Mostra: 1511 - 1520 of 1.629 RISULTATI
RECENSIONI

SHAPIRO

BRETT SHAPIRO, L’INTRUSO – FELTRINELLI, MILANO 1994

Di Giovanni Forti, corrispondente da New York per L’Espresso, morto di Aids nel 1992, molti ricorderanno un coraggioso reportage-diario sulla sua agonia, cosciente e combattuta, pubblicato dal settimanale, e una straziante intervista televisiva con Enzo Biagi. Ci avevano impressionato i suoi occhi mobilissimi e stanchi, i tratti tirati, la voce affaticata ma intenerita con cui parlava di sé, del suo essere ebreo e omosessuale, del suo compagno e dei suoi bambini: ma anche di flebo e diarree, di reazioni fisiche mortificanti, della sua voglia di non arrendersi. L’annuncio, dopo poche settimane, della sua morte, ci aveva toccato non solo dal punto di vista umano, ma anche culturalmente, con la consapevolezza di aver perso una voce anticonformista e stimolante.
Ora Brett Shapiro, che aveva diviso con Forti gli ultimi due anni di vita, pubblica presso Feltrinelli un libro che è omaggio al suo compagno e insieme narrazione spietata di un lento, inevitabile soccombere alla malattia: ne è derivata una «storia d’amore della fine del nostro secolo» (come scrive Rossana Rossanda nella sua lucida e partecipe prefazione), più qualcosa d’altro. Una sfida al nostro perbenismo sempre in agguato, uno schiaffo al pregiudizio, un pungolo all’apertura della mente. Giovanni Forti (romano trentaseienne di origine ebraica, ex redattore de Il Manifesto, ex marito di Giovanna Pajetta, padre a tempo pieno dell’undicenne Stefano) incontra a New York tramite un annuncio sul giornale Brett Shapiro, intellettuale suo coetaneo e padre di un bambino adottivo. Forti è da anni sieropositivo, e non nasconde la sua condizione all’amico, che l’accetta insieme a tutte le inevitabili conseguenze: i due decidono di convivere, coinvolgendo nella loro scelta non solo i due figli, ma anche le famiglie d’origine, sempre incombenti e affettuose, totalmente comprensive, e di arrivare addirittura al matrimonio ebraico con rito tradizionale. Di fronte a un rabbino newyorkese, Brett e Giovanni si sposano sotto la huppah, recitando le formule della torah e calpestando i bicchieri di vetro, festeggiati da amici e parenti. Il desiderio di essere una famiglia “vera” è a tal punto impellente, insopprimibile, da richiedere il sigillo del rito, il ritorno alla tradizione più conservatrice e severa, quella della religione ebraica. E ciò che ai nostri occhi cattolicamente italici pare più incredibile, è la totale naturalezza con cui questa scelta viene accettata e condivisa dall’ambiente familiare e culturale che circonda i due compagni: così come ci sconcerta la scelta del coinvolgimento dei due bambini in un ménage tanto diverso dai soliti, non solo ideologicamente, ma proprio nelle abitudini quotidiane, nel sovvertimento dei ruoli, nella divisione dei compiti maschili e femminili. Ci imbarazza la presenza, molto americana e assidua, e per niente ironica, dell’analista-donna, delegata a risanare i traumi, a superare le divergenze in ogni occasione difficile della vita a due; ci infastidisce a volte l’esibizione provocatoria di un epistolario domestico che sembra ingiustificatamente diffuso su episodi troppo particolari e personali. Ma non si può negare al libro la capacità concreta di scuoterci prima ancora che di commuoverci con il resoconto del graduale spegnersi della vita di Giovanni e con la dedizione assoluta, generosa e appassionata di Brett al destino del suo compagno, al punto di convincerlo ad accompagnarlo a Roma, ormai sulla sedia a rotelle, perché lui possa morire dove desidera, tra i suoi, e riposare nel settore ebraico del Verano. Lo strazio della morte di Giovanni risulta dai fatti raccontati con asciutta veridicità, e lo riviviamo un po’ tutti perché ormai sappiamo (chi più chi meno) cosa significa assistere un malato terminale. Eppure davanti a questa morte così accoratamente pianta, ci ritroviamo più fragili e vulnerabili, e allora “ebreo”, “gay”, e quant’altre definizioni si vogliano, appaiono appunto quello che sono: etichette.

 

«L’Arena», 17 febbraio 1994

RECENSIONI

MARTINI

CARLO MARIA MARTINI – ALAIN ELKANN, CAMBIARE IL CUORE – BOMPIANI, MILANO 1993

Cambiare il cuore è l’esortazione che rivolge a tutti i credenti il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in un’intervista concessa ad Alain Elkann e pubblicata da Bompiani. Cambiare il cuore prima ancora dei pensieri e degli atteggiamenti, prima ancora delle abitudini e degli scenari su cui si muove la nostra quotidianità: ed è un cambiamento che si attua ponendosi soprattutto in una posizione di silenziosa e fiduciosa attesa, di disponibilità all’incontro con Dio che, se aspettato con fede, arriva e non delude. Incalzato dalle domande, sempre molto corrette e trattenute, quasi pudiche, di Elkann, il Cardinale Martini si lascia coinvolgere dalle tematiche più varie, spaziando dalla banalità del contingente all’universalità, dal concreto alla teoria. Accenna brevemente ad alcuni particolari biografici (la nascita a Torino da una solida famiglia borghese non particolarmente religiosa, il rapporto più intenso con la madre e un fratello, la passione per la montagna e per il teatro), per soffermarsi più a lungo sulle scelte fondamentali che hanno disegnato i confini della sua esistenza. Dapprima, quindi, la presa di coscienza di quale destino lo aspettasse: «Mi sembra che sia stato tra i dieci e gli undici anni, quando ho incominciato a intuire che Dio voleva davvero entrare in un rapporto personale con me, che io potevo parlargli come a un amico, che c’era tra noi una vera amicizia. In quel tempo ho anche cominciato ad avere il senso della ‘totalità’ di Dio, cioè la percezione che Dio è tutto e può chiedere tutto, la dedizione di una persona e della sua intera esistenza».

