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RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE
LA BAMBINA CHE MANGIAVA I LUPI – MURSIA, MILANO 1992
LA BAMBINA DI GHIACCIO – ELLE, MILANO 1992
IL SIGNORE DEGLI SPAVENTATI – PEGASO, VIAREGGIO 1992

Tra la fine del ’92 e l’inizio di quest’anno, Vivian Lamarque ha messo a segno un tris editoriale di titoli diversi per genere e tipo di pubblicazione, ottenendo comunque risultati di uguale, alto prestigio. Da una quindicina d’anni questa scrittrice (milanese di adozione, ma trentina di nascita) può godere di un pubblico convinto e appassionato, fedele testimone della sua voce poetica, sincero estimatore sia del suo particolarissimo timbro affabulatorio, sia del suo spessore -diciamo così- “umano”. Già dalle prime prove poetiche, contrassegnate da uno stile leggero e cantilenante, fintamente infantile – perché oscillante tra candore e spavento, tra malizia e gentilezza d’animo- sino alla produzione recente, letterariamente più mediata e accorta, culturalmente filtrata dall’esperienza analitica junghiana, Vivian Lamarque ha saputo scavarsi una nicchia sicura e incontestabile nel nostro panorama letterario, saggiando appunto vari generi: dalla fiaba alla filastrocca, dalla poesia al frammento alla traduzione. E questa nicchia, negli anni, se l’è lavorata, l’ha ampliata e abbellita, servendosene come di un rifugio cui tornare sempre, alla ricerca di temi e toni che rimangono solidamente gli stessi, ma con incursioni frequenti e spavalde in un esterno ogni volta più ampio e seducente.
Leggera e quasi incorporea, malinconica fata turchina dei Navigli, la Lamarque ha sfidato e modificato anche la tradizione più collaudata, quella favolistica, come nel recente volume La bambina che mangiava i lupi, uscito nell’indovinata collana  Beccogiallo per i tipi di Mursia. Ecco quindi una Cappuccetto Rosso rovesciata, di nome Bambina (un archetipo, quindi? o una vaga riminiscenza delle storie assurde per l’infanzia di Ionesco?), che ama i lupi al punto di mangiarseli, a volte lessi a volte arrosto. Bambina ha una gallina che si chiama Gallina, e insieme vivono in cima a un albero altissimo, in una capanna che ha tutto, e anche il balconcino in più. Di lì si sporgono a prendere il fresco, Bambina felice e Gallina tremante. D’inverno le due protagoniste del racconto girovagano affamate per il bosco, finché Bambina, quasi per caso, si trasforma in cacciatrice, cuoca e divoratrice di lupi. E a questo punto, all’understatement della Lamarque, sottilmente crudele nella sua fantastica levità, viene in soccorso l’illustratrice Donata Montanari, che ci propone una Bambina streghetta dai capelli rossi-aculei e dalle gambe sottili, intenta ad assaggiare sorniona una zuppa di lupo con orecchie, coda e zampe che sporgono da diverse pentolacce. Per farla breve, questa Bambina diventa presto il terrore dei lupetti che vanno a trovare le nonne, ed è temuta al punto che si vede costretta a travestirsi da lupo, «e a travestirsi bene, se no poi i lupi le dicevano ‘Ma che zampe bianche hai!… Ma che bocca piccola hai!’», e diventa essa stessa lupo, in un esopismo rivisitato sadicamente. Morale della favola: «E dunque non abbiate troppa paure dei lupi, bambini. Dentro di loro batte un cuore di bambina», in cui il messaggio consolatorio e rassicurante svela la considerazione perversa per cui è meglio la naturalezza ferina rispetto all’atrocità infantile.
Un’altra bambina è protagonista del secondo volume di cui vogliamo occuparci: La bambina di ghiaccio e altri racconti di Natale, pubblicato da Elle Edizioni in un volumetto illustrato in bianconero, con una splendida dedica che rimanda alla biografia sofferta dell’autrice: «A tutti i bambini (ma a quelli soli di più)». Tradotto dalla stessa Lamarque anche in francese, è uscito recentemente presso Albin Michel, nella collana  Ippomée. Si tratta di cinque storie particolari, che narrano Natali diversi, sospesi tra realtà sogno e immaginazione. Storie levissime e trasparenti come il cristallo, che si può spezzare e allora ferisce, punge; gelide e nitide come il ghiaccio, che esprime incomunicabilità e sofferenza. Ancora una bambina, quindi, espressione di un topos letterario in Vivian Lamarque, a metà strada tra Gretel e la piccola fiammiferaia, tra astuzia e generosità sacrificale, una bambina quasi eterna e quasi perfetta, ma condannata all’ombra e al gelo, e a non poter superare la soglia del suo millesimo anno di vita. Anche in questa delicata ma amara fiaba resistono echi lontani di leggende alpine e di balletti russi, stemperati da una sensibilità poetica eccezionale. Molto riuscite tutt’e cinque, queste storie, e in particolare le due finali: Natale in cielo e Natale in mare, dominate dallo struggimento della solitudine, dell’incompiutezza, della nostalgia per qualcosa o qualcuno che non si avrà mai.
A quest’ultimo tema possiamo forse riallacciarci per commentare il terzo volume preso in considerazione, Il signore degli spaventati, frammenti poetici che si collegano a un’altra opera della Lamarque (Il signore d’oro, Crocetti 86), omaggio all’analista junghiano con cui da molti anni l’autrice è in terapia. Sono quaranta composizioni non comprese in quella pubblicazione, e che ora appaiono con una prefazione di Giovanni Giudici presso le Edizioni di Pegaso di Viareggio, in un elegante cofanetto che comprende altri tre volumetti di illustri autori: Mario Tobino, Antonio Delfini, Gabriella Sica. Anche qui, un rapporto infelice, impossibile, di due persone che in qualche modo sono -per poco e per sempre- una nell’altra, e non dovrebbero. La signora spaventata che vorrebbe e non può, il signore spaventato che non deve.

