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RECENSIONI

FERRERO

ERNESTO FERRERO, STORIA DI QUIRINA – EINAUDI, TORINO 2014

Una vedova ultraottantenne, abitudinaria e un po’ maniaca come tutti gli anziani, laureata in lettere antiche e appassionata di citazioni latine con cui infarcisce le sue scarse conversazioni quotidiane, vive la sua serena e dignitosa esistenza di pensionata in un paesino delle montagne lombarde. Solida e robusta come le vacche della razza bruna alpina che pascolano nella sua zona, esiste senza dare fastidio agli altri. «Era orgogliosa. La solitudine non le pesava, e anzi le sembrava una condizione privilegiata». Ha un nome antico, romano, come tutti i membri della sua rispettabile famiglia borghese: Quirina. Sua unica passione è il giardino, più umilmente definito orto, in cui coltiva rose, ortensie, pomodori e le amate zucchine: cura il suo verde con la stessa compita dedizione rivolta alla sua inappuntabile casetta. «Perché all’ordine Quirina teneva moltissimo, anche in giardino. Lo considerava il perfetto equivalente di una disciplina mentale e morale…doveva essere l’emblema di una sorta di misura, di armonia cosmica…». Ma ecco che un bel giorno l’universo decoroso, disciplinato e monotono dell’anziana viene sconvolto dalle scorribande ipogee di una talpa, che con le sue gallerie sotterranee e collinette di terreno in superficie le deturpa l’orto («L’abominio. L’intollerabile offesa.»). Inizia così una strenua guerra di Quirina contro l’ospite indesiderato: cerca alleati in paese e in famiglia, studia rimedi, ricorre a erbe velenose, acqua, gas, rumori, vibrazioni, colpi di roncola, trappole, gatti nevrotici, spicchi d’aglio e vento per debellare la «trivellatrice invisibile». Che tuttavia resiste, e continua a sconciarle l’orticello. Alla fine, Quirina accetta l’antagonista come una sorta di alter-ego, oppure una metafora del potere subdolo e vessatorio, o ancora come espressione della sana vitalità della natura. Nell’economia universale, e nell’elegante scrittura di Ernesto Ferrero, c’è posto per tutti: vecchie, talpe e buchi nell’orto.

 

