Mostra: 1521 - 1530 of 1.629 RISULTATI
RECENSIONI

DE SIGNORIBUS

EUGENIO DE SIGNORIBUS, CASE PERDUTE – IL LAVORO EDITORIALE, ANCONA 1989

 

La Bovary c’est moi, diceva Flaubert, e si riferiva naturalmente al personaggio, al suo carattere, al suo destino: ma forse anche alla forma che prendeva la sua scrittura nel momento in cui si faceva voce di Emma, diventando stile personalissimo e inconfondibile, “voce”, appunto, flaubertiana. Mi chiedo se ciò non avvenga a tutti gli autori; questo immedesimarsi e confondersi con le loro creature e le loro storie, un po’ come avviene alle madri con i figli più amati.
E’ accaduto senz’altro al poeta Eugenio De Signoribus, e al suo libro  Case perdute: che gli assomiglia, come giustamente hanno affermato alcuni commentatori, già nella nostalgia evocata dal titolo; le case perdute sono quelle in cui abbiamo abitato e che ci sono state tolte, con la violenza gratuita e ingiustificabile che tenta di distruggere i ricordi: sono l’aria che abbiamo respirato, i movimenti che abbiamo fatto, le foto in bianco e nero finite in fondo a chissà quale cassetto. Foto simili a quella riprodotta sulla copertina del libro, con quattro ragazzini anglosassoni del dopoguerra, coi pantaloni di velluto o di stoffa sopra il ginocchio, la sfumatura dei capelli alta sulla nuca, e un accenno di ricciolo sulla fronte: mani in tasca, confabulano davanti alla vetrina di un negozio (una farmacia? una drogheria?) Che profumo di passato da questa immagine, che malinconia sottile, anche se «le foto mai dicono il vero / quando gli anni non si riconoscono». E la poesia, può dire il vero? Senz’altro quella di De Signoribus non si pone nessuna finalità cognitiva, di interpretazione del reale, e forse nemmeno aspira a proporsi quale strumento di descrizione del reale. Sembra, invece, propensa ad affermare (ma senza polemica o tensione, con la signorile nonchalance di chi non ha dubbi) l’inconsistenza dei dati materiali rispetto al mondo soggettivo, del ricordo o del sogno: «ma sì, che resti questo odore / di buio canforato / denso come cent’anni / di respiri non dispersi // (che anno fu quell’anno che fece tanta neve?)»

In un ipotetico inventario di oggetti e arredi appartenuti a una “casa perduta”, si sottolinea l’importanza del superfluo, mentre il necessario viene snobbato: «Il cesso? non importa / ma c’è la carta igienica?»; «- e la porta?- / muratela! / entrerò dal soffitto». Il poeta proclama allora con un qualche orgoglio la sua indifferenza e la sua superiorità rispetto alle scelte oculate e miopi dei più, rispetto alla ragionevolezza ottusa dei montaliani «uomini che non si voltano»: «qui, non visto, può stare / sopra la folla meccanica / nell’ avantindietro senza sosta / augure dal corpo d’uccello»; o ancora: «poi l’uscire senza fronzoli / il chiudere la porta con decisione / non badando all’indugio del micio / sulla soglia… certo, per te, / per la tua civile concretezza anche lui, il soffice felino evirato, / deve imparare a sveltirsi…»
Neppure alla poesia è tuttavia concesso di svelare il mistero, di spiegare l’ignoto: «ma da che parte da quale segreta / s’arriva al cuore di una cosa…», «nulla emerge dal folto se non qualche / uccello improvviso e invisibile»», «a furia di girarsi intorno / come un cane da fiuto / il cervello s’incagna per minimi casi», «un labirinto di strade e scale tentacolari / vicoli ciechi in stabile penombra… ». I confini si dissolvono e s’intrecciano fino a confondersi, le storie individuali sfumano in una nebbia da brughiera. I paesaggi di De Signoribus sono tutti autunnali e albali, da pianura e stagni e cacce stanziali: la natura non vi è né amica né nemica, esiste indipendentemente da chi la osserva, selvaggia, rigogliosa, acquatica; le presenze umane paiono scorporarsi, e soli si stagliano in una loro magica fissità gli oggetti nudi, o animali immobili e impenetrabili (lucertole, lumache, roditori, ma soprattutto uccelli). I pochi personaggi degni di essere raccontati sono bloccati nel reiterarsi di prove sul palcoscenico o sul set cinematografico, oppure nella rappresentazione finale della morte, come nell’incubo dell’agonia del padre: «lo guardavano più bianco del bianco / ripercorrere all’inverso rapidamente / tutte le tappe ossee della crescita / e in un vagito scomparire…».
Fare i conti con un esistente che non si sa (non si può) definire è la sfida ultima del linguaggio di De Signoribus, che evita lo scontro diretto, il lampo oggettivo del flash, preferendo aggirare l’ostacolo, avvicinarlo per appostamenti progressivi. Il suo discorso sembra tendere alla mortificazione del soggetto, ma anche dell’oggetto e -se possibile- del linguaggio stesso, lasciato sospeso, tra rinuncia e umiliazione, gravido di intenzionalità ma volutamente depistato.
Poeta di un getsemani delle parole, De Signoribus irride alla facili pasque del passato, a quelle impossibili del futuro.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 ottobre 1989