«L’Arena», 13 maggio 1993

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA,  NON ORA, NON QUI – FELTRINELLI, MILANO 1989

Capita sempre più raramente di imbattersi in bei libri, intensi, che graffiano o comunque lasciano una traccia di sé su chi legge: in genere l’industria editoriale ci propina prodotti ben confezionati e ben digeribili, ma altrettanto facilmente eliminabili dalla memoria e dalla biblioteca. Non è questo il caso di Non ora, non qui, opera prima di Erri De Luca, quarantenne nato a Napoli e residente a Roma. A raccontarne la trama sottile si rischia di scivolare nello scontato, e di darne all’eventuale lettore un’interpretazione non accattivante: è infatti la storia di un’infanzia (e quante ne abbiamo lette?), di un difficile rapporto con la madre (ancora!…) e con l’ambiente. Ma è anche un libro in cui la letteratura supera se stessa, usa tutte le sue metafore e le sue abilità più raffinate per negarsi come tale, e ridursi a grido, a verità dolorosa. E’ una confessione e un atto d’accusa, una preghiera d’amore e una condanna.
Il protagonista ormai adulto rilegge la sua storia attraverso alcune fotografie dell’infanzia, ritrovate, ristampate, osservate con nuova spietata acutezza. Si rivede bambino, «più assorto che quieto»», orgoglioso fino alla testardaggine, di una emotività esasperata: si scopre dietro ai genitori e alla sorella, chiudere sempre in ritardo di alcuni passi il gruppo familiare, durante la temuta passeggiata domenicale; oppure ostinato di fronte alla finestra della cucina, mentre oppone un silenzio dignitoso a una punizione immeritata; o ancora mentre ascolta il profluvio di parole che tutti gli rovesciano addosso, a lui, balbuziente, «l’interlocutore preferito, il muto, l’imbuto». Il rapporto preferenziale è quello con la madre, giocato in un’intesa a volte epidermica e ovvia, a volte profonda e crudele. La mamma (mai descritta, se non nella schiena diritta, nei capelli improvvisamente accorciati per parere più vecchia, in una severità che si intuisce eccessiva perfino nei confronti di se stessa) cerca nel figlio una rispondenza addirittura fisica alle sue sofferenze. Ha l’abitudine di raccontare al bambino «le cose brutte del mondo», provocando in lui un’immedesimazione localizzata nella carne. Lui risponde ai desideri inconsci di lei, diviene l’eco delle sue rinunce, il riflesso delle sue mortificazioni, impara ad annullarsi. Non c’è gioia, non c’è abbandono in quest’infanzia, ma un sorvegliarsi attento, un rigoroso trattenersi, sempre.
Non ora, non qui è il ritornello che la madre oppone a ogni minimo scarto dalla regola; «non ho fatto niente, non l’ho fatto apposta» è invece la risposta automatica del figlio, obbligato a scusarsi di vivere. Unici sprazzi di felicità, di naturalezza fisica, sono la presenza di una domestica selvatica e istintiva, e le nuotate in mare con un amico molto amato e tragicamente perso.
Il vicolo, il porto, la scuola arrivano alla sensibilità del protagonista sempre attutiti, a volte stralunati, attraverso uno specchio deformante perché fissato a distanza ravvicinata, quasi abolita. La madre stessa è bloccata in una serie di istantanee per forza di cose poco realistiche, allucinate: e il rapporto tra i due soffre di una vitrea incomunicabilità, evidenziata nella metafora del reiterato incontro attraverso il finestrino del tram.
Una prosa lirica, in cui l’arte narrativa ha poco agio di mostrarsi, raggrumata com’è in nodi di vita incapaci di sciogliersi in finzione formale. Si esce da questa lettura feriti, turbati come sempre davanti allo spettacolo di una sofferenza gratuita; ma più leggeri, con gli occhi più attenti.

