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RECENSIONI

BEMPORAD

GIOVANNA BEMPORAD, ESERCIZI VECCHI E NUOVI – SOSSELLA, BOLOGNA 2011

L’editore Luca Sossella rende un doveroso e meritato omaggio alla poetessa Giovanna Bemporad, nota e stimata traduttrice, pubblicando i suoi versi sparsi in diverse e ormai non più recuperabili raccolte, alcune risalenti a più di sessant’anni fa. Poesie di una raffinata e preziosa classicità, eleganti e misurate, di limpidissima e controllata sapienza. Già scorrendo l’elenco delle pluripremiate traduzioni dell’autrice, si prova un reverenziale rispetto: Omero, Virgilio, Goethe, Novalis gli autori più importanti di cui si è nutrito il suo timbro poetico, pervaso nella produzione personale dalla severa consapevolezza di chi è «alla perpetua ricerca del suono della perfezione», come suggerisce la postfazione. Quindi, una poesia intrisa di tradizione, nei suoi incipit quasi sempre votati all’endecasillabo, mai scontato e troppo cantabile, ma sempre denso di significati, che subito introduce il lettore al senso più intimo del verso: «Mia compagna implacabile, la morte», «Nelle mie vene, un tempo ebbre di vita», «Gioventù, mio rammarico inesausto», «L’anima mia che ha tristezze d’aurora». Alcuni versi sono limpidamente e apertamente modulati su quelli famosissimi dei nostri lirici: di Montale, per esempio, «Non domare, implacabile, il mio riso / mentre il fiore del melo incanutisce; / non recidermi il filo dei pensieri…», o di Leopardi: «E come il vento / su per roseti rampicanti in fiore…», e ancora «meglio piegarsi a immagine di un fiore / che docilmente all’urto dell’inverno / si spoglia dei suoi petali», «sarebbe dolce / svanire in questa immensità serena». Leopardiane sono senz’altro le atmosfere di questi idilli contemporanei: con la luna (bianchissima, casta, dolce, insensibile, perfida, sola e dolorosa), il mare ( giovane, clamoroso, pigramente verde), il vento ( blando, di antiche età, rude ), la notte ( eterna e chiara). Ma soprattutto l’ombra, l’ombra che si diffonde in moltissime poesie, accompagnando il calar del sole o dilagando sotto le fronde degli alberi, metafora del tempo che si consuma, e di un implacabile avvicinarsi della morte. La fine della giovinezza viene cantata con rassegnata malinconia, e l’attesa di un dissolvimento nel nulla non ha niente di tragico, e assomiglia invece a un placido abbandonarsi al sonno: «come s’infrange un’onda nella calma», «La luna va calando all’orizzonte / dove si perde la pianura, e dice / che trapassare al nulla non è male», «Dolore, che mi seguiti immortale / e indomabile fino al limitare / della morte, avrò gioia dagli spazi?»
Quest’impressione di «ariosa calma», questo tranquillo e fiducioso affidarsi ai silenzi della natura e del cosmo, nei paesaggi notturni e acquatici che tanto ricordano l’immobile serenità delle stampe cinesi, rifuggono dall’esibizione di qualsiasi sfrontato richiamo autobiografico. Anche le poesie d’amore, pervase da una sensualità delicata e da un’armonia lontana da ogni smodata passione, si offrono al lettore con lo stesso pudore e incantata gratitudine con cui descrivono le fanciulle amate: «o ninfa, o baiadera, / non che adirarmi col vento d’amore / sospendo ai tuoi squillanti braccialetti / e alle tue lunghe mani una bianchezza / di mute solitudini, e il tuo collo / sfioro con disarmati occhi indolenti». L’eco di Saffo è dichiarata, ma si sente tutta l’eredità maturata nei secoli dai lirici latini fino ai provenzali e forse al nostro Penna: «Conduci al convegno quella ch’io amo / e non trapassi inconsumata l’ora / o notte. // In solitudine confusa, / dimentico tra me ch’ella è partita / e al luogo del convegno aspetto sola». Una voce purissima, dunque, che ha taciuto a lungo negli anni urlati degli sperimentalismi recenti, e che pure prova strategie compositive nuove e coraggiose, come nella ricerca degli attributi, spesso stranianti: fronte smemorata, insondabile azzurro, divieto acerbo, trionfanti primavere, bellezza acquatica, bruno languore, sabbia mortuaria, ora aggravata, volante cuore, alba abortita, oggetti quieti e sedentari…
Questa altissima poesia di Giovanna Bemporad rappresenta un severo ammonimento, un insegnamento consapevole della sua grandezza per la poesia italiana di oggi, così presuntuosamente soddisfatta di esibire obiettivi minimi, atmosfere banali, impoverimenti lessicali, ed è di sprone a una più impegnata profondità.

