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RECENSIONI

LIBERALE

LAURA LIBERALE, MADREFERRO – PERDISA, BOLOGNA 2012

La seconda prova narrativa della poetessa e indologa Laura Liberale, dopo l’originale romanzo Tanatoparty del 2009, viene definita dalla quarta di copertina «un racconto magnetico, colto e suggestivo, sul passato che riaffiora tra memoria e mitologia», e sembra avere ancora una volta come origine e confine ultimo una sofferta, angosciata, rancorosa meditazione sulla morte. Morte intesa non solo come limite dell’esistenza personale, sempre ingiusto e doloroso, ma anche come “finis mundi”, tragedia storica e culturale, violenza e sopraffazione del più forte sul più debole.
La protagonista di queste pagine è una giovane studiosa che torna al suo paese d’origine in Piemonte dopo sette anni d’assenza e la tragica scomparsa dei suoi genitori, nel tentativo di ricomporre non solo le lacerazioni della sua anima, ma anche la trama di un tessuto familiare slabbrato, inciso da angherie mai del tutto comprese e sempre ritenute ingiustificabili, imperdonabili. Il paese si chiama Fabrica; è «un paese vampiro che passa indenne attraverso la storia», sopravvissuto nei secoli con gelida indifferenza a carestie, epidemie, invasioni, due guerre mondiali e alle recente, invasiva ed economicamente onnivora immigrazione cinese. Alla ricerca di se stessa, nella rivisitazione dei traumi infantili che l’hanno resa sostanzialmente «estranea, esclusa» alla mentalità farisaica dell’ambiente che l’ha vista crescere, Laura appunta su un diario lungo un mese sia la materialità delle sue giornate, con gli incontri-scontri quotidiani (un vecchio, rassicurante e banale fidanzato; l’unica zia novantenne, animata da «una costante d’infido, di paludoso… di furbizia e insaziabilità»; i notabili del luogo, compresi in una loro assurda e ottusa rispettabilità) e con le rivisitazioni di luoghi sempre lugubri e minacciosi (cimiteri, ospizi, edifici abbandonati e diroccati), sia le divagazioni fantastiche, gli incubi, le improvvise e abbaglianti rivelazioni di un inconscio soffocato per anni.
Realtà e immaginazione si susseguono e compenetrano nel testo, ma ben individuabili anche da una diversa impostazione grafica del narrato. Guidata nei suoi labirinti mentali e fisici dai disegni di un album ottocentesco, quasi unico lascito di un’eredità trafugata da parenti infidi, Laura ripercorre boschi e radure, sulle tracce di divinità celtiche e streghe bruciate, diavoli e ossessioni collettive, riti blasfemi e feste patronali, adolescenti scomparse e stupri inenarrabili, cancrene marcescenti nel fisico e soperchierie negate collettivamente. «Venire qui è arrendersi ai simboli», afferma la protagonista, intenta a rincorrere fantasmi, a riscoprire il proprio «destino necroscopico». Soprattutto poi a fare i conti con «il seme gramo dell’ascendenza femminile, il mito appreso e indiscusso: insania, collera, odio, frustrazione, ottusità, potere». Per indagare in se stessa, senza alcuna pietosa indulgenza, le tracce genetiche di un «matriarcato potente e invasivo… fatto di estremi: orchesse e sante», in una linea che partendo dalla nonna e dalla madre, sottomesse, docili, sacrificate, che mai si potranno emulare, arriva a zie e prozie megere, prevaricanti, che mai si potranno perdonare.
L’infanzia è allora un sogno infausto da cui fuggire, con l’immagine drammatica del primo mestruo inarrestabile e vergognoso, con il rimorso per un incidente provocato a un piccolo amico che rimarrà deturpato per sempre, con le voci gracchianti delle vecchie che recitano il rosario. Il ritorno alle origini quindi non offre nessuno scampo, e in una scrittura lucida, secca, inclemente come le storie che racconta, Laura Liberale sottolinea la sua inesorabile condanna: «Non mi sono mai spostata da qui. Mai».

 

