, ideologicamente motivato e armato del pamphlet di Guerri. Anche lo stile è diverso: asseverativo, perentorio, aggressivo, molto molto più “virile” di quello, addirittura impositivo. L’obiettivo dichiarato è, anche qui, la difesa della donna, anzi delle donne come soggetti storici: in realtà il sesso femminile è un pretesto, che appare solo nella seconda parte del volume, per un attacco feroce e mirato al pontificato di Wojtyla. Ida Magli discute, contesta, affronta polemicamente, con le armi della dottrina e dell’ideologia, ma soprattutto con quelle più caustiche e inusuali (visto l’oggetto della polemica) del sarcasmo, dello sfottò cattivo, il Papa polacco, criticato non solo nel suo ruolo e nel suo carisma, ma anche come figura umana («Wojtyla è un vincente… un uomo autoritario che non ammette il minimo dissenso… un uomo terribile, un capo assoluto, totalitario…»). Il Papa è inchiodato a un cliché vignettistico, in cui i tratti che più lo delineano sono la potenza, la virilità, il delirio di onnipotenza, la “polonità” come destino di sacrificio, sofferenza ed eroismo, che secondo la Magli lo avvicina nello spirito a Chopin: questi genio, Wojtyla eroe di una stessa idea mitica della Polonia. La studiosa in queste pagine animate da una ferocia spropositata, di cui forse solo lei capirà le motivazioni più profonde, arriva a scrivere banalità sconcertanti per convalidare delle affermazioni su cui siamo tutti d’accordo: che la Chiesa cattolica sia malata di misoginia (ma non più di tutte le altre religioni mondiali), che la donna sia tuttora ridotta alla sua funzione biologica, e valutata in base all’uso che fa del suo sesso (e purtroppo non solo dalla Chiesa, ma anche dallo Stato, dalla società civile laica e rampante, ecc.), che la corporeità sia erroneamente e ossessivamente appiattita nella funzione copulatoria…Si tratta di considerazioni talmente vere e risapute, che non si capisce perché la Magli ci si accanisca con tanto fervore. Sulla posizione contestata e difficilmente condivisibile di Wojtyla riguardo agli stupri delle donne bosniache, abbiamo letto pagine sottili e più convincenti nella loro correttezza, di quanto non siano i parossismi della Magli. Giustamente l’autrice dedica la prima parte del libro a una dotta dissertazione sul potere che, da sempre, trova la sua giustificazione e la sua radice nel sacro (inteso come codificazione del controllo, dell’autorità, espresso «con norme coercitive e sacrificali»): ma tale non è solo il potere religioso, quanto tutti i poteri, politici, economici, militari e, perché no, della cultura accademica o giornalistica, quando si paluda di sacro per mantenersi inaccessibile, incontestabile… Non solo la Chiesa, quindi, non solo Wojtyla usano il sacro – e il potere – contro le donne. Baudelaire, immaginoso, rivoluzionario, grande poeta dell’800, scriveva in  Mon coeur mis a nu  questa stupidissima frase: «Mi sono sempre stupito che si permettesse alle donne di entrare nelle chiese. Che conversazione possono mai avere con Dio?» Ridiamo di questa idiozia di uno spirito sublime, e leggiamoci le conversazioni con Dio di un’altra grande, Simone Weil, donna, ebrea, quasi convertita al cattolicesimo. Baudelaire ha scritto ancora: «I miscredenti se non temessero nulla, riderebbero. Se si arrabbiano, è perché temono». Ida Magli è troppo arrabbiata.

«L’Arena», 9 dicembre 1993

RECENSIONI

PENTICH

GRAZIANA PENTICH, I COLORI DI UNA STORIA – SCHEIWILLER, MILANO 1993

Si è tenuta a Pavia, nella Sala dell’Annunciata, la mostra “I colori della storia: Alfonso Gatto, poesia e pittura”, curata sapientemente da Anna Modena. L’esposizione ha offerto al pubblico immagini e documenti messi a disposizione dalla compagna del poeta campano, Graziana Pentich. La mostra, e l’elegante volume edito da Vanni Scheiwiller, che ne è spunto, catalogo e sintesi, narrano tredici anni di una vita e di un amore che si intuiscono lacerati e regali, addirittura oltraggiosi nella loro ricerca dell’assoluto. Come tanti, si dirà. Certo, ma questa storia ha qualcosa di più tragico e necessario insieme, che brevi cenni biografici basteranno a illuminare. Alfonso Gatto e Graziana Pentich si incontrano nel dopoguerra, lei pittrice triestina, lui già noto e inquieto poeta dai vasti orizzonti: passano insieme vent’anni, «sempre in piedi sul ciglio di un abisso, ma col coraggio noncurante e divertito degli equilibristi». Hanno un figlio, Leone, «bello e prodigioso, forte e cattivo, delicato, come è la vita, come deve essere». Gatto muore in un incidente stradale nel ’76, il figlio si uccide tre mesi dopo. Per dieci anni, Graziana Pentich si vieta anche solo il recupero mentale di un passato irripetibile e miracoloso, rifiutando ostinatamente la consolazione della memoria. Ma poi le si impone l’esigenza di un risucchio dal nulla e di una comunicazione illuminante agli altri della sua esperienza: «I buoni, i cari gesti della vita resistevano intatti in quegli sparsi disegni e dipinti ritrovati: ogni figura rimossa dal buio e dal disordine alla luce chiamava a sé altre figure, moltiplicava i gesti, le voci, i passi perduti…».

