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RECENSIONI

RAMEY MOLLENKOTT

VIRGINIA RAMEY MOLLENKOTT, DIO FEMMINILE – MESSAGGERO, PADOVA 1995

L’autrice è una teologa protestante americana molto nota per la sua competenza di biblista e per il suo impegnato femminismo. In questo libro, partendo dalla tesi, tanto dibattuta quanto ormai scontata, che l’origine del sessismo e della dominazione maschile si possano situare nel linguaggio, prodotto da un inconscio marchiato dalla cultura patriarcale, propone con forte vis polemica un’operazione difficile e senz’altro anticonformista, quale quella di «cambiare il linguaggio liturgico», adattando alle nostre espressioni religiose tradizionali il «linguaggio inclusivo».
Così viene definito in area anglosassone quel modo di esprimersi che non fa riferimento a un sesso specifico, o li include entrambi, con lo scopo di poter parlare di un ente supremo che trascenda da caratteristiche sessuali peculiari: non più God=Dio (termine che rimanda in modo marcato a un immaginario maschile), ma preferibilmente Divinità, Deità, Essere, Uno. O, ancora, l’uso di pronomi neutri (quali l’inglese “it”) e di particolari circonlocuzioni onde evitare la meccanica associazione a caratteri virili della divinità.
Virginia Mollenkott distrugge stereotipi per proporre una divinità tenera, materna, che dà vita e nutre; perché davvero Bibbia e Vangelo presentano frequentemente immagini femminili applicate a Dio: dio padre e madre, dio partoriente, dio che allatta e levatrice, dio donna di casa e dio simile a tanti animali al femminile (aquila, chioccia, orsa, pellicano femmina), dalla Genesi all’Apocalisse, passando soprattutto attraverso i profeti, ma non trascurando i Vangeli.
Molto toccanti sono le pagine sul pellicano femmina, che restituisce alla vita i piccoli trucidati dal padre spargendo su di loro il suo sangue, e assurgendo così a simbolo (fin dai bestiari medievali) del sacrificio di Cristo. Altrettanto coinvolgente risulta il capitolo sulla creazione della donna, definita in ebraico “Ezer”, aiuto, sostegno per l’uomo. Tale termine viene attribuito solo a due entità: a Dio e a Eva, entrambi chiamati a un servizio che deve essere reciproco tra uomo e donna, tra Creatore e creature.
Scrive la Mollenkott : «Sì, io credo che anche Dio debba servire gli uomini. La nomina di Adamo ed Eva da parte di Dio fu sicuramente un atto di sottomissione di Dio, un atto con cui Dio volutamente faceva un passo indietro e tracciava dei limiti al suo io, per divenire dipendente dalle sue creature».

E ancora Dio-aquila, che insegna agli aquilotti a volare e a essere autosufficienti, è un dio che sta cercando di creare esseri uguali, capaci di non sfruttarsi unilateralmente, ma semmai di scoprire una nuova vicendevole solidarietà. Le immagini bibliche di Dio l femminile costituiscono, secondo l’autrice, una specie di «resoconto minore», a fianco dell’immaginario maschile (spesso addirittura bellicoso, violento) predominante: eppure ad esse dovremo saper ricorrere se vogliamo favorire la crescita di una coscienza religiosa che sia fondata sull’uguaglianza e la reciprocità dei sessi.
In un breve excursus storico all’inizio del volume, La Mollenkott suggerisce l’ipotesi che le chiese occidentali (frequentate ormai quasi esclusivamente da fedeli donne) siano così disertate dagli uomini perché essi sarebbero «inconsciamente respinti dall’idea di essere chiamati a un’intimità con un Dio esclusivamente maschile». Ostacolo che nei secoli è stato superato dal clero maschile con un escamotage non solo linguistico: la Chiesa è diventata madre, l’anima del sacerdote sposa di Cristo.
Culturalmente, quindi, alle soglie del duemila, si impone di imparare a parlare di Dio in termini inclusivi sia per il maschile sia per il femminile: l’Essere perfetta/o nell’unità, della cui natura divina ogni creatura è chiamata a partecipare.

 

«Leggere Donna» n.57, luglio 1995

RECENSIONI

CLEIS

FRANCA CLEIS, LA PIRAMIDE DI PESCHE DELLA SAGGIA REGGITRICE  – LUCIANA TUFANI, FERRARA, 2007

Franca Cleis, scrittrice e studiosa di storia del femminismo, cofondatrice degli Archivi Riuniti delle Donne Ticino, che diresse per molti anni, ha dedicato e dedica tuttora la sua esistenza alla ricerca, alla diffusione e alla difesa della cultura femminile nel suo paese. Cinque anni fa ha pubblicato per le edizioni Tufani un volume sulla vita e il pensiero di una straordinaria donna dell’ottocento, Angelica Cioccari-Solichon, affermata pedagogista e divulgatrice scientifica, attivista politica e emancipazionista, descrivendone con ammirata partecipazione il coraggioso e anticonformista impegno in favore dello sviluppo intellettuale e professionale delle donne. Angelica Solichon nacque a Milano nel 1827, crebbe a Zurigo e morì nel 1912 nel Canton Ticino, ma visse anche a Palermo e a Napoli, all’epoca del colera, seguendo il marito medico Carlo Cioccari, e lavorando con dedizione al suo fianco in favore della classi meno abbienti. Fu maestra d’avanguardia, e fautrice di numerose iniziative didattiche rivoluzionarie per l’epoca, autrice tra l’altro nel 1855 del primo libro di testo di economia domestica  L’amica di casa, che conobbe larga diffusione sia in Svizzera sia in Italia. A questa eccezionale figura di donna, Franca Cleis dedica questo documentatissimo volume, arricchito di una ricca bibliografia e di numerose testimonianze della pubblicistica coeva, che si offre al lettore suddiviso in due parti. La prima sezione, letteraria e d’invenzione dell’autrice, è animata poeticamente dalla rivisitazione empatica dei tempi e dei luoghi in cui visse e si prodigò Angelica Solichon.