«Leggere Donna» n.159, aprile 2013

RECENSIONI

MANCINELLI

FRANCA MANCINELLI, MALA KRUNA – MANNI, LECCE 2007

Mala kruna significa “piccola corona di spine”, ed è un titolo che ben esprime il dolore sottile e penetrante che pervade ogni pagina del primo volume di poesie della poetessa marchigiana Franca Mancinelli (1981), edito da Manni nel 2007. Sia i due versi danteschi che fungono da esergo, sia la composizione iniziale, con il suo mare tormentoso, il vento, l’isola, la madre nera vaticinante e «un cattivo tempo che non faceva / partire le barche», introducono al sentimento di rassegnata e consapevole tristezza che costituisce la nota dominante, il basso continuo del libro. I versi «essenziali, incisivi, affilati» ribadiscono con ostinata asciuttezza il senso di perdita e di abbandono che l’autrice patisce sulla propria pelle dall’infanzia: «anni che perdono parole / dalle mie dita aperte», «come dondola il mondo e le cose / di nuovo tremano, anch’io / sarò nel buio», bambina segnata forse da una separazione o da una lontananza, o semplicemente da quel di più di sensibilità che le permetterà, diventata adulta, di trovare una sua ricomposta consolazione proprio nella poesia. La ferita patita nei primi, decisivi, anni di formazione rimarrà comunque a lungo nel rapporto con la natura, con gli amori, con se stessa. Il paesaggio marino viene fissato negativamente («sale solidificato», «gusci morti», «schianto sullo scoglio»). Il sentimento amoroso vive in una sostanziale estraneità e incomunicabilità dei corpi («vieni negli anni muti, mani premute / sulle labbra, il corpo perso», «quale piaga insieme siamo / distanti // solo arsa saliva pesto petto», «insieme / staremmo come due cucchiai riposti / asciutti nel cassetto», «in una piazza ci sfioriamo / le lingue come gambi senza fiore»). Ma è soprattutto la visione di un sé mai riappacificato che rivela la cicatrice lasciata dalla «mala kruna», resa con indubbia icasticità e pregnanza da questi versi, impietosi, ripiegati sul proprio patire: «sono seduta in briciole», «chiudo le arterie e torno / monca alla vita», «mentre mi scucio e frano»», «sono / creta sul letto di un fiume di passi». Recentemente, versi inediti di Franca Mancinelli, tratti dalla raccolta «Pasta madre», sono stati pubblicati nell’antologia Einaudi Nuovi Poeti Italiani, 6. La più giovane delle poetesse qui proposte, riconferma la sua voce consapevolmente sicura e decisa, un’originalità di timbro poetico che ne fa certamente un nome di rilevanza nazionale nel panorama della nuova poesia. In questa sua ultima prova editoriale, i versi si impongono al lettore asciutti e concreti, e sempre animati da uno sguardo inclemente sul mondo e chi lo abita: esseri umani, animali, vegetazione (e pensieri, e sentimenti). Rami e foglie, frutti e semi, alghe e fieno, uccelli e bisce, insetti e gatti diventano sangue e pelle umani, si trasformano in una metamorfosi continua che cerca redenzione e salvezza in qualcosa d’altro, in uno scambio perpetuo e ciclico di vita: «lasci la pelle sul lenzuolo / come una biscia al cambio di stagione», «Dovrai seppellirti / tornare calda radice», «bocca che passa calore / all’aria come potesse svegliarsi / essere ancora salvata», «ti corrompi come cibo», «sugli occhi rinserrati le formiche / al posto delle ciglia». Una poesia impastata di fisicità, calda di una matrice assolutamente femminile e materna, ma anche in grado di tagliare con secca precisione qualsiasi cordone ombelicale. Difficile, infatti, trovarle degli antecedenti, dei richiami a collaudate tradizioni novecentesche. Non ci sono concessioni facili a rime o assonanze, nessun gioco di prestigio linguistico, calembours, pastiches, sperimentalismi vacui. Ogni verso sembra calato nell’obbediente fedeltà a un pensiero, quasi con etica severità. Così anche quando viene rispettata rigorosamente la metrica (due settenari e un endecasillabo), il lettore non si trova remunerato da alcuna musicale consolazione formale, perché il significato, il messaggio suggerito sovrasta con la sua asseverativa durezza la delicatezza del segno: «qualcosa in noi respira / soltanto nel trasloco: / gioia per ogni terra cancellata». Un’autrice, Franca Mancinelli, che è ormai più che una promessa, e di cui è bello riportare qui, a conclusione di questo limitato ritratto critico, la splendida poesia iniziale della raccolta, perfettamente calibrata nello stile e nel contenuto: «Cucchiaio nel sonno, il corpo raccoglie la notte. Si alzano sciami sepolti nel petto, stendono ali. Quanti animali migrano in noi passandoci il cuore, sostando nella piega dell’anca, tra i rami delle costole; quanti vorrebbero non essere noi, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani».

 

«Fermenti» n. 239, gennaio 2013

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MONTANARI

GABRIELLA MONTANARI, ARSENICO E NUOVI VERSETTI– LA VITA FELICE, MILANO 2013

Il poeta e critico letterario Lino Angiuli, nell’introdurre questo «urticante» volume di versi di Gabriella Montanari (Lugo di Romagna, 1971), parla di «intenzione non sublimatoria ma ‘bassa’, ovvero provocatoria e sovversiva, dell’intera raccolta». E ancora di «reattività fino alla rabbia, corporalità fino all’esibizionismo, diversità fino all’antipoesia, lotta senza quartiere verso le mosse perbenistiche e autopromozionali dell’io lirico». Una poesia, quindi, che percorre un itinerario decisamente trascurato dalla vena petrarchesca, intimistica, oracolare, ermetizzante della nostra produzione letteraria più in voga, e invece assume spavaldamente, sprezzantemente, i toni insofferenti alle regole, sarcastici e “maledetti” sulle orme di un Bukowski («di certo c’è / che a Bukowski / una botta gliel’ avrei data, di sicuro»), per risalire – attraverso Villon – fino al nostro sghignazzante Cecco Angiolieri. Gabriella Montanari si fa ironicamente beffe di qualsiasi tronfia ispirazione poetica “alta”, di ogni atteggiato versificatore à la page: «i versi seguono le mode e la domanda di mercato, / si attengono al formato e ai criteri editoriali, / non sgarrano, non dicono una parola di troppo, / profondi perché incomprensibili, sublimi se lo decreta l’Arnoldo // l’orifizio anale non è degno di menzione, / la vita va bene finché non sporca / e a forza di ermetismo e introspezione / vien voglia di scalfire, sverginare / non per posa, ma per amore».

Ma non c’è solo la tradizione letteraria nostrana nel suo target: il feroce e liquidatore arsenico a cui allude il titolo del libro è riservato a qualsiasi aspetto della vita in cui l’autrice si trova impazientemente e rancorosamente costretta: dal «fottutissimo padre padrone» che l’ha messa al mondo, ai parenti morti («la tipica puzza di salma / il tanfo cimiteriale»), alla stupida dirimpettaia diventata madre controvoglia dopo goderecci bagordi, al pontefice («per terra c’è un profilattico esausto / e io mi interrogo sull’utilità del papa») e alla religione tout court («il paradiso è un morso in un tartufo d’alba / il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia / l’inferno, il frigo vuoto»), in una sua personale teologia più blasfema che eretica. Nemmeno la natura, nella sua innocente bellezza, si salva dal furioso cupio dissolvi della poetessa («spasmi di pesce rosso a corto d’acqua, / l’ananas immaturo / col suo pennacchio sprezzante, / le banane turgide / come peni con l’ittero», «fuori i gabbiani abbaiano da almeno un’ora / o forse gracchiano», «la battigia è uno sfacelo di meduse, / un mattatoio di granchi e murici dissanguati»), e persino gli innocui e silenziosi libri si meritano velenosi insulti: «inerpicati sugli scaffali / mi ossessionano con le loro facce da campioni d’incassi… // cos’ avranno mai avuto da dire di tanto speciale… / tanto, prima o poi, li vendo al chilo». L’amore stesso è finzione, presa in giro, perdita di tempo e tutt’al più scambio di liquidi o tempesta ormonale: «L’ho accettato come un inevitabile contrattempo. Così come si accetta il ciclo mensile, il tacco della scarpa che nella corsa si spezza o la carta igienica che manca sul più bello», e il sesso «ha il soffio corto dei coiti clandestini / e delle sveltine da divano immondo». Il lettore può ritrovarsi sconcertato o addirittura divertito da questo allegro e rabbioso vorticare di vesciche, genitali, sigarette, birre, obitori, scopate,
maledizioni, sperma: mai scandalizzato, tanto provocatoriamente eccessiva è l’immagine che la poetessa tende a dare di sé («sputai contro le macchine / e pisciai in faccia ai passanti, / presi a sberle il cadavere di mia madre, / rinserii i figli nella placenta, / ritornai feto, spermatozoo ovulo e orgasmo»), ossessivamente insultante anche contro la sua stessa scrittura: «Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente». Al punto che chi legge questi versi finisce addirittura per dimenticarsi di valutarli esteticamente, travolto com’è dalla sardana di tanta esplicita fisicità.