In seguito, con la giovinezza, più espliciti si fanno i punti di riferimento culturali, le letture, gli esempi che emozionano e motivano (S. Tarcisio, S. Luigi Gonzaga, S. Stanislao Kostka), per arrivare ai problemi e alle tentazioni adulte su cosa sia la fede, su come conquistarla e mantenerla, narrati attraverso la pregnante metafora dello scalatore sorpreso da un banco di nebbia, e che pure, attaccato alla roccia, attende il ritorno del sole. Con estrema umiltà, il Cardinale confessa quanto può essere difficile oggi esercitare il sacerdozio: «Certo, vi sono stati momenti in cui l’esperienza di essere prete e religioso mi è apparsa particolarmente faticosa, al limite della sopportabilità…ma gli anni non hanno fatto che confermare la bontà della scelta presa all’inizio». Consapevolezza della propria finitudine di creatura, ma anche coscienza di un’ineliminabile tensione all’infinito, che si può raggiungere attraverso la riflessione e il silenzio: «Senza silenzio mi sento dilacerato dalla molteplicità delle cose che mi cadono addosso e che vorrebbero monopolizzarmi. Ho dunque bisogno dell’ascolto di Dio così come ho bisogno dell’aria per respirare».

Ciò che ci sembra più particolarmente e generosamente aperto alle istanze religiose dell’uomo d’oggi, è che il Cardinale Martini torni a parlare delle questioni fondamentali della fede (vita e morte, peccato e redenzione, Chiesa e altre religioni), senza immiserire il dibattito in questioni formali tanto di moda tra altri teologi: la sessualità è un dono, e Martini non parla di limitazione delle nascite; l’aids è una tragedia, e i suoi malati sono fratelli da accogliere, da comprendere. Parole coraggiose anche nei riguardi dei poveri, di chi non ha lavoro, della sua diocesi di Milano e di tutte le questioni politiche, metropolitane e planetarie che siano. Ma soprattutto un richiamo forte e cordiale a chi pratica altre religioni (in primis l’ebraismo), effettuato materialmente con la fondazione della  Cattedra dei non credenti, ormai alla VI edizione in Milano, affinché il confronto riesca ad approdare a una ricerca comune. Il tono di ogni risposta di Carlo Maria Martini è affettuoso, indulgente, senz’altro non dogmatico, di sprone alla nostra potenzialità di arricchimento, ben sapendo che la «fatica del vivere» è di tutti: la nostra, quindi, ma anche la sua, «perché anche coloro che hanno ‘un ruolo’ la condividono senza sosta né sconti con ogni uomo e donna, vecchio e bambino, malato e disperato della terra».

 

«L’Arena», 3 febbraio 1994

RECENSIONI

COCTEAU

JEAN COCTEAU, IL CAMMINO DI UN POETA – ARCHINTO, MILANO 2015

Questo ultimo (e postumo) libro di Jean Cocteau vide la luce in Germania (paese che il poeta riteneva più ricettivo della Francia, «con il suo retaggio filosofico, metafisico e metapsichico») nel 1953, e solo oggi l’editrice Archinto ce lo propone con un’esaustiva prefazione di David Gullentops. Non propriamente un’autobiografia, né un libro di memorie: piuttosto, una serie di illuminanti considerazioni sull’esistenza, sull’arte, sulla creazione di chi ha fatto della poesia la sua missione. A partire da una rivendicazione esplicita al diritto di invenzione e ricostruzione fantastica della propria vicenda umana: «Il poeta cammina avvolto da una nebbia di inesattezza, di parole mal comunicate, di atti che non ha commesso, di leggende». Chi scrive è destinato a non essere compreso dai lettori («Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova. Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda.»; «Quel che accade nell’anima di un poeta è lontano e incredibile»), è individualista ed eretico («Io sono un anacronismo. Un uomo libero»), si allontana da ogni norma, «si accanisce a disobbedire», sempre in cerca di «un vero che non è quello degli altri». Cocteau racconta la sua nascita nel 1889 nel Seine-et -Oise «da una famiglia semplice e amabile», segnata da «un misto di conformismo e anticonformismo», e subito modifica o censura alcuni eventi biografici fondamentali, come il suicidio del padre. Si sofferma sulle amicizie parigine degli anni ’20, sugli incontri arricchenti (con Stravinskij, Picasso, Radiguet, Satie, Proust, Rodin, Maritain, Apollinaire, Jacob, Modigliani, Cendrars, Poulenc), e su quelli più conflittuali con Gide o Mauriac. Da tutti loro assorbe «un’audacia interna invisibile», che lo fa «correre più veloce della bellezza» e gli insegna «quell’insulto alle abitudini senza il quale l’arte ristagna e resta un gioco». Da allora Jean Cocteau entra «in lotta contro se stesso e contro gli altri», ma solamente con l’intento di raggiungere un unico scopo, quello che ogni artista si deve prefiggere: arrivare a comprendere «l’estremo di sé», le proprie ossessioni, ma anche il proprio inesauribile e imperdonabile desiderio di felicità e di amore, immodificabile come ogni destino. L’arte con cui si confronta non è solo quella della scrittura: umilmente impara a tentare le vie sconosciute della pittura, della cinematografia, del teatro, e addirittura della fabbricazione artigianale di arazzi. Perché misurarsi con la creazione significa annullarsi a favore della propria opera, farsi sacerdoti di una possessione e di un’energia irrazionale simile all’inconscio desiderio erotico, collezionare «le più grandi ingiurie e i più grandi elogi», ben sapendo però che «la libertà trova sempre la sua ricompensa».