«Ariosa ed emozionale, la scrittura evoca scenari intimi, domestici, familiari, con grande vitalità sensoriale – il profumo della pagnotta, il sapore dei vròcculi arriminati, la squisitezza della piramide di pesche, la linfa di annoso castagno- che permea anche il racconto dei momenti pubblici, ufficiali», come ben commenta nella sua prefazione la Professoressa e storica Emma Scaramuzza. La seconda parte del libro affronta invece, con scrupolo documentaristico e stile oggettivo, non solo la biografia ufficiale della Solichon, ma anche aspetti e questioni sociali e politiche significative della storia ticinese e italiana tra Otto e Novecento.
Un lavoro accurato e documentato, questo di Franca Cleis, che ha avuto il pregio di far conoscere oggi a un pubblico più vasto l’illuminante e generosa esperienza intellettuale e di vita di una precorritrice delle istanze femministe di uguaglianza e sviluppo: lavoro a cui Franca si è dedicata con disinteressata passione, riuscendo addirittura a impedire lo smantellamento della tomba di Angelica, e salvandone così anche l’unica immagine fotografica rimastaci, e restituitaci in questa sua importante e vitale ricerca.

 

«Leggendaria» n. 94, luglio 2012

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, COME IL FUOCO. UOMO E DENARO – CITTADELLA, ASSISI 2011

Quando si parla del denaro, o si tenta di definirne la natura, ci si scontra inevitabilmente con la sua ambivalenza strutturale. Coppie di sostantivi contrapposti possono alludere alla sua essenza (fine/mezzo, credito/debito, libertà/necessità, trascendenza/immanenza, sogno/incubo), attributi incompatibili ne indicano l’enigmatica ambiguità: sporco/pulito, giusto/ingiusto, condannato/ idolatrato, relativo/assoluto, materiale/immateriale.
San Francesco chiamava il denaro  «sterco del demonio», per Calvino esso esprimeva la benevolenza di Dio, per Sartre aveva un carattere «magico». Il filosofo Franco Riva gli dedica uno stimolante e approfondito studio, derivando da Eraclito la considerazione che l’oro, come il fuoco, è «mutamento scambievole di tutte le cose». Quindi, «il denaro brucia». Distrugge ed edifica, salva e danna: ma non va assolutamente demonizzato, né fanaticamente adorato o difeso.
Il denaro è diventato un feticcio universale, una sorta di religione globale, che – come tale – «ha i suoi sacerdoti, il suo popolo, i suoi templi, le sue liturgie, i suoi riti». Qui l’aculeus dell’autore si fa particolarmente sarcastico e feroce, nel descrivere quelle austere chiese moderne che sono le nostre banche, con le aree riservate per i clienti bisognosi di conforto e indicazioni e con i competenti consiglieri finanziari : una simbologia tutta debitrice ai confessionali e alle guide spirituali oggi tanto disertati. E ricorda che tuttora sul dollaro è stampata la frase «confidiamo in Dio».
Una nuova divinità, quindi, il denaro, che permea e invade la nostra quotidianità, si insinua negli ambienti domestici e lavorativi, prolifera e domina qualsiasi attività del nostro tempo libero: dallo sport al turismo, dalla contemplazione di opere d’arte all’utilizzo dei servizi igienici nelle stazioni.
Ormai paghiamo un ticket per qualsiasi espressione della nostra volontà: «La contraddizione totalitaria della liberissima società dei consumi non consiste nel ridurre tutto a consumo, ma nell’imporre senza che nessuno protesti sul serio… dei ticket per accedere al diritto stesso di consumare».

Se Fromm aveva potuto distinguere tra essere e avere come condizioni in contrasto nell’esercizio della propria umanità, oggi «il denaro ha assorbito anche l’essere… perché senza denaro non si esiste», e ancora: «Usciti dalla civiltà umanistica dell’essere e piombati nella civiltà moderna dell’avere, gli uomini si riconoscono soltanto in ciò che hanno e in ciò che consumano… e il possesso diventa l’unico criterio di valore». È proprio tutto così assolutamente sconfortante? L’homo oeconomicus ha assorbito totalmente ogni altra caratteristica dell’essere umano? Niente e nessuno si sottrae al dominio schiavizzante del capitale? L’accoglienza, l’ospitalità, l’uso della parola, la libertà di pensiero, la democrazia stessa finiscono per subire passivamente e quasi ingenuamente il diktat della pecunia. Che è diventata lingua universale, come la musica e la matematica. Sembra allora di sentire il grido di ribellione di chi rifiuta un’omologazione assoluta nel prostrarsi al disumanizzante nuovo credo: quali valori si sottraggono ad esso? La verità, la fede, i diritti umani, la giustizia, la difesa dell’ambiente, la gratuità del dono, la solidarietà… Ma ne siamo certi, o fingiamo un candore da anime belle che preferiscono la cecità all’ efferatezza del realismo? Siamo forse «tutti economisti spietati nei traffici quotidiani con il denaro, e tutti moralisti solleciti nelle intenzioni?» Anche l’etica del lavoro, la celebrazione del sudore della fronte deve ormai inchinarsi di fronte a un’incontrovertibile evidenza: «Non è più il denaro che dipende dal lavoro, ma il lavoro che dipende dal denaro», soprattutto dopo la finanziarizzazione speculativa dell’economia.
Cosa ci può salvare, a questo punto? Franco Riva richiama tutti a una «resistenza silenziosa ed eroica», a una dignità dell’impegno della vita comune, a un ripensamento dei propri valori: allora anche il denaro può essere di aiuto nel soccorrere chi si trova in difficoltà, nel promuovere la cultura, nel riequilibrare la giustizia attraverso il risarcimento piuttosto che con la vendetta, nel recuperare l’idea della propria professione come pienezza e soddisfazione di vita.