«L’Immaginazione»» n.285, gennaio 2015

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990

Siro Angeli, scomparso a Tolmezzo lo scorso agosto, era autore prolifico e multiforme: i suoi interessi spaziavano dalla poesia al teatro al cinema (fu sceneggiatore di una quindicina di film di successo: dell’ultimo, Maria Zef, di Vittorio Cottafavi, aveva interpretato anche uno dei ruoli principali) al romanzo. Come narratore aveva pubblicato presso le Edizioni Paoline Figlio dell’uomo, romanzo-saggio basato su una coraggiosa ipotesi teologica, che gli era valso nel dicembre del ’90 il Premio Camposampiero.
Vorrei qui occuparmi del suo ultimo volume di poesie, dedicandogli una recensione che ho a lungo evitato e rimosso, e che sarà scritta con affettuosa nostalgia verso chi mi è stato vicino per più di vent’anni, con stima per un uomo di cultura raffinata e vasta, di moralità rigida e scabra.
Il grillo della Suburra raccoglie versi scritti da Angeli nell’arco di un ventennio, dal ’55 al ’75, anni da lui vissuti a Roma alle prese con una sofferta situazione familiare e con l’impegnativa responsabilità di alto funzionario radiofonico. Il volume, pubblicato nel ’75 da Barulli, con una partecipe e sapiente prefazione di Alfonso Gatto, non fu mai distribuito nelle librerie per varie vicissitudini editoriali, ma arrivò comunque finalista al Premio Viareggio di quell’anno.
Ristampato nel ’90, grazie anche all’interessamento di Dante Isella, nella preziosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, era stato da Angeli completamente rivisto e riscritto, con un’ossessiva attenzione alle varianti anche minime, e un incessante lavoro di lima.
Consta di tre parti: Il grillo della Suburra, poemetto in nove sezioni di novenari, San Pietro in Vincoli e altre poesie, sempre in forme chiuse, ma spazianti dagli endecasillabi ai settenari, Approssimazione all’arte poetica, in settenari. Del poemetto che dà il titolo al volume, ostico -quasi- alla prima lettura, «impervio in virtù della sua chiarezza», come suggeriva Gatto, basti qui accennare alla rigidità formale in cui si trova, per così dire, ingabbiato: nove sezioni di cinque o più strofe di sette versi, tutti in novenari, con un gioco elegantissimo di rime interne e esterne, con un’attenzione quasi barocca alla scelta di vocaboli inusuali e inquietanti. Rigidità formale che rimanda e sottende un’altrettanto e forse più severa rigidità morale. Molto prima di qualsivoglia risveglio verde dei nostri ecologisti dell’ultima ora, Angeli chiama un grillo «non sai come giunto / dall’ariosità di una tana / agreste o di un’aia quieta / qui in un’estranea foresta / di pietra che ha nome di città» a testimone inorridito e inadeguato del degrado umano e ambientale cui è arrivata la metropoli odierna, coacervo di abitudini corrosive, di veleni fisici e psicologici, di aggressioni visive e uditive. Testimone di ciò, ma anche emblema di una fisicità buona, di una natura da recuperare, di una poesia non riconosciuta ma sempre presente nelle cose, il grillo è montalianamente messaggero di salvezza, cristianamente simbolo di speranza e redenzione. Nell’ultima sezione, classicamente intitolata Approssimazioni all’arte poetica, sono quindici i componimenti brevi in settenari cui Angeli affida il compito di esprimere il suo complesso rapporto con il “mestiere” di poeta, inteso sempre da lui come lavoro assiduo sulla parola: che va cercata, scelta tra tante, e poi lavorata limata incastonata come una gemma nel giusto contesto.
C’era, in Angeli, figlio di un muratore emigrato in Francia e di una contadina, questo rispetto sacro per la magia della creazione intellettuale, mista a una passione artigianale per la fatica fisica dello scrivere, e a una diffidenza tutta carnica verso la faciloneria delle improvvisazioni mistificanti. Tutto questo lo rendeva durissimo nei riguardi degli altri e di se stesso, e il dialogo che fingeva nei versi con un “tu”, lettore solo supposto, era in realtà un monologo. A se stesso, quindi, rivolgeva l’invito a non scrivere: «Se ti resta un talento / di tanto spreco fatto / sul bianco delle pagine, / spendilo in vita: l’atto / può adeguarsi all’intento, / non il segno all’immagine», «La verità, la vita / non fanno vive e vere / le parole che scrivi», «Dato che prima o poi, / anche senza motivi / come avviene tra amici, / tradisci o ti tradiscono / le parole che scrivi / quanto quelle che dici, / unico scampo al rischio / è il tacere, se puoi».
Ma come non riusciva a non parlare, Angeli non riusciva a non scrivere: e se con pessimismo attuale e metafisico insieme considerava il tradimento della scrittura rispetto al pensiero o all’azione, tuttavia ad essa continuava ad attribuire la speranza di un riscatto: «Molto ti sembrerà / se fra tante parole / tue da spazzare via / almeno una racchiuda // in sé l’ombra che dia / la speranza del sole, / l’errore che ti illuda / di qualche verità», e ancora: «Un indizio dell’eden / prima della caduta / dalle parole ambivi. // Ora ti basta chiedere / loro quanto ti aiuta / a vivere tra i vivi».
Nella sezione centrale del libro, San Pietro in Vincoli, sono raccolte singole poesie, più sciolte e abbandonate rispetto a quelle che abbiamo appena preso in considerazione. Ritratti di persone e ambienti familiari (chiese, fiumi, amici, e poi spazzini, fantesche, pannocchie), ma soprattutto versi indaganti il mistero dell’essere, del vivere qui e ora. Si tratta in qualche modo di poesie filosofiche, ma non intellettuali: in esse la razionalità sembra cedere il posto a un’istintualità fisica positiva, ottimista. Bergsonianamente, Siro Angeli credeva nell’irrompere del nuovo, del caso, dell’imprevisto, a vanificare ogni costruzione simmetrica della necessità: credeva nel miracolo che può accadere a tutti, ogni giorno, modificando il già scritto. Per cui, tra lo sparo e il raggiungimento del bersaglio, voleva potersi affidare alla possibilità di uno scarto della pallottola, o alla stravolgente autonomia di un refuso sulle bozze di stampa, o alla non necessarietà delle scadenze temporali; auspicando «il nascere di una nuova / stagione in un altro universo / dove il conto non torni esatto».
Scriveva Gatto: «Questa poesia di Angeli, lontana da ogni remissività, è una sentenza contro il numero, l’estrema salvezza di un filo superstite». Da tali premesse teoriche derivava un insegnamento di vita: «tu lascia che domani / come improvvisi scrosci / di pioggia sulla via / ti colgano gli eventi», «Meglio se a passi discontinui / procedi, quasi allo sbaraglio , / lasciando che qualcosa s’insinui / tra lo scopo e te», «Non ridurre allo scatto / d’un congegno gli eventi». Polemico contro i ragionieri dell’esistere, che misurano i propri passi sui listini di borsa, asseriva: «lascia il calcolo esatto / di mezzi e fini, a trarne / utile e vanto, ad altri».
Il volersi giocare, con azzardo, la vita, non era solo atteggiamento mentale: all’età in cui ci si pensiona era stato capace di inventarsi una nuova esistenza, abbandonando la Rai e Roma, trasferendosi a Zurigo, offrendo vita nuova ai suoi anni. Un miracolo, un regalo del destino, amava definire la nascita tardiva delle nostre bambine: sicuro che se i suoi occhi si fossero chiusi, altri occhi, in altro modo suoi, sarebbero rimasti aperti sul futuro, meravigliati e grati di esserci.