«succedeoggi», 7 aprile 2015

RECENSIONI

JUNG

CARL G. JUNG, RISPOSTA A GIOBBE — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2012

«Il libro non dev’essere altro che l’interrogante voce di un singolo, che spera o attende d’incontrare la pensosità dei suoi lettori». Così scriveva Carl G. Jung nel tentativo di giustificare «scherno e sarcasmo» spesso affioranti in questo suo volume del 1952, in cui si era proposto di affrontare da psichiatra i dilemmi fondamentali della visione religiosa, quali si esprimono nelle Sacre Scritture.
E soprattutto di approfondire la questione più problematica e imbarazzante per chi crede, cioè la giustificazione del male e della sofferenza, e la loro conciliazione con la fede in un Dio buono e paterno. Partendo quindi dall’esame del libro di Giobbe, e da questa figura emblematicamente giusta e pia, costretta a patire crudeli sofferenze morali e fisiche, che ardisce interrogare Yahwèh, e «attende aiuto da Dio contro Dio», lo psicanalista svizzero prende quasi rabbiosamente le parti del mite oppresso, dell’uomo indifeso e perseguitato, contro la «selvatichezza e perversità divina… un Dio smodato nelle sue emozioni… roso dall’ira e dalla gelosia». La colpa di Giobbe, secondo Jung, risiede nella sua coraggiosa intelligenza e indipendenza di giudizio: «Giobbe individua l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale raggiunge essa stessa una numinosità divina». Nella sua istintiva identificazione con il personaggio biblico, Jung mena fendenti rabbiosi contro la potenza sovrumana del creatore: «Quest’uomo abbandonato, indifeso e senza diritti, alla mercé del suo nemico, appare a Yahwèh tanto manifestamente pericoloso da ritenere necessario demolirlo con i colpi della sua artiglieria più pesante».

E quindi l’ansia esegetica dello psicanalista arriva polemicamente ad affrontare non solo le intenzioni inconsce di Dio (talmente invidioso dell’uomo da volersi incarnare nel Figlio), ma tutta la storia dell’Antico e Nuovo Testamento, e addirittura dei testi apocrifi (quindi parte della Genesi e il Libro di Enoch, Ezechiele e il Salmo 89, i Vangeli e l’Apocalisse) e dei più importanti protagonisti delle Scritture.
Di tutti Jung traccia ritratti impietosi. «Nel carattere di Cristo si fa notare una certa irascibilità e, come spesso avviene nelle nature emotive, pure una certa mancanza di autoriflessione»; «Pietro possiede poco dominio di sé e un carattere instabile»; «Paolo appartiene a quelli il cui inconscio era in preda a turbamento e dava luogo a delle estasi di rivelazione», «Giovanni potrebbe avere facilmente dei cattivi sogni che non appaiono nel suo programma cosciente… una vasta rete di risentimenti e di pensieri di vendetta».

In queste personalità poco equilibrate, in preda a irrazionali e ingestibili turbamenti, Jung rileva un fondamento comune a tutti i tipi psicologici religiosi: «Nell’inconscio è presente tutto quanto è stato respinto dal conscio, e quanto più il conscio è cristiano tanto più l’inconscio si atteggia a pagano». Forse solo di Maria, di cui nel 1950 era stato proclamato il discusso dogma dell’Assunzione, Jung riesce a salvare l’aspetto simbolico di Mediatrix archetipica, risalente ai miti orientali della Donna-Sole, della Sakti indiana, della Sophia alessandrina: mito necessario all’umanità (e incompreso dai protestanti), nella sua aspirazione alla pace, all’equilibrio, all’intercessione materna.
Tesi stimolanti, queste junghiane, anche se indubbiamente datate dal punto di vista dell’antropologia e della storia delle religioni, e comunque rivelatrici dell’ego ipertrofico di molti indagatori della psiche, sempre pronti a scandagliare isterismi e patemi altrui, individuali o collettivi, sorvolando sui propri complessi e incoerenze comportamentali.

 