 

«Mosaico di pace», 19 marzo 2012

POESIE

IL SILENZIO, LE VOCI

Della parola è l’ombra,
la parte scura, il non detto.
La osserva sola, e sospesa,
come ingombra l’aria, intorno,
e dura, e pesa.
Perfetto, lui tace.
Conserva l’eco,
la pace.

***

La ferita che dura
se non la tocchi guarisce da sola.
Nel silenzio è la cura:
diffida, diffida della parola.

***

Ritirarsi, ritirarsi.
Lasciare spazio al vuoto.
Tacere nel brusio,
nel mormorio.
Cercarsi nell’ignoto.

***

Senza parole, immobile,
troppo oscuro per noi,
troppo lontano:
il dio che amiamo tace
quando permette al male
di essere nostro male. Non vuole
che capiamo, noi zitti
e lui incapace di farsi perdonare,
terribile e bambino.
Libertà che temiamo
è il nostro e suo destino,
dio dell’indifferenza
e dio della pietà.

***

Si schiudono come fanno i fiori,
appena appena, leggere, con pudore,
impaurite quasi dal potere che hanno,
le parole d’amore. E promettono,
sincere finché durano, sospese
dentro al fiato in cui vivono.
Poi sfinite sulle labbra dell’amato
lasciano che sia il silenzio a prevalere.

***

Riconosci la mia parola nel mio silenzio.
Fa’ tuo il tuo nome che taccio.
Intorno, anche l’aria è di ghiaccio.
Riconosci nel mio non dire il mio patire.

***

Baciarti sulle labbra la parola
che a fatica pronunci, a fatica:
quasi avessi promesso di non dire.
Aspirarla con il fiato appena,
mescolarla al mio respiro, e confonderla.
Che non abbia paura, ascoltandosi,
di restarsene lì, irrimediabile, sola.

***

Mi aggrappo alla tua ultima parola,
mentre non ti voltavi
e scendevi le scale.
Così leggera e innocua:
come un ciao che non fa male.
Però non era ciao,
era un sottile strappo
pronunciato di gola, involontario
forse, ma dichiarato.
Risalirai le scale?
Ridirai la parola?

***

Può mentire il silenzio?
Forse come un’alzata di spalle,
un’occhiata distratta,
il gesto inadeguato
con cui ci si scusa senza convinzione.
Così il silenzio tace,
rassegnato a una verità
contraffatta, alla finzione.

***

La parola non concede spazio,
ogni parola.
Ogni parola toglie spazio
alle altre. Le divora.
Detta per sempre,
è implacabile.

E rimane così,
dura, perfetta.
Immodificabile.

 

In Il silenzio e le voci, Nomos, Busto Arsizio 2011 e in Gli Stati Generali, 29 giugno 2020

POESIE

IL PROCESSO

(Omaggio a Mario Luzi, rileggendo Presso il Bisenzio e altre poesie da Nel magma)

 