 

«L’Arena», 24 febbraio 1992

RECENSIONI

JACCOTTET

PHILIPPE JACCOTTET, IL BARBAGIANNI – EINAUDI, TORINO 1992

Encomiabile risulta la recente iniziativa einaudiana di pubblicare nella prestigiosa Collezione di poesia un volume di Philippe Jaccottet, per la prima volta presentato al pubblico italiano con una raccolta organica dei suoi versi, con la prefazione e la traduzione del più promettente dei poeti ticinesi, Fabio Pusterla, e con un saggio illuminante di Jean Starobinski.
Jaccottet è autore svizzero di nascita e formazione, francese di adozione e, potremmo dire, di vocazione. Conduce oggi a Grignan, un paesino della Provenza, una vita schiva e dedita alla riflessione, alla produzione e alla diffusione della poesia. Traduttore dal tedesco (Musil, Rilke e Mann) e dall’italiano (Ungaretti, soprattutto, ma anche Montale e Caproni), è stato stranamente ignorato dalla nostra cultura così debitrice nei suoi confronti, forse solo (come suggerisce Pusterla) per caso, per dimenticanza. O più probabilmente perché Jaccottet ha scelto una via “moderata” e “dignitosa” di approccio alla poesia, snobbando da un lato sia l’impegno ideologico e lo sperimentalismo formale più azzardato, dall’altro contestando nei fatti il rimbaudiano “sregolamento dei sensi”, che tende a riflettersi esteticamente nella rottura totale con la tradizione.
Con Montale, Jaccottet ha scelto la via della «decenza quotidiana» nell’esistere: «Temevo soprattutto le formule categoriche, i rifiuti assoluti o le affermazioni perentorie, perché mi pareva che l’uomo che alza la voce o che picchia il pugno sul tavolo lo fa spesso meno per reale convinzione che per coprire il rumore dei suoi dubb»i.

E a questa sobrietà, essenzialità esistenziale, Jaccottet rimane coerentemente fedele anche nella scrittura; la poesia è lettura esatta, decifrazione puntuale delle cose, non paludata da espedienti formali che depistino il lettore distraendolo dal suo fine ultimo: che è quello di cogliere barlumi di verità, di approssimazione alla luce. «Non è appunto questo il lavoro che il poeta effettua sulle parole? Da opache, come gli furono date, si ostina a rendere loro la trasparenza, a renderci la felicità… Forse bisognerà ridursi a una posizione più modesta, a una via di mezzo: la poesia che illumina la vita come una nevicata, ed è già molto aver conservato gli occhi per vederla…».

Qual è, dunque, il compito del poeta? Jaccottet risponde in versi: «Compito dello sguardo che s’offusca / non è sognare o piangere, è vegliare / come un pastore il gregge, e richiamare / ciò che rischia di perdersi nel sonno»». E’ un richiamo che può essere attuato con parole comuni, addirittura logore, attraverso la descrizione di paesaggi quasi virgiliani (i boschi, le acque, insetti e uccelli…) e di situazioni di vita quotidiana che in qualche modo ricordano la nostra linea lombarda («Domenica popola i boschi di bambini che frignano, / di donne che invecchiano; / un ragazzo su due sanguina / si lasciano cartacce vicino allo stagno…») secondo moduli consolidati da una tradizione letteraria millenaria (rime, sonetti…). Dov’è dunque la peculiarità, ma anche la modernità di questa voce poetica? E’ nella sua limpidezza assoluta, nella sua cristallina musicalità, che ci fa respirare l’aria rarefatta e purissima dell’alta montagna, la trasparenza luminosa di altre atmosfere. Ma anche nella sua sapienza tranquilla, sicura e rassicurante, di una risposta che si intuisce al di là del mistero, della parola-viatico che ci accompagni, aiutandoci a passare «senza paura e senza rimpianti la soglia di quell’oscuro spazio che ci attende per inghiottirci o per cambiarci».

 

«L’Arena», 6 agosto 1992

RECENSIONI

DEDOLA

ROSSANA DEDOLA, LA VIA DEI SIMBOLI – FRANCO ANGELI, MILANO 1992

Rossana Dedola, ricercatrice a Pisa e studiosa del primo Novecento italiano, ha pubblicato presso Franco Angeli un volume di critica letteraria ispirato alla psicologia junghiana.