«L’Arena», 6 dicembre 1990

RECENSIONI

PIRANDELLO

LUIGI PIRANDELLO, LA MIA ARTE SEI TU – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere scritte da Luigi Pirandello alla giovane attrice Marta Abba tra il 1925 e il 1936, anno della morte del drammaturgo. Testimoniano l’amore «squilibrato» (come lo definisce il curatore del volume, Massimiliano Borelli), ma anche devoto, incondizionato e totalizzante che lo scrittore sessantenne nutrì per la sua bellissima musa e interprete teatrale, che mai corrispose del tutto al suo sentimento, pur nutrendo per il suo Maestro un’altissima considerazione intellettuale e un profondo affetto filiale. Pirandello si rivolge a Marta sempre usando il pronome maiuscolo (Tu, Te, Tua), incoraggiandola a lusingandola come artista, sottoponendole i suoi lavori, chiedendole addirittura consigli e proponendole collaborazioni professionali molto allettanti: «Il Tuo posto, per ora, nell’arte italiana, può essere vuoto, perché Tu non reciti, ma non può essere preso d’altra attrice, mai, perché nessuna t’arriva al ginocchio; e Tu sei Tu, inconfondibile, insopprimibile, insostituibile»; «Sto scrivendo per Te. Non potrei più andare avanti d’una parola, se la Tua divina Immagine ispiratrice m’abbandonasse per un istante»; «Ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore»; «Il mio teatro non deve vivere che nella luce del Tuo nome; e poi si spegnerà con Te, per modo che il mio nome resti inseparabile dal Tuo, che gli avrà dato la sua vera vita; e sarà gloria Tua, nel mondo»; «Sei l’unica sola Attrice di domani, e tutti lo sanno e lo proclamano – l’Attrice moderna per eccellenza».

L’Accademico d’Italia, il Premio Nobel supplica la giovane ispiratrice di seguirlo sui palcoscenici di tutto il mondo, a Berlino, a Parigi, in America: le promette di fondare con lei e per lei una compagnia teatrale, assicurandole successo e denaro. Si inginocchia e si umilia, implora, minaccia il suicidio, in una frenesia passionale che non conosce censure o pudori.«Tu sei una scrittrice nata. Ma tu sei anche TUTTO, Marta mia…io sarei un gran medico per Te, Marta mia; ma bisognerebbe che tu fossi solo affidata alle mie cure»; «Tu non devi aver bisogno d’altri, che di me, e di me vuol dire come di Te stessa, perché io non sono altro che Tu, non posso più considerarmi altrimenti, e neanche Tu devi considerarti altrimenti: io, per noi, vuol dire Tu»; «Il Tuo vero padre sono io, sono io, e Tu sei la creatura mia, la creatura mia, la creatura mia di cui tutto il mio spirito vive con la potenza stessa della mia creazione, tanto che è diventata cosa Tua e tutta la mia vita sei Tu. E la verità vera è che io non sono vecchio, ma giovine, il più giovine di tutti, così nella mente, come nel cuore; così nell’arte, come nel sangue, nei muscoli e nei nervi»; «Ajutami, ajutami, per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare, sono gli ultimi miei momenti: ho tanto bisogno di Te, di sentirti uguale e vicina».

Pochi mesi prima di morire, sentendo la fine ormai vicina, e consapevole dell’allontanamento ormai definitivo della sua musa, Pirandello le scrisse queste ultime, strazianti parole: «Ho perduto con Te la mia luce. Non vedo più nulla. Non so perché seguito a vivere. Non c’è più nulla che m’interessi o m’attiri….Addio, Marta mia! E sentiti sempre, tutta, nel bene senza fine che Ti vuole il Tuo Maestro». Due anni dopo Marta Abba sposò un americano, e andò con lui a vivere nell’Ohio, ritirandosi dalle scene.

 

«succedeoggi», 12 marzo 2015

POESIE

IL TEMPO

Nel suo non tempo
non faceva niente.
Pensava il tempo,
l’eterno presente.
Nel suo non luogo
non era dove.
L’ovunque esistere,
il sempre altrove.

***

Lui che non è tempo
ci ha abbandonati al tempo.
Nel tempo ci ha lasciati
e costretti. Tra confini.
Dall’essere al non essere,
persi come bambini.

***

Dio vuoto nel presente,
dio assente, dio ignoto.
Dio non del passato, del non passato,
dimenticato. Dio cancellato.
Dio nuovo, dio futuro,
dio puro; dio che non è ancora,
dio che sarà, dio libertà.

***

Tempio del tempo è il cielo,
in questa notte chiara,
illuminata immobile.
Che tace. La calma degli dei
è il suo respiro, e la sua luce.
Il tutto e il niente
di un’assoluta pace.

***

Ti rubano le ore, i giorni:
li riempiono di vuoto,
li svuotano di senso.
Con gesti e voci vane
annebbiano l’immenso,
ingannano l’ignoto,
i ladri del tuo tempo.

***

La mano che teniamo camminando
quando siamo bambini,
un certo giorno, all’improvviso,
lascia la nostra mano.
E la strada nella nebbia
fa paura, e la luce sulle scale
fa paura, e tenere un’altra mano
fa paura.

***

Tutto quello che non serve a niente
ha diritto di esistere per sempre:
in uno spazio-ombra evanescente,
in un tempo-non tempo inesistente.
Lì galleggiano inservibili disutili
i sogni dei bambini appena nati,
le voci dei bambini abortiti,
i regali d’amore rifiutati;
le lettere smarrite, i treni persi,
i versi cestinati: lì vivranno
sommersi e salvati
per il loro non essere stati.

***

In un altrove.
Dove vivere, quando.
Elsewhere. Lontano,
fuori tempo. Di contrabbando.
Via dagli eventi.
Disattenti.
Con minima percezione
di ciò che accade intorno.
Notte nel giorno.
Vivere altrove. Dove.

***

Quanto dura il tempo dei fiori?
Qualche giorno.
E intorno il profumo, i colori:
solo per qualche giorno.
Tempo breve e felice,
perché appartiene ai fiori.
Lieve, senza dolori.

***

Sempre in ritardo sulla speranza,
abbiamo fatto abbastanza?

***

In te, anima mia, misuro il tempo.
Ogni secondo, un battito del cuore.
Ogni secondo. Ogni stupore.
Maturo il tempo in te,
anima mia, affondo.