Hanno telefonato, dicono che verranno
già che si trovano a passare dalle mie parti.
Sono due coppie, più giovani di me e più impegnate:
chierici rossi, o neri; a lume di chiesa o d’officina
(per dirla con Montale).
So già cosa m’aspetta.
L’ennesimo processo, in questi anni d’oscurità e di passione.
Anni vissuti a cuore duro, sola, coi polsi che tremano,
sempre sulle tracce
d’una felicità non mai raggiunta, o fuggita di mano.
Eccoli che suonano; entrano in casa come da padroni,
imbaldanziti e arcigni,
logorati dalla lotta e più che dalla lotta
dalla sua mancanza umiliante.
Siedono sui divani, dopo gli inevitabili saluti
imbarazzati. Penso a questo incontro
se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta,
e sto senza parole aspettando l’affondo.
Le coppie danno segno di fastidio, ma non fiatano
e masticano gomma guardando me o nessuno;
forse fuori dai vetri, il giardino e gli ulivi,
il lago raso rigato da un solo cigno.
Inizia uno dei due mariti, tra ironico e furente.
«Tu? Non sei dei nostri». Mi fissa a lungo e attende.
Crede. Da sempre milita nella fede di Cristo, ostinato
nel lavorio d’un animale strano tra formica e talpa.
«Guardati, guardati d’attorno». E sento il privilegio
della mia condizione, la colpevole ignavia
che mi fa prigioniera.
Cerco per la mia mente un nido,
così taccio davanti a lui che aspetta
aspettando a mia volta e intanto penso.
Come una cateratta infine, come un vulcano esplode.
E c’è dentro di tutto: i bambini africani,
profughi musulmani, e chiese in disarmo,
l’egoismo di pochi padroni del mondo e di me
che non mi oppongo, non combatto, non prego
o prego in solitudine evitando il confronto.
«E’ terribile tu non sia dei nostri».
Ora smarrito ed indignato di fronte al mio silenzio,
chiede aiuto alla moglie
che muove ad un sorriso
colpevole le labbra,
tra beffarda e strana, e mi rinfaccia
questa conoscenza avuta a sprazzi nel buio.
«Sei tu che non accendi la luce, o non vuoi.
Non dire che non puoi».
Punta i suoi occhi impenetrabili che non so se guardano altrove, e dove.
Le piante, il pianoforte, il mio inqualificabile benessere.
«Prova a fidarti, ad affidarti…»
Gemono quelle labbra tormentose
schiacciate contro i denti.
«Faccio beneficenza. Aiuto chi è nel bisogno». Provo a scusarmi,
e forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo,
se dico «Non ho odiato mai. Né fatto male con consapevolezza».
I silenzi si fanno più frequenti
e lunghi. «Ho cresciuto da sola due bambine».
Tento la carta della compassione.
«Non confondere il privato col politico». Interviene
il compagno che era rimasto zitto prima.
Fiducioso della buona sorte
dell’anima e, perché no, della rivoluzione inesorabile ch’è alle porte.
«Non sei carne né pesce. Non ti schieri.
Non partecipi alle sorti della terra».
«E’ difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che per voi
e passava da altre parti». «Quali parti?»
E mi fissa con un suo sguardo fluido e arguto.
Ancora non intendo se m’interroga
o continua per conto suo un discorso senza origine né fine.
«Devi crescere: crescere in amore
e in saggezza». Interviene la moglie, pasionaria
di antiche barricate, ormai solo mentali.
«Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze»
e non mi riconosce né la profondità, né l’ardimento.
Rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe. «Non credo
di essere importante, ho fatto il poco che mi è riuscito».
E ancora «Abbiamo avuto in sorte tempi duri».
Ma loro, compagni esperti del dolore del mondo,
rincarano le dosi. «Possiedi tutto, per dare di più.
Scuotiti, agisci, scegli». E io,
in questa specie dimessa,
in questo aspetto avvilito: «Scrivo. Scrivo versi
che spero dignitosi».
Rimango a misurare il poco detto,
il molto udito. «Non basta».
E’ la condanna,
la ruggine impalpabile che chiude ogni discorso,
di arringa o di requisitoria.
Ma uno dei due uomini si ostina:
«Qualcuno cede, qualcuno resiste nella sua fede
tenuta stretta». Gli fa eco quell’altro,
a modo di saluto o di viatico: «Combatti!
Questo vuole il tuo tempo, perché non gli vai incontro?»
Con movenze felpate e caute si avviano alla porta,
i quattro liberati da un peso, e soddisfatti.
Mentre io sento il morso del rimprovero soltanto.
«E adesso, dove state portando il vostro
inflessibile rigore, la vostra pungente coscienza marxiana?»
vorrei chiedere, ma mi precedono sul tempo.
«C’è un outlet qui vicino, ci hanno detto.
Si può fare qualche acquisto firmato a buon prezzo.
Sai se è molto affollato di domenica?»
Giorno offerto al Signore.
Guardo il lago indifferente,
le sue vele lontane. E mi esorto in silenzio:
«Prega che la loro anima sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetta».

 

In Bloc Notes n. 62, marzo 2012 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017

RECENSIONI

SEQUERI

PIERANGELO SEQUERI, INTORNO A DIO – LA SCUOLA, BRESCIA 2012
SEQUERI/GARLASCHELLI, L’UMANO PATIRE – BERTI, PIACENZA 2009

«Da molto tempo… la ricerca teologica di Pierangelo Sequeri è impegnata nel tentativo di recuperare un ‘pensare Dio’ in cui la sensibilità per il senso assuma il ruolo-guida, diventando intelligenza dell’esperienza, intuizione della giustizia, percezione di una presenza». Così scrive nella sua introduzione a questa stimolante intervista Isabella Guanzini, che con estrema, sagace umiltà e altrettanto attenta e partecipe curiosità invita Pierangelo Sequeri a esprimersi sui temi e gli interrogativi fondamentali che agitano le più percettive coscienze cattoliche dell’oggi. E il teologo-filosofo-musicologo milanese risponde con schiettezza e profondità, come si conviene a una tra le voci più autorevoli e sincere della Chiesa, senza paludarsi dietro a diplomazie e sotterfugi troppo spesso praticati da altri influenti religiosi. Il suo è un richiamo vigoroso a rifiutare «il mediocre modello cristiano-borghese, che predica il cristianesimo come mortificazione della vita del desiderio, e lo pratica come legittimazione del proprio status politico-mondano»: a uscire da un’ interiorità che diventa facile alibi per i nostri egoismi («Siamo diventati codardi con gli assoluti», «L’habitat di Dio è la storia, non la parrocchia»); a lasciarsi coinvolgere dal lavoro della mente e dalle passioni dello spirito. La critica ai devozionismi, alle superstizioni, ai narcisismi, ai passatismi codardi dell’attuale pratica religiosa è impietosa e ardita: così come quella alle mode new age di rispolverati misticismi, alle disinvolture filosofiche che fanno l’occhiolino alla psicanalisi, alla sociologia, a politicismi tattici. Ribadisce il suo forte no a qualsiasi fede zuccherosa e stucchevole, fatta di routine e di gossip mediatici. Ma si spinge con coraggiosa originalità anche sul terreno più specificamente teologico del dibattito sul male, contestando acutamente la sospetta arrendevolezza con cui si accolgono scriteriatamente le tesi sulla teodicea. E il suo richiamo severo è allora «all’economia delle parole, dei gesti e dei silenzi» per lasciar parlare il Signore, in una relazione frontale, di amorosa reciprocità.

