Mostra: 151 - 160 of 1.629 RISULTATI
RECENSIONI

VUONG

OCEAN VUONG, IL TEMPO È UNA MADRE – GUANDA, MILANO 2023

Sono circa una trentina le composizioni raccolte in Il tempo è una madre, ultima pubblicazione italiana di Ocean Vuong, poeta e narratore statunitense di origini vietnamite. Nato a Ho Chi Minh nel 1988, emigrato con la famiglia nel Connecticut nel 1990, si è affermato giovanissimo nel panorama letterario americano affrontando temi autobiografici e sociali (la famiglia, l’omosessualità, lo sradicamento culturale, il consumismo) attraverso un linguaggio fortemente innovativo, che utilizza con intelligenza lo slang e la sperimentazione sintattica, la visionarietà di stampo cinematografico e la provocazione verbale.

Già la prima bellissima poesia introduttiva al volume, Il toro, contiene molti elementi identificativi del suo stile: dall’atmosfera onirica (la visione allucinata del bestione nero dagli occhi azzurro-kerosene), all’autoritratto di un sé stesso sfasato nel rapportarsi agli altri (“io ero un ragazzo – / il che vuol dire che ero l’assassino / della mia infanzia. & come per tutti gli assassini, il mio dio / era l’immobilità”), ai versi graficamente scomposti, al vezzo grafico di usare come congiunzione il carattere “&”, all’uso sapiente della metafora (“Come una cosa pregata / da un uomo senza bocca”), all’attenzione per i particolari ambientali (la lampada nel portalampada), all’esibita necessità di comprensione e tenerezza (“avevo bisogno che la bellezza / fosse più che un dolore mansueto / abbastanza da poterlo abbracciare”), fino allo scavo psicologico interiore (“Arrivai – non al toro – ma agli abissi”).

Sono requisiti che troviamo sparsi in tutti i testi della raccolta, insieme ad altri, come la fortissima e sdegnata denuncia sociale contro il razzismo, i pregiudizi sessuali, l’esclusione di indigenti, malati, anziani, oppositori politici. In Caro Peter, ad esempio, racconta in forma epistolare di una ospedalizzazione psichiatrica a base di Xanax, costrizioni fisiche, colloqui mirati a un’improbabile “normalizzazione”. “Dentro la mia testa la guerra è dappertutto”, afferma, confessando il suo perpetuo disagio, nutrito da incubi, confusione, fantasie oscene, proiezioni suicidarie, intrecci martellanti di brani musicali e scene da film: un lungo elenco di infelicità, rabbia, sensi di colpa, desideri di vendetta.

Ma anche intensità di sentimenti ricambiati con chi gli è vicino: l’ultimo ragazzo amato, la nipotina, i genitori. Il ricordo della madre morta è fatto di nostalgia, recriminazioni, fantasie incestuose: “La silhouette secca di mia madre / Promettimi che non svanirai di nuovo, ho detto / Lei è rimasta là sdraiata per un po’, ripensando / A una a una alle case ha spento tutte le luci / Io mi sdraio sulla sua silhouette, per mantenerla vera / Insieme abbiamo fatto un angelo”. Della mamma recupera un’antica ricetta, desideroso della sua approvazione postuma: “Io sono / un figlio passabile… // Il piatto si annebbia dei propri / spettri”. Il rapporto col padre, operaio in una fabbrica di calze con cui non c’è mai stata alcuna confidenza o manifestazione d’affetto, viene esplorato in una delle poesie più commoventi del libro, Leggenda americana, in cui Ocean racconta di come abbia volontariamente provocato un terribile incidente automobilistico per avere l’opportunità di baciare e abbracciare per la prima volta il suo vecchio, e di liberare il cane malato che entrambi stavano portando dal veterinario per la soppressione.

Troviamo nei racconti in versi di Ocean Vuong tracce del cinema di Spike Lee, della scrittura depressa e incazzata di Raymond Carver e Charles Bukowski, e il ricordo urlato della beat generation. Ma con una consapevolezza nuova, in cui l’emarginazione sociale si trasforma in sfida e orgoglio di un’intera generazione immigrata nel regno del capitalismo mondiale, e insieme diventa sprone a una maggiore conoscenza di sé, dei propri limiti come delle proprie ambizioni e privilegi. “Finalmente, dopo anni e anni, sono diventato un perdente / professionista. / Sono imbattibile a perdere”, “Una volta ero frocio ma adesso sono un fico. Ah”. L’essere vietnamita americano, gay, poeta non ha fatto di lui “L’ultimo dinosauro”, non l’ha penalizzato intellettualmente ed emotivamente, perché gli ha permesso di sottrarsi ai condizionamenti soffocanti di sovrastrutture culturali che disprezza e rifiuta: “Quando mi chiedono come ci si sente, rispondo / immaginatevi di essere nati in una casa di riposo / in fiamme. Mentre i miei parenti fondevano, io me ne stavo / su una gamba, alzavo le braccia, chiudevo gli occhi & pensavo: / albero albero albero mentre la morte passava oltre – / lasciandomi illeso”. Al di là di ogni sofferenza e gioia privata, Ocean Vuong sa proiettarsi in un oltre spaziale e temporale, nella Germania nazista come nel Vietnam bombardato dei suoi nonni, con la sensibilità che lo rende vicino e solidale alle sorti di una pianta, di un pesce, di un supermercato, della neve destinata a sciogliersi: ovunque insomma il suo sguardo sappia farsi partecipe del fuori da sé, tra cose minime e universali: “Be’, eccolo qui / il mondo, piccolo / & grande come un padre”.