«incroci on line», 5 aprile 2015

RECENSIONI

MURAKAMI

RYU MURAKAMI, BLU QUASI TRASPARENTE – RIZZOLI, MILANO 1993

Ciò che sappiamo dei giapponesi si riduce forse a una serie di luoghi comuni che fanno il paio con quanto si dice nel mondo di noi italiani. Piccoli, dai capelli lisci e neri, dalle gambe storte; lavoratori fanatici, propensi allo spionaggio industriale e al turismo intruppato, potenzialmente inclini al suicidio. Sospettiamo in loro faziosi accanimenti e tragiche esaltazioni, di cui ci riconosciamo, noi latini, paciosamente incapaci; li reputiamo più accaniti di noi in tutto, nella finanza, nella tecnica, persino nell’arte. Chi ama Jukio Mishima sa quali livelli di drammatica morbosità, mescolata a meditata epicità, sappia arrivare la loro letteratura. Spietati nell’autoanalisi (e cosa ci si potrebbe aspettare da un popolo che usa cinque sillabe per scrivere il pronome “io”? Wa-ta-ku-shi-wa!), paiono altrettanto inesorabili nella rigidezza verso l’altro. Ma ecco che può bastare un romanzo – provocatorio, inatteso e veloce come un pugno a tradimento – a ribaltare tutti i nostri pregiudizi, a metterci di fronte a un universo sconosciuto e insospettabile, in qualche modo addirittura temibile. Blu quasi trasparente  è l’opera prima di Ryu Murakami, tradotta e pubblicata da Rizzoli a vent’anni dalla sua contestata apparizione, quando il giovanissimo e trasgressivo autore era stato insignito del prestigioso premio Akutagawa, inneggiante al romanzo nuovo e scandaloso, polemicamente ostile all’immagine ufficiale e patinata dell’Impero Nipponico.
Protagonista del libro è un gruppo di giovani di cui si sa poco o niente: li si può supporre studenti, impiegati o artisti, anche se nella vicenda non si parla né di università, né di uffici, né di mostre. I giovani – tra i quali il narratore ha lo stesso nome dell’autore, Ryu, quasi ad autorizzare a ritenere il racconto autobiografico-, sembrano dediti a poche, ripetitive, ossessive attività: droga, sesso, musica. Droga a fiumi, in siringhe passate di vena in vena, o in pillole sciolte in misture micidiali, incubi e allucinazioni percorsi dall’autore in uno stravolto delirio di abbagli visivi e sonori. Sesso meccanico e violento, per lo più di gruppo e angoscioso, descritto con analitica asetticità e un’attenzione maniacale a umori, sudori e liquami vari, con una particolare predilezione per il vomito, in ogni sua forma e variante. Musica sparata a tutto volume da stereo o stadi, sottofondo indispensabile a qualsiasi vicenda riguardi la generazione viziata e incolpevole del «rock and fuck»: J.Hendrix, Led Zeppelin, Door, Rolling Stones costituiscono il leit motiv di queste pagine, e forse il solo riferimento temporale, l’unico ancoraggio ai corrosivi anni ’70 in cui sono ambientate. Il romanzo è infatti abissalmente lontano da ogni storicizzazione, da ogni ambientazione geografica. E’ un Giappone privo di qualsiasi eredità orientale – di pensiero, di immagine o di civiltà – e invece inaspettatamente vicino ai sobborghi delle grandi metropoli occidentali. I suoi protagonisti appartengono a una realtà multietnica (coreani e africani, americani e irlandesi convivono senza differenziarsi in niente) di auto-emarginazione, di polemica e disperata contrapposizione a una cultura non più riconosciuta come tale. Avevamo, vent’anni fa, visto film sullo stesso argomento (Trash, ad esempio, che aveva fatto epoca), letto libri underground di cui ci è rimasto poco, se non vaghe sensazioni di malessere, e la constatazione che oggi tutto questo è stato spazzato via, non è approdato a nulla. E ora, Blu quasi trasparente arriva a insinuarci il sospetto che se il nuovo Oriente è così, se la giovane letteratura giapponese si è tanto e tristemente omogeneizzata, meglio Mishima, Tanizaki, Kawabata: sono più immaginosi, più sensuali, più lirici del documentarista Murakami e dei suoi spietati reportages.

 

«L’Arena», 12 agosto 1993

POESIE

LE MURA DI VERONA

Si raffredda la tua mano nella mia.
Sei proprio freddo, e pallido. Di marmo.
Mi spaventa il tuo respiro che va via
e il cuore fermo, ogni fibra in disarmo.

Mia anima, mi senti? Non fuggirmi,
non mettere alla prova il nostro bene.
Hai giurato fino a ieri di aderirmi
per sempre, mia roccia, mio lichene.

La tua bocca, adesso, le tue mani
sono quelle di un morto, non più mie.
Se verrà, lo maledico, il domani,
i suoi incubi, le sue dicerie.

Svegliati, caro, dimmi che hai scherzato.
Non ferire così i miei quindici anni,
i quaranta che avrò, ed un passato
breve, il futuro di nuovi capodanni.

Dimmi che avremo figli col tuo viso
e i miei occhi, che leggerò
in loro accennato il tuo sorriso.
In quello che diranno ti vivrò.

Sei così bello e giovane, un ragazzo.
Mio ragazzo mio sposo mio bambino,
che mi amavi col terrore di un pazzo
a cui hanno ipotecato il destino.

Sei stato la mia alba, il mio risveglio.
Puoi essere la notte, il sonno eterno?
Allora dormi, se per noi è meglio
che vivere a Verona, nell’inferno.

Ma che inferno dolcissimo è stata
questa città che ci ha fatto incontrare.
Oltre le mura della nostra borgata
non c’è mondo che ci possa salvare.

Qui c’è la piazza dei nostri appuntamenti
confusi tra la folla del mercato,
le mie rincorse, i tuoi pedinamenti
negli incontri casuali sul sagrato.

Il nostro fiume che procede lento
tra le arcate del ponte di sassi,
intorno ai campi di avena e frumento
dove tremando precedevo i tuoi passi.

Potessi rinnegarlo, io, il mio nome,
e tu tuo padre, la tua discendenza.
Riuscissimo a capire perché e come
si può sporcare anche la trasparenza.

E’ la nostra città che ci uccide,
così gentile e onesta come pare;
la gente che saluta e poi deride
chi nella vita non si sa adeguare

ai balletti agli inchini ai pregiudizi,
agli odi di borgata e di famiglia,
alle virtù esibite, ai tanti vizi
che anche il fango trasformano in fanghiglia.

Sono i potenti e le gerarchie,
i vecchi amici che ci hanno diviso
inventandosi trame, strategie,
per accerchiare il nostro paradiso.