In un secondo, piccolo e importante volume, la voce limpida e franca di Pierangelo Sequeri si confronta con gli stimolanti interrogativi e le acute ma ammirate provocazioni del filosofo Enrico Garlaschelli. E il terreno di incontro è quello, vastissimo e antico, del problema della sofferenza, dell’esistenza del male – compiuto e patito – , e delle giustificazioni che a queste eterne domande della coscienza e del pensiero tenta di dare la fede cristiana. In che modo lo scandalo del male può aprire all’orizzonte di una trascendenza del bene? Il dolore è sempre apertura di senso? L’esperienza del patire può diventare esperienza di relazione? Sequeri risponde richiamandosi alla giustizia e alla bellezza dell’esistere, al dovere della comprensione reciproca e della solidarietà, stigmatizzando «la stupidità della nostra cattiveria che assomma al male nel mondo quello che ci facciamo l’un l’altro», sottolineando l’ esigenza di non sostituire a Dio «padreterni di seconda scelta». E le parole d’ordine forti, convincenti, di tutta la sua ricerca teologica tornano qui con la loro provocatoria verità: la polemica contro il pensiero modesto e la religione d’arredamento, l’invito alla tutela della cura e a un’etica della resistenza umana, la critica all’alleggerimento del tragico e alla pressione di conformità dei nostri tempi. Il vo lume si chiude con alcune pagine di meditazione di Garlaschelli, che rifacendosi a Kafka e Celan, a Hobbes e Girard, ripercorre tutta la riflessione di Pierangelo Sequeri, che da sempre privilegia l’interrogazione trepidante, il dubbio autentico, il desiderio innocente alla rassegnazione dell’indifferenza: «non il problema speculativo del male come nulla, ma l’invocazione “liberaci dal male” nella forma della speranza».

 

«Mosaico di pace» 9 ottobre 2012

RECENSIONI

VIA DEL VENTO

ANNA ACHMATOVA, FLEBILE E’ LA MIA VOCE ; MARINA CVETAEVA, IL RACCONTO DI MIA MADRE; ELISABETH VAN GOGH, MIO FRATELLO VINCENT – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2012