La via dei simboli è quella scelta dall’autrice per rileggere in modo senz’altro innovativo e coraggioso alcuni nostri classici contemporanei, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Calvino, e per sottolineare aspetti trascurati di due poeti diversissimi ma accomunati da un forte interesse per la psicanalisi: Andrea Zanzotto e Vivian Lamarque.
Il percorso indicato dall’autrice per approssimarsi al nucleo pulsante (per quanto represso, sgradevole o frainteso possa essere) della produzione degli scrittori presi in considerazione, fa sua l’ottica e la metodologia junghiana – pur non trascurando alcuni fondamentali contributi della scuola freudiana, quali quelli di Winnicot e di Kohut- tanto spesso snobbate, se non addirittura osteggiate in Italia. Da noi, infatti, a differenza di quanto succede ad esempio in Francia, l’approccio junghiano al testo letterario sembra produrre una circospetta diffidenza negli addetti ai lavori, per la fama di misticismo e irrazionalismo che da sempre aleggia intorno al nome dell’analista svizzero.
Il lavoro della Dedola prende le mosse da una doverosa e puntuale rivisitazione della polemica che ha visto fronteggiarsi Freud e Jung riguardo alla definizione stessa di opera d’arte, intesa dal primo come “sintomo” e dal secondo come “simbolo”. Dedola fa suo il giudizio di un grande critico, Debenedetti, che definiva Jung «alleato degli artisti, magari il loro complice… con una lucidità presaga e ignara», e rivalutando il parallelismo junghiano fra arte e inconscio, la giovane studiosa (recentemente diplomatasi all’Istituto Jung di Zurigo) attribuisce alla simbologia letteraria la sconvolgente funzione di «imprimere una spinta virtuale, un flusso di energia nella vita non solo personale, ma di un’intera epoca storica».
Ecco quindi analizzati alcuni simboli nei tre grandi del romanzo novecentesco, Svevo, Pirandello e Tozzi, che per primi e attraverso percorsi diversi, «mettono in crisi la centralità della dimensione cosciente, svelandone la fragilità». Le bestie di Tozzi vengono allora reinterpretate come simboli oscuri e istintuali di una soggettività sempre più frantumata, di una realtà deformata e indecifrabile. Tarchetti invece si misura tragicamente con il tema letterario del “puer” prigioniero della sua condizione infantile, incapace di crescere, di amare e di morire. Anche la curiosità culturale e l’algida ariosità intellettuale di Calvino vengono indagate e ricomposte, attraverso la rivelazione di censure insospettate e insospettabili nella rielaborazione delle  Fiabe italiane. Zanzotto e Lamarque infine giocano coscientemente e sapientemente con la psicanalisi, entrambi alla ricerca di una madre: per il primo simbolicamente celata nel paesaggio, per l’altra recuperabile solo nel reiterarsi di una pratica analitica.
Un volume audace e vivace, questo di Rossana Dedola, rigoroso nell’apparato critico e appassionato nelle tesi proposte, che interessa anche il lettore non specialista, catturandone l’attenzione con lo stile brillante e il sapiente dosaggio di filologia e vis polemica.

 

«L’Arena», 11 febbraio 1993

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL SOGNO DI WALACEK – EINAUDI, TORINO 1992

Giovanni Orelli, autore ticinese tra i più noti e autorevoli, professore a Lugano e pubblicista, sembra aver trovato negli ultimi due anni una seconda giovinezza come scrittore e poeta. Ne danno testimonianza i due volumi editi da Casagrande di Bellinzona (i versi di Concertino per rane e la ristampa del romanzo L’anno della valanga), e il recente Il sogno di Walacek, pubblicato da Einaudi. Definito da Cesare Segre «una riflessione laica sul destino in forma di scherzo», questo che in realtà romanzo non è, si rivela irridente, sarcastica, vertiginosa metafora narrativa della storia, (quella, deludente e meschina, di oggi, e quella febbrile e malata degli anni antecedenti la seconda guerra mondiale), ma anche della pittura, e soprattutto del calcio come espressione e passione tra le più vitali della nostra cultura.
Génia Walacek, mezzala della Nazionale Svizzera nonostante la sua origine evidentemente slava, nato a Mosca nel 1916, rifugiato a Ginevra per sfuggire alla Rivoluzione, fu autore della vittoria della misconosciuta squadra elvetica sulla potente Germania hitleriana alla Coppa del Mondo nel giugno del ’38 (4-2 al Parco dei Principi di Parigi), sfida e umiliazione tra le più pesanti per la boria nazista. Davide contro Golia, la Svizzera batte la Germania: la piccola, neutrale Confederazione, allora rifugio di tutti i “degenerati” razziali e culturali d’Europa, sconfigge l’imponente, vittoriosa, tronfia Germania del dopo Anschluss. E il miracolo avviene su un campo di calcio, in uno sventolio di bandiere dalle croci antitetiche (nefasta, quella nera uncinata, angelica quella bianca confederata). Walacek è strumento di vendetta divina, a lui si rivolgono le preghiere dell’Europa libera: «Cerca, quando giocherai a Parigi contro Hitler, perché Alles ist Politik…cerca di fare un palleggio da dio: en surplace, che spiazzi, che smonti, che ridimensioni al limite dello zero il tuo terzino nazista».

Il gioco del calcio diventa allora resistenza al nemico, opposizione intelligente alla stupidità della forza bruta, da invocare come simbolo di normalità e salute: «pregare l’angelo di legno comperato una volta, prima che venissero a turbare i giorni della pace, a Düsseldorf: chiedergli di mandare ancora partite tante, tutte le domeniche, con lo stadio che poi si sfolla adagio adagio, e i tram che scampanellano alle curve e agli incroci, riportano a casa gli uomini della partita, bene in tempo per la cena. Sì, la guerra è mancanza, è perdita di fantasia».

Un altro personaggio inviso alla normalizzante e ottusa cultura nazista di allora, il pittore Paul Klee, incrocia il suo destino di profeta e angelo ribelle, di oppositore visionario e purissimo alla lucida follia hitleriana, con la strada percorsa dal calciatore Walacek. Walacek aveva giocato il 18 aprile del ’38 la finale di Coppa Svizzera (Grasshoppers ZH-Servette GE 2-2). «Il giorno dopo… succede un fatto apparentemente privo di ogni importanza, uno degli infiniti fatti quotidiani che compongono, nella loro banalità, la vita degli esseri umani. Uno dei pittori degeneri, giusta l’estetica nazista, di nome Paul Klee, prende un foglio di giornale di quel 19 aprile, e si serve del foglio, invece che di una tela, per dipingere un quadro. Il quadro si chiamerà ALPHABET I».

