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RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, LA VITA CHIARA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: La vita chiara, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: «l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische». Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione («il gelsomino / colma di fango tenebroso / le corolle», «i sassi / trasportati dai vermi / nella bocca»). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: («sono una piccola catasta di membra / che la sua nudità dovrà pur / calpestare»). E’ lo stesso «amore ammalato» che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa («sotto gli occhi di tutti», «sulla bocca di tutti») è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile  («Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore», recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla «bassezza del marmo» ritorna e si riduce implacabilmente («il mio corpo è bersaglio / e colonna di fuoco / è setaccio / e tamburo»); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. «Mon coeur mis à nu», appunto.

 

«Poesia» n.266, dicembre 2011

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RONDI-GAY DES COMBES

ELENA RONDI-GAY DES COMBES, DISSOLVENZE – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Questo libro, secondo la prefatrice Maria Rosa Valentini, «non vanta una trama ossuta, ma piuttosto si avvale di un gioco di specchi, di giustapposizioni che pongono in evidenza ritratti e profili di molte donne risucchiate dalle ragnatele della quotidianità». Ambientato in una provinciale cittadina della Svizzera Italiana (l’autrice è ticinese), il romanzo intreccia le storie di cinque protagoniste femminili, diverse per età, carattere e condizione sociale, ma accomunate tutte dalla stessa attenzione verso lo sguardo: soggettivo od oggettivo, interiore o esterno. Quindi l’interesse è focalizzato su quegli oggetti che maggiormente si fanno interpreti dell’atto visivo: la macchina fotografica e lo specchio. La vicenda si apre nella boutique in cui Anna, commessa, offre i suoi competenti consigli alla signora Kramer, cliente assidua ed esitante. La prima, attenta ad interpretare la psicologia delle acquirenti, è una giovane donna appassionata di fiction televisive, pratica e senza particolari esigenze esistenziali: la seconda è una signora della buona borghesia, mediamente infelice e ingessata nel suo ruolo di moglie-madre incapace di ribellioni. Entrambe usano lo specchio, una in modo professionale e distaccato, l’altra come scrutatore dell’anima.
Anna ha una sorella più giovane, Chiara, in grado di muoversi con naturalezza solo nel suo giardino e nei rapporti umani che sa indagare con profonda sensibilità, ma privata della vista per una malattia infantile: cieca quindi verso l’esterno ma attenta osservatrice dell’interiorità.
Le altre due protagoniste sono Lucia e Eileen, legate da un misterioso rapporto di complicità iniziato casualmente da uno scatto fotografico rubato. Ognuna di loro vede nel ritratto fotografico ciò che desidera vedere: la felicità o l’angoscia dell’altra, le proprie proiezioni e aspettative di riconoscimento. Dunque le dissolvenze cui si allude nel titolo del romanzo sembrano soprattutto indicare una difesa dall’aggressione troppo esplicita dell’esistenza.
La fotografia non riproduce la realtà, ma tende a ricostruirla: «Di autentico c’è solo il nostro sguardo iniziale… se l’immagine non corrisponde alla realtà, tanto peggio per la realtà».
Lo stile con cui Elena Rondi-Gay del Combes racconta le vicende intrecciate delle sue protagoniste è curato ed elegante, i dialoghi credibili e funzionali.