***

Tutto il mio tempo è attesa.
Ed attesa paziente, sicura.
Certa di una sorpresa che verrà
–  voce amata al telefono,
luce accesa improvvisa nella notte.
E non ho più paura.
Lascio la porta aperta; ascolto
se per caso dei passi si avvicinino.
Sono la serva fedele che aspetta
senza conoscere il giorno e l’ora,
e conserva dentro sé la parola,
il ricordo di un volto.

***

Metto la tua vestaglia,
papà
quando di notte
ho freddo. In cucina
compio antichi gesti,
esitanti:
ripiego la tovaglia,
scaldo l’acqua del tè.
Come ti assomiglia
la ragazzina
che ti sedeva di fronte
mentre controllavi i tuoi conti.
Lei, immersa nei suoi libri
e tu in silenzio, davanti
al suo sapere che cresceva
e non serviva a niente.
La cucina è diversa,
tu sei un’ombra. Ma resti
nello stesso silenzio,
nella stessa vestaglia.

***

Quando ero più giovane,
e lui non c’era già più,
e le bambine erano ancora bambine,
allora le guardavo giocare
e ridere, le ascoltavo parlare
e mi dicevo «Le ho fatte io».
Di notte entravo nella loro stanza,
e seduta per terra,
con poca luce dal corridoio,
spiavo i movimenti del sonno,
i lineamenti antichi e nuovi,
e ripetevo «Le ho fatte io»,
Ma non con vanto, no:
con stupore, perché ero stata
capace di tanto.
Loro crescevano, si allontanavano.
«Le ho fatte io», mio tempo vero,
storia che non sarò.
Ma loro ancora, e i loro figli,
il male e il bene.
Com’è giusto che sia,
vita che si perde e si mantiene.

 

In  Frontiere del tempo, Manni, San Cesario di Lecce 2006

RECENSIONI

LODOLI

MARCO LODOLI, I FANNULLONI – EINAUDI, TORINO 1990

Di quanto la generazione dei nuovi narratori (da De Carlo, ad Albinati, a Fortunato) sia debitrice al cinema si è a lungo e autorevolmente dissertato: comunque, ce ne fosse voluta un’ulteriore conferma, ecco arrivare il nuovo romanzo breve di Marco Lodoli, I fannulloni.
Marco Lodoli si è imposto quattro anni fa all’attenzione del pubblico con il riuscito romanzo  Diario di un millennio che fugge; nell’89 ha poi sottolineato la sua maturità di narratore con i racconti di Grande raccordo; ora queste 80 pagine scarse pubblicate da Einaudi arrivano, forse un po’ premature, un po’ presuntuosamente poco rifinite (era Orazio che raccomandava «nonum prematur in annum»…) a dirci che Lodoli è ancora lì, sempre promessa sicura delle nostre lettere, ma non ancora scommessa scontata.
Lodoli fa muovere queste sue nuove creature di carta sullo sfondo del brulicante microcosmo di una Roma periferica, comparse di un’esistenza quotidiana difficile e poetica, presenze insieme innocenti e malfide, che sembrano dover scontare con una vita grama la sfida di voler esserci a ogni costo.
Il racconto è narrato in prima persona da un anziano piazzista di pietre – nemmeno preziose, ma comuni lapislazzuli e ametiste da offrire a turiste e parrucchiere – nobile solo di aspetto e di nome: Lorenzo Marchese, in realtà uomo di poche pretese come le pietre che smercia.

«Io sono uno qualunque, ecco, i miei pensieri e le mie paure sono semplici, i miei soldi contati, la mia casa piccola, i miei sogni balordi come i sogni di chi da sveglio litiga con la realtà nemica e un po’ perfida… Però la gente attorno mi vede alto, distinto, differente…Forse ho contribuito all’equivoco girando in mille Paesi senza fermarmi mai abbastanza per rassicurare gli altri che in fondo ero come loro, un po’ più di niente».

Lorenzo vive due grandi sogni nella vita: il primo, raccontato con mano davvero felice nel capitolo d’apertura, è l’incontro e l’amore per Caterina, una goffa e tenera gigantessa, a disagio nel mondo e nei sentimenti, che ricorda la figura femminile tracciata da un nostro troppo sottovalutato narratore, Giorgio Scerbanenco, in I milanesi non ammazzano il sabato. Con Caterina Lorenzo divide una vita di poche pretese e un enorme letto per dieci anni, prima che un infarto gliela rubi crudelmente tra l’indifferenza della gente, lasciandogli solo il rammarico di non averle dato abbastanza: «Mi vengono in mente tante parole che avrei potuto dirle e che per pigrizia ho taciuto. Che la amavo. Che era stupenda. Che la vita è comunque un bosco misterioso, e allora è bello traversarla con un gigante». Morta Caterina, tornato a un’esistenza rassegnata e vigliaccamente dignitosa, Lorenzo ottiene dalla vita un secondo grande regalo: l’incontro con un ragazzo nero, un ambulante pieno di gioia di vivere e fantasia, che lo trascina in una serie di avventure incredibili ed esaltanti.

«Gabèn è forte e allegro, ha le spalle larghe per sostenere mille difficoltà, i denti bianchi per piegare il ferro della vita, e soprattutto l’andatura leggera per galleggiare. Indossa certi camicioni ottimisti, comodi e colorati, e sandali da frate, quando non va a piedi nudi, incurante. Ha la mente larga, stellata».