 

«L’Immaginazione» n. 276, luglio 2013

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VELADIANO

MARIAPIA VELADIANO, IL TEMPO E’ UN DIO BREVE – EINAUDI, TORINO 2012

In questa sua seconda prova narrativa, sempre edita da Einaudi dopo il successo ottenuto con La vita accanto, la scrittrice trentina Mariapia Veladiano torna ad esplorare con attenta sensibilità e generosa empatia l’animo femminile: i suoi trasalimenti e la scalfibile partecipazione alla vita, gli abbandoni e le caute adesioni alla fisicità, l’immersione nella natura e l’aspirazione a una ansiosa spiritualità. Protagonista del romanzo è una giornalista laureata in teologia, che lavora nella redazione di una rivista cattolica: stimata dal direttore, ma osservata con qualche diffidenza dai colleghi a causa della sua mai placata inquietudine religiosa. Il dubbio che angustia Ildegarda (nome che esplicitamente fa riferimento alla nota mistica tedesca medievale) riguarda l’esistenza del male nella vita degli esseri umani, e la sua giustificazione divina: rifacendosi all’ “unde malum?” agostiniano, alla teodicea di Leibniz, alla riflessione filosofica contemporanea (così pienamente indagata dal nostro Luigi Pareyson), l’interrogazione che lacera la coscienza della donna riguarda l’impotenza o la non volontà di Dio di opporsi alla sofferenza innocente, al dolore incolpevole dei giusti e dei bambini («Il silenzio di Dio davanti al male mi devastava»). E questo assillo della protagonista viene in continuazione messo alla prova dalle circostanze, decisamente tormentate e infelici, della sua esistenza. In primo luogo dal matrimonio con l’aristocratico e anaffettivo Pierre («la sua tristezza inviolabile», «il suo pessimismo doloroso e intoccabile»), incapace di provare qualsiasi sentimento nei confronti della moglie e del figlio, costretto a scegliere una fuga indecorosa e silenziosa a Londra, pur di non affrontare le sue responsabilità. Ildegarda scoprirà molto tardi e fortuitamente che l’assenza del marito andava attribuita, più che a rovelli intellettuali ed esistenziali, a una mai confessata relazione con una collega di lavoro e amica di famiglia. La stessa convivenza con i parenti di lui, in una gelida e nebbiosa tenuta della pianura lombarda, è fonte per la protagonista di continui soprassalti di muto e inesprimibile dolore, di fredda incomunicabilità, di rabbioso rancore. A questa sofferenza di Ildegarda, che permea ogni pagina della sua vita e della narrazione stessa, non sa proporre alcuna tregua nemmeno l’esistenza del bambino Tommaso, tormentato alla nascita da una crudele dermatite («guardavo Tommaso e mi sembrava che la sua pelle rovinata fosse la prova straziante dell’inconsistenza di Dio»), quindi da una sorta di epilessia genetica che incombe sui suoi pochi anni indifesi come una minaccia invincibile. Ogni prova viene vissuta da Ildegarda con riferimenti costanti alla vita religiosa, ai testi sacri, ai riti, che sempre offrono consolazione, portando però anche nuovi interrogativi. Di fronte al suo bambino malato riappare la sofferenza della Vergine sotto la croce; nelle sue preghiere a Dio la contrattazione che Abramo propone all’altissimo per la salvezza di Sodoma; nei sogni ricorrenti l’eco dei sogni biblici; nell’aspirazione alla conoscenza la maledizione del Qoèlet… E quando finalmente la vita sembra poter tornare a fiorire, nell’incontro in montagna con un pastore protestante di Heidelberg (pure segnato da una storia di morte e abbandoni), ecco che di nuovo torna l’incubo del male ingiusto e inspiegabile, con la diagnosi di un inoperabile tumore annidatosi da tempo nel cervello della donna. La cifra narrativa del romanzo sembra tutta da leggersi in questa incombente atmosfera di angoscia, di lutto, di morte, a cui nessuno spiraglio di leggerezza e di serena partecipazione alla naturalità e alla bellezza dell’esistente sembra poter offrire tregua. Un dolore antico, pervasivo, connaturato quasi alla scrittura stessa dell’autrice: sorvegliata ed elegante, che tuttavia sfiora talvolta il manierismo, e sembra sempre vietarsi qualsiasi apertura alla gioia, al desiderio, all’invenzione o alla scoperta di quanto c’è di buono, dentro e fuori di noi.

«Il bilancio del bene e del male della mia vita è negativo…Al male non bisogna mai dare principio. Quando lo si è svegliato vive di vita propria, si moltiplica in proporzione dei buoni sforzi che si fanno per fermarlo, è una tenia che rinasce da ogni suo frammento».

E’ inquietante e malinconico osservare come anche il cristianesimo appassionato di Mariapia Veladiano tenda a circoscrivere fede, speranza e carità nei confini di un’illusione che non lascia scampo di fronte alle tenaglie del dubbio, alle seduzioni della negatività.

 