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

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ATTANASIO

DANIELA ATTANASIO, IL RITORNO ALL’ISOLA – NINO ARAGNO, TORINO 2010

Si apre con una poesia intitolata  Risveglio, questo bel libro della poetessa romana Daniela Attanasio: quasi un augurio di nuova vita, che penetra nei versi con la luce dell’alba. E «luce», infatti, è forse il vocabolo che più si rincorre attraverso i quattro capitoli che compongono il volume, come una costante di apertura, di desiderio chiaro, di energica vitalità modulata in versi che hanno la solida positività di una narrazione che si vuole condividere. Così nella prima sezione, intitolata luminosamente  aQualche scintilla, è la metropoli di oggi, brulicante di esistenze e razze differenti, di colori profumi rumori e lingue diverse, che si impone nelle descrizioni stupite e grate dell’autrice. La sua «Roma di rosa pallido di azzurro sporco», si spalanca con disordinata allegria su «un secchio di fiori una panca la metropolitana / la croce della farmacia, odori molli dolci / di pelle indiana»: per cui, quasi pasolinianamente «a snodare la passione del giorno / è un disperante bisogno di vita». Ma è soprattutto la seconda sezione, che dà il titolo al volume, ad aprirsi al miracolo dello sguardo ricreante, in una vertiginosa identificazione con la natura e l’esplosione dei suoi colori. L’isola di cui si parla nel poemetto («quest’isola / piccola e selvaggia») è Ginostra («felicità infantile / come un giro di / giostra»): esplode nella sua concreta e paganeggiante rigogliosità fatta di “roccia nera / vulcanica sulfurea / raspi di capperi… terrazze accovacciate… teli di bucato… gigli di mare… corpi scivolati nel / sudore… gabbiani reali appollaiati… spiaggia trascolorata… intonaci /increspati come petali di / un fiore… livide raffiche di vento… rosso dei pomodori / rimasti a seccare sotto il sole». Una fisicità di cielo e mare, odori e suoni che si fa pura, esaltata visione, e insieme volontà di comunione, non solo con l’amato con cui si condividono i gesti più quotidiani e attenti, bensì con il tutto che respira intorno, fino alla riconoscente resa in poesia: «Vera ragione di esistere / è questo guardare la vita / patendola fino al raschio / delicato della poesia», «cerco un verso che / sanguini fedeltà alla vita», «il mio modo / di guardare l’isola / è una forma del / pensare, qualcosa di / molto umano, una cosa / pura, un inizio // come cercare Dio nella bocca del vulcano». Proprio la forza incombente del vulcano, guardiano del suolo, testimone sedimentato da millenarie età geologiche, rappresenta più una sicurezza che una minaccia: «il vulcano è ancora lì / con la sua mappa di rughe ctonie- / solo lui resiste»: ed è una promessa di solida e fedele permanenza nel fluttuare incostante delle vicende umane. Il ritorno alla banalità urbana, la fine della vacanza e dell’immersione in un’innocenza primordiale, si concretizza in un  Dopo che corrisponde al terzo capitolo del libro, e a una separazione, alla fine di un rapporto d’amore: «circondata dal buio e dal / silenzio, posso iniziare a ricordare», «poi è accaduto qualcosa che non so capire», «siamo corpi separati dentro una cassa di gesti morti». Eppure, anche nella malinconia del distacco, non sono davvero buio e silenzio a prevalere. La poetessa sembra voler chiedere ancora una volta soccorso alla natura, alla bellezza del creato per una consolazione che non sia fittizia: «vieni luna gentile, lava le pietre della mia memoria / attraversa con i tuoi raggi bianchi cuore e cervello / chiudimi dentro una suadente amnesia», «amo anche te vela nera d’agosto / e amando te amerò il dopo del buio e della pioggia». Sono versi che indicano sempre e comunque una salvezza, una gioiosa accettazione e adesione all’esistente. Persino la visione della morte futura non ha nulla di spaventoso e di tragicamente definitivo: «soccombere alla luce- un modo di morire contenta / scivolando nella materia che amo». La scrittura poetica di Daniela Attanasio («un nome ebraico e un cognome greco») sembra rifiutare i moduli tradizionali di rima o metrica, ma si avvale spessissimo di metafore e di enjambements che aspirano a creare nel lettore effetti di straniamento e sospensione, di sorpresa e meravigliata interrogazione, in linea con la convinzione etica espressa dai suoi contenuti: un inno alla vita, una partecipazione convinta alla bellezza . Così anche l’ultima parte del libro, con le tragiche epigrafi tratte da Amelia Rosselli, e allusive alle «sue disarmate visioni», alla malattia, alla fine, termina con un «cordoglio d’allegria», con la constatazione che «da tutti i tuoi mali d’amore nasce sempre qualcosa, / tocca la primavera di aprile scolpita sulle foglie / i voli frastagliati degli uccelli, le rondinelle…».

 

«Atelier» n. 67, settembre 2012

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BASAGLIA

ALBERTA BASAGLIA, LE NUVOLE DI PICASSO – FELTRINELLI, MILANO 2014

«…quel personaggio che mi era capitato come padre, all’epoca, fine anni settanta, era nell’occhio di tutti i cicloni possibili: quello scientifico, quello mediatico, quello politico-legislativo, quello culturale…». Alberta Basaglia, psicologa a Venezia, tratteggia un affettuoso, ammirato, ma anche intelligentemente ironico ritratto di suo padre Franco, psichiatra di fama internazionale, autore nel 1968 del fondamentale saggio  L’istituzione negata, e soprattutto coraggioso iniziatore della rivoluzione scientifica e ideologica che condusse alla chiusura dei manicomi con la legge 180 del 1978, legge che porta il suo nome. Ma Alberta in questo volume scrive principalmente della sua particolarissima infanzia, di se stessa bambina-adolescente-studentessa universitaria, segnata da un doloroso deficit visivo congenito, che dalla nascita l’ha resa “diversa”, accomunata solidalmente nella sofferenza ai pazienti in cura nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. «Strana», con la testa piegata sulla spalla per cercare di vederci meglio, con tante baby sitter inglesi che si occupavano di lei e del fratello per ovviare alle assenze e ai fagocitanti impegni di lavoro e di studio dei loro importanti genitori, Franca e Franco Basaglia. Di famiglia veneziana altoborghese, antifascista, anticonformista, il giovane Franco, partigiano («non ha mai smesso di esserlo») imprigionato negli ultimi anni di guerra, conobbe forse proprio in carcere la degradazione umiliante dell’isolamento, facendosi da subito paladino degli ultimi, degli esclusi per eccellenza dalla comunità: i malati di mente. Erano anni di grandi utopie, che sognavano riscatto sociale e liberazione, e «il suo era un lavoro di studioso che intrecciava in modo sacrilego la filosofia alla psichiatria». Con la moglie e molti amici intellettuali, le serate passavano discutendo i lavori di Marcuse, Heidegger, Sartre: progettando silenziose rivoluzioni in medicina e in politica. I due bambini, Enrico e Alberta, venivano educati spartanamente, con vacanze alternative, senza televisione, senza concessioni alle mode, tra molte letture e musica classica. Vivevano a Gorizia nel Palazzo della Provincia, poco accogliente come casa, ma aperto alla frequentazione di ospiti da tutto il mondo, e di matti. Desolina, Carletto, Velio, la puzzolente signora Pierina, malati «ripuliti a festa» nelle domeniche danzanti nel parco dell’ospedale: «Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo… Basta solo riconoscere il diverso da te e non farti fagocitare dall’ansia che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo».