Ecco allora che il compassato rappresentante di pietre, ormai settantenne, viene costretto a improvvisarsi allenatore e impresario di boxe, e a organizzare un match nel sottobosco delle palestre di periferia (la sfida coi guantoni tra Gabèn e il tarchiato avversario ricorda la stupenda scena sul ring di  Luci della città, con Chaplin che scappa e solo alla fine viene tramortito da un gancio impietoso). Esaltato da questa esperienza estranea alla banalità del quotidiano, Gabèn si trasforma in cantante jazz, esibendosi in una cantina di artisti falliti, e infine, divenuto giardiniere e autista tuttofare in una villa di miliardari, approfitta dell’assenza dei padroni per vivere con Lorenzo una settimana di sogno, tra Via Veneto e nights, smoking e Mercedes, belle donne e fannulloni.
In quest’ultima parte del volume le citazioni filmiche si sprecano: c’è un po’ tutto il nostro neorealismo, dalla scena del saccheggio del guardaroba padronale alla stampa di banconote straniere false. In particolare, Fellini docet e imperversa: da  I vitelloni alla Via Veneto de  La dolce vita, fino al recente  Ginger e Fred, con il suo torpedone pieno di larve umane, ectoplasmi di trapassati. Il finale, brumoso e sospeso nell’attesa impossibile di un’alba vendicatrice e riscattante sulla spiaggia di Ostia, ha ancora i campi lunghi e gli sfondi felliniani, con qualche memoria non peregrina di Nanni Moretti. E’ un peccato, però, che tra tanta sensibilità all’immagine (immaginoso e immaginifico), lo spessore narrativo dei personaggi si sfaldi, finisca per sfilacciarsi e diventare meno credibile, più retorico. Gabèn sparisce senza riuscire a diventare protagonista: macchietta priva di spessore reale, promessa di un carattere rimasto irrealizzato. Lorenzo continua la sua storia d’amore con Caterina, in sogno, nel ricordo o nella morte, non si capisce bene, in un finale volutamente vago ed etereo: «Il cielo era molto azzurro, la strada mi passava dentro, come uno sguardo sereno. Nel cuore il petto non mi batteva più, eppure da qualche parte, vicino, lontano, lo sentivo battere ancora».

 

«L’Arena», 8 febbraio 1991

RECENSIONI

FERRERO

ERNESTO FERRERO, STORIA DI QUIRINA – EINAUDI, TORINO 2014

Una vedova ultraottantenne, abitudinaria e un po’ maniaca come tutti gli anziani, laureata in lettere antiche e appassionata di citazioni latine con cui infarcisce le sue scarse conversazioni quotidiane, vive la sua serena e dignitosa esistenza di pensionata in un paesino delle montagne lombarde. Solida e robusta come le vacche della razza bruna alpina che pascolano nella sua zona, esiste senza dare fastidio agli altri. «Era orgogliosa. La solitudine non le pesava, e anzi le sembrava una condizione privilegiata». Ha un nome antico, romano, come tutti i membri della sua rispettabile famiglia borghese: Quirina. Sua unica passione è il giardino, più umilmente definito orto, in cui coltiva rose, ortensie, pomodori e le amate zucchine: cura il suo verde con la stessa compita dedizione rivolta alla sua inappuntabile casetta. «Perché all’ordine Quirina teneva moltissimo, anche in giardino. Lo considerava il perfetto equivalente di una disciplina mentale e morale…doveva essere l’emblema di una sorta di misura, di armonia cosmica…». Ma ecco che un bel giorno l’universo decoroso, disciplinato e monotono dell’anziana viene sconvolto dalle scorribande ipogee di una talpa, che con le sue gallerie sotterranee e collinette di terreno in superficie le deturpa l’orto («L’abominio. L’intollerabile offesa.»). Inizia così una strenua guerra di Quirina contro l’ospite indesiderato: cerca alleati in paese e in famiglia, studia rimedi, ricorre a erbe velenose, acqua, gas, rumori, vibrazioni, colpi di roncola, trappole, gatti nevrotici, spicchi d’aglio e vento per debellare la «trivellatrice invisibile». Che tuttavia resiste, e continua a sconciarle l’orticello. Alla fine, Quirina accetta l’antagonista come una sorta di alter-ego, oppure una metafora del potere subdolo e vessatorio, o ancora come espressione della sana vitalità della natura. Nell’economia universale, e nell’elegante scrittura di Ernesto Ferrero, c’è posto per tutti: vecchie, talpe e buchi nell’orto.

 