 

«L’Arena», 25 gennaio 1990

RECENSIONI

AAVV – POESIA CIVILE

AAVV, POESIA CIVILE E POLITICA DELL’ITALIA DEL 900 –  RIZZOLI, MILANO 2011

Questa antologia curata da Ernesto Galli della Loggia è un ammirato omaggio alla forza e alla nobiltà della poesia, quando sa elevarsi a voce politica di un comune sentire popolare, perché «forse solo nella letteratura risiede la vera storia morale e civile dell’ Italia in quanto nazione». A partire da Platone, spesso filosofi, storici e governi hanno guardato con sospetto ai poeti, perché intellettualmente inaffidabili, poco concreti, minacciosamente utopistici. Eppure la poesia ha da sempre accompagnato e talvolta incoraggiato i più importanti cambiamenti sociali e politici del nostro paese, da Dante in poi. Soprattutto il processo di unificazione nazionale dell’ 800 «assistette a un massiccio intreccio fra la poesia e l’impegno civile, il verso e la politica». Nel XX secolo, poi, autori e pubblico manifestarono un interesse crescente nel confrontarsi con gli avvenimenti fondanti della storia: dal futurismo degli interventisti, alla prima guerra mondiale (così intensamente raccontata da Ungaretti), dal fascismo che trovò stuoli di intellettuali proni a celebrarlo retoricamente e con interessata piaggeria, alla “tregenda” montaliana della seconda guerra mondiale, ai versi sofferti di Sereni nella prigionia algerina, fino alla resistenza di Pavese e Fortini. Infine, gli anni del dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico, trovarono nella «disperata consapevolezza» di Pasolini e nell’amara ironia di Pagliarani voci più coraggiosamente impegnate che nel provocatorio sperimentalismo della Neoavanguardia. Forse programmaticamente, infatti, Galli della Loggia ha ignorato l’intellettuale più organico della sinistra italiana, Edoardo Sanguineti, rinunciando abbastanza malinconicamente a citare nomi di poeti contemporanei dichiaratamente schierati: fanno capolino, ma con versi non eccezionali, Cavalli e D’Elia. E meritavano almeno una citazione Giudici, Maiorino, Rosselli.

«L’Immaginazione» n.276, luglio 2013

RECENSIONI

RIZZANTE

MASSIMO RIZZANTE, SCUOLA DI CALORE – EFFIGIE, MILANO 2013

Massimo Rizzante conclude il suo libro con un vibrante post-scriptum, «un monumento alla fragilità», quale si esprime, o dovrebbe esprimersi, nel carattere femminile: «non è solo dolcezza, generosità, tenerezza…ma una virtù più sottile…(che) cede, cede sempre, ma mentre cede assimila e assimilando rigenera». Pervicacemente ostile al «veleno della virilità», afferma infatti: «ogni volta che una donna soccombe alla monolitica virilità dell’uomo è un pezzo di civiltà che se ne va», perché «l’uomo non è riuscito ad accogliere la femminilità come valore e…perciò continuerà a mutilare e a rendere inferma la donna, oltre che se stesso». Il libro è quindi un omaggio alle donne, protagoniste assolute dei versi; e in particolare la dedica cita la madre, la moglie, e un’amica marocchina dell’autore. Sono voci femminili quelle che parlano nella prima sezione del volume: ventidue donne nord-africane che in sei quartine raccontano la loro storia di povertà e sfruttamento, analfabetismo e ricatti, malattia e sporcizia. I loro nomi sono arabi («l’arabo possiede / tanti gemiti quante mosche la testa di un agnello macellata»): Naima, Zohra, Kawthar, Fouzia… I luoghi citati appartengono tutti alla miseria del Marocco, sfruttata turisticamente e sessualmente dall’Occidente ricco e intellettuale: Ourika, Essaouira, Casablanca, Marrakech, «dove non c’è resurrezione». Inframmezzato dalla lettera di un amico di origine maghrebina e dal diario estivo di una giovane prostituta di colore, il volume si conclude con altre due sezioni, sempre al femminile. Ma qui le protagoniste sono donne occidentali, talvolta castranti quando imitano la protervia aggressività degli uomini: comunque vittime. Versi rabbiosi di denuncia (certo non fragili!), e che sempre ruotano intorno al tema della sessualità imposta o subita come violenza; versi provocatoriamente indifferenti alle invenzioni linguistiche e alla resa estetica, visceralmente polemici.

 

«L’Immaginazione» n.284, novembre 2014

POESIE

EURIDICE

I

Niente succede a caso, niente.
Che io ti abbia trovata, Euridice,
che tu sia apparsa a me – felice
di essere scoperta tra la gente –

un giorno non qualunque
di un non qualunque anno,
pronta a svelarmi inganno e disinganno;
per cui nel riconoscerti «Dunque

sei tu», nient’altro, e basta:
una stretta di mano, la mano
nella mia tiepida appena, casta,

e la voce che trema e non osa
dire quello che sa, ma piano
suggerisce altre cose, altra cosa.