Accettare tutti, era la parola d’ordine della famiglia Basaglia, dando dignità a ciascuno.
E Alberta, con le sue minime disubbidienze infantili (le canzoni di Caterina Caselli, il desiderio di vestiti alla moda, le fughe alla Standa per ascoltare i Beatles o in portineria per sbirciare Carosello, il dipingere nuvole così belle da far invidia a Picasso) assorbe l’atmosfera intellettuale di famiglia, fa sua l’istanza di ribellione contro la violenza e il conformismo, e decide di dedicarsi professionalmente alla cura di chi soffre. Si laurea in psicologia dell’età evolutiva, saccheggiando l’archivio del manicomio di Gorizia, e studiando gli impietosi faldoni che testimoniano le torture inflitte a bambini malati, le diagnosi superficiali e crudeli dei medici, gli inevitabili decessi precoci colpevolmente censurati dalla burocrazia psichiatrica.
Scritto con la collaborazione della giornalista Giulietta Raccanelli, questo libro di agevole e stimolante lettura ci accompagna alla scoperta di una famiglia eccezionale, di idee in costante fermento in anni vivaci, molto lontani dall’apatia e dall’acquiescenza attuali. E soprattutto ci fa conoscere il coraggio e la dolce, simpatica fermezza della sua autrice, la sua fedeltà a un sogno di libertà e uguaglianza.

 

«Leggere Donna» n. 163, 2014

RECENSIONI

ANGELI

L’ULTIMO VOLO – RICORDO DI SIRO ANGELI

La Biblioteca e l’Amministrazione Comunale di Cavazzo Carnico, insieme ad alcuni illustri studiosi e a preziosi e competenti volontari, da qualche anno stanno promuovendo il recupero dell’opera letteraria di Siro Angeli, nato a Cesclans nel 1913 e morto a Tolmezzo nel 1991. Molto volentieri, in qualità di seconda moglie di Siro, e in accordo con le nostre figlie Daria e Silvia, abbiamo donato al Comune la sua casa natale, i libri conservati nel suo appartamento di Roma, e parte dell’epistolario in nostro possesso. Un ricco fondo di documenti era già stato affidato alle cure attente dell’Università di Trieste alcuni anni fa. Ma qui mi preme offrire una testimonianza personale, un ricordo affettivo dell’uomo e del poeta, quale io l’ho conosciuto a partire dagli anni 70, e a cui sono stata vicina per un ventennio. Già dalle primissime letture della scuola elementare avevo subito il fascino della parola poetica, in cui avvertivo istintivamente una concentrazione di senso e una seduzione musicale che la prosa non mi regalava. Se quindi da bambina erano i versi di Novaro e di Gozzano («Tita singhiozza forte in mezzo all’orto», «Consòlati Maria del tuo pellegrinare»), e più tardi quelli di Ungaretti e di Saba a commuovermi in maniera particolare, al ginnasio e al liceo le mie letture si rivolsero appassionatamente e autonomamente (senza, cioè, venire orientate e dirette da qualche insegnante o guida adulta) verso qualsiasi produzione poetica riuscissi ad avvicinare. Ricordo ancora i primi due libri di poesie acquistati con le mance domenicali: le  Liriche cinesi  e  L’Antologia di Spoon River  della Nuova Universale Einaudi. In seguito, in maniera confusa e entusiastica, lessi Montale e Cardarelli, Pavese e Palazzeschi, Prévert e Tagore, fino ai disorientanti sperimentalismi della neovanguardia. Accompagnavo questi studi con l’ascolto dei cantautori italiani (Endrigo, Tenco, De André, soprattutto) e degli chansonnier francesi, affinando così una sensibilità forse eccessiva per quel miracolo del pensiero e del sentimento che chiamiamo “poesia”. Cominciai anche a buttare giù dei versi – molto banali e zoppicanti, a rileggerli adesso- che custodivo gelosamente in segreto. Fu in prima liceo classico che la professoressa di italiano ci fece acquistare un’antologia: Poesia contemporanea, edizione Le Monnier, curata da Rispoli e Quondam. Lì trovai Siro, a pagina 521. I versi riportati erano tratti da quello che rimane forse il suo libro più intenso e ispirato,  L’ultima libertà, dedicato alla sua amatissima prima moglie Liliana, morta molto giovane, nel 53. Ricordo ancora a memoria alcune di quelle poesie: Come si fa di brace,  Nel deserto del letto, Volevi essere mia, e il turbamento che mi provocava ripeterle tra me e me. Non so quale istinto o segno del destino mi convinse a prendere la penna, il 24 gennaio 1970 – avevo sedici anni – e a scrivergli una lettera, che indirizzai alla Rai, dove allora lui ricopriva la carica di vicedirettore del terzo programma radiofonico. Voglio riportarla per intero, così timida e impudente come mi appare adesso, insieme alla sua risposta pacata e commossa.

Caro Signor Angeli, sono una studentessa liceale di Verona; le scrivo dopo aver letto alcune sue poesie su un’antologia di poeti contemporanei. Devo confessarle che non sapevo neppure che lei esistesse: a scuola non si curano certo di farci apprezzare la poesia moderna; tuttavia le sue poesie mi sono piaciute. Molto. Non mi interessa sapere se la sua poesia è contrapposta a ogni inutile sperimentalismo, oppure se risalta a prima vista l’elaborazione e la rinnovazione degli endecasillabi e dei settenari (come ha scritto Ravegnani): io bado ai fatti e le sue liriche sono delicate e sincere. Per questo mi sono piaciute. Le ho scritto per chiederle se può mandarmi un suo volume: non credo infatti che i suoi libri siano stampati in edizione economica, e io non ho mai abbastanza soldi per permettermi un’edizione di “lusso”. Se un giorno riuscirò a scrivere poesie belle come le sue, anch’io le manderò un volume gratis. Volevo dirle inoltre che mi dispiace molto che la sua “Lilith, Eva, Maria” sia morta. Affettuosi saluti. Alida Airaghi