Un plauso ai traduttori di questo ottimo libro, Damiano Abeni e Moira Egan.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 6 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

DONNE

JOHN DONNE, GLI ANNIVERSARI – DONZELLI, ROMA 2013

Dieci anni fa l’editore Donzelli ha pubblicato la prima traduzione completa apparsa in Italia de Gli anniversari di John Donne, curata dalla studiosa Audrey Taschini, che ha stilato anche l’accurata prefazione. Taschini, ricercatrice all’Università di Bergamo, recentemente si è cimentata con la versione e il commento dei Four Quartets di T.S. Eliot, dando prova di un encomiabile intuito critico e di una profonda conoscenza delle fonti letterarie e filosofiche dell’opera. Così come in questo lavoro più recente, in quello che l’aveva preceduto la traduzione dei testi era caratterizzata da un’attenta e sobria fedeltà all’originale, particolarmente apprezzabile nella difficile resa dell’inglese seicentesco di Donne.

John Donne (Londra 1572-1631), considerato il massimo rappresentante della poesia metafisica inglese del seicento, fu anche saggista e chierico della Chiesa Anglicana. Vissuto in un’età di transizione, tra il tramonto della fiorente epoca elisabettiana (in cui l’idea di un cosmo armonico rispecchiava l’ordine trascendentale), e l’inizio della modernità, portatrice di rivoluzioni ideologiche, scientifiche e sociali (la nuova astronomia di CopernicoBraheGalileoKeplero, la medicina di Paracelso, l’ascesa delle classi borghesi, il protestantesimo, un diverso indirizzo monarchico), il poeta londinese pativa drammaticamente il senso rovinoso della corruzione etica e spirituale del mondo circostante. “Proprio in questo periodo si assistette… a un vero culto della meditazione sulla morte, del lutto, e soprattutto… della melancolia, che venne eletta a oggetto di numerosi trattati e opere”.

Gli Anniversari (composti tra il 1611 e il 1612) sono costituiti da due poemetti, Un’anatomia del mondo e Del viaggio dell’anima, tra cui è inserita una breve Elegia funebre, in onore e ricordo dell’aristocratica giovinetta Elizabeth Drury, morta quindicenne: essi sono permeati appunto da un profondo sentimento malinconico, luttuoso, di meditazione sulla malattia, non solo di singole creature, ma dell’intero universo. Il primo Anniversario, Un’anatomia del mondo, descrive in toni tragici la dissoluzione cui sono destinati sia l’uomo sia la natura, avviati a un’apocalissi fisica e alla perdita di senso, con la fine “di un Logos immortale, portatore di ordine, unità, armonia, bellezza, verità, ma soprattutto di significato profondo”. La figura di Elizabeth, che Donne non aveva mai conosciuta, è centrale nel poemetto, idealizzazione della purezza sacrificata alla morte, ed emblema della fragilità e della decadenza della contemporaneità. In una ripresa dello stilnovismo, la giovane incarna la figura della donna angelicata, e insieme della poesia e dell’Anima universale. Il lamento funebre, nella commossa ripetizione del verso “Shee is dead, shee’s dead” collega la morte della giovane bellissima, dolce e buona, alla dissoluzione di un mondo malato, colpevole, addirittura putrefatto (“Sicke world”): “Lei, lei è morta: quando sai questo, / Sai che cosa povera e insignificante è l’uomo”.

La figura di Elizabeth diventa l’ente generatore di ogni cosa positiva, poiché dal suo nome ed esempio può nascere il riscatto, una rinascita dalle tenebre alla luce, che troverà espressione soprattutto nel secondo Anniversario, Del viaggio dell’anima. Solo la poesia è in grado di rispecchiare in parole umane la visione del trascendente, rivestendo un ruolo mediatore tra morte e vita, temporalità ed eterno. Se quindi il primo Anniversario si muove in una direzione discendente, nella disperata contemplazione della decadenza cosmica e umana, il Viaggio dell’anima ascende invece verso una prospettiva di salvezza da perseguire con il soccorso della Grazia, per arrivare infine alla visione di Dio. Ancora il ricordo luminoso della giovane Elizabeth e la riscoperta del linguaggio evocativo della poesia possono aiutare il genere umano a riconoscere la vanità dell’erudizione e delle esperienze umane tanto decantate dalle nuove conquiste scientifiche, dando un nuovo significato alla morte, intesa come evento positivo che libera dal fardello del corpo corrotto e dalle miserie dell’esistenza  terrena. L’anima, libera dalle scorie della materialità, nella visione di John Donne ha accesso a un’autentica comprensione della Verità e a una comunione con lo Spirito universale, “nella onnipervasiva intelligenza del Logos divino”.