 

«Leggere Donna» n.154,  gennaio 2012

RECENSIONI

RECALCATI

CLAUDIO RECALCATI, MICROFIABE – MONDADORI, MILANO 2010

Questo volume di versi, scandito in sette capitoli, si apre mantenendo fede alle indicazioni critiche introduttive, che parlano di «energia violenta», «inquieta tensione drammatica», «narrazione franta, in bilico fra realtà e incubo». E in effetti, la prima parte del libro offre al lettore un’immagine forte del male, della corruzione fisica e della sofferenza, con la sezione iniziale dedicata a una drammatica visita a un ospedale, dove è ricoverato il padre del poeta: corpi martoriati, carne ridotta alla macerazione, tra cannule tubicini pitali, deambulare di pazienti, respiri catarrosi, «ciurma di arti indipendenti». Anche la quotidianità familiare sembra sopravvivere in una scenografia desolata, in cucine disfatte: «un sudario di sughi è il tavolo», «l’osso scarnificato nel piatto», «bottiglie vuote di gin e aromi d’aglio», che arriva a coinvolgere la vita tutta: «le ossa, questa carne lessata / al pallido sole estivo», in cui i protagonisti si riducono a un «cumulo di cenci / avvolti come sudari irrispettosi». L’amore si fa vivo a sprazzi, e mai consolatorio, quasi consapevole del disfacimento a cui tutta la realtà è destinata: «Qui non è regno è l’idiozia / del poco degli affetti»; e l’autore è consapevole della sua responsabilità nella visione negativa dell’esistere: «i sussurri d’eco / là dove ho smarrito la luce…», «Anni e anni ho vissuto / con questo senso ostile alla vita». Ancora la parte centrale del volume (Il seme ferito, dedicata a Dino Campana) assume questa visionarietà allucinata e aggressiva, con la «figura scarna» di Sibilla Aleramo, «incandescente e impura», che risponde all’amore malato del poeta toscano: «Milioni di volte ho atteso / che tu vuotassi la mia sacca gonfia, / placassi il mio tremore cervicale»; e ancora «Sapessi che voglia di ucciderti avrei». Tuttavia, nelle due sezioni successive (Tre quadri e Tre ladri) la tensione febbrile dei versi sembra diluirsi in una classicità più blanda, meno incisiva, meno rabbiosa; quasi che il male non venisse più riconosciuto come invincibile, assoluto dominatore dei destini umani. E invece risorge imperioso nell’ultimo capitolo del volume, L’ortolano di Balzac, ritratto impietoso e impressionante della malevola figura di un negoziante di frutta e verdura, lercio nel corpo e nell’anima («Zoppo o storpio chiamalo / macilento», «la palpebra di un occhio pendula», «narrano che abbia commesso / un efferato crimine»), padre padrone di una famiglia tarata, infetta dalla volgarità e dalla bruttura, che con la sua bassezza inquina l’atmosfera di un intero rione. Non sempre la poesia consola, l’aveva già insegnato Baudelaire: ma a volte sa sollevarsi anche nella descrizione della negatività.

«L’immaginazione» n. 261, marzo 2011

POESIE

LITANIA PERIFERICA

È ancora buio quando mi alzo
e spalanco le imposte sul sagrato,

butto ai gatti del cibo, poi scalzo
mi inginocchio a pregare, grato,

«mio Signore e mio Dio», come Tommaso
per un giorno da inventare tutto mio

(sacro per fede o dannato per caso;
rischio e peccato): purché sia io

a decidere, prego, se salvarmi
o bruciare nella colpa; io.

Chiedo davanti al letto di farmi
santo, davanti al muro bianco,

poi veloce mi lavo mi vesto, stanco
già di primo mattino, troppo presto.

Scendo le scale, scaldo il latte
e ripeto ogni pensiero ogni gesto

ogni giorno. La cucina è fredda,
è sola come me, e mi spingo «Vattene

in chiesa che è la tua casa vera».
Ma come buia gelida. Dall’altare

che preparo con candele di cera,
–  bianchi teli, acqua, vino, pane –

osservo entrare poche donne, vecchi,
sempre le stesse facce, uno spretato

pentito, con in mano fiori secchi
da infilare in un vaso, impacciato.

Poche frasi dico, all’omelia,
incoraggio a una giornata piena

di buona volontà, che sia
donata all’Altissimo, e serena.

«Mio Signore e mio Dio», chiedo
venia della mia scontentezza,

della paura, del bene che intravedo
e non so perseguire con saldezza.

Poche facce rugose mi osservano:
quanto importi a loro di Cristo,

se quello che predico serva
non riesco a intuire, e non insisto.

A messa finita si intrattengono
nei banchi, raccontandosi fatti

e misfatti del paese, escono
malevoli ma benedetti, compatti

nello scordare il cielo, il sole.
Mi fermo a scambiare due parole

col postino, col vecchio maresciallo,
su chi vive chi muore chi tradisce:

uno cambia mestiere, l’altro giallo
di invidia calunnia e ferisce.

Mi offrono il caffè nel bar centrale.
Sono il notaio, un commercialista,

l’artigiano arricchito, il dentista.
Ridono, parlano, dicono male

delle mogli degli altri, di ragazze
disperate, perdute, forse pazze.

Scommetto che non sanno più baciare,
fare una carezza, dire “amore”.