Cara Alida, scusa se ti do del tu: penso che la mia età, e soprattutto lo slancio spontaneo che ti ha sollecitata a scrivermi, mi consentano di farlo. Dirti che la tua lettera mi ha recato piacere è poco. Accorgersi che le nostre parole hanno lasciato una traccia nell’animo di qualcuno è assai consolante: non (almeno nel mio caso) perché ciò soddisfa la nostra vanità, ma perché l’impulso a scrivere nasce proprio dal bisogno di comunicare, di confidarsi, di stabilire un rapporto di comprensione e di intesa con gli altri, insito in ogni essere umano. Adesso io per te esisto, e tu esisti per me. Se da me ti è venuto qualcosa, senza che io l’abbia espressamente voluto (e questo mi sembra anche più bello) tu mi hai dato altrettanto scrivendomi, e forse di più. Ti mando volentieri il mio ultimo libro di versi. Confido che non ti deluda; e attendo che un giorno tu possa ricambiarmi con un libro che rechi la tua firma, e sia migliore del mio. Io l’ho scritto perché non potevo farne a meno, per disperazione e per vincere la disperazione. La vita mi aveva concesso, con mia moglie, moltissimo; e, forse perché è stabilito che il bene si debba pagare più del male, poi me l’ha tolto. Io ho cercato di recuperare questo grande dono nelle parole, non potendolo recuperare nella realtà. Ricambio i tuoi affettuosi saluti e ti auguro che si avveri quello che desideri, per i tuoi studi e per la tua vita. Siro Angeli

La nostra corrispondenza si protrasse fino al 1973, quando scesi a Roma con alcune compagne di studi per incontrarlo. E continuò, pressoché quotidiana da parte sua, anche nei primi anni della nostra relazione, fino al trasferimento a Zurigo, alla nostra convivenza e poi al matrimonio. Un esilio dorato, il nostro, grazie soprattutto alla nascita delle nostre bambine, all’amicizia fedele di pochi amici, alla sicurezza economica che ci garantiva il mio insegnamento per il Ministero degli Esteri. Ma sempre esilio, a cui ci aveva convinto l’ostilità – dapprima feroce, poi attutita, poi di nuovo manifestamente esibita, dopo la scomparsa di lui – delle nostre famiglie, a Roma e a Verona, scandalizzate dall’abisso di anni che ci divideva. La morte di Siro, inattesa e imprevedibile, non è comunque riuscita ad offuscare in me il ricordo riconoscente del suo severo insegnamento, morale e letterario, e la volontà di rimanervi fedele. In quel lontano agosto del 91, Siro ci aveva preceduto a Cesclans, dove eravamo soliti passare due settimane ogni anno, mentre io e le bambine eravamo rimaste a Verona, trattenute lì dalla leucemia che aveva colpito mia madre, e che l’avrebbe uccisa quasi contemporaneamente a Siro. Ma io l’avevo poi raggiunto per accompagnarlo all’ospedale a un controllo, suggeritogli dal medico a causa di quella che gli era stata diagnosticata come una tracheite. Avevamo partecipato insieme alla Messa di Ferragosto, e ancora adesso mi rimprovero di non aver intuito la gravità del suo male, anche al di là delle reticenze dei dottori e dei parenti. Rammento la sua ultima frase, prima del commiato la sera del sabato in cui fu colpito da un ictus: «Non mi sento ancora del tutto a posto. Tu però vai, vai a dormire, ci vediamo domani». Il rientro a Zurigo con le sole bambine, il dover dire loro che non avrebbero più rivisto il papà adorato, il silenzio terribile e prolungato di tutti, la cattiveria covata e mai da me prima sospettata, ed esplosa in seguito con virulenza, con perfidia: tutto questo non si può dimenticare. Ma dopo tanto tempo risulta attutito, quasi mitigato con clemenza dal bene che è rimasto, dai ricordi belli. Anche dalle raccomandazioni “letterarie” con cui seguiva quello che io scrivevo, esortandomi e correggendomi. Per cui se io leggo una mia breve, lieve composizione tratta dal libro  Il silenzio e le voci («L’elegante betulla è spoglia. / Solo una foglia, esitante, resiste. / Un poco trema, appesa ad un nulla; / e aspetta triste il suo ultimo volo»), risento la sua voce grave e severa: «Attenzione alla metrica! E le rime, le rime sono importanti: non rimare aggettivo con aggettivo, verbo con verbo, nome con nome…  Mai cercare la via più facile, affidarsi troppo all’orecchio!». E mi accorgo di quanto ho ereditato dal suo insegnamento, anche a livello inconscio, se paragono i miei versi a quelli suoi di cinquant’anni fa, così profondi filosoficamente, echeggianti il suo ammirato Bergson: «Impara dalla foglia di novembre / che vedi sciogliersi dalla spoglia pianta / nella precaria luce in punta di piedi; / dalla foglia che sa prima d’esser morta, / persuadendosi a un lieve gioco / col filo d’aria che alla terra la porta, /  fare di ciò che deve l’ultima libertà».

Così, rileggendo questi suoi splendidi versi, mi viene da pensare che Siro, nel suo ultimo volo, ha fatto come la foglia novembrina che scendendo verso terra gioca con l’aria, libera nonostante la necessità: anche Siro ha scelto di finire i suoi giorni nella sua Carnia amata, di riposare per sempre al suo paese, come tante volte mi aveva ripetuto di voler fare. E come giustamente ricorda la poesia incisa nella lapide sulla sua casa: «’I si dopo tanc’ ans / tornât al gnò paîs…».