 

© Riproduzione riservata    

SoloLibri.net › Recensioni di libri › Gli anniversari di John Donne          3 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, LA PESTE SCARLATTA– THEORIA, 2022

Un anno prima di morire, Jack London (1876-1916) pubblicò il romanzo breve La peste scarlatta, che oggi definiremmo distopico e apocalittico, decisamente inquietante perché proiettato in un ambiente reso invivibile da un morbo sconosciuto, che in pochi decenni aveva decimato la popolazione, creando sconquassi economici, disordini sociali, e soprattutto alterando l’equilibrio dell’habitat naturale.

La narrazione si apre su un paesaggio desolato della California, lungo i binari di una ferrovia abbandonata, presso cui camminano stancamente un vecchio e un ragazzo. Sono nonno e nipote, sporchi e macilenti, rivestiti di pelli di capra, diretti verso la spiaggia di Cliff-House, ritrovo di altri sbandati sopravvissuti alla terribile epidemia che aveva sconvolto il mondo intero, restituendolo a una drammatica esistenza primitiva.

Il giovane Edwin è armato di un rudimentale arco e di un coltello, per difendersi dagli attacchi degli animali selvatici, l’anziano si muove a fatica, spinto a resistere da un atavico istinto di sopravvivenza, e ossessionato dall’idea di procurarsi del cibo. Giunti in riva al mare, i due ritrovano lo sparuto gruppo di amici, che con i loro cani cercano di difendersi da un branco di lupi affamati improvvisamente sbucati dalla foresta.

Incalzato dai giovani, il vecchio racconta del terribile flagello che sessant’anni prima, nel 2013, aveva colpito la popolazione di San Francisco: la peste scarlatta, chiamata così perché chi veniva contagiato si copriva di macchie rosse in meno di un’ora. La vita degli americani a quell’epoca scorreva florida e tranquilla, la gente lavorava e si divertiva, l’economia prosperava, i mezzi di comunicazione funzionavano perfettamente in cielo e in terra. L’anziano uomo racconta di essere stato allora un insegnante universitario, circondato dalla stima di colleghi e studenti: durante la narrazione, si rende conto che il suo uditorio non comprende il significato di termini molto semplici, poiché nei decenni

trascorsi in uno stato di semi-ferinità, anche la cultura si era depauperata, in un dilagante analfabetismo essendo chiuse le scuole e le biblioteche, e non più stampati i giornali. Il racconto particolareggiato del diffondersi del morbo assume un ritmo incalzante, nella descrizione dei sintomi con cui esso si manifestava e poi progrediva velocemente, portando la vittima infettata alla paralisi e alla morte in pochissimo tempo. La città di San Francisco contava allora quattro milioni di abitanti, e ora si era ridotta a ospitare qualche decina di persone, Il contagio si era propagato in pochi mesi a tutta l’America, verosimilmente interessando poi anche gli altri continenti. Il vecchio era probabilmente rimasto in vita in virtù di una particolare dote genetica che l’aveva reso immune, e nelle peregrinazioni che l’avevano condotto a cercare altri sopravvissuti aveva incontrato piccole comunità sparse nella regione circostante, che sospettose verso gli estranei e chiuse in se stesse, stavano tentando di ricostituirsi e ripopolarsi.

Il breve romanzo di Jack London non appartiene senz’altro alla sua produzione letteraria migliore, ma è interessante non solo perché premonitore della potenzialità distruttiva che assume un’epidemia a livello mondiale, ma anche perché suggerisce come nella fragilità messa in luce dalla malattia, gli uomini possano ritrovare uno spirito solidale, capace di farli risollevare, vincendo egoismi e divisioni.

La recente edizione di Warwave riporta un’appendice curiosa e coinvolgente, in cui sono elencate tutte le pandemie che hanno colpito le varie civiltà, a partire dalla febbre tifoide del 430 a.C. per finire con il Covid. La più letale è stata la peste bubbonica del 1300: “Si parla di venti milioni di persone in soli sei anni, praticamente un terzo della popolazione totale del vecchio continente all’epoca. Per tornare nuovamente ad una densità di popolazione simile a quella precedente occorsero ben due secoli”. Al secondo posto per mortalità troviamo l’Aids, non ancora debellato, passando per il tifo, il colera, e vari tipi di influenza.

 

© Riproduzione riservata    

SoloLibri.net › La-peste-scarlatta-di-Jack-London-narrazione-profetica…    2 mrzo 2023

 

 

RECENSIONI

ERMAKOVA

IRINA ERMAKOVA, LO SPECCHIO DI BRONZO – EINAUDI, TORINO 2023

Con una approfondita introduzione e un’accurata traduzione di Alessandro Niero, Einaudi pubblica nella Collezione di Poesia un’antologia di versi della poeta russa Irina Ermakova, nata in Crimea nel 1951 e residente a Mosca da molti anni. Ermakova, laureata in ingegneria, esordì trentaseienne presentando alcune poesie su un bollettino di fabbrica, e continuò successivamente a scrivere al di fuori della cerchia letteraria e accademica più accreditata sia nel periodo della perestrojka sia in quello della restaurazione putiniana, scavandosi una nicchia di produzione “spuria” tra avanguardia e tradizione, ma ben presto riconosciuta nella sua originalità sia in patria sia all’estero.