Il giornale è la  National Zeitung, la pagina è la pagina 13, quella dello sport, con la cronaca della partita del giorno prima. Paul Klee «con mano di ladro celeste» vi disegna le lettere dell’alfabeto, e la lettera O (la tredicesima) viene a tagliare a metà il nome della mezzala cecoslovacca Walacek.
La pittura diventa profezia: la O di Klee (oppure era uno zero? Un anello ammaccato, una cornice deformata, un teatro, un circo, una ruota, un occhio di gatto, la sezione trasversale di un tronco, un buco nero, l’idea ordinata di cosmo, l’ovale della lapide dell’attaccante austriaco Sindelar, suicida dopo l’Anschluss? Giovanni Orelli infittisce le ipotesi, le interpretazioni, in un ininterrotto e travolgente crescendo di associazioni, ricordi, illuminazioni…), la O di Klee dunque segna per sempre un nome, quello di Walacek, destinato altrimenti a perdersi nella memoria labile degli sportivi, lo fissa – cancellandolo a metà – nella memoria più duratura dell’arte, e lo rende perenne.
Lo scrittore Orelli si cita e si mimetizza dietro la sigla dello scriba 0/17360, vox clamans in un’osteria ticinese, tra avventori distratti e polemici, voci anonime e figure storiche che si incarnano improvvisamente (Schopenhauer e Marina Cvetaeva, Freud e Joseph Roth, Ariosto e Nietzsche, Leopardi e Victor Sklovskij): ed è un fantasmagorico, inebriante turbinio di citazioni, versi, riflessioni filosofiche, terzine composte con nomi di giocatori o formazioni immaginarie e prodigiose. Orelli diventa egli stesso regista di un’animata partita di calcio, dove la palla è la parola, che rimbalza, vola, colpisce, e l’autore è abilissimo nello scartare, nel passare e nel marcare: blocca, respinge di punta e di tacco, smanaccia, si tuffa e finalmente infila, inaspettato e temuto, il colpo vincente e imparabile. I due protagonisti recitano genialmente i loro ruoli; Walacek segna gol, Klee dipinge. Entrambi pronunciano il loro secco no al nazismo. Si ritroveranno, due anni dopo. Ad avvicinarli sarà di nuovo un giornale («enciclopedia del quotidiano»), che tace la morte di Klee, avvenuta il 29 giugno del ’40, e cita, esaltandole, alcune prodezze calcistiche di Walacek. Sembra la vittoria dell’effimero: Klee viene cremato e le sue ceneri sono affidate a mani di semplici personaggi ticinesi, per l’ultimo commovente viaggio tra colori che non può vedere.

 

«L’Arena», 1 ottobre 1992

POESIE

UN DIVERSO LONTANO

Dove saremo, caro, dove saremo
quando non ci saremo
più?
In qualche pensiero che abbiamo pensato
di noi, in una carezza sospesa
a mezza mano:
e in questa attesa
di un poi, di un diverso lontano.

***

Se ti tocco i capelli
è per trattenerti nel tuo corpo,
nei tuoi confini stretti
di pelle, sotto le dita
che mi tremano.
Vorrei fermarti ancora:
in questo preciso momento,
con questo gesto che implora.

***

E’ nel tuo silenzio che mi ascolto,
nel tuo raccolto tacere; voce di allora
ricomposta a memoria. E’ nel tuo non esserci
che io ci sono; e sfogo i miei minuti,
i mesi, e prego che tu sia – ancora,
e ancora – in qualche luogo, e sappia
pronunciare il mio nome, ripeta a chissà chi
la nostra storia, e chissà come.

***

Una cosa mi avevi promesso:
che ci avresti difese anche dopo.
Che saremmo rimaste lo scopo
di ogni tuo pensiero inespresso
e celeste, di qualsiasi preghiera.
Invece, quanto buio e silenzio, la sera.

***

Dire a loro che non c’eri più,
che non ti avrebbero più rivisto,
questo è stato terribile. Non solo il tuo
già temuto non vivere, non essere
visibile: che al tuo nome chiamato rispondesse
il silenzio. Sapevamo che sarebbe successo;
non l’ adesso, il dove e come.
Ma dirlo, spiegarlo, dare un senso
al dolore. La più grande incapace
di muoversi, e la piccola
«lo portiamo da un bravo dottore».

***

Sei venuto ieri sera a trovare le bambine
e le hai viste così tanto cresciute,
senza te così tanto cresciute che una
è quasi donna. E allora cerca nei loro sonni
di riscoprirle, recuperando compleanni
e natali, le canzoni che non hai ascoltato.
Assomigliano sempre di più ai loro nomi,
che insieme abbiamo scelto
(la prima fatta d’aria, l’altra di selva):
hanno il tuo modo di sbattere gli occhi
di corrugare la fronte. Guardale
dalla porta come facevamo prima,
attenti a non svegliarle. Entra nei sogni
che hanno, e poi rimani lì,
nel loro respiro che non se ne accorge.