Scommetto che potrebbero tremare
se solo una gli sfiorasse il cuore

con lo sguardo, ma hanno paura;
cerco con gli occhi un po’ di azzurro fresco

di una sognata, tardiva primavera,
invece è ottobre, nebbia e brina

sui prati, già freddo da galera.
«Mio Signore e mio Dio», dov’è nascosto,

tra le nubi, gli intonaci, nel fango.
Facesse un segno, mi desse una risposta,

a me che corro, spero dispero: piango.
Ma sta zitto anche lui, e tace tutto

e non so cosa fare in queste ore
di mattina, che non c’è un lutto,

confessioni, estreme unzioni, niente.
L’oratorio deserto, anche la sacrestia.

Potrei forse trovare qualcuno all’osteria
del gallo, ma poi dicono che bevo.

Torno a casa, mi sistemo in poltrona
a scegliere brani e letture che devo

proporre alla festa della santa patrona.
Se venisse mia sorella a prepararmi

il pranzo, brontola sempre, sbadiglia
che era meglio per lei assicurarmi

un pasto caldo, un letto in famiglia.
E’ una tortura, ma intanto avrei una donna

intorno, una voce, una presenza:
invece questo vuoto, quest’assenza

a cui penso, che sfioro con mani di sogno
ad occhi aperti, somigliante alla Madonna

della prima cappella a sinistra.
Così l’avrei scelta se avessi potuto,

la mia assente dalla voce di velluto.
Mi scaldo il riso dell’altra sera,

e mangio e bevo con la tivù accesa
dopo un segno di croce fatto in fretta

con lo sguardo incollato allo schermo,
spietato in immagini del mondo

senza dio, o con un dio che è fermo,
lontano dalla vita maledetta.

«Ma muoviti, intervieni, fatti vivo.
Cosa prego altrimenti, come scuso

l’inscusabile male, il male assurdo,
se non c’è una ragione, un motivo…»

Mi addormento sul popolo curdo,
sullo Zaire e le intercettazioni.

Ho le prove delle prime comunioni
alle quattro, alle cinque l’incontro

con il gruppo degli adolescenti
(a guardarli come sono irrequieti, scontenti,

senza idee, senza scogli né slanci,
vien voglia di frustarli, o accarezzarli).

Poi di nuovo una messa, poi la cena
quasi sempre aspettando un invito

che non viene, e sulla schiena
la fatica del giorno finito.

Il rosario per poche vecchine
assonnate, per le altre beghine

così incattivite negli occhi, nei
bisbigli votivi ai defunti e agli dei.

Infine ancora solo, o finalmente;
fuori la notte e dentro, se non fosse

che in fondo al cuore, in fondo alla mente,
in un sospiro, in un colpo di tosse,

c’è quest’ansia del nulla, del tutto,
di farmi testimone di Cristo

per essere quello che voglio, che vuole,
non più quello che fingo. Sono, esisto.

Dieci minuti veri nella cappella
a sinistra, con la madonna, i santi,

il crocefisso, dieci minuti suoi.
Ed è sfiatato, è innamorato

il segno di croce che tento
«mio Signore e mio Dio», per quanto

indegno e umilissimo servo, io.
Io.

 

In Litania periferica, Lietocolle, Faloppio 1996, in Litania Periferica, Manni, Lecce 2000 e in Tre Libri, Il Convivio 2025.

POESIE

IL LAGO

I

Non sono onde. Ne avrebbero forse
l’intenzione; increspature leggere,
rughe dell’acqua, e basta.
Non sarà mai tempesta,
questo lago, scarso coraggio
di farsi mare: se accoglie un fiume,
lo placa, lo annulla in una quiete
casta. E così niente corse né fughe
di pesci, ma vaghi girotondi,
guizzi di piume d’anatra in festa.
Bisogna aver paura di chi non sa osare:
laghi colline periferie.
Acque chete e profonde celano
malefici, stregonerie.

II

Di qua e di là i monti
a impedirgli di scappare da se stesso
lo incastrano guardiani, e lui
«Specchiatevi, torrioni,
narcisi, rimiratevi!»
Com’è forte e tranquillo
nei suoi limiti di roccia,
il lago:
non ha ponti o gallerie,
cime o dirupi,
non potrà mai franare.
Sempre uguale a qual era
sfida la morte,
ogni sorte futura;
eterno come il cielo, sicuro
come un dio senza paura.

III

La vela che lo solca, ne incide appena
la scorza in superficie, come un graffio
che subito sparisce sulla pelle
se lo bagni. Così il lago violato
ricompone intero il suo volto
di prima,
tacendo il mistero
di che pace affiori dal fondo.

IV

Il pescatore si rassegna al largo,
lasciato il molo, si consegna al lago;
al vuoto di confini e di pensiero
che confonde il suo cielo.
Non offre resistenza al silenzio
che varca coi remi, all’assenza
di onde, di vento possibile.
Sarebbe pronto a lasciare le reti,
la sua barca,
se appena uno – visibile a lui solo –
tentasse qualche passo sull’acqua,
avvicinandosi.

V

Il sole ha voglia di sciogliersi,
annullarsi nell’acqua, nascondersi;
non essere più sole. Dentro, nel lago,
si è fatto lago, luce che esplode
di chiaro, in fondo, caldo nel gelo:
suo cielo è un nuovo azzurro,
come all’inizio del mondo.