Tra i temi che le sono più consoni, senz’altro l’interesse per la cultura classica e la mitologia, riambientate nell’attualità, è riscontrabile in alcune poesie dedicate a Pan, ad Afrodite, a Eros e Thanatos. In Ninnananna a Odisseo, compresa nella raccolta omonima, Ulisse navigatore diventa poeta esiliato, Penelope una ragazza invecchiata, Itaca è Mosca, la Crimea l’antica Tauride: “C’è calca sul viale Primorskij, brivido di notizie, / le candele arroventate dei castagni seminano i particolari: / tutti hanno visto Odisseo affrettarsi verso il mare, / abbracciando le spalle olivastre della sua Odissea. //… Pregustando tempesta, fremono i panni nei cortili, / giacché la patria è il cielo – qualunque: Itaca, Odessa…”.

Se la trasposizione dell’antichità nel mondo contemporaneo è evidente e ribadita, lo è altrettanto l’inserimento delle mutazioni climatiche all’interno di episodi autobiografici. Aria e acqua animano i versi di Ermakova in un turbinio di tempeste di neve, bufere ventose, piogge scroscianti, tutte metafore delle indomabili forze naturali che trascinano con sé i destini umani: “Con fragore – senza remore – / squarciato è il sacco delle nubi / la sferza frusta e sibila / l’acquazzone marcia verso la città”, “La neve infuria. Si addensa il mondo, si fa ancora più angusto. // … La città verrà presa”, “Inizia a piovere, inizia a piovere, / le prime gocce dilavano il volto, / la pioggia avvampa, stronfia, si affaccenda, / l’onnipossente ruota fa girare”, “dalla finestra dell’asilo guardi: pioggia e pioggia / ad allagare, pare, tutto, nessuno si trova più”.

È un’antologia caleidoscopica, questa curata con grande passione da Alessandro Niero, in cui troviamo i temi più vari, le tonalità più contrastanti: versi amorosi tranquillamente e impudicamente elegiaci, privi di remore verso il sentimento romantico; gallerie di ritratti ironici o commossi, comunque lontani dal bozzettismo; pseudo-traduzioni dal giapponese classico. Quasi che la poeta, nel proiettarsi in avanti nel tempo come nel recupero della tradizione a ritroso, voglia dare prova della propria eccezionale versatilità stilistica, del grande e variegato repertorio di contenuti cui può attingere.

Così, nella raccolta Alveare del 2007 la quotidianità della vita di un quartiere periferico di Mosca viene raccontata attraverso le vicende degli abitanti dei caseggiati popolari: anziane pettegole, musicisti falliti, gattare, madri alcolizzate, compagni di scuola recuperati nel ricordo, in toni narrativi lontani dall’aneddoto, e invece pietosamente solidali con la realtà impoverita del suburbio: “E c’è anche Goga, nostro vicino d’appartamento, al 102 – / Goga-yoga-sbam. Come lo scherzano i bambini perfidi. / C’aveva un anno e fu lasciato cadere, si sfasciò la zucca / e adesso è Yoga, anche se pare uno yeti, più che altro”.

Con intento quasi ludico ma sempre elegantemente allestito, in Carboncino scarlatto su seta nera (2012) sono riuniti centootto microtesti composti con lo pseudonimo di Yoko Inati e ambientati nel Giappone del XII secolo, di cui Ermakova si finge traduttrice e curatrice, ricalcando le forme tradizionali dei tanka e degli haiku nipponici: “Una gelida luna / gli rischiara la strada / oltre la mia porta. / Getterò il cuore ai suoi piedi – / che inciampi!”

Maestra nell’utilizzare immagini suggestive tratte dall’osservazione della vita quotidiana (oggetti, vegetali, animali, persone, abitudini), la poeta russa veicola attraverso esse, talvolta con un linguaggio volutamente oscuro, riflessioni sulla insondabilità e insieme sull’irriducibile grandezza dell’esistenza umana, sia nel considerare l’infinitezza temporale e spaziale, sia nei rapporti di affetto e amicizia con chi le è più caro : “Così nel vuoto il vuoto gioca allettante / traendo un suono puro dal nulla / l’agile lappola cantilenante saltella / piccolo secco testimone di un Big Bang”, “Come amo i conversari a tarda sera. / I miei più miei tutti attorno a un tavolo”.

Il lavoro attento e partecipe del curatore e traduttore Alessandro Niero, condiviso con l’autrice stessa, viene esplicitato ai lettori attraverso un ricco apparato di note ai testi, con la rammaricata consapevolezza di “quanto va perso nel traghettamento dal russo all’italiano”: ma a tale impegno va reso il plauso di una sensibile penetrazione nel mondo interiore di Irina Ermakova, e della non semplice resa della polisemia lessicale dei suoi versi.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 28 febbraio 2023

 

 

RECENSIONI

SEPULVEDA

LUIS SEPULVEDA, IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE
GUANDA, MILANO 2016

Nel suo primo romanzo, Luis Sepulveda (1949-2020) raccontava di un’umanità che fronteggia il bene e il male incarnati in una natura lussureggiante, avvolgente e impietosa, all’interno della foresta amazzonica abitata dai nativi Shuar, sulle rive del fiume Nagaritza. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, pubblicato in Spagna nel 1989 e tradotto in Italia nel 1993, conobbe un successo mondiale e tuttora viene ristampato in diverse lingue.