Non è il mio amore che ti ha fatto male
ma il loro odio, la loro supponenza.
Il troppo bene non è mai mortale
come l’invidia, come la maldicenza.

I tronfi monsignori senza dio
che domani diranno la messa
non sanno quanto tu sei stato mio
senza toccarmi e con quale promessa:

ma vedi, io mi stendo qui vicino
e tengo nella mano la tua, viva,
pronta a seguirti in un lungo cammino.
Arriveremo insieme a un’altra riva.

 

In  Le mura di Verona, Lietocolle, Faloppio 1998 e in  Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003

RECENSIONI

MALETI

GABRIELLA MALETI, PRIMA O POI – GAZEBO, FIRENZE 2014

Gabriella Maleti, scrittrice e fotografa da molti anni residente a Firenze, e fondatrice con Mariella Bettarini delle Edizioni Gazebo, nonché redattrice della rivista  L’area di Broca, delinea in questo libro di versi non solo il suo percorso di vita, ma anche tutta la sua personale filosofia, il suo partecipe e solidale sguardo sull’avventura che ogni uomo è chiamato a condividere con il mondo, a partire dalla nascita. Come ben evidenzia nella sua prefazione Mirco Ducceschi, il suo è «Un resoconto poetico che dalla sintesi e dalla presa d’atto del proprio vissuto sa farsi declinazione e variante, sfaccettatura di una negatività che non è bilancio di anni vissuti o a venire ma instabile bilancia dell’esistenza…». Il volume è suddiviso in tre sezioni, di cui dà testimonianza riassuntiva il titolo: c’è un Prima, un Poi, e un conclusivo O. Nel suo Prima, Gabriella ci offre uno spaccato dell’infanzia trascorsa nella pianura modenese: «Sì, tutto è mio e rimane: i pomeriggi sul Panaro, / il viso nell’erba, la solitudine accesa, / i diverbi candidi con gli insetti. / E poi le ragnatele del cesso nella campagna, / le notti come falci e le falci lunari»

Non solo la maledizione della povertà rurale, in cui «Dio taceva. / Solo Cristo si faceva vedere», ma anche l’infelicità più privata che derivava dall’essere nata nell’ «incauta verosimiglianza / di una famiglia, di un’unità rappezzata con saliva», da «incomprensibili genitori», non desiderata e cercata, «poiché vita nasce anche senza volontà di vita». Eppure il ritratto delle sofferenze materne, e della rudezza insensibile «di un uomo, / per caso padre», si tinge con il passare degli anni di un sentimento liberato da ogni rancore, e invece pietoso, clemente: allora versi commoventi vengono dedicati alla morte estranea e lontana di entrambi i genitori, quando la figlia tenta di riavvicinarli in extremis infilando nel taschino del padre, vestito a festa nella bara, una foto della mamma. A questo doloroso e faticoso Prima giovanile, segue un Poi della maturità, vissuta tra Milano e Firenze, con l’affascinante scoperta di un mondo nuovo, ricco di cultura e di incontri vitalizzanti, di una diversa e orgogliosa fisicità, non più costretta in stereotipati ruoli imposti dalla cultura dominante. «Anni di gran bel toscano», in cui l’autrice impara ad amarsi e ad amare, a ribellarsi, a vincere complessi e sensi di colpa («Io non so cosa dovrebbe in me tacere / e cosa parlare»), rifiutando «esecuzioni sommarie, paure», e imparando ad accettare ogni giornata nella sua stupefacente unicità: «Giro nel piccolo cortile, / raccatto foglie, campi, / è il meglio della mia vita». Infine, l’ultima sezione del volume, dedicata a un disgiuntivo O, si radica nelle riflessioni più emotive e approfondite, scandaglianti il mistero del vivere e del morire, del perché di ogni inizio e di ogni fine, nell’esperienza personale e storica, sociale e cosmica. Gabriella Maleti passa quindi dalla tranquilla accettazione del nostro essere transeunti, precari e forse inessenziali nel destino universale («chiusi nella teca/ che ci è data ,/ e non scelta», «Imbroglio. E’ questo il senso, la conclusione.», «Chi sei? Un esempio inconcluso», «ciò che in me viveva non era che / una scarsa prova delle tante»), al rimpianto di non aver saputo godere pienamente di ogni attimo dell’esistenza, insieme alla nostalgia per i momenti belli vissuti, soprattutto a contatto con la natura: fino alla consapevolezza quasi religiosa della propria insostituibile peculiarità («Ma ‘qualcosa’ ci ha definito, sospinto. / No, non penso a me come solo polvere. // E se anche fosse, quello che serve, / ora, qui, / per arrivare decentemente alla polvere / è non credere alla sola polvere.”). Per cui l’invito, la preghiera incessante da rivolgere a tutto e a tutti, diventa quasi un cantico di fraterna letizia francescana: “dite anima, piano, / segnatela a dito: / potenza che non si scrosta, / non perisce, / chiamate anima, / chiamatevi».