VI

Accarezza appena la pelle
del lago, lo scompone di un respiro
attento; vena d’aria
che vorrebbe riuscire a farsi vento.
Invece è solo brezza.

VII

Invaso dalla luce,
non è più azzurro, oggi.
E’ giallo, è oro; oppure
trasparente, un lago di cristallo
con minutissime scaglie di bianco.
Lo sguardo che lo osserva
da lontano, stanco di troppo chiaro,
cerca uno schermo codardo
nella mano.
Ma poi, fermo e persuaso,
si arrende alla violenza del sole, all’evidenza.

VIII

Motoscafi e voglie grasse
sporcano il lago:
pelle esibita lucida,
casse di birra. E i tuffi,
sbuffi di gas, sgolamenti
agitati.
Come offendono la sua seria
dolcezza, la sua riservatezza.
Lui scioglie nelle acque
ogni miseria di tanta vita,
rendendo conto al cielo
di ciò che è, soltanto al cielo.

IX

Naviga tranquillo e padrone,
il battello, sicuro del suo peso
-mischia di turisti plaudenti-
mentre altre barche si spostano
veloci, fanno largo,
«Attenti, passo io», fischia,
spaccone che si crede
vascello di Dio.

X

Fitta, battente, punge nell’acqua
come aghi, pioggia di ottobre
che non conosce tregua o pudore
e insiste, ferisce, inclemente
come Giove, gonfia di sé
il lago spaventato e incolore
– triste Danae che subisce,
quando piove.

XI

Con la nebbia svapora
ogni odore di vita, memoria
di estati, di colori.
Nella nebbia
il lago si ritrova e si perde,
senza tempo né storia: eterno,
immobile, pronto all’inverno.

XII

Silenziosa la neve sparisce inghiottita
dall’acqua, come non fosse mai
esistita: si cancella e tace.

Mentre a riva finisce bianca
sui sassi, dentro nel lago beve
una sua stanca pace.

 

 

In  Il lago, Lietocolle, Faloppio 1996; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000; in Il Pickwick, 9 agosto 2020.

 

RECENSIONI

GIUNTA

CLAUDIO GIUNTA, UNA STERMINATA DOMENICA – IL MULINO, BOLOGNA 2013

Il titolo del volume è tratto da un verso di Vittorio Sereni, e l’ autore così giustifica la sua scelta: «Una sterminata domenica mi è sembrata una perfetta definizione dell’Italia: come se, seduti a cavalcioni delle Alpi, si guardasse verso sud, e l’intera penisola restituisse allo sguardo quest’immagine di placida, inerte ferialità».

Un’ Italia feriale, «irredimibile», quindi, quella raccontata – unClaudio Giunta po’ con rabbia e indignazione, un po’ con rassegnata ironia e divertita leggerezza – da a in questi dodici saggi, accomunati dalla prospettiva «di chi non guarda le cose dal di fuori ma è implicato in ciò di cui scrive: un osservatore partecipante». Interventi militanti, non tenuti insieme da una particolare unità tematica, ma accomunati dall’intenzione di descrivere aspetti non secondari, e comunque interessanti, della vita civile e intellettuale del nostro paese. Fatta eccezione per i due saggi finali, dedicati a visioni retrospettive sugli anni Settanta e Ottanta, gli altri corposi articoli affrontano di petto l’attualità italiana. A partire dalle considerazioni sui meetings di Comunione e Liberazione a Rimini: «un posto in cui tutti credono in Dio; … i cattolici di Cl sono un esempio da manuale di modernismo reazionario: diffidano della scienza, che contraddice a ogni passo le Sacre Scritture ed è muta quando si tratta di interpretare ‘ciò che è nascosto nel cuore dell’uomo’; ma venerano la tecnica. Sono spiriti attivi molto più che contemplativi».

Per passare poi alle amare constatazioni sullo stato delle biblioteche italiane, e scegliere in seguito alcune icone di successo dell’immaginario collettivo da sezionare con impareggiabile acume (Fantozzi e Luciano Moggi), in due brani giustamente molto citati dai critici e dai blogger. Particolare e nuova, nel panorama della saggistica nazionale che esplora la contemporaneità, è l’attenzione che Claudio Giunta riserva alla cultura pop («il pop  -canzoni, film, TV-  è la principale riserva di gioia a buon mercato»), con l’esaltazione di eventi mediatici come Radio Deejay («è stata la via Panisperna della radio-televisione italiana»), di Fabio Volo («mi trovo d’accordo con lui praticamente su tutto»), di Elio e le Storie Tese («hanno un radar per gli aspetti grotteschi della realtà»): in una forse eccessivamente entusiastica fenomenologia dell’effimero di stampo umbertoechiano. Ovviamente non potevano mancare le considerazioni sulla Weltanschauung di Matteo Renzi («Renzi non trema… Ha un’illimitata fiducia in sé… Sembra non avere psiche»). Eppure tra questi capitoli, tutti assolutamente godibili, pungenti, dissacranti, quello che mi è parso più polemicamente stimolante è il secondo, dedicato all’eruzione del vulcano islandese dal nome impronunciabile, avvenuta nel 2010. In queste pagine Giunta riesce a coniugare un’esauriente e oggettiva descrizione del fenomeno naturale, e dei vistosissimi danni economici che ha provocato, con riflessioni eticamente risentite sull’incontenibile dabbenaggine e credulità umana («superstizioni da Medioevo, melassa di irrazionalità New Age, religione, fantascienza, balle contagiose scodellate da internet»), sul ruolo addomesticato quando non servile della stampa e delle comunicazioni in generale («faccenda così mediaticamente perfetta da sembrare studiata a tavolino da un creativo di Endemol»), e sulla falsa coscienza di numerosi intellettuali, laudatores temporis acti, inclini a «nostalgie premoderne… proiezioni narcisistiche… interpretazioni paranoiche». Una corrente di radicato buon senso materialista, di moderato sarcasmo, di non prona ma tutto sommato indulgente consapevolezza attraversa questi dodici «viaggi nella tragicommedia italiana»: tragicommedia di cui Claudio Giunta si rivela contemporaneamente interprete, fustigatore, e affettuoso seguace.