***

Liberi dalla terra e da Dio,
dove non c’è nuvola o vapore
e l’aria è aria solo perché vuota
e la tua voce è quella di mia madre
morta, ed è la mia: dove saremo
per sempre, mi hai promesso, senza
riconoscerci e sapere di noi; senza toccarci
le mani che non avremo più. Privi di memoria
delle nostre parole, privi di storia, in una ruota
di tempo non tempo; l’ adesso
sarà ieri: sarà dopodomani.

***

Buongiorno – mia essenzialità.
Mia notte fatta luce,
voce che mi traduce.
E densità.
Con te (per te), ritorno.

***

L’arte di non trattenere è da imparare,
come quella di stare zitti, e soli:
quella di ricordare i minuti buoni,
le buone parole – senza volerle possedere
per sempre. L’arte di accontentarsi
di poco amore, di vivere l’assenza:
è da imparare.
Se un debole fuoco può bastare alla notte,
il silenzio deve farsi presenza.

***

Ti intuivo nel buio
della camera sterile:
la mascherina i guanti
e te già persa nel sonno più duro,
pelle squamata labbra arse,
capelli che stentavano a spuntare;
ti pulivo, ti incremavo le piaghe
come a Cristo Maria per mantenerti viva.
Picchiavo il muro, la porta
se mi chiamavi mamma
dicendomi di non andare via,
e io a te lo stesso, come fossimo
un’eco, mia mamma mia bambina,
bellissima e cattiva che mi sei morta.

 

In  Un diverso lontano, Manni , Lecce 2003 e in Tre Libri, Il Convivio 2025.

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE
LA BAMBINA CHE MANGIAVA I LUPI – MURSIA, MILANO 1992
LA BAMBINA DI GHIACCIO – ELLE, MILANO 1992
IL SIGNORE DEGLI SPAVENTATI – PEGASO, VIAREGGIO 1992

Tra la fine del ’92 e l’inizio di quest’anno, Vivian Lamarque ha messo a segno un tris editoriale di titoli diversi per genere e tipo di pubblicazione, ottenendo comunque risultati di uguale, alto prestigio. Da una quindicina d’anni questa scrittrice (milanese di adozione, ma trentina di nascita) può godere di un pubblico convinto e appassionato, fedele testimone della sua voce poetica, sincero estimatore sia del suo particolarissimo timbro affabulatorio, sia del suo spessore -diciamo così- “umano”. Già dalle prime prove poetiche, contrassegnate da uno stile leggero e cantilenante, fintamente infantile – perché oscillante tra candore e spavento, tra malizia e gentilezza d’animo- sino alla produzione recente, letterariamente più mediata e accorta, culturalmente filtrata dall’esperienza analitica junghiana, Vivian Lamarque ha saputo scavarsi una nicchia sicura e incontestabile nel nostro panorama letterario, saggiando appunto vari generi: dalla fiaba alla filastrocca, dalla poesia al frammento alla traduzione. E questa nicchia, negli anni, se l’è lavorata, l’ha ampliata e abbellita, servendosene come di un rifugio cui tornare sempre, alla ricerca di temi e toni che rimangono solidamente gli stessi, ma con incursioni frequenti e spavalde in un esterno ogni volta più ampio e seducente.
Leggera e quasi incorporea, malinconica fata turchina dei Navigli, la Lamarque ha sfidato e modificato anche la tradizione più collaudata, quella favolistica, come nel recente volume La bambina che mangiava i lupi, uscito nell’indovinata collana  Beccogiallo per i tipi di Mursia. Ecco quindi una Cappuccetto Rosso rovesciata, di nome Bambina (un archetipo, quindi? o una vaga riminiscenza delle storie assurde per l’infanzia di Ionesco?), che ama i lupi al punto di mangiarseli, a volte lessi a volte arrosto. Bambina ha una gallina che si chiama Gallina, e insieme vivono in cima a un albero altissimo, in una capanna che ha tutto, e anche il balconcino in più. Di lì si sporgono a prendere il fresco, Bambina felice e Gallina tremante. D’inverno le due protagoniste del racconto girovagano affamate per il bosco, finché Bambina, quasi per caso, si trasforma in cacciatrice, cuoca e divoratrice di lupi. E a questo punto, all’understatement della Lamarque, sottilmente crudele nella sua fantastica levità, viene in soccorso l’illustratrice Donata Montanari, che ci propone una Bambina streghetta dai capelli rossi-aculei e dalle gambe sottili, intenta ad assaggiare sorniona una zuppa di lupo con orecchie, coda e zampe che sporgono da diverse pentolacce. Per farla breve, questa Bambina diventa presto il terrore dei lupetti che vanno a trovare le nonne, ed è temuta al punto che si vede costretta a travestirsi da lupo, «e a travestirsi bene, se no poi i lupi le dicevano ‘Ma che zampe bianche hai!… Ma che bocca piccola hai!’», e diventa essa stessa lupo, in un esopismo rivisitato sadicamente. Morale della favola: «E dunque non abbiate troppa paure dei lupi, bambini. Dentro di loro batte un cuore di bambina», in cui il messaggio consolatorio e rassicurante svela la considerazione perversa per cui è meglio la naturalezza ferina rispetto all’atrocità infantile.
Un’altra bambina è protagonista del secondo volume di cui vogliamo occuparci: La bambina di ghiaccio e altri racconti di Natale, pubblicato da Elle Edizioni in un volumetto illustrato in bianconero, con una splendida dedica che rimanda alla biografia sofferta dell’autrice: «A tutti i bambini (ma a quelli soli di più)». Tradotto dalla stessa Lamarque anche in francese, è uscito recentemente presso Albin Michel, nella collana  Ippomée. Si tratta di cinque storie particolari, che narrano Natali diversi, sospesi tra realtà sogno e immaginazione. Storie levissime e trasparenti come il cristallo, che si può spezzare e allora ferisce, punge; gelide e nitide come il ghiaccio, che esprime incomunicabilità e sofferenza. Ancora una bambina, quindi, espressione di un topos letterario in Vivian Lamarque, a metà strada tra Gretel e la piccola fiammiferaia, tra astuzia e generosità sacrificale, una bambina quasi eterna e quasi perfetta, ma condannata all’ombra e al gelo, e a non poter superare la soglia del suo millesimo anno di vita. Anche in questa delicata ma amara fiaba resistono echi lontani di leggende alpine e di balletti russi, stemperati da una sensibilità poetica eccezionale. Molto riuscite tutt’e cinque, queste storie, e in particolare le due finali: Natale in cielo e Natale in mare, dominate dallo struggimento della solitudine, dell’incompiutezza, della nostalgia per qualcosa o qualcuno che non si avrà mai.
A quest’ultimo tema possiamo forse riallacciarci per commentare il terzo volume preso in considerazione, Il signore degli spaventati, frammenti poetici che si collegano a un’altra opera della Lamarque (Il signore d’oro, Crocetti 86), omaggio all’analista junghiano con cui da molti anni l’autrice è in terapia. Sono quaranta composizioni non comprese in quella pubblicazione, e che ora appaiono con una prefazione di Giovanni Giudici presso le Edizioni di Pegaso di Viareggio, in un elegante cofanetto che comprende altri tre volumetti di illustri autori: Mario Tobino, Antonio Delfini, Gabriella Sica. Anche qui, un rapporto infelice, impossibile, di due persone che in qualche modo sono -per poco e per sempre- una nell’altra, e non dovrebbero. La signora spaventata che vorrebbe e non può, il signore spaventato che non deve.