II

E’ stata quindi una necessità
incontrarti, te tra millecento
che potevo, te pioggia sole vento
e subito me stesso, mia metà.

Più mia del mio sorriso e della pena,
più mia della parola, di ogni gesto.
Nome che chiamo, nome manifesto,
sangue che pulsa lento nella vena.

Perché sei tu e non altra, tu, Euridice,
compagna e sposa mia, sorella mia,
incisa nella pelle, cicatrice,

che mi riempi pensiero, bocca, sesso,
e non capisco ancora come sia
che perdo me nel ritrovarti, adesso.

III

Ascoltatemi, animali e voi piante,
tu cielo – monti torrenti scarpate –
voi cose sospese e interrate,
cose che mi girate intorno, tante.

Di certo non avrei mai creduto
di afferrare l’esistente con un dito:
se mi sento diventare infinito
e poi limite e fine, sordo e muto.

Euridice, continuo a nominare,
Euridice che canto e che invento,
Euridice, mio eterno pensare.

Siamo in due, siamo due e uno solo:
esserti fuori o dentro è tormento
in cui affondo. E poi volo.

IV

Può finire un amore, può cessare
di scorrere il sangue, così improvvisamente,
bloccarsi un corpo, tacere una mente,
e dicono non ci sia nulla da fare.

Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
non è possibile che non mi rispondi
lì dove sei finita e ti nascondi,
tornata sottoterra, mia radice.

Ê uno scherzo, non può essere vero
che rimanga di te solo il dolore:
tutto intorno più nero del nero.

Per questo alzati, cara, non fingere
un silenzio adirato, accusatore.
Non restartene lì come una sfinge.

V

Andrò da maghi a vendermi il destino,
carte false farò con fattucchiere,
annegato nell’acqua di un bicchiere
perché non ci sei più, non ti ho vicino.

Maledetti gli dei; quell’uno solo
che ha deciso dall’alto del suo alto
–  indifferente a tutto, ad ogni soprassalto
del cuore, trionfante nel suo ruolo –

di lasciarti morire, Euridice,
che non gli hai fatto niente,
mia figlia e sposa, amica mia, nutrice:

lo maledico con tutto me stesso,
dio colpevole e te innocente,
per quello che ha voluto, che ha permesso.

VI

Se provassi a pregare, se riuscissi
a convincerlo? Lui può fare
che sia quel che non è, può fermare
la terra, il sole, inventare un’eclissi.

Dio degli dei, dio dei viventi, dio,
non c’è un motivo vero, una ragione
per cui la vita mi diventi prigione,
e quello che era mio non sia più mio.

Ti scongiuro, signore dell’abisso,
ti imploro, lascia che ritorni
a fare uno di me che sono scisso.

Del tutto vero quello che si dice:
sono pronto a dannare i miei giorni
per riportarla a me, Euridice.

VII

Verrò a prenderti, cara, verrò
a liberarti, Euridice sprofondata
in un sonno ingannatore; mia malata,
rinuncerò a curarti, se vedrò

che ti avvolgi in un buio più profondo.
Cosa ti tiene, che cosa ti trattiene
laggiù, lontana dal mio bene:
hai paura di perderlo nel mondo?

Ma io scendo, comunque, a salvarti:
perché la vita vera è qui, è ora,
nel mio presente, nel mio sempre pensarti.

Non c’è assoluto che sia meglio
di noi, del mio volerti ancora.
Ed è un incubo il sonno in cui sto sveglio.

VIII

Sono pronto a fare una promessa,
barattando il mio sguardo col respiro
di te viva, il mio silenzio-capogiro
col tuo nome: Euridice principessa.

Giuro che non ti sfioro con gli occhi,
con le mani, che non mi avvicino
col mio corpo teso di bambino
incantato dal paese dei balocchi:

purché tu, semplicemente, sia
rimarrò muto, cieco e sospeso
vivendo viva e vera la magia

del tuo ritorno; impazienza
di averti, avendoti preteso,
mia ombra inconsistente, mia esistenza.

IX

Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.
Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.
Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,
Euridice, mia madre e bambina.

Come vorrei mi prendessi la mano,
toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:
so che non devo, so cosa mi tocca
se non resisto a starti lontano.

Sei silenziosa e ferma al mio fianco,
oppure ti nascondi, resti indietro;
segui ubbidiente il mio passo stanco

e nel tuo passo leggero ti ascolto.
Tu, trasparente pensiero di vetro:
voglio appannarti. Ecco, mi volto.