 

«incroci on line», 25 febbraio 2014

RECENSIONI

RAIMONDI

EZIO RAIMONDI, LE VOCI DEI LIBRI – IL MULINO, BOLOGNA 2012

«Non sono mai stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l’ossessione dell’ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee», afferma nell’ultimo capitolo di questo interessante volume il Professor Ezio Raimondi, insigne critico e storico della letteratura. «Nel caos vivente della biblioteca» i suoi volumi sono affastellati in maniera disordinata e quasi misteriosa, a farne «luogo della stabilità e della metamorfosi, della protezione e del rischio»: ne sono testimonianza le fotografie che corredano queste pagine, e ne immortalano l’autore sommerso da migliaia di libri. Libri viventi, pulsanti, con una loro voce inconfondibile, che da sempre ha forgiato e ammaliato l’intelligenza inquieta, curiosa e appassionata dello studioso. Nato nel 1924 in una casa «dove non c’erano libri» e si parlava il dialetto, figlio di un calzolaio e di una donna di servizio, proprio dall’umiltà rispettosa della cultura della madre il bambino Ezio apprese la funzione «liberatrice, democratica della lettura». In questi otto capitoli viene raccontata tutta un’esistenza dedicata ai libri: dalle prime bibliotechine di classe delle elementari, alle lezioni studiate sul tavolo della cucina, «fra il piacere della scoperta intellettuale e l’odore di soffritto», agli incontri fondamentali segnati sempre dall’intreccio tra cultura e vita. Quindi l’amicizia con straordinarie personalità bolognesi degli anni bellici e del dopoguerra (Franco Serra e Giuseppe Guglielmi), le loro discussioni interminabili e i reciproci arricchimenti disciplinari, le lezioni di Roberto Longhi all’università: in un clima storico senz’altro stimolante, pur nelle difficoltà provocate dalla miseria economica e dai contrasti politici e ideologici dell’epoca. Ma soprattutto furono le letture esaltanti e sprovincializzanti dei grandi intellettuali stranieri (Heidegger, Marc Bloch, Curtius, Huizinga, Lucien Febvre) che venivano a innestarsi sulle fondamenta radicate nello studio di De Sanctis, Flora e Devoto, ad aprire nuovi orizzonti nella mente e nel cuore del giovane studioso. E in queste pagine si rincorrono i nomi di tanti altri autori che hanno segnato la crescita intellettuale di Raimondi, da Pasolini a Gadda, da Broch a Céline a Queneau, all’amato Bachtin. Come suggerisce nella sua attenta e affettuosa postfazione Paolo Ferratini, «l’ascolto delle voci degli scrittori è stata (ed è) un lungo esercizio di attenzione all’altro, … un percorso autoformativo durante il quale filologia e affetti, folgorazioni dell’intelligenza e moti del cuore hanno sempre congiurato all’edificazione del proprio profilo morale». Un grande studioso e un appassionato insegnante, quindi, Ezio Raimondi, che ha saputo ascoltare le voci dei libri rendendosene innamorato interprete, «in una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza».

 