 

© Riproduzione riservata   «L’Immaginazione» n. 269, maggio 2012

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, DI ARMONIA RISUONA E DI FOLLIA – FELTRINELLI, MILANO  2012

Le affermazioni che definiscono il senso e i fini della psichiatria, in questo volume del Professor Eugenio Borgna, sembrano essere molto più recise ed esplicite che nei suoi lavori precedenti (che nell’ultimo ventennio hanno indagato sempre, con estrema e profonda sensibilità, tutte le pieghe delle malattie dell’anima: dalla depressione alla schizofrenia, dalla solitudine alla malinconia): e forse è il caso di citarne alcune, nella loro convinta ed esigente severità.

«La psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria… scienza umana e non solo scienza naturale», «La psichiatria, quando si fa cura, non è se non incontro, dialogo, colloquio, comunità di destino, e non solo comunità di cura; … incontro fra un io e un tu che si realizzano fino in fondo solo nel noi, al di là di ogni categoriale distinzione fra malattia e non malattia, fra normalità e patologia…», «dilatare l’area della normalità nella follia, e della follia nella normalità».

Fautore appassionato di una psichiatria che sappia «scendere nelle strade», farsi ascolto empatico del dolore del paziente, Eugenio Borgna, da sempre considerato tra i più importanti clinici e studiosi della malattia mentale, a lungo solidale con la lotta di Franco Basaglia contro i manicomi («luoghi di sorveglianza e di esclusione»), esprime con categorica indignazione il suo rifiuto nei riguardi di cure farmacologiche e ospedalizzazioni che, evitando approcci più umani, attenti e partecipi alla sofferenza psichica, finiscono per produrre un «vortice di ostinati e persistenti fenomeni di emarginazione che trascinano con sé isolamento sociale e solitudine radicale». In questo libro l’autore si propone di indagare non solamente la malattia mentale in sé, ma anche quelle particolari fragilità, inquietudini, timidezze, ipersensibilità, emozioni ferite «oggi considerate come esperienze inutili e svuotate di senso: inconciliabili con le esigenze di efficienza e di produttività che sono gli idoli della modernità».
Da questi stati d’animo di accentuata emotività possono nascere anche folgoranti manifestazioni creative, non solo negli artisti più geniali, segnati talvolta da dolorose crisi psichiche, ma anche in comuni pazienti affetti da patologie: Eugenio Borgna include allora nelle sue pagine brani di diario, poesie, riflessioni strazianti e di fulgida bellezza di adolescenti autistici, di giovani anoressiche, di donne schizofreniche pietrificate nella non comunicabilità di un male oscuro e terribile, da lui avute in cura all’Ospedale Maggiore di Novara. E accanto a queste angoscianti espressioni e richieste di aiuto dei suoi pazienti, esplora con una partecipazione che è pure ammirata condivisione di eccellenze artistiche, le creazioni sublimi di poeti e narratori, pittori e registi, filosofi e mistici toccati da esperienze neurotiche o psicotiche di particolare gravità. Ecco quindi l’insondabile tormento espresso dai versi di Nelly Sachs e di Paul Celan, entrambi lacerati dalla tragedia della Shoah, o di altri poeti smarriti in una loro dolorosa e annientante solitudine come Hölderlin, Leopardi, Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Georg Trakl (da una sua poesia è tratto il suggestivo titolo del volume). Poeti che sono arrivati talvolta ad immolarsi nell’estremo rifiuto del suicidio. Filosofi come Kierkegaard o Nietzsche o Simone Weil, scrittori come Virginia Woolf e Etty Hillesum, pittori come Van Gogh e Modigliani, straziati dalla follia, o altri in grado di rappresentare la malinconia con «affascinate risonanze emozionali»: Friedrich, Böcklin, Corot, e il nostro Daniele Ranzoni. Registi quali Lars von Trier o Bergman; grandi mistiche che hanno sperimentato l’estasi e il dubbio, la presenza luminosa e il silenzio di Dio: Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux fino a Madre Teresa di Calcutta. Di ciascuno di loro Eugenio Borgna ci sa restituire le parole più disperate e toccanti, le più indifese e fragili, nella loro adesione alla ricerca dell’infinito e allo scandaglio del mistero che ci circonda. Esprimendo così la speranza che «anche un libro possa avere un suo significato nel sottolineare drasticamente la dignità della sofferenza psichica».

 

«Qui Libri», luglio 2013

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA DIGNITA’ FERITA – FELTRINELLI, MILANO 2013