 

In  Litania periferica, Manni, Lecce 2000 e in  Nuovi Poeti Italiani 6, Einaudi, Torino 2012

RECENSIONI

MARZORATI

SERGIO MARZORATI, RITORNO A ZAGABRIA – SELLERIO, PALERMO 1995

Dopo cinquant’anni di assenza, lo scienziato Felix Glavan torna a Zagabria, abbandonata precipitosamente con la famiglia all’epoca delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. A richiamarlo in patria, con la promessa di un reinserimento nella sua città natale e di una reintegrazione delle case e dei beni sequestrati dai comunisti, è un giovane funzionario del nuovo stato croato, Stijepan Radic, la cui famiglia aveva conosciuto la famiglia Glavan, mantenendone nel tempo un ricordo ammirato e solidale. Separati dall’età, da esperienze diverse e da funzioni contrastanti (Radic è un giovanotto di grande sensibilità ed entusiastiche letture, Glavan un sessantenne di successo che ha deciso di rimuovere il passato, cancellandone le tracce dalla memoria. Il primo è credente e fiducioso nelle sorti dell’umanità; il secondo è ateo, scettico, privo di affetti), tra di loro si svolge una civilissima e partecipe conversazione nel corso della quale lo scienziato ebreo si arrende ai ricordi: affiorano così facce e mozziconi di frasi in croato, luoghi e sensazioni a lungo soffocate.
Glavan si rivede bambino decenne, brutalmente costretto a interrompere un brano di Haydn studiato al pianoforte per fuggire a Trieste con la famiglia: rivede la nonna fulminata mentre si aggrappa alla rete di confine, e lui e la mamma che ne trascinano il cadavere in terra italiana.
Alla pacata rievocazione della storia straziante di Glavan si contrappongono i luminosi accenni di Radic alla sua esistenza attuale: la giovane moglie, i bambini di cui è orgogliosissimo, il suo impegno nel riscattare un passato collettivo di cui si sente corresponsabile. Per entrambi, dimenticare è impossibile, la memoria diventa condanna. Glavan ricorda la pazzia della madre, preda di ossessioni, di persecuzioni introiettate e oggettivate che non le lasciavano scampo: si colpevolizza per aver ceduto alla necessità di ricoverarla in una clinica psichiatrica, rinunciando – a causa della malattia materna – alla donna che amava. Stabilitosi in Austria, il suo destino di ebreo scampato all’olocausto gli condiziona tutta la vita e perciò di fronte alle insistenze di Radic perché accetti una ricompensa dovuta o meritata da parte dello stato croato, e perché rientri a Zagabria, Glavan dice di no. Un no tranquillo e meditato, consapevole che il passato non si può recuperare: il dolore sofferto è per sempre, irrimediabile, mai giustificato.
Questa storia personale e pubblica, privata e collettiva, ci viene narrata da Sergio Marzorati, autore schivo e parco nelle pubblicazioni quanto elegante ed essenziale nella prosa. Il romanzo è compreso nella collana  La memoria  dell’editrice Sellerio, e non potrebbe essere altrimenti.

 

«L’Arena», 24 aprile 1996

RECENSIONI

SARCHI

ALESSANDRA SARCHI, VIOLAZIONE – EINAUDI, TORINO 2012

In questo romanzo di Alessandra Sarchi si fronteggiano due nuclei familiari, due ambienti culturali e soprattutto due diversi modi di affrontare l’esistenza. La prima famiglia è quella costituita da Primo Draghi -possidente terriero e costruttore edile-, sua moglie Genny, le loro due bambine, la nonna e alcuni inservienti rumeni. Orgogliosamente consapevole delle proprie possibilità economiche e delle proprie ambizioni, questa famiglia vive a pochi chilometri da Bologna, in una tenuta agricola che vorrebbe trasformare in sito residenziale, aggirando fraudolentemente qualsiasi vincolo paesaggistico, violentando il territorio con inqualificabili abusi, sfruttando la manodopera straniera e imbrogliando malcapitati e ingenui acquirenti. Solidali nella loro disonestà finalizzata al puro arricchimento senza scrupoli, i coniugi Draghi sono tuttavia genitori modello, teneramente attenti allo sviluppo delle figlie: in particolare affettuosissimi con Vanessa, gravemente disabile. Di tutt’altro spessore etico e intellettuale la seconda coppia, formata dall’architetto Alberto Donelli e dalla ricercatrice universitaria Linda, che vivono freneticamente in un piccolo appartamento del centro città, insieme ai due figli Filippo e Martina: nostalgicamente attratti dal recupero di una dimensione più umana del vivere, all’interno di spazi naturali e incorrotti. I Donelli quindi abboccano all’amo astutamente offerto loro dai Draghi, e acquistano una casa nella loro tenuta, senza sospettare di stare sprofondando in un tranello economico ed ecologico.
Alessandra Sarchi ha ideato un plot narrativo di indiscutibile interesse, che sfiora diverse e impegnative tematiche: rancori familiari e ambizioni di riscatto sociale, arrivismo e corruzione, sfruttamento dell’immigrazione e cementificazione delle campagne, abusi edilizi e compromessi politici. Ma la resa stilistica che ne deriva risulta piuttosto deludente. Il tono è spesso involontariamente didascalico, quasi che l’autrice si sentisse in dovere di spiegare al lettore vicende storiche, evoluzioni di costume, scoperte scientifiche, tesi filosofiche man mano che i protagonisti del romanzo si presentano sulla pagina con le loro specifiche professionalità e ideologie. Così della neurologa Linda veniamo a conoscere le ipotesi di studio sui «segnali intrasinaptici» e sulle scoperte di Mc Culloch e Pitts; di suo marito Alberto scopriamo che si tormenta sulla «dicotomia sviluppo umano-rispetto dell’ambiente», pronto tuttavia ad abdicare ai suoi ideali per banali interessi di carriera; dal costruttore edile Primo Draghi, fedele al motto «urbanizzare e vendere», recepiamo formule di successo basate su un realistico buon senso capitalistico: e contemporaneamente veniamo catechizzati da allarmanti e fosche previsioni sul surriscaldamento terrestre, sullo smaltimento dei rifiuti tossici, sulla disumanizzazione della medicina, sulla corruzione morale scaltramente inoculata dai media nelle anime più indifese. Anche i dialoghi sembrano spesso costruiti e artefatti, con giardinieri che parlano come libri stampati, immigrati clandestini eloquenti, ragazzini insopportabilmente saccenti e poco credibili. Al punto che dopo l’omicidio efferato con cui si chiude il volume, a scapito dell’unico personaggio davvero innocente e nobile, ci imbattiamo in uno scambio di battute di questo tenore: «Ma perché l’ha fatto?» «E saperlo cosa ti cambia? Credi che un atto criminale sia maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo? Questa differenza, secondo me, non esiste».
Forse una vicenda ricca di stimoli e provocazioni come quella ideata da Alessandra Sarchi meritava un restyling maggiormente accurato, per evitare ingenue o noiose banalità che possono infastidire anche il lettore più bendisposto.