«L’Immaginazione»» n.285, gennaio 2015

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990

Siro Angeli, scomparso a Tolmezzo lo scorso agosto, era autore prolifico e multiforme: i suoi interessi spaziavano dalla poesia al teatro al cinema (fu sceneggiatore di una quindicina di film di successo: dell’ultimo, Maria Zef, di Vittorio Cottafavi, aveva interpretato anche uno dei ruoli principali) al romanzo. Come narratore aveva pubblicato presso le Edizioni Paoline Figlio dell’uomo, romanzo-saggio basato su una coraggiosa ipotesi teologica, che gli era valso nel dicembre del ’90 il Premio Camposampiero.
Vorrei qui occuparmi del suo ultimo volume di poesie, dedicandogli una recensione che ho a lungo evitato e rimosso, e che sarà scritta con affettuosa nostalgia verso chi mi è stato vicino per più di vent’anni, con stima per un uomo di cultura raffinata e vasta, di moralità rigida e scabra.
Il grillo della Suburra raccoglie versi scritti da Angeli nell’arco di un ventennio, dal ’55 al ’75, anni da lui vissuti a Roma alle prese con una sofferta situazione familiare e con l’impegnativa responsabilità di alto funzionario radiofonico. Il volume, pubblicato nel ’75 da Barulli, con una partecipe e sapiente prefazione di Alfonso Gatto, non fu mai distribuito nelle librerie per varie vicissitudini editoriali, ma arrivò comunque finalista al Premio Viareggio di quell’anno.
Ristampato nel ’90, grazie anche all’interessamento di Dante Isella, nella preziosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, era stato da Angeli completamente rivisto e riscritto, con un’ossessiva attenzione alle varianti anche minime, e un incessante lavoro di lima.
Consta di tre parti: Il grillo della Suburra, poemetto in nove sezioni di novenari, San Pietro in Vincoli e altre poesie, sempre in forme chiuse, ma spazianti dagli endecasillabi ai settenari, Approssimazione all’arte poetica, in settenari. Del poemetto che dà il titolo al volume, ostico -quasi- alla prima lettura, «impervio in virtù della sua chiarezza», come suggeriva Gatto, basti qui accennare alla rigidità formale in cui si trova, per così dire, ingabbiato: nove sezioni di cinque o più strofe di sette versi, tutti in novenari, con un gioco elegantissimo di rime interne e esterne, con un’attenzione quasi barocca alla scelta di vocaboli inusuali e inquietanti. Rigidità formale che rimanda e sottende un’altrettanto e forse più severa rigidità morale. Molto prima di qualsivoglia risveglio verde dei nostri ecologisti dell’ultima ora, Angeli chiama un grillo «non sai come giunto / dall’ariosità di una tana / agreste o di un’aia quieta / qui in un’estranea foresta / di pietra che ha nome di città» a testimone inorridito e inadeguato del degrado umano e ambientale cui è arrivata la metropoli odierna, coacervo di abitudini corrosive, di veleni fisici e psicologici, di aggressioni visive e uditive. Testimone di ciò, ma anche emblema di una fisicità buona, di una natura da recuperare, di una poesia non riconosciuta ma sempre presente nelle cose, il grillo è montalianamente messaggero di salvezza, cristianamente simbolo di speranza e redenzione. Nell’ultima sezione, classicamente intitolata Approssimazioni all’arte poetica, sono quindici i componimenti brevi in settenari cui Angeli affida il compito di esprimere il suo complesso rapporto con il “mestiere” di poeta, inteso sempre da lui come lavoro assiduo sulla parola: che va cercata, scelta tra tante, e poi lavorata limata incastonata come una gemma nel giusto contesto.
C’era, in Angeli, figlio di un muratore emigrato in Francia e di una contadina, questo rispetto sacro per la magia della creazione intellettuale, mista a una passione artigianale per la fatica fisica dello scrivere, e a una diffidenza tutta carnica verso la faciloneria delle improvvisazioni mistificanti. Tutto questo lo rendeva durissimo nei riguardi degli altri e di se stesso, e il dialogo che fingeva nei versi con un “tu”, lettore solo supposto, era in realtà un monologo. A se stesso, quindi, rivolgeva l’invito a non scrivere: «Se ti resta un talento / di tanto spreco fatto / sul bianco delle pagine, / spendilo in vita: l’atto / può adeguarsi all’intento, / non il segno all’immagine», «La verità, la vita / non fanno vive e vere / le parole che scrivi», «Dato che prima o poi, / anche senza motivi / come avviene tra amici, / tradisci o ti tradiscono / le parole che scrivi / quanto quelle che dici, / unico scampo al rischio / è il tacere, se puoi».
Ma come non riusciva a non parlare, Angeli non riusciva a non scrivere: e se con pessimismo attuale e metafisico insieme considerava il tradimento della scrittura rispetto al pensiero o all’azione, tuttavia ad essa continuava ad attribuire la speranza di un riscatto: «Molto ti sembrerà / se fra tante parole / tue da spazzare via / almeno una racchiuda // in sé l’ombra che dia / la speranza del sole, / l’errore che ti illuda / di qualche verità», e ancora: «Un indizio dell’eden / prima della caduta / dalle parole ambivi. // Ora ti basta chiedere / loro quanto ti aiuta / a vivere tra i vivi».
Nella sezione centrale del libro, San Pietro in Vincoli, sono raccolte singole poesie, più sciolte e abbandonate rispetto a quelle che abbiamo appena preso in considerazione. Ritratti di persone e ambienti familiari (chiese, fiumi, amici, e poi spazzini, fantesche, pannocchie), ma soprattutto versi indaganti il mistero dell’essere, del vivere qui e ora. Si tratta in qualche modo di poesie filosofiche, ma non intellettuali: in esse la razionalità sembra cedere il posto a un’istintualità fisica positiva, ottimista. Bergsonianamente, Siro Angeli credeva nell’irrompere del nuovo, del caso, dell’imprevisto, a vanificare ogni costruzione simmetrica della necessità: credeva nel miracolo che può accadere a tutti, ogni giorno, modificando il già scritto. Per cui, tra lo sparo e il raggiungimento del bersaglio, voleva potersi affidare alla possibilità di uno scarto della pallottola, o alla stravolgente autonomia di un refuso sulle bozze di stampa, o alla non necessarietà delle scadenze temporali; auspicando «il nascere di una nuova / stagione in un altro universo / dove il conto non torni esatto».
Scriveva Gatto: «Questa poesia di Angeli, lontana da ogni remissività, è una sentenza contro il numero, l’estrema salvezza di un filo superstite». Da tali premesse teoriche derivava un insegnamento di vita: «tu lascia che domani / come improvvisi scrosci / di pioggia sulla via / ti colgano gli eventi», «Meglio se a passi discontinui / procedi, quasi allo sbaraglio , / lasciando che qualcosa s’insinui / tra lo scopo e te», «Non ridurre allo scatto / d’un congegno gli eventi». Polemico contro i ragionieri dell’esistere, che misurano i propri passi sui listini di borsa, asseriva: «lascia il calcolo esatto / di mezzi e fini, a trarne / utile e vanto, ad altri».
Il volersi giocare, con azzardo, la vita, non era solo atteggiamento mentale: all’età in cui ci si pensiona era stato capace di inventarsi una nuova esistenza, abbandonando la Rai e Roma, trasferendosi a Zurigo, offrendo vita nuova ai suoi anni. Un miracolo, un regalo del destino, amava definire la nascita tardiva delle nostre bambine: sicuro che se i suoi occhi si fossero chiusi, altri occhi, in altro modo suoi, sarebbero rimasti aperti sul futuro, meravigliati e grati di esserci.