«Leggendaria» n.110, marzo 2015

RECENSIONI

BAINBRIDGE

BERYL BAINBRIDGE, LO DICE HARRIET – ANABASI, MILANO 1993

Di un’autrice britannica, Beryl Bainbridge, del tutto sconosciuta da noi, è stato pubblicato presso Anabasi Lo dice Harriet, «un piccolo romanzo nero di rara fattura», come recita la quarta di copertina. Il volume narra le vicende di due ragazzine terribili che, negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, vivono in Inghilterra, in una città di mare, svagandosi con passatempi al limite del lecito, in un crescendo di allusività e morbosità che coinvolge vischiosamente anche il mondo degli adulti. Harriet, delle due adolescenti, è la più disincantata: appena quattordicenne, esile e nervosa, ha già una sua cinica visione del mondo e dell’amore: «A tredici anni, amare qualcuno vuol dire solo farsi un’esperienza». In base a tale direttiva cerca di svezzare la sua romantica e grassoccia amica del cuore, che ne segue fedelmente ogni dettame. Le due adolescenti accumulano quindi esperienze, dapprima con dei prigionieri di guerra italiani, quindi con personaggi alquanto originali del luogo. Con questi scendono in spiaggia, intrattenendosi in confidenze velate e tormentose, e scambiando con loro «l’atto di amicizia», all’insaputa dei genitori, i quali si mostrano scissi tra la voglia di essere fiduciosi e l’ansia preoccupata per eventuali allarmanti conseguenze. Tra le vittime preferite dei loro giochi proibiti, c’è l’elegante signor Briggs, ribattezzato Zar: un uomo colto e raffinato, ma ormai sfatto fisicamente e moralmente, impastoiato nel lugubre matrimonio con una grassa madama che passa i pomeriggi a gustarsi la tv dei ragazzi. Harriet e la sua amica imbastiscono un flirt sottile intrigante con l’anziano uomo, fatto di ammiccamenti e ripicche, avances e ritrosie, lusinghe e rifiuti. Zar ha paura, si vergogna, fa appello alla solidarietà di parenti e amici, ma viene irretito via via in una ragnatela di promesse e calunnie; cede, si concede, sembra impazzito dal desiderio, attratto dalla sfrontatezza e improntitudine morale di Harriet, e dall’amore estasiato da cui è stata presa la ragazzina più giovane. Le due adolescenti lo perseguitano, arrivano a spiarlo, a tormentarlo in casa sua e in ogni momento della giornata: lui si lascia adescare, pur tormentato dalla riprovazione verso se stesso e vanamente inseguito dalla moglie, sempre più petulante. Quando il rapporto tra i tre assume le sembianze di una vera e propria relazione, al clou di un incontro clandestino la più disarmata e infantile tra le due ragazze ammazza a bastonate la signora Briggs, inopportunamente tornata a casa.
Di fronte ai recenti episodi di violenza assassina da parte di giovanissimi, di cui siamo stati impotenti testimoni, ci siamo chiesti quanto di meccanico e inconsapevole agisse nelle menti e nelle mani omicide. Beryl Bainbridge arriva a supporre un automatismo inarrestabile e inconscio in azioni come quella che descrive: «Colpii ancora, con disperata audacia, perché non poteva guardarmi in faccia, e quando cadde lentamente di lato scivolando nell’ombra come una foglia gigantesca, vidi lo Zar sul portone che mi guardava. Non potei muovermi, né abbassare il braccio… Dentro di me piangevo e amavo i miei genitori con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muovermi… Ero contenta che ora fossero arrabbiati con me, perché mentre colpivo la signora Briggs avevo avvertito uno strano desiderio di vendetta: perciò mi toccavano il castigo e l’espiazione…».

La conclusione del romanzo – che mi sembra giusto non rivelare- è in linea con le premesse: la perfidia di Harriet, che ha armato la mano assassina, non cede nemmeno di fronte al sangue e alla morte. La sua malvagità sembra ben suggerita dalla riproduzione sulla copertina del volume del ritratto di Balthus  Jeune fille au chat, in cui una bambina osserva biecamente il futuro lettore, quasi a sfidarlo, braccia incrociate dietro la testa, ginocchio sollevato a mostrare sfrontatamente le mutandine, calzettoni arrotolati e un gatto minaccioso ai piedi. Occhi bambini come quelli che attribuiamo a Harriet, spudorati e protervi ma in qualche modo giustamente accusatori nei confronti di un mondo di adulti che non ha insegnato loro ad amare.

 

«L’Arena», 23 settembre 1993

RECENSIONI

BARILE

LAURA BARILE, AMELIA ROSSELLI – NOTTETEMPO, ROMA 2014

Laura Barile propone ai lettori una lettura ravvicinata e partecipe di alcuni testi di Amelia Rosselli, poeta tra i più essenziali e difficili del nostro novecento, artefice di una «lingua terremotata», di uno «sperimentalismo linguistico e metrico, audace e rigoroso al tempo stesso». Nell’introduzione, Barile offre una rispettosa e non invasiva ricostruzione della biografia rosselliana, dalla nascita a Parigi nel 1930 agli esili londinesi e newyorkesi (in fuga dalla persecuzione fascista che l’aveva brutalmente resa orfana di padre e zio), per soffermarsi sugli studi linguistici e musicali, e sull’approdo italiano – prima a Firenze, in seguito a Roma. Una formazione tormentata e dolorosa, che incise profondamente su Amelia, «dotata di un carattere estremo e di un fragile sistema nervoso, inquieta e inquietante adolescente», fino a minarne per sempre la salute psichica, costringendola negli anni ’50 ai primi ricoveri e a una serie di elettroschock. Fedele alla riservatezza nel privato del poeta («Tendo all’eliminazione dell’io»), Barile si concentra soprattutto sulla sua produzione in versi, a partire dal poemetto  La Libellula del 1958, che viene commentato nelle sue fonti ispiratrici – musicali e filosofiche – e nella sua originalissima struttura lessicale, che si serviva dell’onomatopeia come di frequenti calembours etimologici, di derivazioni e contrazioni e «parole fermentate». La metrica particolare di questa composizione comportava la chiusura del verso con un’interruzione secca, e frequentissimi enjambements, dettati dalla costrizione in 11-13 centimetri fissata dal suono del campanello «che nelle vecchie macchine da scrivere segnalava la fine del rigo». Questo monologo interiore, «fluido snodarsi di suoni e immagini in movimento, che si generano sulla base di processi associativi e musicali», vide la luce solo nel 1969, in un’edizione anomala di fogli A4, con caratteri tipografici che riproducevano quelli della macchina da scrivere. Le edizioni Nottetempo hanno scelto di impaginare i testi rosselliani ruotati orizzontalmente rispetto all’orientamento consueto, proprio per non spezzare i versi, aderendo così all’invenzione metrica del poeta, «che partecipa dell’immagine visiva e della partitura musicale». «E io / lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su / de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia / fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo / prendere il tram per arricchire i tuoi sogni, / e le mie stelle».