Via del vento è una piccola e raffinata casa editrice di Pistoia, fondata negli anni ’90 dal pittore Fabrizio Zollo, che in un ventennio è riuscito non solo a pubblicare importanti testi di narrativa e poesia di autori internazionali, costruendo un catalogo ricco e originale, aperto alla collaborazione di autorevoli studiosi e traduttori, ma anche a stimolare la vita culturale cittadina con molteplici inziative: mostre, concorsi, dibattiti. I libri che vengono offerti ai lettori hanno la particolarità di essere costituiti di poche pagine, in genere non più di quaranta: sono libriccini curati, eleganti, che propongono nomi rilevanti del nostro 900, soprattutto toscani (Bigongiari, Luzi, Manzini…), ma anche scrittori notissimi a livello mondiale e tuttavia lontani dalle mode imperanti e imposte dai media nazionali. Il prezzo dei volumetti non supera mai i quattro euro, e sono corredati da una breve postfazione critica e da una nota biografica sull’autore. Delle tre pubblicazioni di cui qui si vuole parlare, la prima è dedicata alla poetessa russa Anna Achmatova (1889-1966), e riporta ventisei liriche composte tra il 1912 e il 1963, lievi di tutta la delicata sensibilità di un timbro poetico assolutamente femminile («È flebile la mia voce… / e sono casti i miei pensieri… / Io perdono tutto»), e insieme cariche del dolore privato e politico che ha visto la Achmatova testimone e vittima di accadimenti tragici. C’è quindi la Storia, inflessibile e crudele con tutta la pesantezza di un potere che opprime («e innocente si contorceva la Russia»), ma c’è anche la leggerezza dei sentimenti che si confondono con il bianco immacolato della neve («Sulla dura cresta di un tumulo di neve / vaghiamo in un soave silenzio…»), con i trasalimenti degli amori che iniziano o stanno per finire, con gli addii ai poeti che hanno saputo regalare emozioni a un popolo sofferente («S’è azzittita ieri la voce irripetibile…»). Un secondo libriccino apparso nella collana Ocra gialla di «testi inediti e rari del novecento», raccoglie due racconti mai letti in Italia, che un’altra famosa poetessa russa, Marina Cvetaeva (1892-1941), scrisse tra il 1933 e il 1934, quando con il marito Sergej Efron viveva a Parigi, circondata dall’ostilità della colonia degli ebrei russi fuggiti dal bolscevismo. Protagoniste delle due novelle (che si differenziano dalla narrativa coeva della Cvetaeva per un loro tono vivace e gioioso, leggero e irriverente, dovuto forse alla memoria felice dell’intimità familiare vissuta dalla poetessa nell’adolescenza) sono Marina stessa – chiamata affettuosamente Musja – e la sorella minore Asja. Nel primo testo, Il racconto di mia madre, le due bambine si contendono l’amore materno in una sorta di gara dispettosa su chi sia tra le due la più amata («Mamma, a chi vuoi più bene, a me o a Musja? No, non mi dire che è la stessa cosa, non è mai la stessa cosa, ce n’è sempre una che si ama un pochino pochino di più… Un pochinino di più, una goccia, una briciola, un millimetrino di più»). E la madre si schermisce, cercando scampo nella narrazione truculenta di una favola dai contorni spaventosi… Nel secondo racconto Il fidanzato, le due ragazze, cresciute, si prendono beffe di un pretendente amorfo e goffo. Tolia era «di buona taglia e in carne, e, ahimè, tutto sudato…Era giovane, e se non bello, era per lo meno benevolo (e inoltre tutto quello che si vuole derivato dal bene: beneducato, benintenzionato, benpensante…): dagli occhi acquosi e inespressivi, girava intorno alle sorelle “come un gatto attorno al macellaio”». Il fidanzato rifiutato da entrambe si prende la rivincita diventato adulto: sposa una ragazza carina e ricca, diventa direttore di museo, assumendo Asja con un incarico umiliante, e poi scrittore di successo. Ma Marina Cvetaeva conclude crudelmente la sua narrazione con queste parole: «Solo, ecco, che genere di scrittore?». L’autrice del terzo volumetto è Elizabeth Van Gogh (1859-1936), quartogenita dei sei figli della famiglia Van Gogh. Ebbe anch’essa vita non facile, sebbene meno infelice di quella del fratello: la casa editrice Via del Vento propone ora una riduzione della breve biografia-ritratto (resoconto asciutto e oggettivo, senza particolari risonanze emotive) pubblicato nel 1910, a vent’anni dalla morte del pittore. Quasi ignorata dal celebre Vincent, primogenito di un pastore protestante, ne seguì con rispettoso ma forse poco partecipe sguardo l’esistenza tormentata e geniale, con le sue cadute, le vertiginose conquiste, le inquietudini. Così lo descrive nelle poche righe iniziali: “Corporatura tarchiata… testa bassa… capelli rossicci tagliati corti sotto il cappello di paglia, che faceva ombra a uno strano viso… occhi piccoli e infossati… dal suo aspetto sgraziato emergeva la profondità di tutto il suo essere. I suoi fratelli e sorelle gli erano estranei. La sua stessa persona gli era estranea, come lo era la sua giovinezza.” Ecco quindi che Vincent mangia poco e da solo, veste con noncuranza, evita i rapporti sociali («era a suo agio soltanto fra i poveri, i semplici e gli infelici»), fugge in continuazione da tutti i lavori e gli impieghi (commesso, commerciante d’arte, insegnante di francese, predicatore evangelico tra i minatori), cambia ansiosamente orizzonti (L’Aia, Bruxelles, Londra, Parigi, Anversa, Provenza), si accompagna a donne equivoche e a ubriaconi, soffre di disturbi mentali. Ha un’unica passione: la pittura, ancora incompresa dal pubblico e dai mercanti d’arte, a cui si applica con febbrile dedizione, disinteressandosi di qualsiasi aspetto materiale dell’esistenza. La sorella accenna ai suoi capolavori senza mai comprenderne totalmente l’assoluta novità ed eccellenza, solamente intuendo di Vincent l’eccentricità «fuori del normale», che rese la sua fine precoce assolutamente prevedibile: «Per lui, morire era più facile che vivere». Ecco quindi la testimonianza di tre donne che seppero puntare lo sguardo oltre il proprio vissuto, confrontandosi direttamente o indirettamente con la letteratura e l’arte, e diventando esse stesse parte della grande storia della cultura e del mondo: giusto e meritorio che una piccola casa editrice abbia voluto celebrarle.