«L’Arena», 13 maggio 1993

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA,  NON ORA, NON QUI – FELTRINELLI, MILANO 1989

Capita sempre più raramente di imbattersi in bei libri, intensi, che graffiano o comunque lasciano una traccia di sé su chi legge: in genere l’industria editoriale ci propina prodotti ben confezionati e ben digeribili, ma altrettanto facilmente eliminabili dalla memoria e dalla biblioteca. Non è questo il caso di Non ora, non qui, opera prima di Erri De Luca, quarantenne nato a Napoli e residente a Roma. A raccontarne la trama sottile si rischia di scivolare nello scontato, e di darne all’eventuale lettore un’interpretazione non accattivante: è infatti la storia di un’infanzia (e quante ne abbiamo lette?), di un difficile rapporto con la madre (ancora!…) e con l’ambiente. Ma è anche un libro in cui la letteratura supera se stessa, usa tutte le sue metafore e le sue abilità più raffinate per negarsi come tale, e ridursi a grido, a verità dolorosa. E’ una confessione e un atto d’accusa, una preghiera d’amore e una condanna.
Il protagonista ormai adulto rilegge la sua storia attraverso alcune fotografie dell’infanzia, ritrovate, ristampate, osservate con nuova spietata acutezza. Si rivede bambino, «più assorto che quieto»», orgoglioso fino alla testardaggine, di una emotività esasperata: si scopre dietro ai genitori e alla sorella, chiudere sempre in ritardo di alcuni passi il gruppo familiare, durante la temuta passeggiata domenicale; oppure ostinato di fronte alla finestra della cucina, mentre oppone un silenzio dignitoso a una punizione immeritata; o ancora mentre ascolta il profluvio di parole che tutti gli rovesciano addosso, a lui, balbuziente, «l’interlocutore preferito, il muto, l’imbuto». Il rapporto preferenziale è quello con la madre, giocato in un’intesa a volte epidermica e ovvia, a volte profonda e crudele. La mamma (mai descritta, se non nella schiena diritta, nei capelli improvvisamente accorciati per parere più vecchia, in una severità che si intuisce eccessiva perfino nei confronti di se stessa) cerca nel figlio una rispondenza addirittura fisica alle sue sofferenze. Ha l’abitudine di raccontare al bambino «le cose brutte del mondo», provocando in lui un’immedesimazione localizzata nella carne. Lui risponde ai desideri inconsci di lei, diviene l’eco delle sue rinunce, il riflesso delle sue mortificazioni, impara ad annullarsi. Non c’è gioia, non c’è abbandono in quest’infanzia, ma un sorvegliarsi attento, un rigoroso trattenersi, sempre.
Non ora, non qui è il ritornello che la madre oppone a ogni minimo scarto dalla regola; «non ho fatto niente, non l’ho fatto apposta» è invece la risposta automatica del figlio, obbligato a scusarsi di vivere. Unici sprazzi di felicità, di naturalezza fisica, sono la presenza di una domestica selvatica e istintiva, e le nuotate in mare con un amico molto amato e tragicamente perso.
Il vicolo, il porto, la scuola arrivano alla sensibilità del protagonista sempre attutiti, a volte stralunati, attraverso uno specchio deformante perché fissato a distanza ravvicinata, quasi abolita. La madre stessa è bloccata in una serie di istantanee per forza di cose poco realistiche, allucinate: e il rapporto tra i due soffre di una vitrea incomunicabilità, evidenziata nella metafora del reiterato incontro attraverso il finestrino del tram.
Una prosa lirica, in cui l’arte narrativa ha poco agio di mostrarsi, raggrumata com’è in nodi di vita incapaci di sciogliersi in finzione formale. Si esce da questa lettura feriti, turbati come sempre davanti allo spettacolo di una sofferenza gratuita; ma più leggeri, con gli occhi più attenti.