 

«L’Arena», 24 febbraio 1992

RECENSIONI

JACCOTTET

PHILIPPE JACCOTTET, IL BARBAGIANNI – EINAUDI, TORINO 1992

Encomiabile risulta la recente iniziativa einaudiana di pubblicare nella prestigiosa Collezione di poesia un volume di Philippe Jaccottet, per la prima volta presentato al pubblico italiano con una raccolta organica dei suoi versi, con la prefazione e la traduzione del più promettente dei poeti ticinesi, Fabio Pusterla, e con un saggio illuminante di Jean Starobinski.
Jaccottet è autore svizzero di nascita e formazione, francese di adozione e, potremmo dire, di vocazione. Conduce oggi a Grignan, un paesino della Provenza, una vita schiva e dedita alla riflessione, alla produzione e alla diffusione della poesia. Traduttore dal tedesco (Musil, Rilke e Mann) e dall’italiano (Ungaretti, soprattutto, ma anche Montale e Caproni), è stato stranamente ignorato dalla nostra cultura così debitrice nei suoi confronti, forse solo (come suggerisce Pusterla) per caso, per dimenticanza. O più probabilmente perché Jaccottet ha scelto una via “moderata” e “dignitosa” di approccio alla poesia, snobbando da un lato sia l’impegno ideologico e lo sperimentalismo formale più azzardato, dall’altro contestando nei fatti il rimbaudiano “sregolamento dei sensi”, che tende a riflettersi esteticamente nella rottura totale con la tradizione.
Con Montale, Jaccottet ha scelto la via della «decenza quotidiana» nell’esistere: «Temevo soprattutto le formule categoriche, i rifiuti assoluti o le affermazioni perentorie, perché mi pareva che l’uomo che alza la voce o che picchia il pugno sul tavolo lo fa spesso meno per reale convinzione che per coprire il rumore dei suoi dubb»i.

E a questa sobrietà, essenzialità esistenziale, Jaccottet rimane coerentemente fedele anche nella scrittura; la poesia è lettura esatta, decifrazione puntuale delle cose, non paludata da espedienti formali che depistino il lettore distraendolo dal suo fine ultimo: che è quello di cogliere barlumi di verità, di approssimazione alla luce. «Non è appunto questo il lavoro che il poeta effettua sulle parole? Da opache, come gli furono date, si ostina a rendere loro la trasparenza, a renderci la felicità… Forse bisognerà ridursi a una posizione più modesta, a una via di mezzo: la poesia che illumina la vita come una nevicata, ed è già molto aver conservato gli occhi per vederla…».

Qual è, dunque, il compito del poeta? Jaccottet risponde in versi: «Compito dello sguardo che s’offusca / non è sognare o piangere, è vegliare / come un pastore il gregge, e richiamare / ciò che rischia di perdersi nel sonno»». E’ un richiamo che può essere attuato con parole comuni, addirittura logore, attraverso la descrizione di paesaggi quasi virgiliani (i boschi, le acque, insetti e uccelli…) e di situazioni di vita quotidiana che in qualche modo ricordano la nostra linea lombarda («Domenica popola i boschi di bambini che frignano, / di donne che invecchiano; / un ragazzo su due sanguina / si lasciano cartacce vicino allo stagno…») secondo moduli consolidati da una tradizione letteraria millenaria (rime, sonetti…). Dov’è dunque la peculiarità, ma anche la modernità di questa voce poetica? E’ nella sua limpidezza assoluta, nella sua cristallina musicalità, che ci fa respirare l’aria rarefatta e purissima dell’alta montagna, la trasparenza luminosa di altre atmosfere. Ma anche nella sua sapienza tranquilla, sicura e rassicurante, di una risposta che si intuisce al di là del mistero, della parola-viatico che ci accompagni, aiutandoci a passare «senza paura e senza rimpianti la soglia di quell’oscuro spazio che ci attende per inghiottirci o per cambiarci».

 

«L’Arena», 6 agosto 1992

RECENSIONI

DEDOLA

ROSSANA DEDOLA, LA VIA DEI SIMBOLI – FRANCO ANGELI, MILANO 1992

Rossana Dedola, ricercatrice a Pisa e studiosa del primo Novecento italiano, ha pubblicato presso Franco Angeli un volume di critica letteraria ispirato alla psicologia junghiana.