Il romanzo si apre in maniera forte, con un memorabile capitolo di sentimenti violenti, sangue e
passioni politiche che si animano nel corso di una seduta dentistica sul molo di un villaggio
ecuadoriano, tutto mosche sudore umidità, per ironia della sorte chiamato El Idilio.
Il cavadenti è un anarchico rabbioso che applica ai suoi pazienti una curiosa anestesia orale, fatta di
imprecazioni, torture sanguinarie e sermoni politici: sue vittime gli indios, veloci nel ruotare
minacciosamente il machete, in grado di farsi togliere tutti i denti per scommessa, ma intimoriti e
ammirati come bambini davanti alle dentiere in mostra. Tra loro, il protagonista del romanzo, “un
vecchio dal corpo tutto nervi”, che tiene la protesi in tasca per non consularla, Antonio Josè Bolivar.
Non è un Suhar, è un bianco con un passato sfortunato di colono, che conosce la foresta come nessuno
e vive da solo in una capanna in cui ha sistemato la foto della moglie morta bambina, un’amaca e un
tavolo dalle gambe altissime. Qui appoggia, senza sedersi, i romanzi d’amore che gli presta il dentista,
e che legge compitando le parole a voce alta, affascinato da tradimenti e seduzioni, commosso dal
romanticume più trito. Nonostante questa unica “debolezza” sentimentale, Antonio Josè è un uomo
d’azione, e lo dimostra quando, durante la seduta dentistica, appare, trasportato dalla corrente, il
cadavere di un gringo dilaniato dagli artigli di un felino. Priva di incertezze è la diagnosi del vecchio:
lo scempio è stato compiuto dalla femmina di un tigrillo impazzita di dolore perché lo straniero le
aveva ammazzato i piccoli e ferito il compagno. Le autorità, temendo la furia omicida dell’animale,
affidano proprio ad Antonio Josè la sua cattura, che si articola nelle pagine attraverso varie e
appassionanti fasi, scandite in appostamenti, fughe, assalti, sempre più minacciosi e angoscianti.
La caccia al tigrillo è assurta a simbolo della lotta antica ed eterna tra uomo e animale: quest’ultino,
ancora una volta, coma la balena di Melville, come lo squalo di Hamingway, rappresenta la natura
ferita che si ribella, l’istinto mortificato che si vendica. Nel racconto assistiamo affascinati e impauriti
al trionfo della fisicità: sconquassi meteorologici, corpi lacerati in putrefazione, escrementi liquefatti
e il dominio brulicante degli animali, dalla zanzare alle scimmie ai pesci assassini.
Alla fine della lotta, sarà Antonio Josè a vincere, ma di una vittoria vergognosa, umiliante, perché
ottenuta con l’astuzia e con le armi:
“Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e dalla pioggia, spinse il corpo dell’animale fino alla riva del
fiume, e le acque se lo portarono via, verso l’interno della foresta, fino ai territori mai profanati
dell’uomo bianco, fino all’incontro col Rio delle Amazzoni, verso le rapide dove sarebbe stato
squarciato da pugnali di pietra, in salvo per sempre dalle bestie indegne. Gettò subito via con furia
la doppietta e la vide affondare senza gloria. Bestia di metallo odiata da tutte le creature.
Antonio Josè Bolivar Proano si tolse la dentiera, l’avvolse nel fazzoletto, e senza smettere di maledire
il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la
verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si
avviò verso El Idilio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole
così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 24 febbraio 2023

RECENSIONI

HOOKS

BELL HOOKS, LA VOLONTÀ DI CAMBIARE – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

bell hooks (1952-2021), scrittrice e attivista afroamericana, era nata nel Sud rurale e segregato degli Stati Uniti degli anni cinquanta. Il suo pseudonimo – bell come la madre, hooks come la nonna materna, con le iniziali minuscole – rimanda a un continuum di discendenza femminile che rifiuta il sistema maschile di attribuzione dei nomi. Figura di spicco del femminismo e del pensiero radicale americani, focalizzò la sua ricerca sulla interazione tra razza, capitalismo e gender, che genera e perpetua sistemi di oppressione e dominazione di classe. Autrice di una quarantina di libri, hooks ha insegnato in prestigiose università statunitensi, ricevendo riconoscimenti internazionali. L’ultimo suo volume tradotto in Italia da Il Saggiatore si intitola La volontà di cambiare, e indaga la mascolinità nel suo rapportarsi alla violenza, alla repressione delle emozioni, all’affettività trascurata.