 

«L’Arena», 25 gennaio 1990

RECENSIONI

AAVV – POESIA CIVILE

AAVV, POESIA CIVILE E POLITICA DELL’ITALIA DEL 900 –  RIZZOLI, MILANO 2011

Questa antologia curata da Ernesto Galli della Loggia è un ammirato omaggio alla forza e alla nobiltà della poesia, quando sa elevarsi a voce politica di un comune sentire popolare, perché «forse solo nella letteratura risiede la vera storia morale e civile dell’ Italia in quanto nazione». A partire da Platone, spesso filosofi, storici e governi hanno guardato con sospetto ai poeti, perché intellettualmente inaffidabili, poco concreti, minacciosamente utopistici. Eppure la poesia ha da sempre accompagnato e talvolta incoraggiato i più importanti cambiamenti sociali e politici del nostro paese, da Dante in poi. Soprattutto il processo di unificazione nazionale dell’ 800 «assistette a un massiccio intreccio fra la poesia e l’impegno civile, il verso e la politica». Nel XX secolo, poi, autori e pubblico manifestarono un interesse crescente nel confrontarsi con gli avvenimenti fondanti della storia: dal futurismo degli interventisti, alla prima guerra mondiale (così intensamente raccontata da Ungaretti), dal fascismo che trovò stuoli di intellettuali proni a celebrarlo retoricamente e con interessata piaggeria, alla “tregenda” montaliana della seconda guerra mondiale, ai versi sofferti di Sereni nella prigionia algerina, fino alla resistenza di Pavese e Fortini. Infine, gli anni del dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico, trovarono nella «disperata consapevolezza» di Pasolini e nell’amara ironia di Pagliarani voci più coraggiosamente impegnate che nel provocatorio sperimentalismo della Neoavanguardia. Forse programmaticamente, infatti, Galli della Loggia ha ignorato l’intellettuale più organico della sinistra italiana, Edoardo Sanguineti, rinunciando abbastanza malinconicamente a citare nomi di poeti contemporanei dichiaratamente schierati: fanno capolino, ma con versi non eccezionali, Cavalli e D’Elia. E meritavano almeno una citazione Giudici, Maiorino, Rosselli.

«L’Immaginazione» n.276, luglio 2013

RECENSIONI

RIZZANTE

MASSIMO RIZZANTE, SCUOLA DI CALORE – EFFIGIE, MILANO 2013

Massimo Rizzante conclude il suo libro con un vibrante post-scriptum, «un monumento alla fragilità», quale si esprime, o dovrebbe esprimersi, nel carattere femminile: «non è solo dolcezza, generosità, tenerezza…ma una virtù più sottile…(che) cede, cede sempre, ma mentre cede assimila e assimilando rigenera». Pervicacemente ostile al «veleno della virilità», afferma infatti: «ogni volta che una donna soccombe alla monolitica virilità dell’uomo è un pezzo di civiltà che se ne va», perché «l’uomo non è riuscito ad accogliere la femminilità come valore e…perciò continuerà a mutilare e a rendere inferma la donna, oltre che se stesso». Il libro è quindi un omaggio alle donne, protagoniste assolute dei versi; e in particolare la dedica cita la madre, la moglie, e un’amica marocchina dell’autore. Sono voci femminili quelle che parlano nella prima sezione del volume: ventidue donne nord-africane che in sei quartine raccontano la loro storia di povertà e sfruttamento, analfabetismo e ricatti, malattia e sporcizia. I loro nomi sono arabi («l’arabo possiede / tanti gemiti quante mosche la testa di un agnello macellata»): Naima, Zohra, Kawthar, Fouzia… I luoghi citati appartengono tutti alla miseria del Marocco, sfruttata turisticamente e sessualmente dall’Occidente ricco e intellettuale: Ourika, Essaouira, Casablanca, Marrakech, «dove non c’è resurrezione». Inframmezzato dalla lettera di un amico di origine maghrebina e dal diario estivo di una giovane prostituta di colore, il volume si conclude con altre due sezioni, sempre al femminile. Ma qui le protagoniste sono donne occidentali, talvolta castranti quando imitano la protervia aggressività degli uomini: comunque vittime. Versi rabbiosi di denuncia (certo non fragili!), e che sempre ruotano intorno al tema della sessualità imposta o subita come violenza; versi provocatoriamente indifferenti alle invenzioni linguistiche e alla resa estetica, visceralmente polemici.

 

«L’Immaginazione» n.284, novembre 2014