La via dei simboli è quella scelta dall’autrice per rileggere in modo senz’altro innovativo e coraggioso alcuni nostri classici contemporanei, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Calvino, e per sottolineare aspetti trascurati di due poeti diversissimi ma accomunati da un forte interesse per la psicanalisi: Andrea Zanzotto e Vivian Lamarque.
Il percorso indicato dall’autrice per approssimarsi al nucleo pulsante (per quanto represso, sgradevole o frainteso possa essere) della produzione degli scrittori presi in considerazione, fa sua l’ottica e la metodologia junghiana – pur non trascurando alcuni fondamentali contributi della scuola freudiana, quali quelli di Winnicot e di Kohut- tanto spesso snobbate, se non addirittura osteggiate in Italia. Da noi, infatti, a differenza di quanto succede ad esempio in Francia, l’approccio junghiano al testo letterario sembra produrre una circospetta diffidenza negli addetti ai lavori, per la fama di misticismo e irrazionalismo che da sempre aleggia intorno al nome dell’analista svizzero.
Il lavoro della Dedola prende le mosse da una doverosa e puntuale rivisitazione della polemica che ha visto fronteggiarsi Freud e Jung riguardo alla definizione stessa di opera d’arte, intesa dal primo come “sintomo” e dal secondo come “simbolo”. Dedola fa suo il giudizio di un grande critico, Debenedetti, che definiva Jung «alleato degli artisti, magari il loro complice… con una lucidità presaga e ignara», e rivalutando il parallelismo junghiano fra arte e inconscio, la giovane studiosa (recentemente diplomatasi all’Istituto Jung di Zurigo) attribuisce alla simbologia letteraria la sconvolgente funzione di «imprimere una spinta virtuale, un flusso di energia nella vita non solo personale, ma di un’intera epoca storica».
Ecco quindi analizzati alcuni simboli nei tre grandi del romanzo novecentesco, Svevo, Pirandello e Tozzi, che per primi e attraverso percorsi diversi, «mettono in crisi la centralità della dimensione cosciente, svelandone la fragilità». Le bestie di Tozzi vengono allora reinterpretate come simboli oscuri e istintuali di una soggettività sempre più frantumata, di una realtà deformata e indecifrabile. Tarchetti invece si misura tragicamente con il tema letterario del “puer” prigioniero della sua condizione infantile, incapace di crescere, di amare e di morire. Anche la curiosità culturale e l’algida ariosità intellettuale di Calvino vengono indagate e ricomposte, attraverso la rivelazione di censure insospettate e insospettabili nella rielaborazione delle  Fiabe italiane. Zanzotto e Lamarque infine giocano coscientemente e sapientemente con la psicanalisi, entrambi alla ricerca di una madre: per il primo simbolicamente celata nel paesaggio, per l’altra recuperabile solo nel reiterarsi di una pratica analitica.
Un volume audace e vivace, questo di Rossana Dedola, rigoroso nell’apparato critico e appassionato nelle tesi proposte, che interessa anche il lettore non specialista, catturandone l’attenzione con lo stile brillante e il sapiente dosaggio di filologia e vis polemica.

 

«L’Arena», 11 febbraio 1993

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL SOGNO DI WALACEK – EINAUDI, TORINO 1992

Giovanni Orelli, autore ticinese tra i più noti e autorevoli, professore a Lugano e pubblicista, sembra aver trovato negli ultimi due anni una seconda giovinezza come scrittore e poeta. Ne danno testimonianza i due volumi editi da Casagrande di Bellinzona (i versi di Concertino per rane e la ristampa del romanzo L’anno della valanga), e il recente Il sogno di Walacek, pubblicato da Einaudi. Definito da Cesare Segre «una riflessione laica sul destino in forma di scherzo», questo che in realtà romanzo non è, si rivela irridente, sarcastica, vertiginosa metafora narrativa della storia, (quella, deludente e meschina, di oggi, e quella febbrile e malata degli anni antecedenti la seconda guerra mondiale), ma anche della pittura, e soprattutto del calcio come espressione e passione tra le più vitali della nostra cultura.
Génia Walacek, mezzala della Nazionale Svizzera nonostante la sua origine evidentemente slava, nato a Mosca nel 1916, rifugiato a Ginevra per sfuggire alla Rivoluzione, fu autore della vittoria della misconosciuta squadra elvetica sulla potente Germania hitleriana alla Coppa del Mondo nel giugno del ’38 (4-2 al Parco dei Principi di Parigi), sfida e umiliazione tra le più pesanti per la boria nazista. Davide contro Golia, la Svizzera batte la Germania: la piccola, neutrale Confederazione, allora rifugio di tutti i “degenerati” razziali e culturali d’Europa, sconfigge l’imponente, vittoriosa, tronfia Germania del dopo Anschluss. E il miracolo avviene su un campo di calcio, in uno sventolio di bandiere dalle croci antitetiche (nefasta, quella nera uncinata, angelica quella bianca confederata). Walacek è strumento di vendetta divina, a lui si rivolgono le preghiere dell’Europa libera: «Cerca, quando giocherai a Parigi contro Hitler, perché Alles ist Politik…cerca di fare un palleggio da dio: en surplace, che spiazzi, che smonti, che ridimensioni al limite dello zero il tuo terzino nazista».

Il gioco del calcio diventa allora resistenza al nemico, opposizione intelligente alla stupidità della forza bruta, da invocare come simbolo di normalità e salute: «pregare l’angelo di legno comperato una volta, prima che venissero a turbare i giorni della pace, a Düsseldorf: chiedergli di mandare ancora partite tante, tutte le domeniche, con lo stadio che poi si sfolla adagio adagio, e i tram che scampanellano alle curve e agli incroci, riportano a casa gli uomini della partita, bene in tempo per la cena. Sì, la guerra è mancanza, è perdita di fantasia».

Un altro personaggio inviso alla normalizzante e ottusa cultura nazista di allora, il pittore Paul Klee, incrocia il suo destino di profeta e angelo ribelle, di oppositore visionario e purissimo alla lucida follia hitleriana, con la strada percorsa dal calciatore Walacek. Walacek aveva giocato il 18 aprile del ’38 la finale di Coppa Svizzera (Grasshoppers ZH-Servette GE 2-2). «Il giorno dopo… succede un fatto apparentemente privo di ogni importanza, uno degli infiniti fatti quotidiani che compongono, nella loro banalità, la vita degli esseri umani. Uno dei pittori degeneri, giusta l’estetica nazista, di nome Paul Klee, prende un foglio di giornale di quel 19 aprile, e si serve del foglio, invece che di una tela, per dipingere un quadro. Il quadro si chiamerà ALPHABET I».