«Incroci» n.28, dicembre 2013

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DAPUNT

ROBERTA DAPUNT, LE BEATITUDINI DELLA MALATTIA – EINAUDI, TORINO 2013

La seconda raccolta di versi che Roberta Dapunt (Badia, BZ, 1970) pubblica da Einaudi ha un destinatario-protagonista privilegiato, incarnato nella persona malata di Alzheimer di nome Uma: la mamma, forse, o la suocera della poetessa. Un’anziana, molto amata e rispettata, che ha perso i contatti con la realtà esterna, e con il suo stesso corpo («da un giorno all’altro / non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non / hai capito»; «Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo, / un filo d’erba che ignora il suo prato»»; «Mi hai portato nella tua mancanza di suono»; «sempre è il lungo corso che passo vicino alla tua assenza, / ospite ininterrotta della tua demenza»). Ma questa madre antica che osserva il mondo senza vedere («dal tuo dove lontano»), in piedi immobile accanto alla finestra, o seduta in attesa del niente («io vedo il tuo viso, ascetico osservare, / è nudo accadere, poiché nient’altro ti circonda»), era stata un’ infaticabile lavoratrice dei campi, una forte donna di montagna, mater familias che radunava intorno a sé la sua gente per il rito quotidiano del pranzo («tra un segnarsi di croce e un altro»), o per il rosario serale, e per la Messa alla domenica.
Persona dalla fede rocciosa e semplice («tu che insegui l’Eterno in ogni preghiera //… Mai ti ho vista nel dubbio»; «fossi io la fede sceglierei te come fortezza»), viveva in assoluta e devota armonia con il suo ambiente («Ma qui, amabile luogo, qui niente accade, / tranne che ininterrotta un’umile esistenza»): monti innevati, prati, stalle, larici, abeti, e tranquillo silenzio. Un mondo scandito dai riti religiosi – Vespri, Quaresime, Pasque – che ora si ripropone in un’inedita beatitudine, ad aggiungersi a quelle evangeliche: la beatitudine della malattia. Roberta Dapunt, che vive e lavora nel maso di Ciaminades, racconta con la stessa fede dei suoi avi, ma con qualche interrogativo in più (soprattutto riguardo all’inadeguatezza della scrittura quando deve affrontare il dolore), la sua accettazione del servizio, inteso cristianamente come accompagnamento, vicinanza, fedeltà a chi soffre: e i suoi versi, indifferenti a stilemi letterari di metrica e ricerca linguistica, testimoniano la dedizione umile di chi ancora sa affaccendarsi come Marta, profumare il corpo come Maddalena, dissetare come la Samaritana («Chiamami quando avrai finito di lavarti. / Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare / i tuoi piedi dalle dita intrecciate»; «Sono nella tua demenza il potere e la direzione, / l’autorità e la volontà egemonica»). Nella consapevolezza che «non ci è dato risolvere la fede», e che, come recitano gli Atti degli Apostoli, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».

 

© Riproduzione riservata             «Poesia» n.285, luglio 2014

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CAVALLI

PATRIZIA CAVALLI, DATURA – EINAUDI, TORINO 2013

La recente raccolta einaudiana di Patrizia Cavalli, che offre al lettore componimenti piuttosto eterogenei (dai poemetti di più ampio respiro, a un pezzo teatrale, a brevi poesie amorose, fino agli epigrammi), si intitola ambiguamente Datura, oscillando nel significato dal participio futuro femminile del verbo dare (“che si darà”, nel senso forse di una generosa e imprevedibile eredità ventura), al nome di una pianta spinosa e medicinale, dagli effetti talvolta allucinogeni. Metafora della poesia? Proprio a questo vegetale, e ai suoi fiori notturni e profumati, rende omaggio l’ultimo poemetto del volume. Proibendosi qualsiasi retorica commozione, l’autrice individua la causa delle sue «lacrime spaesate» in oscuri fenomeni atmosferici, meteorologici, che agendo sulle «parti più segrete del cervello» provocherebbero «soltanto nostalgia che gira e si rigira / dentro il suo molto affaccendato niente». Fosche trepidazioni di morte ? «Ma io non voglio andarmene così, / lasciando tutto come ho trovato / in questa scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa». L’ambizione del poeta è ben altra: «giocare alle parole / immaginando, senza un’identità, / una visione». E quindi, davanti ai fiori caduchi e pallidi della datura, convincersi «che dipenda da me la sua apparenza, / che ne sia io la sola responsabile, / questa è la gioia fiera del mio compito, / qui è il mio valore. Io valgo più del fiore».
La rivendicazione orgogliosa della sua centralità, fisica e mentale, della sua quasi immortale resistenza al tempo, ritorna ancora in molte delle poesie più brevi, insieme a un auscultare preoccupato e ironico di minimi segni di malessere: «io bevo molta acqua minerale / per poi molto pisciare, mi curo in questo / perfettissimo ospedale che vuole / fare secco il mio gran dio ormonale», «Come se il cuore inciampasse, / può cadere», «Che qualcosa di me / possa valere, dopo di me, / anche solo cinque lire più di me, / mi è insopportabile», «Rivoglio la mia salute, / fantasiosa salute / così potente e certa», «Salivo così bene le scale, / possibile che io debba morire? //…Ma adesso / che cazzo vuole da me questo dolore / al petto quasi al centro! Che faccio, muoio? / O resto e mi lamento?»

Una poesia provocatoriamente fisica, quella di Patrizia Cavalli, che si impone con prepotenza quasi canora, nei declamati endecasillabi, nelle rime ribadite, nelle immagini sempre concrete, visivamente scolpite, mai sfumate, mai eteree. Anche i versi amorosi hanno una loro sfrontata presunzione: «E se mi guardi davvero e poi mi vedi? / Io voglio che stravedi non che vedi!», «Annoiarsi da soli forse è un lusso, / ma annoiarsi in due è disperazione». Molti i punti interrogativi, molti gli esclamativi, per una poesia che si vuole soprattutto orale, declamata a voce alta. Una poesia che assume con fierezza un energico carattere teatrale, come è dimostrato anche dall’intermezzo drammatico dei  Tre risvegli, e dalle esperienze di traduzione da Molière e Shakespeare.
Altri due ironici, risentiti e appassionati poemetti sono qui riproposti dopo essere apparsi nel 2011 per le edizioni Nottetempo: L’angelo labiale è una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore insultante alla discrezione del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Più spavaldamente dissacrante e pungente è  La Patria, amara galanteria in versi rivolta all’idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di nazione: «Ostile e spersa / stranita…braccata…tentata…sbattuta / eccomi qui a pensare alla patria». Per raccontare la nostra terra comune, Patrizia Cavalli elenca una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole: la madre «calma e abbondante», «la stanca vedova in affanno» che vizia una prole stupida ed egoista, «la donna giovane, ma austera» casta e asessuata, la cortigiana «scostumata», la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Diffidando di queste immagini tradizionali e abusate, la poetessa preferisce affidarsi ai sensi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati: meglio cercare la propria patria nei «giorni santi, stupefatti», nella luce di un «trasparente cielo fino di battista».
Non si può poi tralasciare di commentare un altro poemetto, La maestà barbarica, sarcastico e bruciante, in cui si tratteggia una figura femminile poetante, che invade con la sua spudorata presenza i quartieri romani: «Grande impresaria della sua pazzia… Ha una recitazione / arcaico-tragica», «Ha un’autorevolezza ormai consolidata. / Lei non chiede, possiede», «La sua eleganza / è quasi una minaccia»: anche in questo mordace ritratto, Patrizia Cavalli si dimostra impareggiabile bozzettista, di implacabile e sferzante abilità satirica.
Ma non sarà forse eccessivo quanto scrivono Berardinelli e Agamben nella quarta di copertina, parlando di «poesie fatte per illuminare e conoscere», e addirittura definendole come «la poesia più intensamente etica della letteratura italiana del novecento»?