«incroci on line», 9 maggio 2013

RECENSIONI

VERBARO

GIUSI VERBARO, IL VENTO ARRIVA DA UNO SPAZIO BIANCO – INTERLINEA, NOVARA 2013

Con questo arioso endecasillabo che dà il titolo al libro, Giusi Verbaro introduce da subito la metafora fondante che attraversa le tre sezioni del volume: vento inteso come spirito, anima vivificatrice del mondo, turbine che scompagina, assedia e libera, «rabbioso che soffia», «che trascina le memorie», «che scompiglia i nomi», «che rinnova, a primavera, / il profumo dei tigli sul viale». Vento, quindi, come metafora della poesia, capace di permeare e travolgere cose e parole, vite e sentimenti, originata misteriosamente e misteriosamente posseduta da pochi, privilegiati, interpreti… Da questo soffio energico la poetessa si lascia penetrare e plasmare: «Affacciarsi nel vento e dal vento / lasciarsi poi scolpire / e levigare come cera molle». E’ un vento che nasce da uno spazio bianco e vergine, di silenzio e di ascolto: da un altrove non conosciuto, di sogno o di estasi, di altezza irraggiungibile o di insondabile profondità. E infatti sogno è un altro dei termini chiave di questa raccolta poetica, insieme ai paesaggi lunari, alle risacche marine, e ad altre «essenze misteriose» e quasi esoteriche. Allora echi, ombre, fiati, fantasmi, «stranite stanze», «città bianche e spettrali», «creature alate», «anime pellegrine», «sussulti del cuore», aleggiano impalpabili nei versi, animandoli e forse turbandoli: «Lunga notte d’inverno, buia come più buio / è il misterioso perdersi – negati alle presenze / e ai rovelli consueti – e dopo ritrovarsi».
E i morti, questi cari ed eterni assenti, spesso più vivi e incombenti dei vivi, parenti che hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite, scrittori che hanno ispirato i nostri pensieri, maestri di poesia in passato vicini e ora ancora più stagliati nella memoria: «Come sospesi e teneri sono i passi dei morti / e come i morti tornano, liberi ormai dai nomi / così come dal peso degli affanni», «Li chiamo tutti piano i nostri morti», «I morti hanno una loro quieta astuzia: / trovano mille modi per rivelarsi / per restare accanto: una folata rapida di vento».
La madre della poetessa, «gravata dalla pena/ di non voler andare», «già lontana/ libera come un alito di foglia», «mia madre – adesso senza peso e senza luoghi»; ma anche teneri amici che hanno accompagnato la sua esistenza per tratti più o meno lunghi; e i grandi nomi di amati poeti novecenteschi, ricordati nelle epigrafi che introducono ogni poesia, e molto citati, assorbiti, ripetuti, imitati nelle cadenze più tipiche (Montale, Luzi e Caproni, soprattutto).
Le tre sezioni che compongono il volume (la prima, dedicata alla città della formazione, della cultura e della maturità, Firenze: con le sue atmosfere surreali e spirituali; la seconda, immersa nella fisicità della Calabria nativa: «mi abbraccia un sogno d’acque e mi sommerge»; la terza, dedicata alle presenze più intangibili, fragili e salvifiche: gli angeli, «Creature incorrotte… Ci vivono d’attorno invisibili e alteri») sono in realtà «una narrazione ininterrotta di sentimenti e di ricordi, di rievocazioni trasognate e oniriche, di omaggi e rimandi, in un unico concerto di voci e di richiami», come ben evidenzia Giuseppe Panella nella sua postfazione. Pertanto il vento che anima questi versi di Giusi Verbaro va letto, secondo il prefatore Daniele Maria Pegorari, come «l’insieme delle “parole che credevamo perse”, è il coro delle voci sparite dal dominio dell’esperibile, ma sopravvissute nello spazio della memoria e della letteratura, e che da qui continuano “a riannodare i fili” che l’insipienza umana tronca o ignora». Orgoglioso recupero della nostra tradizione letteraria, quindi, in questa poesia, e adesione convinta e riconoscente all’affettività del ricordo, così come si perpetua nei luoghi e nei sogni, nelle evocazioni e nelle attese, in ogni «spazio bianco».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

STEFAN

VERENA STEFAN, OSPITI ESTRANEI – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2012

Il bel viso di Verena Stefan (Berna, 1947) si offre sorridente al lettore di questo libro in realtà drammatico e sofferto, pubblicato dalle eleganti edizioni di Luciana Tufani, da sempre intelligentemente schierate dalla parte delle donne e della loro scrittura. E femminista dichiaratamente lesbica si è definita con orgoglio sin dal suo esordio letterario questa autrice svizzera, trasferitasi presto a Berlino, e poi in Canada, sempre inseguendo con coerenza un suo impegno civile e politico di lotta per i diritti delle minoranze. Ospite estranea di tre diversi paesi (dapprima come cittadina elvetica di padre tedesco mai completamente accettato a Berna, quindi immigrata in Germania e infine a Montreal), Verena Stefan ha fatto del suo sentirsi “altra”, straniera, disorientata, un mezzo per meglio riuscire ad esplorare se stessa, le persone intorno, l’ambiente e soprattutto la lingua con cui rapportarsi al mondo. Così l’impatto con la natura sconfinata e affascinante del Quebec, con i suoi laghi e boschi, e lo sforzo di impadronirsi di diversi e stranianti vocabolari (francese e inglese), o di adeguarsi ad atteggiamenti e abitudini lontani dallo spirito europeo, avrebbe potuto indebolire il suo carattere naturalmente combattivo: se non fosse stato mediato dalla naturalezza espansiva della sua compagna canadese, Lou, e dalla tenera sensualità di lei: «Il suo corpo porta iscritti gesti di seduzione e di offerta, un inchino appena accennato nel quale si intrecciano richiesta e sfida». Verena, ospite estranea sebbene mai rifiutata di un paese straniero, si è trovata improvvisamente a lottare contro un malefico intruso che tentava di divorarle il corpo. La sua guerra contro il tumore, le lunghe sedute di chemioterapia, il cambiamento osservato nelle parole e nei gesti degli altri, vengono descritti dall’autrice con parole intrise di stupore e sofferenza, ma analiticamente lucide: «Una volta nominata, la parola “cancro” fa alla velocità della luce il giro delle teste e dei corpi dei presenti. Modifica il loro paesaggio interiore, come se il cancro fosse contagioso, come se la crescita incontrollata potesse trasmettersi e trascinare con sé anche quelli che vanno a tentoni nella luce, perché non sanno cosa succede nella luce».