Il giornale è la  National Zeitung, la pagina è la pagina 13, quella dello sport, con la cronaca della partita del giorno prima. Paul Klee «con mano di ladro celeste» vi disegna le lettere dell’alfabeto, e la lettera O (la tredicesima) viene a tagliare a metà il nome della mezzala cecoslovacca Walacek.
La pittura diventa profezia: la O di Klee (oppure era uno zero? Un anello ammaccato, una cornice deformata, un teatro, un circo, una ruota, un occhio di gatto, la sezione trasversale di un tronco, un buco nero, l’idea ordinata di cosmo, l’ovale della lapide dell’attaccante austriaco Sindelar, suicida dopo l’Anschluss? Giovanni Orelli infittisce le ipotesi, le interpretazioni, in un ininterrotto e travolgente crescendo di associazioni, ricordi, illuminazioni…), la O di Klee dunque segna per sempre un nome, quello di Walacek, destinato altrimenti a perdersi nella memoria labile degli sportivi, lo fissa – cancellandolo a metà – nella memoria più duratura dell’arte, e lo rende perenne.
Lo scrittore Orelli si cita e si mimetizza dietro la sigla dello scriba 0/17360, vox clamans in un’osteria ticinese, tra avventori distratti e polemici, voci anonime e figure storiche che si incarnano improvvisamente (Schopenhauer e Marina Cvetaeva, Freud e Joseph Roth, Ariosto e Nietzsche, Leopardi e Victor Sklovskij): ed è un fantasmagorico, inebriante turbinio di citazioni, versi, riflessioni filosofiche, terzine composte con nomi di giocatori o formazioni immaginarie e prodigiose. Orelli diventa egli stesso regista di un’animata partita di calcio, dove la palla è la parola, che rimbalza, vola, colpisce, e l’autore è abilissimo nello scartare, nel passare e nel marcare: blocca, respinge di punta e di tacco, smanaccia, si tuffa e finalmente infila, inaspettato e temuto, il colpo vincente e imparabile. I due protagonisti recitano genialmente i loro ruoli; Walacek segna gol, Klee dipinge. Entrambi pronunciano il loro secco no al nazismo. Si ritroveranno, due anni dopo. Ad avvicinarli sarà di nuovo un giornale («enciclopedia del quotidiano»), che tace la morte di Klee, avvenuta il 29 giugno del ’40, e cita, esaltandole, alcune prodezze calcistiche di Walacek. Sembra la vittoria dell’effimero: Klee viene cremato e le sue ceneri sono affidate a mani di semplici personaggi ticinesi, per l’ultimo commovente viaggio tra colori che non può vedere.

 

«L’Arena», 1 ottobre 1992

POESIE

UN DIVERSO LONTANO

Dove saremo, caro, dove saremo
quando non ci saremo
più?
In qualche pensiero che abbiamo pensato
di noi, in una carezza sospesa
a mezza mano:
e in questa attesa
di un poi, di un diverso lontano.

***

Se ti tocco i capelli
è per trattenerti nel tuo corpo,
nei tuoi confini stretti
di pelle, sotto le dita
che mi tremano.
Vorrei fermarti ancora:
in questo preciso momento,
con questo gesto che implora.

***

E’ nel tuo silenzio che mi ascolto,
nel tuo raccolto tacere; voce di allora
ricomposta a memoria. E’ nel tuo non esserci
che io ci sono; e sfogo i miei minuti,
i mesi, e prego che tu sia – ancora,
e ancora – in qualche luogo, e sappia
pronunciare il mio nome, ripeta a chissà chi
la nostra storia, e chissà come.

***

Una cosa mi avevi promesso:
che ci avresti difese anche dopo.
Che saremmo rimaste lo scopo
di ogni tuo pensiero inespresso
e celeste, di qualsiasi preghiera.
Invece, quanto buio e silenzio, la sera.

***

Dire a loro che non c’eri più,
che non ti avrebbero più rivisto,
questo è stato terribile. Non solo il tuo
già temuto non vivere, non essere
visibile: che al tuo nome chiamato rispondesse
il silenzio. Sapevamo che sarebbe successo;
non l’ adesso, il dove e come.
Ma dirlo, spiegarlo, dare un senso
al dolore. La più grande incapace
di muoversi, e la piccola
«lo portiamo da un bravo dottore».

***

Sei venuto ieri sera a trovare le bambine
e le hai viste così tanto cresciute,
senza te così tanto cresciute che una
è quasi donna. E allora cerca nei loro sonni
di riscoprirle, recuperando compleanni
e natali, le canzoni che non hai ascoltato.
Assomigliano sempre di più ai loro nomi,
che insieme abbiamo scelto
(la prima fatta d’aria, l’altra di selva):
hanno il tuo modo di sbattere gli occhi
di corrugare la fronte. Guardale
dalla porta come facevamo prima,
attenti a non svegliarle. Entra nei sogni
che hanno, e poi rimani lì,
nel loro respiro che non se ne accorge.

***

Liberi dalla terra e da Dio,
dove non c’è nuvola o vapore
e l’aria è aria solo perché vuota
e la tua voce è quella di mia madre
morta, ed è la mia: dove saremo
per sempre, mi hai promesso, senza
riconoscerci e sapere di noi; senza toccarci
le mani che non avremo più. Privi di memoria
delle nostre parole, privi di storia, in una ruota
di tempo non tempo; l’ adesso
sarà ieri: sarà dopodomani.

***

Buongiorno – mia essenzialità.
Mia notte fatta luce,
voce che mi traduce.
E densità.
Con te (per te), ritorno.

***

L’arte di non trattenere è da imparare,
come quella di stare zitti, e soli:
quella di ricordare i minuti buoni,
le buone parole – senza volerle possedere
per sempre. L’arte di accontentarsi
di poco amore, di vivere l’assenza:
è da imparare.
Se un debole fuoco può bastare alla notte,
il silenzio deve farsi presenza.

***

Ti intuivo nel buio
della camera sterile:
la mascherina i guanti
e te già persa nel sonno più duro,
pelle squamata labbra arse,
capelli che stentavano a spuntare;
ti pulivo, ti incremavo le piaghe
come a Cristo Maria per mantenerti viva.
Picchiavo il muro, la porta
se mi chiamavi mamma
dicendomi di non andare via,
e io a te lo stesso, come fossimo
un’eco, mia mamma mia bambina,
bellissima e cattiva che mi sei morta.

 

In  Un diverso lontano, Manni , Lecce 2003