«criticaletteraria», 11 ottobre 2013

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CASSIAN

NINA CASSIAN, C’E’ MODO E MODO DI SPARIRE – ADELPHI, MILANO 2013

Della poetessa romena Nina Cassian (Galați 1924), Ottavio Fatica scrive, nell’ affettuosamente complice postfazione alla ricca antologia da poco pubblicata da Adelphi, che fu «poetessa lirica, ultralirica… l’ultima modernista… piena di rumori e discordie», animata da «furor uterinus» e «impudica grazia». E in effetti, l’impressione più vivida che si ricava dalla lettura di queste centosette poesie, è quella di una vitalità disarmante, giocosa e fiera, arguta e appassionata. Che sia questa poetessa novantenne (residente a New York dal 1985, quando ottenne l’asilo politico per evitare l’arresto a Bucarest) a dare una sferzata di corposo ottimismo alla nostra assonnata e sospirosa produzione letteraria in versi, non deve apparirci paradossale: vista l’intensità con cui Nina ha attraversato passioni sentimentali, culturali e politiche, nutrendosi di tradizioni ebraiche e comunismo critico, di diverse esperienze editoriali e artistiche, di polemiche, di amicizie viscerali e ostilità altrettanto esibite, di conoscenze linguistiche effettive e supposte. Troviamo così nella sua vastissima produzione nell’amata lingua materna («Pur se verrò sepolta / in una terra aliena: / risorgerò un giorno / nella lingua romena») le stigmate di un orgoglio indomito, di una provocazione sarcastica: «Avida sono. L’asceta mi rimprovera / di scorrere a perdifiato / l’indice delle materie della vita / e di bramare e aver voglia di tutto. // Eh, sì, che volete! Ho fame. Ho sete, / come il suono mi aggiro nel mondo dei vivi».

Anche la natura, che dipinge con la sua abilità di celebrata illustratrice, appare in lei selvaggia e lussureggiante, sempre animata: «La finestra restò tutta la notte aperta. / La foresta entrò e si posò sul muro». Gli animali descritti paiono tutt’altro che docili e addomesticati: sono tigri, pantere, piccoli squali, elefanti. E persino la poesia viene vissuta come preda da conquistare: «Oh, giocare alla Genesi, che spasso!», «E adesso / quale parola domare?», o come allegra visionarietà, fiaba stralunata, sulle tracce della commedia dell’assurdo di un altro grande romeno, suo contemporaneo: Ionesco. «I miei visitatori sono: / un signore interrotto nel mezzo, / una donna continua / e la loro figlia di latta, / un professore che insegna formaggio, / un assassino raffreddato, una colonna / di formiche nubili, / un albero coi baffi … // Alla fine compare / il cane della sera / abbaia forte / e li caccia tutti via».

Nina Cassian non nasconde di avere un’alta considerazione di sé, del suo valore e della sua forte personalità, a partire già dal fisico descritto in un beffardo autoritratto («Mi è toccato questo volto strano, triangolare»), con l’imponente profilo del naso che la accomuna ad altri due eccelsi esuli – Ovidio e Dante- ; ma soprattutto dalla orgogliosa consapevolezza del suo anticonformismo, del suo coraggioso opporsi a ogni minaccia o seduzione del potere (nei versi di Esorcismo elenca tutte le cose di cui non ha paura….). E poi afferma con vigore: «Posso stare da sola. / So stare da sola»,  «Io sono io. / Sono personale, / soggettiva, intima, singolare, / confessionale». Della sua infanzia ricorda non affettuosi quadretti d’interno, ma scapestrate corse in campagna. Rinfaccia agli amori la banalità e l’egoismo («Perdonami se ti ho fatto piangere. / Avrei dovuto farti fuori», «Da quando mi hai lasciato divento sempre più attraente»), sbeffeggiando la farisaica simbiosi della coppia, e arrivando a concludere sette Lettere all’amato con l’esplicita e crudele affermazione «non ti amo». Nemmeno di Dio ha bisogno, e infatti non lo nomina mai, se non in una lirica programmaticamente intitolata Farsa, in cui le sue «ossa atee» si piegano nella finzione della preghiera. Rifiuta il ricatto affettivo della sofferenza, in una terribile composizione dedicata agli storpi. Celebra invece gioiosamente, sfrontatamente, il peccato («I nostri peccati erano appesi / alla coda dell’occhio, come alghe»), e l’unico colore che le sembra meritare continue citazioni è il rosso («Rosso da rosso, rosso al rosso»), simbolo di bandiere al vento e di sangue versato. E riserva tutta la sua acida ironia alla noia del pomeriggio, che anestetizza l’universo, come una grassa donna di mezza età che uccide le sue vittime imponendo loro la sua indolente presenza.
L’attaccamento alla vita fisica di Nina Cassian si esprime nel corrispondente e fiducioso attaccamento alla parola, al linguaggio, che è romeno, e poi inglese, e poi romeno tradotto in inglese, o addirittura lingua d’invenzione – lo spargano – imitativo di altri idiomi; ma è soprattutto estrema volontà di espressione e comunicazione, anche nell’età più avanzata e vicina alla morte: «la mia mano artritica / eietta a volte una penna / per iniettare una poesia / come una puntura, un’endovena, / nelle braccia manchevoli di Venere». Meritano di essere ricordati i traduttori, Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica, che sono riusciti a rendere icasticamente viva nei lettori l’energia sprigionata da questi versi.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