 

«Leggere Donna» n.166, gennaio 2015

POESIE

LEZIONE DI SOLITUDINE

(Yo quiero estar donde estuve.
Pedro Salinas, La voz a ti debida, LIX-26)

I

Non mi trovava
mio cugino Carlo
quel pomeriggio che giocavamo
a nascondino, ed ero l’ultima
da recuperare. Gli altri
correvano per aiutarlo:
a spiare negli anfratti
del prato, nel parcheggio
vicino, tra gli alberi e la siepe.
Ma dimentica di loro
e di tutto
giacevo nel fosso
a guardare il cielo
che mi perdonava.
I bambini come matti urlavano
insulti a perdifiato,
e io tacevo.

II

Sotto il melo nell’orto
leggevo Pattini d’argento
in assoluta solitudine
e soddisfatto esilio,
immersa nella pagina
(nella polpa d’arancia
che sorbivo), se non fosse
intervenuta abietta l’inquietudine,
l’improvviso spavento
di scoprire sul tronco dell’albero
un bruco, un verme, o un millepiedi
(forse un drago per magia
rimpicciolito), così vicino
alla mia guancia, guardarmi
nudo e inerme,
ma attento e infastidito:
io colpevole di lesa maestà
e disdicevole intrusione
in domicilio, costretta
a scappare via.

III

Lo aspettavo seduta sul muretto,
e lui tra tanti pensieri appena mi guardava.
I suoi operai lo temevano:
non indossava la tuta
ma una bianca camicia,
una cravatta. Allora mi affrettavo
al suo fianco, orgogliosa.
Così alto, importante. Esplodeva
la sirena della fabbrica,
inchinandosi.
Mio dio, che mano grande
aveva mio padre! E come la mia
nella sua si sentiva sicura:
ma anche, perdendosi,
aveva paura.

IV

«È lei la figlioccia? »
chiedeva il parroco alla mia madrina.
«Così diversa dalle sorelle!» proseguiva,
e io bambina pronta alla cresima
confondevo figlioccia e figliastra,
soffocando nel cuore l’antico sospetto,
di essere figlia adottiva.

V

Il mio primo dolore
me lo ricordo bene.
A tavola, con gesto sbadato,
rovesciai l’acqua dal bicchiere,
sporcai la tovaglia,
e avevo quattro anni.
Il rimprovero della mamma
fu solo un pretesto
alle lacrime.
Non per quello piangevo,
ma per l’improvvisa rivelazione
che tutto passava e finiva:
quel pranzo, il bagnato,
la gente del mondo,
ogni aiuto futuro.
Saremmo invecchiati e poi morti
– nessuna eccezione.
Quello a cui non si deve pensare,
invece a me era venuto in mente.

VI

Non lo sapeva nessuno
in casa,
che se si guardavano le tende
del salotto dal divano
le pieghe in alto nascondevano
il profilo di un signore:
fronte, naso, mento.
Se a un soffio di vento
si muovevano,
il signore sorrideva.
Nessuno lo sapeva.
Solo io
premevo quel segreto
nel mio cuore.