Già nell’introduzione, riflettendo sul fatto che la maggior parte delle donne ha vissuto la relazione col padre in termini di paura, oppressione, mancanza di confidenza, hooks si chiede come mai il femminismo non abbia saputo o voluto tentare una lettura del mondo maschile se non attraverso la lente della violenza, rinunciando a esplorare in profondità il rapporto vissuto con esso nei vari ruoli di madri, mogli, figlie, sorelle, e rifiutando di creare uno spazio di incontro, comprensione e riconciliazione tra i due sessi.

Se negli ultimi trent’anni gli uomini hanno accettato di condividere con le donne la sfera del potere nel mondo del lavoro e del sesso, non sono tuttavia riusciti a mettersi in discussione emotivamente, rifiutandosi di cambiare nei rapporti sentimentali e affettivi, e chiudendosi davanti alla richiesta di amore da parte dell’universo femminile. Già dall’infanzia la ricerca dell’amore e dell’attenzione paterna da parte di bambini e bambine rimane insoddisfatta: “Quella ricerca raramente produce un risultato. Di solito la rabbia, il dolore e l’inevitabile delusione portano donne e uomini a eliminare quella parte di sé che sperava di essere toccata e guarita dall’amore maschile. Imparano ad accontentarsi di quel poco di attenzione positiva che gli uomini sono in grado di dare… L’amore materno è abbondante e manifesto: ci lamentiamo perché ne abbiamo troppo. L’amore di un padre è una gemma rara, da cercare, lustrare e conservare come un tesoro. Il suo valore è altissimo a causa della sua scarsità”.

Prigionieri di un ruolo imposto loro dalla stessa cultura patriarcale che li ha forgiati, in realtà i maschi soffrono di non poter e saper esprimere il bisogno di amare ed essere amati, di ricevere e dare tenerezza. “I costumi patriarcali impongono agli uomini una sorta di stoicismo emotivo in base al quale sono più virili se non provano sentimenti ma, se per caso dovessero provarli e quei sentimenti li ferissero, l’unica reazione virile sarebbe soffocarli, dimenticarli, sperare che spariscano”. Anche le donne hanno timore di esplorare il dolore maschile, definendo narcisista o insicuro l’uomo che esterna difficoltà emotive, e chiede di essere ascoltato nella propria sofferenza. Soprattutto le madri finiscono per insegnare e inculcare nei figli maschi i valori tramandati per millenni dalla cultura dominante, che ha permesso loro l’espressione di un unico sentimento: la rabbia, censurando ogni manifestazione di vulnerabilità e debolezza.

Il fine che l’autrice si propone di raggiungere in questo volume è appunto non solo di esplorare le difficoltà in cui gli uomini si dibattono per celare fragilità e bisogno di amore, ma anche di aiutarli a conoscersi, rivalutando le loro potenzialità di comprensione e solidarietà con l’altra metà del cielo.

Ricostruisce quindi la storia del patriarcato nelle sue espressioni storiche e geografiche, per passare poi ai condizionamenti vissuti da chi nasce maschio a partire già dalla prima infanzia, attraverso poi il difficile passaggio della pubertà e i vincoli e le repressioni che minano la sua autostima nella sfera sessuale e lavorativa. Se gli uomini sono costretti a indossare perennemente una maschera per affermare la propria virilità, finiscono per vivere nella menzogna o in uno stato di falsa identità, attraverso rapporti basati sul potere, sul controllo, sulla segretezza, sulla simulazione, sul distacco o la dissociazione che spesso li portano a sfogare le loro frustrazioni in maniera violenta. “Per guarire, gli uomini devono imparare a sentire di nuovo. Devono imparare a rompere il silenzio, a parlare del dolore… Nella cultura patriarcale, ai maschi non è consentito essere semplicemente ciò che sono e gioire della loro identità unica. Il loro valore è sempre determinato da ciò che fanno”. Secondo bell hooks le donne devono aiutare i loro compagni, figli, fratelli nel recupero relazionale, di riconnessione, di creazione dell’intimità e del senso di comunità: “In un mondo in cui bambini e uomini ogni giorno si smarriscono dobbiamo creare guide, cartelli, nuovi percorsi… Dobbiamo essere pronte ad abbracciarli, a garantire un amore capace di offrire rifugio al loro spirito ferito mentre cercano di trovare la strada di casa, mentre esercitano la volontà di cambiare”.

Ma anche questo soccorrevole aiuto, questa generosa empatia, non finirà per perpetuare in eterno il ruolo di crocerossina servizievole, comprensiva e indulgente in cui le donne vengono relegate da millenni?

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 febbraio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ACETI

EZIO ACETI, ACCAREZZARE IL CONFLITTO – TAU, TODI 2022

Lo psicologo Ezio Aceti si occupa di educazione infantile-adolescenziale e di supporto alla genitorialità. L’ultimo suo volume, pubblicato presso l’editrice umbra Tau, fa riferimento nel titolo (Accarezzare il conflitto), alla frase pronunciata da Papa Francesco in un discorso del marzo 2014, “Il futuro sarà accarezzare il conflitto”, auspicando una propositiva comunicazione tra i popoli e gli individui, e prospettando una nuova modalità di convivenza pacifica. Non celare o reprimere il conflitto, quindi, ma riconoscerlo nella sua energia dinamica “come coessenziale, come costitutivo della vita”, operando per disarmarlo negli effetti ostili e dannosi per la comunità.