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

RECENSIONI

DAMIANI

CLAUDIO DAMIANI, POESIE – FAZI, ROMA 2010

Presso l’editore Fazi è uscito un volume antologico del poeta romano Claudio Damiani, che raccoglie testi pubblicati dal 1987 ad oggi. Nella sua ammirata ed affettuosa prefazione, Marco Lodoli afferma che in questi versi, classici e cristiani insieme, l’autore «sogna un’eternità che comprenda il prima e il poi, l’ora in cui ancora non eravamo e quella in cui forse ci ritroveremo senza più dolore…» E in effetti, la poesia di Damiani ben si può definire classica, nutrita di «distesa purezza», come suggerisce il prefatore. Soprattutto nella prima parte del volume, scandita in  elegie ed  odi, e tanto immersa nella stupefatta contemplazione di una natura innocente ed eterna, i nomi di riferimento che più vengono in mente sono quelli di Virgilio (Le Bucoliche e Le Georgiche), con i suoi pastori, le stalle, i vitellini, i fiumi e i giardini. Ma anche Catullo e Ovidio non sono lontani dalla sensibilità del poeta. E poi si riconosce in lui una voce limpida e gentile che si rifà a una collaudata tradizione novecentesca: dai crepuscolari a Saba, a un Penna innamorato dei colori («il cielo è azzurro azzurro»). Molti vocaboli desueti evidenziano una ricercatezza e ed eleganza quasi ottocentesca, che tuttavia non disturba, ma bene si accompagna al tono pacato e intenerito dei versi (opre, guata, mira, fere, verno, lene..), alla loro esibita antimodernità: «non vorrei sentire il suono del calesse / del lattaio che viene dalla lontana strada». Il dialogo con la natura è ininterrotto e riconoscente: essa mai appare minacciosa, ma sempre innocua, pulita, rasserenante. La vegetazione viene narrata con attenta precisione: i nomi che tornano sono quelli degli eucalipti, del noce, della gramigna, della lonicera, e del mirto che nella sua crescita imprevista e sovrabbondante ricopre con generosità una tomba abbandonata. Anche gli affetti umani sono indagati con tenerezza e gratitudine: quelli per la moglie, per i figli piccoli e da proteggere con amore, per gli alunni con «la loro libera gioia / come una cascata luminosa», o per gli amici precocemente scomparsi. E la morte è presente ovunque, ma priva di drammaticità o angoscia: quasi come una continuazione della vita in un’eternità che tutto abbraccia e consola, senza una reale distinzione tra l’esserci e il non esserci più. Una visione cristiana, forse, perché il poeta prega, e crede nella bontà del tutto; ma se nel cristianesimo esiste anche il peccato, la colpa, la condanna, Damiani non se ne fa interprete: la sua è una visione irenica, riappacificata, dell’esistente, più vicina -come giustamente suggerisce Lodoli – alla serenità del taoismo che alla drammaticità della croce cattolica. C’è in ogni poesia un invito all’attesa, alla sospensione, al fiducioso abbandono in una forza cosmica positiva e riparatrice. L’uomo appartiene alla natura, come le foglie, come le formiche, e vive la caducità del suo passaggio mortale con tranquilla accettazione e religiosa obbedienza alle leggi del creato: «restiamo ancora un po’ in quieta attesa / mantenendo l’animo vigile, e quieto, / ringraziando il cielo per ogni più piccolo dono, / per ogni istante di vita ancora uno davanti all’altro»» , «che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano», «e quando moriremo questo paradiso / che noi abbiamo trovato, che era per strada / sotto gli occhi di tutti, / lo porteremo con noi sotto terra / e anche sotto terra continuerà a brillare», «Morire è come nascere / qualcosa che non è che dobbiamo fare noi».

Essere felici di tutto, e del poco; sentire la solidarietà e l’uguaglianza con ciò che ci circonda, sia esso vivente o inanimato come le montagne; non fermarsi a osservare le brutture: «vorrei montare sulla mia biciclettina / n.14 e pedalare tra le case, / e se le case crollano / non le vorrei vedere / vorrei voltarmi dall’altra parte / e non vedere». Salvare la dolcezza: «capisce che solo la gentilezza c’è data / e che la vita vale viverla / per essere gentili». E il compito del poeta sembra essere lo stesso di quello di un pittore, magari di una paesaggista cinese del 1700, che nei suoi acquerelli delicati riproduce la bellezza tranquilla che lo circonda: «Vorrei semplicemente descrivere / quello che vedo, non altro / non mi interessa inventare / mi piace camminare / e mi piace guardare». Ecco, Damiani è un poeta di immagini: un antico, mite, indulgente, validissimo poeta contemporaneo.

 

«Farapoesia», 8 febbraio 2011

RECENSIONI

LILLI

GINEVRA LILLI, DIARIO ORDINARIO –  MARCO SAYA, MILANO 2014

«Stringo la penna, graffio la carta»