Il volume si apre con lo schizzo di alcuni nomi preparati per il bambino che sta per nascere. Tra essi campeggia, perentorio nel suo stampatello, quello poi effettivamente scelto di Leone, «un nome che avrebbe arricchito di felinità il cognome Gatto». Dopo 280 pagine, il libro si chiude su un ritratto della madre fatto dal figlio dodicenne. In mezzo, riproduzioni di circa trecento disegni, acquerelli, ritratti, poesie, lettere, che stordiscono il lettore quasi con una continua febbre, lo emozionano come la rivelazione di un incanto che si sa destinato a spezzarsi. L’artista che ricompone e cuce gli strappi, che tenta di raggiungere nell’appagamento dei colori un lembo di serenità è lei, Graziana Pentich; e i suoi dipinti sono densi, pieni, sicuri di un bene che si conosce sicuro: orgogliosi della bellezza del figlio, carichi di stupore verso le cose e i colori della vita. Poi ci sono i disegni di Leone, questo ragazzino sorprendente che a otto anni era in grado di raccontare suo padre intero con pochi tratti di matita (Babbo col basco), e di scrivere dediche come questa: «Caro babbo, auguri al tuo quarantottesimo anno di vita, di scrittore e poeta. Il mese quando tu sei nato è caldo come sei tu quando ti arrabbi. Il mese di luglio è bello quanto te babbo perché ha i fiori rossi gialli blu, i vestiti gai dei bambini».

Un bambino che sembrerebbe dover sparire tra un padre e una madre talmente e prepotentemente intensi, e che invece si staglia nitido e imperioso come il suo nome, nobile anche nelle sue impazienze, nei capricci. Infine, il pennello di Alfonso Gatto, che dipinge smanioso e stralunato paesaggi liguri e lacustri, facce tormentate e chiosate con ironia (Graziana che cerca di imitare Alfonso): dipinge quasi per voglia di possesso, per pura brama di vita: «L’irresistibile attrazione che la vista in casa di tavolozze, colori e pennelli esercitava da sempre sul poeta si era addirittura concretata in un suo tacito diritto a impossessarsi di quegli strumenti di lavoro, che in verità appartenevano alla sua compagna. Lei, anche se a malincuore per via dei sicuri strapazzi cui andavano incontro i suoi gelosi, e costosi, materiali per dipingere, lasciava fare un po’ complice, un po’ stregata da quei rapinosi estri del poeta. E finì per considerare questo strano caso, che il più gran gusto di lui doveva essere proprio in quel gioioso, fanciullesco saccheggio dei suoi beni».

La visione di queste immagini, la lettura di questi brani è uno squarcio nella esistenza di questi tre personaggi forti, che sembrano spiarsi in ogni piega dell’anima, che in qualche modo si cibano misticamente di se stessi, sbranandosi per troppo amore.

 

«L’Arena», 2 dicembre 1993

 

RECENSIONI

EGAN

JENNIFER EGAN, SCATOLA NERA – MINIMUM FAX, ROMA 2013

Cosa non si fa, ormai, per attirare l’attenzione dei lettori: o per mantenerla, magari dopo aver scritto un romanzo di successo, ed essere alle prese con l’impegnativa necessità di un bis… E’ il caso di questo smilzo libriccino di Jennifer Egan, pubblicato dopo il Pulitzer vinto con Il tempo è un bastardo. Smilzo e faticoso, a dispetto delle intenzioni: sì perché questa originale spy story è scritta secondo i dettami di Twitter, sotto forma di brevissime indicazioni fornite da fantomatici servizi segreti americani a un’ altrettanto fantomatica spia in gonnella, addestrata per incastrare un criminale ricercato a livello internazionale, e blindato in una lussuosissima villa-fortezza costruita su una misteriosa isola del Mediterraneo. La bellezza in questione (fornita di microcamera mascherata nell’occhio sinistro, di un microfono «oltre la prima curva del canale uditivo destro» e di un chip impiantato sotto l’attaccatura dei capelli), ha l’incarico di sedurre il boss miliardario per carpirgli non si sa bene quali fondamentali informazioni strategiche: e lo fa con tattiche muliebri piuttosto scontate. Sinuose nuotate in mare, atteggiamenti provocanti, dialoghi superficiali («Talvolta una risatina è meglio di una risposta»), fino all’agognato congiungimento sessuale, durante il quale la protagonista è invitata dall’agenzia spionistica ad avviare una «tecnica dissociativa» che la preservi da un eccessivo coinvolgimento. Essendo queste formulazioni narrative limitate a non più di 140 caratteri, ovviamente ogni descrizione risulta di una banalità sconcertante («Un cielo azzurro è insondabile come il mare»; «Bisognerebbe sempre lavarsi i denti, prima di cena»; «L’obiettivo è essere una sorpresa continua, leggiadra e innocua»); le vicende abbozzate; i personaggi privi di qualsiasi spessore; il plot inesistente. L’unico giallo per il lettore è dove trovare «il ritmo e la suspense dei migliori film d’azione», come promette il risvolto di copertina.

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014