CARPI

ANNA MARIA CARPI, L’ASSO NELLA NEVE – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La postfazione di Fausto Malcovati al libro di versi di Anna Maria Carpi enuclea già tutti i temi della raccolta, lasciando poco spazio di commento ad eventuali critici (e i temi sono quelli che si trovano in ogni poeta che si interroghi, quindi in ogni poeta tout court: l’immagine di sé, l’infanzia, i luoghi, gli oggetti, l’amore e la morte…). Ma quello che a Malcovati preme è il sottolineare la peculiarità di questo dettato poetico: la limpidezza, il non nascondimento. La sincerità, la chiarezza. E infatti l’autrice non lascia nessuno spazio a fraintendimenti o interpretazioni fallaci, a ricostruzioni personali e inventive del lettore. Dice tutto, spiega tutto, quasi con un’ansia di definizione che prova nei riguardi di sé stessa prima che di chi legge. E l’ impressione che subito se ne trae è quella di un’infelicità senza desideri, rassegnata, pervasiva, che incombe su ogni aspetto del semplice esistere e perdurare nel tempo. E’ un’ accoratezza delusa che investe anche la stessa scrittura: «È il mestiere più sconcio che c’è. / Che cosa resterà di tutto questo, / di esorditi e abortiti, / di tutti noi che facciamo un po’ per amore, / un po’ per bisogno, ma soprattutto / per l’ansia di apparire / un istante / sullo sfacciato video del tempo. / Nulla, ma nessuno vuole che resti qualcosa».

Non c’è gioia, dunque, nello scrivere: forse di più nel leggere (si fanno i nomi di alcuni maestri: Bobbio, Celan, Yourcenar; ma «AD UNO AD UNO se ne sono andati / i padri / di questa mia dissennata giovinezza. // Fame di padri, fame senza fine») o nel lasciarsi trascorrere in una vita da cui non ci si aspetta più nulla: «Non voglio storia, non voglio tempo. / Solo il qui e ora, solo lui, / questo livido enigma», «La vita è questo. // Io perché non ne ho voglia?», «Si aspetta il verde, si traversa la strada, / si scende nel metrò, si fa la spesa, / si prenotano viaggi, si entra in banca. // E dopo e dopo e dopo?», «Dove sei, gioia? Dove sei, speranza?», «Che c’è vita lo sento da qualche suono anomalo, / il mio respiro, / il mio sfogliare un libro / che non voglio leggere, / no, né questo né un altro».

In questa totale apatia, senso di inappartenenza, delusione verso tutto e tutti, la più grave e incisiva scontentezza riguarda la propria persona, non all’altezza, non più all’altezza dello sforzo quotidiano di esistere, e con fantasie continue di morte: «Ma anche la metropolitana mi conforta, / perché prolunga il viaggio: se mai dovessi pensare al suicidio / lo farei quaggiù in mezzo agli altri», «Io un nulla incoronato / e votato a sconfitta. // Ho un posto, uno stipendio come tanti. / Visto da fuori, tutto ben riuscito», «Così io non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro», «Io-sciagura, io mio unico male».

Gli amici non bastano a salvare, sono appendici inutili che volteggiano nei riti serali di inviti, chiacchiere salottiere, bevute, incontri che non rivelano più nulla: «Ora è l’altro che ascolta – ascolta? / No, pensa solo: non la fare lunga», «Ci vediamo di furia / solo per dire: non ci siamo persi, / poi è il sollievo di un ‘anche questa è fatta’», «Gli amici ancora vivi – chi saranno? // Voci. Ci telefoneremo sulle dieci. / Come stai? Non c’è male. / Hai visto come piove? / E oggi cosa fai?».

Anche l’amore è deludente, non risponde mai al desiderio di assoluto: «Ma il mio compagno è assorto / o tace o parla d’altro», «non mi devi parlare come a un comune umano, / amore è dire all’altro non hai fine. / O io sono immortale oppure niente», «ho una casa decente e faccio inviti, / ho un matrimonio in cui si va d’accordo / sulla guerra in Irak, non su me stessa». E’ strano osservare come nella prosaicità priva di lirismo di questa poesia ogni tanto sbuchino improvvisi degli endecasillabi molto cantati, quasi consolatori: come se ci si aspettasse uno spiraglio nella negatività, un raggio di sole nella nebbia: «E’ nella mia casa di sempre il male, / è dalla mia esistenza / che non dovrei passare anche se amo quegli alberi all’inizio del parco / e il loro inverno e la neve». Il percorso biografico di Anna Maria Carpi giustifica tanto dolore, tanta disperata assenza di bene? Figlia unica e tardiva di due genitori che non si amavano, da allora si è aperta una voragine che il tempo non ha saputo richiudere: «E rannicchiata dorme / nel letto con sua madre la piccola obbediente. / Mai sarà altro, mai di più che questo, / soltanto brava, brava e diligente». Viaggiare serve a poco, immaginare scenari diversi (la Russia innevata, con un Pietro il Grande bambino; la Germania troppo ordinata e asfissiante; i bistrot francesi che portano echi di una lingua dolce e malinconica) non libera mente e cuore. L’unica possibilità di resistenza al male di vivere sussiste nella ripetizione ordinata e priva di slanci dei gesti più banali: «Solo un metro più sotto / c’è la disperazione. // Ancora un’ora, poi berrai qualcosa, / poi guarderai le mail, il telegiornale, / poi qualcuno telefona». E la carta dell’asso fatta a pezzi e buttata nella neve da un soldato tedesco a Stalingrado per spregio contro i russi diventa metafora del gesto gratuito e inutile che forse solo può salvare dall’incombere ossessivo della presenza nemica.

 