VII

A Messa mi sentivo colpevole
perché non riuscivo a stare attenta,
e vagavo con gli occhi
con la mente su fiori facce affreschi,
sui ceri sottili che imploravano
una grazia a San Tommaso:
forse ogni fievole candela
misurava la vita dei fedeli presenti!
Quelle lunghe i bambini, e quella
quasi spenta la vecchia addormentata
al primo banco. Chissà poi che l’età
non c’entrasse, e invece per caso
una strana malattia,
un tremendo incidente.
Spaventata spiavo dove fosse
la candelina mia.

VIII

A scuola dalle suore,
più della maestra
e della compagna col braccio di legno
(«Tocca, non fa male, il mio risuona
e il tuo no!»), più degli odori
del refettorio o del boschetto
con la madonnina,
la mia salvezza era la finestra:
guardare fuori il cielo, sfiorare
con la bocca la brina sul vetro
appannato.
Oppure supplicare purezza nel confessionale,
«vade retro!» con sdegno al peccato
dei pensieri: perché ero una bambina
buona.

IX

Alle elementari
mi innamoravo dei ragazzini biondi,
col magone nel cuore: Silvano
che oggi fa il meccanico, Roberto
ansioso di arrivare in ritardo,
e poi Giuseppe, quello del bigliettino
(da grande ti sposo)
nascosto nella tasca del grembiule.
Li guardavo in silenzio dal mio posto,
i miei cari biondini; con tremante
emozione intuivo l’amore,
l’amore che è un dardo.

X

Con l’influenza allora
si rimaneva a letto
per una settimana o più.
Ogni tanto si affacciava alla stanza
Maria, a raccomandare pazienza:
«Mica stai per morire!»
Poi appariva lei con la minestra
in brodo, lo sciroppo,
un’altra scusa o una carezza.
Quasi quasi infermiera
e mai severa se stavo male,
con una tenerezza nella voce
che pensavo di non voler guarire:
subito dopo andava via,
e mi sentivo gesù bambina
in croce, alla sua porta chiusa.

XI

«Faccio male al lenzuolo
se lo graffio con le unghie
dei piedi, faccio male
alle giunture dei marciapiedi
se le calpesto
al suolo, faccio male
alle zanzare se le uccido,
al mio angelo custode
se non sono gentile,
alla mamma al papà
se li deludo, al mendicante
se non sono generosa.
Una cosa, per favore,
una cosa sola tra le tante
sbagliate e accusatorie
che mi salvi in eterno,
non mi porti all’inferno».

 

In Bloc Notes n. 64, maggio 2014 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018

POESIE

IL RAGAZZO KEVIN

(Omaggio a Elio Pagliarani, rileggendo La ragazza Carla)

1

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di Lodovico il Moro
c’è la casa di Kevin e di sua madre.

Il fratello più grande ha nome Christian
vive da solo o con qualche donna
poco lontano, in tre locali, guadagna bene
col suo negozio di ferramenta, con altri giri
e affari.

Son posti grigi questi, nuvolosi
di pozzanghere e nebbia,
sotto il cielo colore di lamiera

Chi c’è nato li conosce a memoria
non si ribella non cerca altrove:
le abitudini si fanno con la pelle
e la pelle di Kevin si fa dura
col tempo con poco sentimento.

2

Il cemento i palazzi scarsa erba
e tre alberi soli

fortuna che i tram
fortuna che nei tram di mezzogiorno
la gente ti preme ti urta ti tocca

altrimenti nemmeno ti ricordi del tuo corpo
che nessuno lo accarezza.

3

Kevin Bianchi fu Bruno di anni
diciassette primo impiego pony express
alla Barona
si impomata i capelli in una cresta
pantaloni abbassati sul sedere
e le scarpe due numeri abbondanti

che ridere che piangere

non avere pensieri o parole per dirli
ma girare il quartiere sgasando il motorino
le consegne veloci senza mance
o sorrisi

è questo dunque
che ci abbiamo nel sangue?

Basta solo che arrivi
la sera alle sei, e smontare
e mandare tutti quanti a farsi fottere.

4

Sua madre fa la sarta a domicilio
non sopporta il casino della stanza di Kevin
non le piace la musica che ascolta
il suo ragazzo. L’avrebbe voluto più alto

più bello, e magari vederlo
alla tv, tanti soldi
e un poco di successo di foto
sui giornali

invece lui sta sempre stravaccato sul divano
o connesso al pc fino a notte
non racconta mai niente, a volte si ubriaca
a volte fuma erba
mangia male, pelle e ossa, e se lei gli domanda
tira il collo all’indietro ed ecco tutto.

Ogni tanto suo fratello passa a prenderlo
chissà dove lo porta chissà cosa gli fa fare
donne nere o romene che magari si piglia

qualcosa di brutto ma ci vuole pazienza.