L’ultimo volume pubblicato dal Professor Eugenio Borgna (Primario Emerito di Psichiatria a Novara e libero docente presso l’Università di Milano) traccia – con la consueta, acuta, sensibilità e con esemplare attenzione a vari e arricchenti contributi letterari – una mappa delle diverse ferite apportate alla dignità umana, «in emblematiche situazioni fenomenologiche e antropologiche, come quelle della malattia, della solitudine e dell’immigrazione», ma anche negli stati d’animo più fragili e nei momenti emotivi di più scalfibile sofferenza, quali le attese deluse, le speranze infrante, le terrificanti risonanze dell’ignoto, o lo spettro nullificante della depressione. Seguendo l’intuizione offerta dal titolo di un volume di Simone Weil (L’ombra e la grazia), Eugenio Borgna indaga sia la pesantezza del dolore, della sventura, della malattia mentale, sia le “stimmate luminose” della grazia, nelle declinazioni in cui essa sa offrirsi e consolarci: gentilezza, mitezza, sorriso e lacrime.
E in questa sua esplorazione degli «abissi dell’anima» si avvale della testimonianza della poesia, che più delle gelide e spesso indifferenti indagini psichiatriche, è in grado di descrivere ««il cammino friabile e oscuro» di ogni sofferto sentire umano: quindi i versi di Leopardi, Hölderlin, Rilke, Dickinson, Montale, Celan, Sachs sono alternati a riflessioni altrettanto emotivamente partecipi di grandi filosofi, medici, mistici come Sant’Agostino, Kierkegaard, Heidegger, Guardini, Binswanger, Hillesum, Bonhoeffer, e della stessa Simone Weil. Proprio la letteratura, con il suo «linguaggio rabdomantico e fosforescente» può consentire alla psichiatria di avvicinarsi al senso profondo della vita, esprimendo «l’inconoscibile e l’inesprimibile» di ogni oscura e tragica esperienza esistenziale.
Le tre parti in cui si articola il volume (dignità lacerata, dignità perduta, dignità salvata) affrontano da diverse e complesse prospettive i molteplici modi in cui la dignità di una persona può essere sfregiata dalla noncuranza, dall’egoismo, o addirittura dalla crudeltà e dal sadismo del mondo: ma anche in che maniera questa stessa dignità ferita possa venire curata e portata in salvo.
Nella prima parte, Eugenio Borgna si confronta con gli elementi formali, filosofici e giuridici che definiscono le fondazioni etiche dei diritti umani, riflettendo con amarezza sulle colpe morali di una psichiatria che spesso si è asservita (come nella Germania nazista) a un potere politico oppressivo e discriminante, o che tuttora si riduce a curare l’infermità mentale con metodi brutali, nell’esibito disinteresse verso la soggettività e l’autodeterminazione del malato. Con estrema empatia, l’autore denuncia l’insensibilità (il disprezzo, il pregiudizio) con cui la società contemporanea disattende le speranze di riscatto degli immigrati, degli anziani, delle donne, degli ultimi: «ogni uomo, al di là di ogni altra sua connotazione filosofica, conta», «solo l’uomo è persona, e questo significa che non è mai sostituibile». E il suo richiamo a una deontologia medica che metta in primo piano il dovere di «aiutare a vivere» il paziente, considerando dotata di senso ogni sua sofferenza, è forte e chiaro, «al di là delle selvagge associazioni farmacologiche oggi dilaganti», e delle terribili pratiche della contenzione.
La seconda parte del volume si occupa delle ferite inferte alla dignità in situazioni vitali più umbratili e meno facilmente definibili, quali le attese e le speranze deluse, gli incubi derivati dall’esperienza dell’ignoto, la malinconia e la fatica depressiva di vivere. Ecco allora pagine vibranti e commosse sull’attesa della morte (o di Dio, di una risposta, di un riconoscimento sociale e morale) e sull’aspettativa frustrata di un aiuto; sull’illusione di chi lascia il suo paese in cerca di riparo e salvezza, non solo economica, scontrandosi invece con i fantasmi perturbanti dell’ignoto; sui destini contrassegnati dalla tristezza, dalla depressione, dall’anoressia e dalla volontà di suicidio, esemplificati da Borgna in una stretta relazione simbiotica intrattenuta con una sua giovane paziente, dalle dolorose esperienze emozionali.
Infine, la terza sezione, forse la più ispirata e lirica del libro, descrive «forme di vita che cambierebbero davvero il mondo, rendendolo più umano e più capace di ascolto, e di attenzione agli altri»: la gentilezza e la mitezza, il sorriso e le lacrime. L’invito pressante dell’autore, in queste pagine che lui stesso definisce «errabonde e nomadi», e «extraterritoriali» rispetto alla psichiatria più ortodossa, è a volerci educare alla gentilezza, che «non costa nulla», per cui «non contano davvero la cultura, la lettura di libri, o la formazione psicologica». Una gentilezza e una mitezza d’animo che sappiano esprimersi in gesti discreti, in carezze, in incontri di sguardi, in accettazione della sofferenza altrui: «virtù deboli» che hanno forse un’inconsistenza mondana ma splendono di una loro «trascendenza oltremondana», spirituali e non materiali, estranee alla violenza, alla sopraffazione e all’offesa. Virtù inattuali, quindi, disusate: ma che secondo Eugenio Borgna «siamo chiamati a conquistare faticosamente ogni giorno; e questo è possibile se usciamo dai confini del nostro io», perché “non siamo prigionieri del nostro destino». Imparando o reimparando a sorridere, e a non vergognarci delle lacrime, quando sorriso e lacrime («queste nuvole del volto umano») siano espressione di delicatezza, e di «luce interiore dell’anima».

 

«criticaletteraria», 3 marzo 2014

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, LA COLLANA SPEZZATA – CITTADELLA, ASSISI 2012

Franco Riva, docente di Etica Sociale e Filosofia del Dialogo all’Università Cattolica di Milano, attento indagatore del «pensiero dell’altro», dedica questo suo ultimo libro alla riflessione sui concetti interdipendenti di testimonianza e accoglienza, responsabilità e partecipazione, speranza e profezia: letti in un’ottica di rigorosa concentrazione sul significato etico e sociale dell’impegno comunitario e della solidarietà umana. «La disarticolazione o il frantumarsi impercettibile» di questi valori fondamentali comporta la dispersione e il fallimento di qualsiasi progettualità costruttiva, «proprio come una collana di perle che diventa irriconoscibile, e che spesso non è nemmeno riparabile, quando il filo o il fermaglio si rompe…  e i suoi grani, impazziti, saltellano a terra ciascuno per conto suo…».