Il libro è suddiviso in quattro capitoli: partendo dall’analisi della complessa e pluralistica società contemporanea nelle sue tendenze disgregatrici e ansiogene, propone risposte di fede, nutrite dall’insegnamento evangelico e dalla lettura dell’enciclica papale “Fratelli tutti”, per offrire poi alcune indicazioni concrete atte a prevenire e risolvere i contrasti personali e sociali, facendo leva su atteggiamenti, esperienze e valori utili a disinnescarli. Senza lasciarsi andare a un malinconico rimpianto del passato e senza catapultarsi verso una modernizzazione esasperata e imprudente.

Oggi le persone sembrano smarrite, prive di orientamenti etici, indifferenti al trascendente, isolate tra di loro, sclerotizzate nei sentimenti e sempre in tormentosa ricerca di significati esistenziali cui aggrapparsi: “una coltre di nebbia e di sconforto ci avvolge”. I due anni di pandemia hanno aggravato lo stato di ansia generalizzato, provocando spesso reazioni scomposte alla crisi economica e sanitaria (determinate dai timori per la salute e dai sospetti verso i provvedimenti presi dalle autorità e dagli scienziati), che hanno messo in crisi i comportamenti nelle dinamiche relazionali. “È un’abitudi ne al buio, al negativo che ha intaccato le nostre relazioni, sia dentro che fuori di noi”.

Quali strumenti suggerisce quindi l’autore del volume per “accarezzare i conflitti” nati all’interno di comunità ristrette come le famiglie e le scuole, e più ampie come gli agglomerati urbani, e addirittura nel panorama politico nazionale e mondiale? Secondo il Professor Ezio Aceti le persone devono riuscire a superare i pregiudizi nei confronti degli altri, siano essi uniti da vincoli di parentela e amicizia, siano invece provenienti da realtà diverse dalle proprie. “Per poterci risollevare e riprendere il cammino verso una umanizzazione del vivere” è fondamentale recuperare il senso di solidarietà ed empatia nei confronti del prossimo, anche sacrificando in parte i privilegi di cui si gode, e cercando un contatto di vicinanza attraverso il dialogo e piccoli gesti di sostegno quotidiano.

Amare, dunque, in maniera concreta, cercando di realizzare un programma di azioni e parole mirato al bene. E, per chi ha la fortuna di credere, lasciandosi illuminare dalla Grazia, secondo l’esempio di due grandi donne che hanno saputo consegnare al mondo un generoso messaggio di solidarietà, coraggio e speranza: Madre Teresa di Calcutta ed Etty Hillesum.

Di quest’ultima, morta ad Auschwitz, vengono riportate alcune frasi tratte dal Diario: “Signore, fammi vivere di un unico grande sentimento – fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni ad un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. Allora quel che farò, o il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza”.

 

© Riproduzione riservata 

SoloLibri.net › Accarezzare-il-conflitto-Ezio-Aceti             17 febbraio 2023

 

 

RECENSIONI

IRVING

WASHINGTON IRVING, LA LEGGENDA DI SLEEPY HOLLOW – GARZANTI, MILANO 2020

Nel 1999 il regista Tim Burton diresse Il mistero di Sleepy Hollow, che l’anno successivo vinse l’Oscar per la migliore scenografia. Interpretato da Johnny Depp, Christina Ricci e Christopher Walken,  il film era  liberamente ispirato al racconto La leggenda di Sleepy Hollow  di Washington Irving.  

Irving (New York, 1783-1859) viene considerato l’inventore del racconto breve di genere fantastico,  e in particolare della “ghost story”, facendo da antesignano negli Stati Uniti a importanti autori come Edgar Allan Poe e Henry James. La leggenda di Sleepy Hollow è ritenuta il suo capolavoro, insieme alla novella Rip Van Winkle. Ripubblicata in moltissime edizioni e in varie lingue, anche con titoli diversi, (La leggenda della valle addormentata, La valle del sonno, Il mistero del cavaliere senza testa), era uscita in Inghilterra nel 1820.

La storia si svolge a fine ’800 nella cittadina di Tarry Town, una colonia olandese nella Contea di Westchester,  presso la valle isolata chiamata Sleepy Hollow, lungo le rive del fiume Hudson. Narra la vicenda di Ichabod Crane, un misero maestro di scuola proveniente dal Connecticut, che offre i suoi servizi ai contadini del paese in cambio di cibo e alloggio, ingegnandosi anche come insegnante del coro nella parrocchia: “Alto e macilento, nonché stretto di spalle, aveva braccia e gambe lunghe, con le mani che ciondolavano a un miglio dai polsini e due piedi che avrebbero potuto fare da vanghe: nell’insieme, la sua figura sembrava composta da pezzi tenuti male insieme. La testa era minuta e piatta, con orecchie sproporzionate, occhioni verdi e vitrei e un naso così lungo e sagomato da farlo sembrare uno di quei galletti segnavento che, appollaiati sul loro perno, indicano la direzione delle correnti. Chiunque, in una giornata tempestosa, lo avesse visto incedere ad ampie falcate lungo il dorsale della collina, con gli abiti che gli si gonfiavano intorno, lo avrebbe preso per lo spirito della carestia disceso sulla terra, o per uno spaventapasseri scappato da un campo di granturco”.