Lo scritto in prosa che conclude questo volume di versi di Ginevra Lilli è in realtà quello composto per primo, nel 1993, quando l’autrice era poco più che ventenne: testimonianza di un male di vivere che già da quel momento prendeva a radicarsi nel corpo e nell’anima («Un piano inclinato che bascula su di un perno…Da allora faccio parte di tutta la tristezza che solo le onde sono capaci di raccontare e ripetere ogni giorno…Non so quanto tempo sia passato, non so neanche se nessuno si sia mai accorto di niente»). Questo senso di estraneità nei riguardi della propria e altrui vita, delle vicende pubbliche e private, addirittura dei propri confini fisici, si perpetuerà in tutti i versi successivi, scritti tra il 2009 e il 2014, dopo un silenzio buio durato anni: quasi che Ginevra si sia aggrappata alla poesia nel tentativo di riconquistarsi, di recuperare una serenità che l’esistenza le aveva minacciosamente negata.
Eccoli, quindi, questi versi quasi spavaldamente e consapevolmente ignari o diffidenti di tradizioni, eredità e correnti letterarie, e invece decisi ad affermare un loro autobiografismo fatto di sofferenza e di rabbia, di richieste d’affetto e amicizia, di ricerca di un salvifico approdo. Lo stile varia dal discorsivo quotidiano, come nella poesia iniziale («Quella alta,  / la vedi? / E’ saltata / da un treno! //… Poraccia. // Quel sorriso / è il suo. / Sempre quello. / Chissà.»), al cantilenante della filastrocca popolare («Niente premura, / sono in Gallura, / del continente / non mi frega niente»), al pacato-meditativo-orientaleggiante («Un dolce andare verso Oschiri, / in un accenno d’estate, / nel giallo pigro dell’erba, / nella luce chiara di mezzogiorno. / Tutto tace, tutto è buono»), o all’asseverativo, tendenzialmente gnomico, anche quando esprima le più lapalissiane verità («Tutto in questo mondo / è sesso-potere-denaro»). Non è infatti il risultato estetico ciò che interessa a Ginevra, quanto lo scandaglio nel dolore, che deve essere reso nell’immediatezza dei versi: franti, sincopati, incapaci di distendersi nella musicalità, o di controllarsi criticamente nel rigore metrico. La vita è un viaggio (Roma, Toscana, Sardegna…); la natura – soprattutto nel suo elemento acquatico, quindi amniotico – qualcosa in cui annullarsi; la cultura libresca una zavorra da cui liberarsi («Passamelo quel libro chiaro, il divano è zoppo. / Ci mettiamo questo qua, che ne dici? Ungaretti! / E’ del giusto spessore. / Oplà.»).
L’immagine che l’autrice tende a dare di sé è talvolta impietosa, quasi amasse esibire il lato più negativo del suo inconscio («Sono fatta di sangue scuro, penso, donna-bambina / capace di voglie nere, di tanto nero / odio»; «Stringo la penna, / graffio la carta, / il bianco lo mangio. // Poi sputo, taglio. Stritolo / e lacero. Il vuoto / consumo, consumo lo strazio. / Io ti ammazzo»; «Si gonfia la pancia, / fuggon le idee / e mi ritrovo qui sola / ubriaca di fiele»; «Che il mondo / scompaia. / Poi ,/ staremo tutti meglio»): quando invece la richiesta di amore, di pace, di amichevole e solidale comprensione risulta evidente a chi legge con l’imperiosità di un S.O.S. disperato. Esplicite infatti sono le dichiarazioni d’affetto ai familiari, agli amici, al destino stesso e al futuro che l’attende («E’ di calma che mi vorrei nutrire»; «La preghiera / è nata. / Ed è un verso: / ti prego, stammi accanto»). La domanda di protezione, di assoluzione e di leggerezza è disarmante, quasi infantile: «Non guardatemi / con severità, / sono sempre io», «Fammi beare di me stessa, dimmelo, / dimmelo che sono / bella, brava e buona. / Voglio i complimenti, i riconoscimenti, i premi e le premure per le / prime donne. / Non per forza il successo, ma un biscottino per cani…». Poesia come preghiera laica, come sentiero chiaro che conduca a una radura clemente nel bosco fitto, come conquista lieta di serenità. E’ ciò che Ginevra Lilli augura a se stessa, e che la voce tenue ma fidata dei versi le può far raggiungere: «Un giorno, / mi incontrerò / e sarà / l’incedere affaticato di un gigante di donna; i crucci / attorcigliati, riccioli / presi e infilati / uno ad uno / in una lunga collana rossa rossa. / Rosario di grande fortuna».

 

Prefazione a  Diario Ordinario, 2014

POESIE

ELSEWHERE

C’è un fondo al cielo,
in fondo al cielo: e prima luce,
e primo buio. Fine di tutto,
innanzi a tutto.
Velo che tieni il mondo,
ripara il fiore, il frutto.

***

Tu che non puoi non essere,
non puoi finire.
Costretto a vivere
il futuro nell’adesso:
condannato a te stesso.

***

Ma tu sei un dio nascosto.
Oppure solo stanco:
e vorresti confonderti,
bianco nel bianco;
arrenderti, non esserci.
Invece stai al tuo posto.

***

Ma chi può consolarlo
se soffre, a chi può chiedere
aiuto? Cosa pregare,
a chi confessare il tarlo
di un dubbio: lui, muto?

***

Fare la guardia al niente.
Per millenni di vuoto
opporsi al niente, senza essere cosa.
E poi la scelta, il lampo. La voglia
che esistesse una rosa.

***

Prima di Dio non c’era dio,
prima del nulla non esisteva niente.
E niente e dio e fine e avvio
furono tutto, insieme: corpo e mente.

***

Ci chiederà mai scusa
per il male che ha potuto farci
(l’eterno, l’infinito, onnipotente)
a noi, che usa come alibi,
se ci ha destinati
all’inferno del niente?

***

Non crede al suo essere Dio,
non chiede di esistere eterno.
Gli basta che un lieve brusio
lo invochi presente e paterno.

***

Se gli arriva al di là degli spazi
sepolti e persi, oltre i cieli
le galassie gli universi;
se riesce a giungere a lui, leggera,
sottile come un soffio,
la preghiera incredula e viva
di uno che ha paura ma chiede
che lui ascolti; fosse solo per questo,
per questa minima fede,
dovrebbe esistere e rispondere,
esserci,
anche se non si vede.

***

Altro da me e da tutto,
non visto non visibile: muto.
Solo e inconosciuto,
lontano – irraggiungibile.
E in ogni cosa, in ogni rosa;
abisso e vetta, pantano
e volo. Tu, sordo
a qualsiasi grido, tu – grido.
Puro e trasparente, insanguinato
e lordo. Mio Dio, mio io,
mio muro. O niente.

***

Le tue mille e mille cattedrali,
come le amo nei loro silenzi,
nel buio dei confessionali: altari
spogli e cupole pesanti,
le nicchie, i banchi in fila,
la pazza solitudine dei santi.

***

Se il giorno è stato senza luce,
la notte lo riscatterà:
le parole sbagliate taceranno,
le offese saranno perdonate.
Nel sonno innocente di ognuno
il male si riduce a niente.

 

In Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003 e in Nazione Indiana, 30 agosto 2020