Come ricomporre, quindi, la collana spezzata, riannodando quanti fili, recuperando quali perle trascurate, non riconosciute? Con la rimeditazione dei testi fondamentali del pensiero spirituale novecentesco, dall’esistenzialismo cristiano di Marcel e Mounier, attraverso Rosenzweig e Jonas, fino ai più amati e citati Ricoeur e Lévinas, Franco Riva esplora inizialmente il concetto di testimonianza come «forma di conoscenza… che riapre uno spazio inedito per la verità dove avanza, deciso, il rapporto con gli altri». Testimoniare significa quindi «uscire dall’angolo… immergersi nel quotidiano…», ma soprattutto «rapportarsi con la verità»: «La testimonianza interrompe la fedeltà a se stessi e inaugura una responsabilità per la verità e per gli altri», «come avviene nei racconti biblici di vocazione… testimoniare non significa dire ‘io’, bensì ‘Eccomi!’». Essere testimoni vuol dire perciò non pretendere da se stessi un’improbabile purezza e intangibile trasparenza, ma farsi responsabili per la verità, per l’altro, e per il bene universale che ci è comune. Quindi, in prima istanza, accogliere, ospitare, essere-verso. Accoglienza e ospitalità intese come «rivoluzione permanente… un trascendere rispetto a sé e alla propria falsa centratura: … l’abitare dell’uomo non è dunque un rinchiudersi, un recintare luoghi, un prendere possesso, un estromettere … invece un’apertura inevitabile, essenziale, positiva al rischio dell’incontro con l’altro».

Ecco allora che testimoniare significa anche partecipare e farsi responsabili, porre il problema di cosa sia, oggi, nelle nostre società e nelle nostre città, la democrazia: non solo efficientismo e decisionismo nelle mani di pochi, esperti o tecnici che siano. Ma coinvolgimento, interesse, solidarietà aperta a un futuro di speranza: una speranza coniugata al plurale, che riguarda un “noi”, l’edificazione di una città degli uomini «diversa, meno violenta e meno diseguale, meno indifferente e meno difficile». Con questo richiamo generosamente utopistico, di impegno prometeico a una nuova organizzazione della convivenza, e a più coraggiosi e innovatori disegni urbanistici, si chiudono le pagine di Franco Riva, che invitano a superare le logiche privatistiche e a scardinare gli egoismi individuali, nella responsabilità profetica e testimoniale per il bene di tutti. Recuperando i grani dispersi della collana, rinsaldandoli insieme con un filo tenace, e duraturo.

 

«Conquiste del lavoro» n.149/150 , 23 giugno 2012

RECENSIONI

RAFFO

SILVIO RAFFO, AL FANTASTICO ABISSO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Il secondo volume dell’elegante collana che le edizioni Nomos dedicano alla poesia contemporanea propone ai lettori i versi classici e raffinati di Silvio Raffo, stimato e versatile autore, traduttore e critico. Secondo la prefatrice, Marisa Ferrario Denna, «l’uso colto e sapiente della rima, la sonorità calda e precisa dell’endecasillabo e dei settenari» evidenziano una dotta e cosciente abilità di alternare con uno stile tradizionalmente erudito e alto «testi di grazia quasi infantile a testi più marcatamente filosofici». I motivi fondamentali della raccolta sono già tratteggiati nei titoli assegnati alle tre sezioni: La magica angustia, Fiaba dell’intertempo, Al fantastico abisso. Senz’altro, infatti, il tono favoloso e sospeso di alcune composizioni riesce a rendere la particolare levità di un mondo innocente e perduto (lasciando che nel secondo capitolo irrompa la magia della fiaba con i suoi attori più consumati: il principe, il drago, la fanciulla, il bosco, il castello, lo specchio, «i luminosi paggi»), ma sono soprattutto due i temi che si stagliano prepotentemente dalle pagine di questo libro: appunto l’angustia, l’abisso della solitudine e il corteggiamento assiduo e per nulla tragico della morte.

«Il destino che abbiamo condiviso / con i grandi poeti è di durare / nella coscienza della solitudine», «Da poche ore eravamo / al grigio paese arrivati, / la mia solitudine ed io», «Svanire io voglio / come la rugiada / … goccia di fiume che lento discende / al fantastico abisso che l’attende», «Son solo e come sempre sorridente / Non aspetto nessuno – al mio passato, / all’amore e alla morte indifferente», «Ce ne andremo da veri signori / senza strepiti o clamori»

Un’accettazione tranquilla e saggiamente conscia della propria finitudine, dunque, e un accordo placido e rasserenante con il fluire magico e sacro della natura («Avvolgimi di te, nulla infinito», «Ieri, un millennio fa, sostava il Tempo / a una fermata d’autobus con me», «Nel tuo grembo m’immergo / notte – o notte»), insieme alla consapevolezza fiera della propria e vivida unicità di persona e di poeta, in un dialogo inesausto con un “tu” che è sì ricerca dell’altro, ma anche una ribadita sottolineatura della propria irriducibile grandezza: «Sono la fiamma errante / che divaga del sogno alla deriva», «Tu guardalo con l’occhio della lince / il tuo dolore, guglia d’alabastro- / … ma con lo stesso sguardo ammira il volo / della tua gioia, alata Durlindana». Ecco: la gioia, l’inscalfibile pietra preziosa che ogni poeta, interprete di una scintilla di assoluto, porta in sé, e che in Silvio Raffo è orgogliosamente declamata : «V’è una sorta di ebbrezza / nel più acuto dolore-», «Era il mio personale paradiso. / E dovevo tenerlo chiuso in me, / senza svelare del mio rango il segno?», «Quella gioia suprema / d’essere sempre te stesso».
Queste poesie così parche di punteggiatura, quasi a voler esibire un’aperta continuità di pensiero e di collegamento al tutto, a cui un po’ nuocciono, anche graficamente (ed è forse l’unico appunto da rilevare a questa squisita raccolta) la definizione pleonastica e rapsodica di date e luoghi di composizione nell’ultima parte del libro, hanno sempre una loro leggiadra compiutezza, una loro generosa offerta di gratuita verità, che talvolta le apparenta al tono lieve di Sandro Penna, come in questi riuscitissimi versi: «Dei treni in partenza in arrivo / del tutto ignaro, sostavo / nell’atrio, semplicemente / solo, con il mio niente / Ma a un tratto all’edicola antico / un libro prezioso scoprivo / da tanto invano cercato / Lieto poi, col mio dono / al cuore in subbuglio serrato / la soglia fumosa varcavo».