Altri testi fondamentali presi in considerazione e commentati da Laura Barile sono tratti da Variazioni belliche del 1964, e da Documento del 1976. Del primo libro si sottolineano sia la struttura musicale della lingua «rotta e scorretta», sia la «forma-cubo», lo spazio quadrato in cui Amelia Rosselli comprimeva «la tensione fra l’impulso corporeo e quello logico della scrittura», in un intreccio di serie e variazioni derivate dalla tecnica dodecafonica e dalle produzioni post-weberniane. Testi che intrecciano «passione amorosa, passione musicale e passione civile», dall’esaltazione femminile della sessualità alla tragedia collettiva della storia e della lotta di classe («Caduta sulla linea di battaglia. La bontà / era un ritornello / che non mi fregava ma ero fregata da essa! / La linea / della / demarcazione tra poveri e ricchi»): poesie spesso di difficile decifrazione, ma da seguire «col corpo», aderendo fisicamente ad esse, e «abbandonando la pretesa di capire tutto». Dell’ultimo volume pubblicato in vita da Amelia, vent’anni prima della sua scelta di morte volontaria, «tormentata dalla malattia nervosa, da allucinazioni uditive e da una forma di mania di persecuzione di tipo politico», Laura Barile commenta pochi versi programmatici, che è qui giusto e commovente riportare: «Conto di farla finita con le forme, i loro / bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti / tutta la urgente scatola della mia anima la / quale indifferente al problema farebbe meglio/ a contenersi. Giocattoli sono le strade e / infermiere sono le abitudini distrutte da / un malessere generale. / La gola nella montagna si offrì pulita al / mio desiderio di continuare la menzogna indecifrabile / come le sigarette che fumo».

 

«succedeoggi», 20 marzo 2015   e  «Leggendaria» n.111, maggio 2015

POESIE

TARCISIUS

(omaggio a Pier Paolo Pasolini, rileggendo  Le ceneri di GramsciIl pianto della scavatrice)

 

I

Non è di maggio questa impura aria
di quasi alba, di quasi estate
che non somiglia a una stagione calda:

ma sembra il primo autunno, fresco,
un po’ bagnato di foschia leggera…
Con un quarto di luna strana, bianca

che già la sera prima si affacciava
stanca tra le nubi grige, sfilacciate,
e ora ha voglia di sparire in cielo.

E la stazione è muta, solitaria, scura:
poche le luci al neon ancora accese.
Ma a che serve la luce?

Tanto uno solo abita la fine notte
sulla panchina del binario sei.
Truce, aggrondato sopra la pietra dura

dorme col membro gonfio tra gli stracci,
e gli altri poveracci come lui non sono qui,
spariti chissà dove, inghiottiti

in altri posti squallidi: la spiaggia,
il lungomare, depositi di autobus
o cantieri, rimesse abbandonate.

Eppure è maggio, è quasi estate
e c’è silenzio, fradicio e infecondo;
se intorno spiove fa più paura

il mondo zitto di chi non serve a niente,
gente che non domanda e non risponde,
alza le spalle, sputa, non saluta.

Il mare si intravede di lontano,
si sentono le onde che sbattono
sul molo, e piano uno sciacquio.

Lui è solo, la schiena sopra il marmo
gli fa male, si rigira, si tocca,
con la bocca semiaperta: è giovane,

rumeno, lo chiamano Tarcisius.

II

Si è appena addormentato, ha aspettato
che passassero le guardie, i metronotte
custodi del silenzio e del sonno cittadino.

Vicino alla panchina c’è il suo sacco
teso di roba sporca, dentro: calze,
mutande e fogli di giornale.

Stracco così si sente già da tempo,
eppure non lavora, un posto fisso
insomma; non ha niente. Cammina

ogni mattina tra la gente, gira
nelle piazze e nei mercati,
presta le braccia a trasportare casse,

lava le auto, fa il manovale
se è fortunato, e lo pagano
a ore. La sera è morto di sudore

e fatica, sente addosso l’odore
aspro della pelle, la puzza
dei piedi martoriati.

Come i poveri povero, a volte
ruba. Una mela, biscotti
nei negozi alimentari, robetta.

Si lava al mare con una saponetta,
lava i vestiti e li asciuga
sulla sabbia. Sotto la camicia

nasconde il passaporto, sacro
come fosse un sacramento.
Giù al porto si è fatto degli amici

rumeni come lui, ma più felici
perché hanno un lavoro. Tarcisius
non dispera; ogni mattina spera

nel miracolo. Di trovare un portafoglio
per strada, gioielli d’oro perduti
tra i rifiuti. Fruga

nei mucchi secchi d’immondizia

del quartiere in penombra,
non teme la sporcizia delle dita.

Ma da dove gli viene
quest’amore per la vita, questa
disperata passione di essere nel mondo?

In fondo al cuore crede
che domani sarà meglio,
che qualcosa accadrà, di grandioso.