La riscoperta della propria vulnerabilità fisica passa dunque per Verena attraverso un nuovo rapporto con l’altro da sé, con l’amata, con il paesaggio, con i ricordi dell’infanzia: «Si avverte urgente il bisogno di dire a voce alta: Io». Scrive nella postfazione Emanuela Cavallaro: «Per istinto di conservazione, per la disperata volontà di salvarsi ed evitare il dissolvimento completo, e insieme per sancire la riconquista del sé. La crisi è superata, il soggetto di nuovo uno con se stesso». Fare spazio a ciò che è estraneo, accettarlo per renderlo da nemico a complice del superamento di ogni negatività: e scriverne con coraggio. Una lezione che Verena Stefan ha imparato sulla sua pelle e saputo trasmettere a chi legge.

 

«criticaletteraria», 17 febbraio 2014

RECENSIONI

MUELLER

HERTA MÜLLER, ESSERE O NON ESSERE ION – TRANSEUROPA, MASSA 2012

Essere o non essere Ion è il primo libro di versi che Herta Müller ha scritto in romeno, lingua del suo paese natale, ma non lingua materna – che invece è stata il tedesco. Lingua dell’oppressione e della persecuzione, lingua del sistema poliziesco che la costrinse all’esilio nell’87, e che qui la scrittrice premio Nobel nel 2009 recupera con una intelligente e ironica operazione di straniamento, di destrutturazione, di burlesco mascheramento. Un volume spiazzante e giocoso, questo proposto da Transeuropa, in cui ad ogni poesia tradotta in italiano da Bruno Mazzoni fa da specchio una pagina coloratissima di collage originali della stessa Műller, ottenuti utilizzando ritagli di riviste e giornali, graficamente eterogenei, che ripropongono gli stessi versi in romeno. Poesie sospese tra un andamento narrativo e colloquiale, fiabesco o sarcastico: vaporose e insieme concretissime, che assumono di volta in volta l’inconsistenza o la vivacità delle associazioni estemporanee e inconsce, di automatismi-lapsus-collegamenti onirici, di dialoghi stralunati tra personaggi improbabili, inventati o reali. La voce poetante è a volte maschile a volte femminile, può essere o non essere Ion, o qualsiasi altro protagonista; si affastellano i nomi più diversi: Ernest, Oskar, Liliana, Grigore, Mircea, Otilia, Bogdan… E le figure più comiche, strampalate, tragiche, patetiche di un immaginario teatrino dell’assurdo che tanto ricorda Ionesco: «una zia che aveva il singhiozzo e un odore sgradevole», «una vedova / sorda e magnetica con un debole per le bietole», «un uomo pelato come una rapa, ha / una gamba grigia di legno, che scricchiola appena, e / caligine nella mente, ma oro nei denti», «una dama / (con bigodini nei capelli, il rossetto arancione)». Anche i numerosi animali sembrano balzare fuori da un inverosimile paese delle meraviglie: «i cani con / lo zufolo di cera», «anatre selvatiche con tatuaggi / da creatura umana», «una capra da trasporto / pelle e ossa», «mosche a decine… hanno problemi psichici», «due canarini / uno rapato e l’altro abbacchiato», «una pecora stregata che cantava un blues». E poi tarme, oche, topi, cuculi, zanzare, volpi, gatti: un vero zoo urbano, in un paesaggio fitto di treni e autobus, di dogane e fabbriche dismesse, dove le coordinate si intrecciano, le direzioni si confondono, mancano i punti di riferimento e ogni contorno appare sfumato, sballato, sconcentrato («all’angolo della bocca / molto in alto / o in terra», «non aveva la benché minima idea / dove fosse la macelleria»). Insomma, la poetessa ammette quasi gioiosamente la sua confusa percezione dell’esistente: «che una certa sensibilità al bailamme ce l’abbia», evidente nei dialoghi smozzicati e straniti: «Te l’ho detto / ahò, che mi fa male / persino un po’ / il basilico», «Oplà!, / la cosa si fa seria / cocco mio», «mi ha chiesto Mihai: / -ce l’hai? / Non ce l’ho, gli ho detto, / dai su, mangiamo». E nelle conclusioni che non concludono, che rimangono sospese e stupite a interrogarsi: «farei la stessa cosa / che semplicemente farei, / avete afferrato l’idea, non è così», «secondo me / ciò che si può / non è escluso». Eppure, al di là di questo ritmo narrativo veloce e quasi ansimante, assolutamente privo di punti fermi, e con scarsi segni di interpunzione, qua e là si intuiscono tremori non vinti, assilli di violenze subite e mai perdonate, ironie feroci contro il potere burocratico e militare più ottuso, che possono ricordare gli sbeffeggi di Shostakovich parodianti il sistema staliniano: «ciò che faccio è vietato», «Però quando lo sono, lo sono! Di- / ciamolo pure, colpevole», «anche questi pestati a sangue / domani avranno delle sigarette», «Il signor colonnello non è più ciò che è», «questi, oplà, come ben sappiamo poiché è scritto nel / rapporto sulla produzione, ti avrebbero pappata / tutta intera»: a ricordarci che anche sotto le sembianze del gioco, del sorriso, del sogno, la poesia può continuare ad essere qualcosa di tremendamente serio, e pericoloso.