 

«incroci on line», 21 marzo 2013

RECENSIONI

SANTI

FLAVIO SANTI, MAPPE DEL GENERE UMANO – SCHEIWILLER, MILANO 2012

Il titolo di questo volume di Flavio Santi (1973) è senz’altro accattivante: «al confine tra la cartografia che uccide l’incanto dei mondi sconosciuti, e la genetica, che chissà cosa uccide», scrive nella sua generosa e ammirata prefazione Emanuele Trevi. Che definisce Santi «un pantografo in versi della nostra condizione di folli ridotti in cattività… stimolato da una dolente e sarcastica musa civile». Lo stesso autore poi esplicita la sua idea di poesia come «potenziale possibilità di mappare il genere umano, in un movimento dall’interno sempre più verso l’esterno, dall’Io all’Altro, in cerchi vorticosamente più concentrici». Con queste premesse, il lettore si avvicina alle pagine di Santi con trepidazione e grandi aspettative, sperando di venire folgorato da qualche metafora, soluzione stilistica, idea illuminante e rivelatrice che ci salvi dalle tenebre che ci sommergono. Ecco quindi il poemetto iniziale, dedicato a due icone nazionali di una generazione inquieta e travolta dalle sue stesse aspirazioni (Marco Simoncelli e Pietro Taricone) in cui il poeta si finge ironicamente clone di un grandissimo di due secoli fa: «mi sono ritrovato anch’io, / per chissà quale oscuro evento, / a nascere Giacomo Leopardi oggi, / che responsabilità, a culo scoperto in pratica». Quindi il dialogo-rispecchiamento-sbeffeggiamento con le figure, i temi, il mondo e la filosofia leopardiana diventa un irriverente e polemico scontro con la tradizione, la storia passata, i maestri celebrati che più nulla sembrano avere da insegnare alla disperazione attuale: «vaghe stelle e solitarie notti da masturbare, / e tu luna che fai tu luna? / Abbandonato, occulto / tutta la notte con in mano il rasoio / del proprio cazzo e con l’altra a cercare / buchi di talpa nella rete / quando davanti non passa / un concilio, un papa, un Pio benedicente, / nemmeno un’etica erotica o pornografica / ma solo il proprio stare qua, in questo / natio sito selvaggio, investito / dalla luce del video, / le mani umide / di chi si è appena fatto, / non mi sono ancora pulito ,/ qualche goccia sulle dita / naufragare il corpo…».

E ancora: «O Nerina, Nerina mia. / La prima della serie: gambe aperte. / Le braccia conserte sui seni, / niente ostensione ascellare. / Nerina, hai la figa slabbrata / ma io ti chiaverò di solo pensiero». Il percorso che il poeta traccia dall’Io all’Altro è quindi scandito nelle varie tappe della sua crescita fisica, culturale, professionale e sociale: dai primi turbamenti sessuali dell’adolescenza, (con un’ esibita ossessione onanistica), agli scontri con l’ambiente familiare ottuso e asfissiante («Odio questo / Papà / fatto di dialisi e di fernet / che ha un inferno nel ventre. / Papà, cacca.»), alla satira rabbiosa contro il sistema universitario, le sue umilianti trafile burocratiche, i compromessi accettati o subiti per arrivare alla cattedra. E il cerchio della denuncia civile si allarga via via fino a comprendere l’ufficialità culturale («borghesi illustri / pieni di letame, morite o vivete / siete sassi, tanto è uguale»), il sindacato («Il sindacato poi è stato / un imbarazzante equivoco, / visto che si sono comportati / come i peggiori fascisti ai ministeri / più inetti. Mandarini dallo stomaco / ostruito, gerarchi bavosi, / pieni di rogna e piegati / sul proprio piccolo cazzetto o / a grattarsi l’ano e soffiare scoregge / che divulgano per lotte di classe»), il mondo intero, corrotto e mefitico. A cui Flavio Santi propone qualche sua ricetta di filosofica analiticità, qualche suggerimento di riscatto: «la storia è fatta di strati / di merda e gemme d’onice», «Il cazzo è condiloma dell’anima, / sua antenna, escrescenza / e mucosa. Dialogare col cazzo / è dialogare con l’anima».
E impietoso è anche il giudizio su se stesso e i suoi imbelli coetanei: «Siamo la generazione perlana / offuscata dagli strapiombi, / dalle risse per vedere Moana», «scopro che ci siamo laureati, / ma non cresciuti, siamo uguali / ai nostri padri», «tuo figlio, guarda, ha il cuore spezzato / e il latte ai testicoli e tanto pantano / ma intanto -piccola normalità- / caga dall’ano».

Emulo probabilmente di un Pasolini ben più temprato di lui nella versificazione e nell’indignazione civile, Flavio Santi ci lascia con due versi che sono davvero e finalmente, i più riusciti del volume , in una poesia dedicata a un misero Bertolt Brecht (e non «Bertold»!) che non ha più niente da dire all’umanità: «vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?». Da riflettere, allora, sulle parole del prefatore Emanuele Trevi: «Non credo di esagerare affermando che queste  ‘Mappe’  sono un’opera di altissima ispirazione, un risultato poetico che non assomiglia a nessun altro». Forse (forse) esagera.

 

«criticaletteraria», 2 aprile 14