5

Si sente tutto, quello che dicono i vicini
quello che fanno, in bagno a letto,
gli odori musulmani di cucina.
Kevin vorrebbe farli fuori col mitra
A THIRD WORLD WAR

SENT FROM THE FUTURE TO EXTERMINATE
WHAT IS LEFT OF THE HUMAN RACE
TERMINATOR ! DISTRUGGERLI ! ANNIENTARLI !

va troppo spesso al cinema
e i film che Kevin non li può soffrire
Wim Wenders Woody Allen Kusturica
ma lui non li capisce preferisce porcate fantascienza cazzotti spie
vorrebbe imparare le arti marziali, è troppo magro
eppure un pugno basterebbe a un suo cliente in cravatta azzurra
sangue dal naso spaccare i vetri di un ufficio bucare gomme ai suv
fare cose indecenti a quella signorina tacchi alti
e la borsa vuitton

all’insaputa di sé si mette in lotta con l’ambiente

Kevin è un bambino un ragazzino fa il fattorino

ha una voglia
di piangere di compatirsi
ma senza fantasia
come può immaginare di commuoversi?

6

Le nove di mattina al 3 febbraio
piove che dio la manda
quella gente che marcia al suo lavoro
diritta interessata necessaria
Kevin non la sopporta, se potesse, Kevin:

(il tuo cuore sorpreso, spaventato
il cuore impreparato)
e la gente –
tutta così?

Accelera la moto, sgomma sul bagnato, non si ferma al semaforo
e spaventa i passanti, li schizza col fango,
per la rabbia con sua mamma, suo fratello, il padre morto
e la casa
Casa mia casa mia
per piccina che tu sia

e le donne
(Quante scuse le donne, quante moine
per non lavorare)

all’incrocio di via Meda
Kevin investe uno in bici, gli si rotola addosso,
sente gli ossi spezzarsi sangue in bocca e non urla
che botta che paura,

sono in due sull’asfalto sdraiati e intorno
la pioggia sirene rumori
muove le dita Kevin
raspa la terra per aggrapparsi e non gli riesce:

solitudine imperio libertà.

Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
ma questo è sopravvivere non vivere
resistere appena andare avanti
non capire non chiedere senz’altro
non sognare i sogni lasciamoli ai più piccoli
agli illusi chi crede al paradiso

se basta un motorino per finire
agli anni diciassette e intorno accorre folla
scuote la testa scuote la coscienza
pietà di noi e orgoglio con dolore.

 

In Incroci n. 27, gennaio-giugno 2013 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, STORIA DEL NULLA – LATERZA, BARI 1995

Scrivere un libro sul nulla, come concetto che percorre tutta la storia del pensiero occidentale, ha senso? Scrivere, cioè, proprio sul nulla assoluto, su ciò che non è, sul non-ente (e non sull’assenza, la mancanza, il nulla relativo; o su quel nulla particolare, storicizzato, che è il nichilismo): è possibile?
L’ha fatto il filosofo Sergio Givone, raccogliendo in  Storia del nulla (Laterza) saggi che spaziano dai presocratici ad Heidegger, da Leopardi a Celan, e indagano appunto ipotesi filosofiche e suggestioni letterarie riguardanti il non-essere.
La tesi di Givone (ripresa in parte da Severino, ma per giungere a conclusioni antitetiche) è che il concetto del nulla sia il grande rimosso della filosofia occidentale, quasi un fenomeno carsico che si affaccia alla riflessione teorica a distanza di secoli, là dove logica (che vieta di pensarlo) e metafisica (che lo nega) cessano di esorcizzarlo, cancellandolo come alternativa all’essere; mentre si ripropone nelle filosofie che ammettono il nulla come fondamento dell’essere, ed esplorano un’ontologia della libertà che da Plotino attraverso Schelling arriva al nostro Pareyson.
Il nulla indagato da Givone non è una forma di negatività opposta all’essere (non ricalca, quindi, la Grundfrage di Liebniz: «Perché l’ente anziché il niente?»), bensì il principio di libertà che permette all’essere la scelta fondamentale tra l’esistere e il non esistere.
Il nulla, dunque, come libertà estrema; luogo per eccellenza di tutto ciò che è possibile: un nulla che assomiglia non poco a Dio, «all’abisso della libertà» che alcuni chiamano Dio.
Questo «discorso temerario» mutuato da Luigi Pareyson, che approssima scandalosamente Dio al nulla, in un’esperienza vorticosa coniugante perdizione e salvezza, non è tanto interessato a un percorso di fede, o a un’attribuzione di verità al Dio cristiano piuttosto che al Dio della tragedia greca.
Scegliere Dio è scegliere il senso dell’essere, la libertà, e quindi il nulla che ne è il fondamento. Filosofia e religione accomunate dalle stesse emozioni (stupore, gioia, angoscia di perdita, orrore della fine) di fronte al miracolo dell’esistenza, combattono in Givone la stessa battaglia contro l’indifferenza del nichilismo, che oscura il senso dell’essere e condanna l’uomo all’assenza di scopo, alla pura apparenza.

 

«L’Arena», 20 maggio 1996