«criticaletteraria», 25 novembre 2013

RECENSIONI

CANDIANI

RITRATTO DI POETESSA: CHANDRA LIVIA CANDIANI

Ho conosciuto Chandra Livia Candiani in una giornata primaverile del 1986, quando si è presentata nel nostro appartamento zurighese in compagnia di Vivian Lamarque, dei suoi giovani editori reggiani Giorgio Messori e Beppe Sebaste, e di un suo amico. Erano venuti per festeggiare in terra elvetica il quarantesimo compleanno di Vivian, e noi li avevamo accolti con una merenda accompagnata da una tentatrice torta di panna e fragole. Chandra mi era parsa da subito un po’ intimidita: minuta, silenziosa, se non a disagio appena spaesata, quasi interrogativa nel guardarsi attorno e nel soppesare meditabonda e lontana da qualsiasi intenzione giudicatrice le nostre chiacchiere, le nostre prevaricanti esibizioni di loquacità. Le mie bambine, Daria e Silvia, avevano allora sette e un anno, e Vivian, presentando Chandra alla più grande, l’aveva così avvertita: «Vedi questa ragazza? È un folletto!» E in effetti, con la sua espressione di infantile stupore, i capelli corti, biondi e dritti sulla testa, il corpo agile e inquieto, Chandra ben si prestava a incarnare una vaporosa figurina boschiva. Quando poi la Polaroid rese a noi, increduli e divertiti, una foto di gruppo in cui il viso del poetico folletto risultava coperto da una luminosa bolla a raggiera, una sorta di sole o simbolo azteco, mia figlia fu convinta definitivamente della straordinarietà extraterrestre della nostra ospite. Per più di venticinque anni non ci siamo riviste o risentite, ma mesi fa le poesie di Chandra Livia Candiani sono apparse, insieme alle mie e a quelle di altre dieci poetesse, nel volume einaudiano Nuovi Poeti Italiani n.6, curato da Giovanna Rosadini. Ed è stato commovente e rivelatore leggere i suoi versi, introdotti da una presentazione particolarmente affettuosa e partecipe. La curatrice infatti così la tratteggia: «Personalità schiva e appartata… un talento genuino e prolifico… leggerezza è il termine che la contraddistingue. Ci sono, nella serenità e nello spirito compassionevole e lieve della poetessa, una profonda sapienza e saggezza, nutrite di consapevolezza psicanalitica e ricerca religioso-filosofica».

Effettivamente da moltissimi anni Livia Candiani, nata a Milano nel 1952 da famiglia di origini russe, si è convertita al buddhismo, ha passato lunghi periodi di tempo in India e vive nel capoluogo lombardo traducendo dall’inglese testi buddhisti: ma non appena può si ritira in un monastero sulle colline del Northumberland, ai confini con la Scozia. Il suo nome elettivo, “Chandra”, significa “Luna”, e del suo interesse per la meditazione e la spiritualità sono pervasi tutti i suoi testi. Che ora possiamo avvicinare, proprio partendo dall’antologia einaudiana uscita nel giugno del 2012. Dopo aver esordito con la pubblicazione di libri di fiabe (Fiabe vegetali, 1984, e  Sogni del fiume, 2001), Chandra Livia si è concentrata soprattutto sulla poesia, e dalla sua feconda produzione -in gran parte tuttora inedita- sono stati editi nell’ultimo decennio quattro piccoli volumi. I testi presenti in  Nuovi Poeti Italiani n.6 sono tratti dalle raccolte Versi d’asino, Il sonno della casa, Bevendo il tè con i morti e Pianissimo per non svegliarti.
Dalle venti composizioni antologizzate nel volume Einaudi si trae, è vero, una prima impressione di sottile e discreta lievità, che tuttavia viene subito contrastata, ad una lettura più attenta, dalla consapevole rivelazione di una vena meditativa più profonda e malinconica, di una assidua e sincera ricerca di significati ultimi, di verità illuminanti: «Noi siamo i vetri / non c’è un dietro per noi / da cui poter guardare / parvenze di altri, / siamo rivolti a tutte / le intemperie / dell’anima e dell’aria», «Noi siamo l’incisione / tra spazio e tempo / taglio netto e profondo / dormiamo così / calpestati da chi sale / e chi scende bare / e culle mattine e notti / feroci e opache, / i testimoni delle scale: / gocciola in silenzio / su di noi la paura dei passaggi».

Se il “noi” di una fratellanza universale, di un comune destino cosmico che unisce tutte le creature viventi, e le lega a tutte le generazioni passate e future («resta / questo filo teso di contati / respiri sopra l’abisso. / Che ci ama. / Tutti.») è il sentimento prevalente della riflessione filosofica di Chandra Livia, la sua storia personale, di gioia-amore-sofferenza-lutti non viene occultata da una retorica sentimentale livellatrice, ma viene assunta e esplicitata nelle sue luci e nelle sue ombre: «dunque la gioia / è questo sangue che bussa / ai polsi, questo amico / dei rintocchi», «Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento sono / bambino sbucciato / corso via perdutamente e poi caduto / a terra, come sparato, / al cuore».

L’amore ha il suo spazio, importante, fondamentale, nel riconoscimento del proprio sé nell’altro, nella condivisione del tempo e dei sogni, nel dono di una reciproca generosità: «Io farina / tu pane / io goccia d’acqua / tu sete / io orlo / tu veste celeste. / Scambiami per un tuo pensiero, un difetto / nella tua smemoratezza, / un inciampo. / Inciampa in me / come in un parente avvinghiato». E alla base di questa capacità e volontà di affidarsi a tutto ciò che avvolge e accoglie il nostro piccolo io, c’è senz’altro questa tranquilla fede nella bontà di un ascolto trascendente: «La saggezza del giorno / si scioglie in pioggia, / sono ascoltata: / goccia per goccia / si stende il velo / pietoso / di un udito / che non ha premura / accoglie / il gradino / su cui si stende preciso il gatto / l’oro nero dell’olmo / l’asfalto lucido e stellato».
Le tre sezioni che compongono il volume che Livia Candiani ha pubblicato da Campanotto nel 2005, Io con vestito leggero, hanno in comune la levità delle atmosfere e delle parole, quasi avessero timore di ferire, o di incidere una realtà che la poetessa desidera solamente sfiorare: con la delicatezza di un soffio leggero, di uno sguardo appena posato, e subito rivolto altrove per discrezione. Si avverte addirittura qualcosa di volutamente svagato, distratto, programmaticamente inteso ad evitare il troppo di ogni passione, di ogni dolore. Ambienti e personaggi vivono la stessa, magica estraneità al mondo concreto delle figure di Lewis Carroll, lontane dalla pesantezza calcolata dell’età adulta. Così La Signora protagonista del primo capitolo «si è seduta sui rami», «è nata ieri / e già la polvere la insegue», «cade tra le pupille imprestate», «chiude i giorni / come fossero veli», «prepara il letto di foglie»: è una fata, forse, o una fantasia, o una promessa di bene. Vive circondata da alberi, foglie, cieli, nuvole e uccelli. Tutte «cose leggere e vaganti», direbbe Saba. Nella seconda sezione, Lettere mai scritte, la malinconia per ciò che non è avvenuto, ed è rimasto sospeso, irrealizzato, si fa più evidente, pur rimanendo circoscritta ad un’impressione sfumata di tristezza: «con quali passi / si finisce se stessi / in una lettera», «Anche una lettera d’affari / è nostalgia / di un impossibile parlarsi», «Come vorrei saper scrivere / una lettera ai boschi / a un fiume o a una / qualità del cielo», «Strano mettere la data alle lettere come fossero / valide solo per oggi».