 

«Leggendaria» n.99,  marzo 2013

RECENSIONI

LUALDI

MARILENA LUALDI, L’IMPORTANZA DI ESSERE SECONDI – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

La giornalista varesina Marilena Lualdi dedica questo interessante volume, dal titolo accattivante e con un sottotitolo esemplificativo (Storie di eroismo e non solo), ai personaggi – della storia e della cronaca – che, nonostante il loro coraggioso dispiego di generosità e impegno, non sono riusciti a salire sul podio più alto, rischiando eternamente l’oblio, l’irrisione, o addirittura un velato e sarcastico sentimento di superiore sufficienza. Così il libro si rivolge idealmente alla sensibilità di quei lettori che rimangono emotivamente coinvolti dal destino di immeritata sconfitta di chi ha combattuto contro una sorte maligna, o contro l’inganno e la furbizia, o semplicemente contro la forza e la bravura del vincitore: «ci coinvolge la vicenda di chi ha dato tutto (o quasi) inutilmente». Le storie narrate dall’autrice spaziano geograficamente e cronologicamente attraverso epoche e continenti diversi, talvolta lambendo memorie e avventure personali, ma sempre manifestando un coinvolgimento affettivo nella descrizione delle speranze e delle delusioni dei protagonisti, in una prosa elegante e concreta, puntuale e comunicativa. Il primo capitolo, senz’altro il più commovente e ispirato del volume, narra l’impresa tentata nel 1911 dall’esploratore scozzese Robert Falcon Scott, il romantico sognatore che tentò di raggiungere l’Antartide «in uno scenario intrappolato dal gelo», insieme a quattro eroici compagni, «in cerca delle uova dei pinguini imperatore», per aiutare la scienza nella definizione della scala evolutiva indicata da Darwin. Per arrivare al Polo Sud, Scott impiegò settantanove giorni, mentre al suo rivale Amundsen ne bastarono solo cinquantadue, grazie a una più pragmatica programmazione del viaggio. Scott e i compagni morirono tutti congelati sulla strada del ritorno, “secondi” per la storia, e sconfitti: ma consapevoli di aver tentato una nobile impresa, e di aver combattuto con sforzo e dedizione la battaglia più ardua contro l’ostilità della natura, la debolezza fisica e le proprie paure. Un altro, notissimo “secondo” della storia britannica fu Giovanni Senza Terra, della dinastia dei Plantageneti; ultimogenito di Enrico II, a lungo in ombra rispetto alla statura gigantesca del fratello Riccardo Cuor di Leone, fu protagonista di vicende crudeli e complesse, di vendette, odi, passioni e tradimenti, in una esasperata ribellione contro la storia e il destino. Quante altre vite e lotte Marilena Lualdi sa raccontare, di personaggi “secondi” nell’amicizia devota a figure più elevate di loro, come il biblico Gionata vissuto all’ombra del mitico re Davide, o Ron che fa da spalla a Harry Potter. E ancora le tante donne eccezionali schiacciate dal confronto ingeneroso con altre donne (Maria Stuarda da Elisabetta I), o con i propri amanti (la fiera ed eccezionale Eloisa dal più prudente Abelardo): o le tante eroine quotidiane appartenenti al popolo che lavora, e stenta, e manda avanti le cose del mondo, e per cui Santa Teresa di Lisieux scrisse: «In Cielo, Dio saprà ben mostrare che i suoi pensieri non sono quegli degli uomini, perché allora le ultime saranno le prime». E come numerosi sono stati i “secondi” in tutti gli sport, dal calcio alla scherma al tennis, fino alle discipline meno seguite e pubblicizzate; quanti silenziosi eroi nella musica, che non hanno saputo catalizzare l’entusiasmo del grande pubblico, nonostante il loro formidabile talento. Quanti “lati B” nei 45 giri che alla fine hanno surclassato le canzoni destinate dai discografici al successo maggiore. E infine, quante notizie minori, di secondaria importanza, nei giornali e nei media, che sarebbero state degne di ben altro interesse ed ascolto da parte di occhi ed orecchie più attenti. Ma, come dicono le Scritture sottolineando il rilievo della pietra scartata dai costruttori che diverrà testata d’angolo, «Forse l’importante è sapersi vedere, sapersi pensare, al margine dell’inquadratura. Sapendo che l’immagine non rimarrà fissa e che vista da un altro punto di vista potrebbe portarci in primo piano». Così suggerisce il prefatore del volume, Giuseppe Battarino: così invita a sperare la bella foto di copertina, con l’esile nuotatrice pronta a tuffarsi e a gareggiare qualunque sia l’esito della gara.

 

«Leggere Donna» n.160, luglio 2013