Il riposo arriva la sera. Respira la spenta
trepidazione della notte,
e si addormenta come un bambino:

come dopo aver detto una preghiera.

III

La stazione si trova tra grami caseggiati,
fumosa, quasi in periferia.
Pochi lampioni le fanno compagnia

di notte, con scarsa luce gialla,
spioni tra le ombre dei carrelli,
tra i tabelloni di partenze e arrivi.

Vicino c’è un locale: lì si spaccia
(pasticche, coca, robaccia da poco).
La polizia sta al gioco, ogni tanto

ferma qualcuno e lo denuncia.
Disamore, mistero, e miseria
dei sensi: il vuoto, e senti

il mancare di ogni religione vera.
La musica martella nel silenzio,
rimbomba uguale, monotona, distante.

Il rombo delle auto e delle moto
si perde tra le grida di ragazze
stridule e pazze di frenesia e di sesso,

avvinghiate a corpi esaltati, esibiti
nel loro turgore vitale.
Sono le quattro del mattino, e in quattro

sbucano dal sottopasso di corsa
sul binario. Cercano da fumare
e si spintonano, parlano, fischiano,

forti come ventenni forti, belli,
quasi eleganti nelle scarpe a punta,
nelle camicie fresche. I jeans di marca.

Hanno vinto se stessi e gli altri
in questa notte di tarda primavera:
giovani divinità cui non si nega

una vittoria facile, una preda.

IV

Allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze ignote
a loro stessi, non amano indagare

nei pensieri. A loro basta
avere da bere, da fumare: e divertirsi,
ridere, godere come ossessi.

Ecco si fermano ad osservare
il fagotto a forma di uomo
sdraiato sul marmo della panca,

addormentato. Gli passano vicino:
uno di loro sputa sul suo sacco
di tela, glielo sfila di sotto

la mano penzoloni, lo solleva
a braccia alzate e ride soddisfatto
del trofeo. E lui bambino dorme

e non si accorge che gli svuotano
per terra il suo tesoro.
Povero come un gatto del Colosseo,

possiede un po’ di biancheria spartana,
tre sigarette, un accendino in similoro,
e cara più di tutto una fotografia.

Se la mostrano a vicenda, sghignazzando,
facce rotonde e serie da rumeni:
una famiglia come tante, ma via, lontana,

che odora di bisogno e nostalgia.
Da quella realtà umile e sporca,
confusa e immensa si devono salvare,

i quattro leoncelli di periferia.
E allora il fuoco come un rito antico
può purificare. Brucia la foto,

il sacco: gli indumenti.
Si sparge fumo e una puzza acre.
Loro contenti mostrano i denti al buio,

e non è che l’inizio, si guardano
eccitati e vogliosi di qualcosa
di forte, un esercizio di sana goliardia.

Maschi e virili, in due
pisciano addosso a lui addormentato,
uno gli spruzza il viso e i capelli,

e svegliati vigliacco invertebrato!

V

In un attimo è in piedi, spaventato:
non capisce cosa diavolo succede.
Sente il viso bagnato di orina,

vede quattro ragazzi intorno a lui
con un ghigno feroce, e una voce
che lo chiama bastardo, fatti sotto

se puoi, ma non sa l’italiano molto bene,
teme un gesto sbagliato, finché un pugno
codardo lo raggiunge sul mento,

poi uno schiaffo in piena faccia.
Altri colpi, da tutti, qua e là, sulle braccia,
sul dorso e le spalle, calci alle gambe,

sangue dal naso che forse si è rotto.
Allora si difende, colpisce a caso,
rabbioso come un cane rabbioso,

e ogni tanto si preme con la mano
sul petto, a tastare il passaporto
che non cada, meglio morto

che senza documenti…Loro attenti
a colpire dove fa più male,
sono in quattro e lo pestano duro,

uno lo prende e lo sbatte contro il muro,
e gli picchia la testa, brutta bestia
gli grida, ti ammazzo! E poi

cazzo! Non vi vogliamo qui,
ladri ruffiani, ti diamo una lezione
così impari, coglione, sparisci,

torna in Romania, e via! Via!

VI

Tarcisius scivola sul marciapiede, è lì,
sdraiato: non ha più fiato, o voce,
insanguinato, non vede niente,

non vede loro che se la danno a gambe,
ridendo, che lezione!, lasciano la stazione
di corsa, raggiungono le moto

parcheggiate lì sotto, salgono in sella,
ma prima di partire uno sventola qualcosa:
gli ho preso questo! Almeno che si sappia

come si chiama, che nome da befana,
che foto da bravo ragazzino; ha sedici anni,
ridono, un bambino lontano dalla mamma…

Motori al massimo, e partono rombando.
Da un gran silenzio le strade sono invase,
le case indifferenti, la gente dorme.

Loro veloci, con l’aria fresca in faccia,
per una strada che avanza
tra i primi prati primaverili,

e sopra un cielo bruciante, senza un brivido:
corrono fieri e vincenti, piccoli dei
degli inferi, i nuovi combattenti

di chissà quale onore. Ma sul sesto binario
è rimasto qualcosa che assomiglia
a un cadavere con la faccia in poltiglia:

ha una mano sul petto, sbucciata,
che tra cuore e camicia nascondeva una cosa
importante, preziosa.

Più in là, in un campo spellato di periferia,
l’hanno gettato via, tra i sacchi di rifiuti,
il passaporto aperto con la foto e il suo nome:

Tarcisius, in questo sole che crudele
inizia a splendere, già addolcito
da un po’ d’aria di mare.

 

In Bloc Notes n.59, giugno 2010 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.