Il capitolo conclusivo che dà il titolo all’intero volume, ha il merito di aprirsi a versi che offrono il ritratto più esaustivo della loro autrice: «m’inchino ai semafori / e accarezzo con le suole l’asfalto», «Sospendo il petto / ai fili del bucato /…è mia questa capacità / d’amare senza possibilità / d’oggetto», «non siamo rose / né uccelli / né il vento / ma l’attesa di soffiare / di volare / di sbocciare».
Ma c’è un’ ultima, fondamentale, raccolta di versi che Chandra Livia ha pubblicato nel 2007: Bevendo il tè con i morti ( Viennepierre, Milano), in cui i trapassati, sia quelli che abbiamo amato o appena conosciuto, sia quelli che appartengono alla memoria comune, alla fantasia, all’aria, recuperano una loro voce dimenticata o trascurata in vita, memento alla nostra distrazione quotidiana, affettuoso rimprovero per le nostre disattenzioni o temporanee insensibilità. Qui «celeste e terrestre si compenetrano», come suggerisce Giovanna Rosadini, e come appare evidente da questi esempi: «Verso sera / i morti siedono sui fili della luce / come gocce di pioggia / che è già caduta», «il morto che ha paura di vivere / si alza di notte / rassetta la terra / cambia l’acqua ai fiori / della tomba / si siede a guardare le stelle / da lontano. Sfugge / le rassicuranti chiacchiere / dei vissuti», «Non ai morti / si addice la tristezza / ma al bugiardo / perdurare dei vivi », «La morta / con il canarino sulla spalla / dice che come l’uccello / dalla gabbia / lei dal corpo / è sfuggita», «Il passo sboccia / da un’andatura del pensiero / forti come nuvole / passano i morti».

In questa Spoon River milanese, dagli esotici accenti orientaleggianti, Chandra Livia Candiani riflette la sua sensibilità ricettiva e premurosa, con una voce che si riconosce assolutamente femminile e lontana da paludate tradizioni letterarie del nostro novecento: più vicina semmai alla delicatezza delle liriche cinesi, a una storia millenaria di ascolto e aconfessionale preghiera.  La stessa discrezione partecipe che la tiene lontana dai circuiti editoriali e mediatici di produzione poetica tanto in voga oggi, e invece attiva conduttrice di seminari di poesia nelle scuole elementari. Forse proprio in uno di questi appuntamenti con i più piccoli, Chandra ha incontrato la ragazzina cui dedica i versi finali dell’antologia einaudiana: «Fatema, la bambina rom, ha scritto: / è bello / vedere l’aria felice». Ecco, questa sembra essere l’ambizione più assoluta della sua poesia: una condivisione gioiosa di purezza, di verità.

© Riproduzione riservata             «La poesia e lo spirito», 7 novembre 2012

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, SULLA BOCCA DI TUTTI – CROCETTI, MILANO 2011

Un libro importante, denso e profondo, di una poesia che scava se stessa alla ricerca della verità, ultima o approssimativa, di una parola -comunque- che sia rivelatrice d’altro, e accompagni lettore e poeta, insieme, verso un approdo di conoscenza e di riconoscenza, di indagine e di perdono. Poesia radicata nel dolore, che è di tutti, della natura, del mondo e della storia. Una storia che ci precede («gli scomparsi», tanto citati in questi versi: dai primi abitanti della terra ai soldati con le corazze dello stesso argento del cielo, dai genitori suicidi alle vittime di ogni violenza); una storia illuminata da flash improvvisi, incubi e allucinazioni : paesi sterminati dai nazisti, stragi e attentati, macerie, mutilazioni. Partendo dai sacrifici animali dei riti antichi per arrivare all’undici settembre, descritto con analiticità quasi scientifica, a evitare qualsiasi retorica o abuso di commozione, nel cemento e nel piombo che si sgretolano insieme al sangue, all’amianto e alle travi («proiettili di corpi fusi»), secondo leggi fisiche immutabili: «come chiariva Galileo», «poveri corpi fatti di paura / primordiale, un gesto come avere gettato il pane». Non c’è traccia di innocenza, in questi versi: sentimenti e corpi vengono disarticolati con asciutta compunzione, con anatomica precisione. Non troviamo sguardi, carezze, capelli: la fisicità è fatta di crani, tendini, vertebre, viscere, atlanti cerebrali, e la nudità della sostanza di cui siamo composti ci condanna senza scampo a un destino di annullamento, di silenzio eterno: «Siamo l’effetto di un contratto / provvisorio tra la materia e il nulla». Non si può certo parlare di freddezza, per queste poesie così severamente e tranquillamente disperate; esse esprimono una loro sacralità però quasi paganeggiante, lontanissime dal tono umile e solidale della letteratura religiosa. Vibrano orgogliosamente di una voce perentoria, declamata, alta e severa, del tutto laica, nonostante i numerosi riferimenti evangelici, e le sentenze latine che richiamano a una lontana patristica riecheggiata esclusivamente per la sua nobile e altera ascendenza culturale. Poesia visionaria e misteriosa, ma estranea al sentimento del fantastico e dell’immaginoso: invece concreta e dura nel dichiarare ed esibire l’ingiustizia di una condanna alla mortalità, alla sofferenza: «in mute cuciture prenatali / tra bordi di lesioni provocate / da uno sgomento / sproporzionato alla fragilità del corpo», «il castigo ci colpisce senza / intelligenza e / all’improvviso spacca l’armatura». C’è insomma questa amara consapevolezza del nostro comune destino, di noi piccoli episodi transeunti nella indifferente e grandiosa vicenda universale: «Siamo depositi di li- / mature / a passeggio tra gli alberi di questo bosco. Nessun / dolore, siamo bellissime / composizioni / di rovine del mondo / quando era perfetto». La presenza del “noi” è una costante, mai progettuale, mai gioiosa o affratellante : «Siamo una compagine di vento / un canneto di carne lapidata / un fluttuare canoro di risorti», e a questo senso sconfortato di disfacimento della materia, la poetessa può e sa opporre solo la potenza inclemente dei suoi versi: «tutto questo apparente incorruttibile / verde sarà fieno, alimento, latte / di nuovo carne che si disfa / e carcassa / lisca / saturnale. / Io più di questo non potevo fare per mettere argine a questa / fine».

 

«Leggere Donna» n.155, giugno 2012