Irving descrive il suo protagonista con toni che variano dalla commiserazione all’ironia, spingendosi fino al sarcasmo, e sottolineandone l’ingenuità, la sprovvedutezza ma anche l’insipienza, che lo rende vittima non solo dell’ilarità dei compaesani, ma anche della propria fervida immaginazione. Crane si innamora della bella e giovane Katrina, figlia del più ricco possidente della zona, corteggiata da tutti i giovanotti dei dintorni, e in particolare da Abraham “Brom Bones”, robusto e violento, da subito desideroso di primeggiare nei favori della ragazza rispetto ai pretendenti rivali. Il racconto si prolunga in vivaci descrizioni paesaggistiche e in divertite annotazioni della psicologia dei personaggi, senz’altro lontano da qualsiasi atmosfera gotica, horror o fantastica per più della metà della sua lunghezza. L’autore però sottolinea spesso la propensione della popolazione a inventare, rielaborare e diffondere leggende e dicerie terrificanti basate su apparizioni di fantasmi, morti redivivi, folletti,stregonerie e incarnazioni diaboliche, infestanti boschi e strade soprattutto di notte. Il cimitero e il ponte di Sleepy Hollow sembrano essere i luoghi privilegiati da tali avvistamenti.

Tra le visioni spettrali più menzionate c’è quella di un cavaliere senza testa, che attraversa la valle in groppa a un focoso cavallo nero. Secondo la vulgata popolare, doveva trattarsi di un reduce della Guerra d’Indipendenza, decapitato da un colpo di cannone, che si aggirava senza pace in cerca di vendetta. Ichabod Crane, di ritorno dalla festa di Halloween dove era stato invitato da Katrina, e si era sentito umiliato dal violento spasimante di lei, Brom Bones, riprende al buio la strada di casa, frastornato anche per i racconti misteriosi che aveva udito a proposito del cavaliere oscuro. Attraversando la foresta, si impressiona per qualsiasi fruscio di foglie, alito di vento o grido di uccello, finché gli appare un uomo a cavallo che lo insegue in un vorticoso e labirintico percorso tra gli alberi. “La sagoma del cavaliere si stagliò contro il cielo, spropositata e avvolta da un ampio mantello. Quale non fu l’orrore che colse Ichabod nell’accorgersi che era senza testa! E l’orrore si accrebbe quando vide che la testa, invece che sulle spalle, poggiava sul pomo della sella!”

Dopo quella notte spaventosa, il maestro sparisce, e qui l’ironia dell’autore suggerisce varie ipotesi sulla conclusione della storia, dalla più macabra alla soprannaturale, dalla sprezzante verso ogni superstizione alla divertita e irridente.

 

© Riproduzione riservata 

SoloLibri.net › … › La leggenda di Sleepy Hollow di Washington Irving      16 febbraio 2023

 

RECENSIONI

AAVV – LA PREGHIERA DI CHI NON CREDE

AAVV, LA PREGHIERA DI CHI NON CREDE – MONDADORI, MILANO 1994

Chi non crede prega? Forse sì, più spesso di quello che si pensa. Può pregare per un’abitudine assunta durante l’infanzia, per paura, per disperazione. Può pregare – come probabilmente fanno quelli che Hermann Hesse definiva “die Suchende”, coloro che cercano –, nella speranza di essere ascoltato. O, come suggeriva Giorgio Caproni in un suo insuperato e troppo poco ricordato poemetto del 1964, Lamento (o boria) del preticello deriso, “prego … non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista”.

In un volume pubblicato da Mondadori nel 1994, ancora recuperabile online, La preghiera di chi non crede, diverse ma tutte ugualmente coinvolgenti sono le considerazioni espresse da tre personaggi (uno psicanalista, una filosofa e poeta, un monaco zen) riguardo al quesito che viene loro posto. Coordinate da un’introduzione, da tre commenti e da una conclusione del Cardinale Carlo Maria Martini, le tre ipotesi di percorso sulla preghiera sono state registrate durante alcune lezioni tenute alla VII Cattedra dei non credenti di Milano, nella volontà manifesta di aprire un dialogo e un confronto con chi non aderisce ad alcuna religione ufficiale.

Lo psicanalista Mario Trevi, in un intervento che sembra essere il più supportato da esperienza (o sofferenza) umana e tensione emotiva, prende in esame le risposte possibili alla domanda: “Chi non crede prega?”, non prima di aver chiesto venia per la tentazione professionale di ridurre i fenomeni spirituali alla dimensione psichica, ricadendo così nel relativismo psicologico, già stigmatizzato da Buber nella sua replica a Jung. Trevi cita l’affermazione coraggiosa di Primo Levi che, da ateo coerente, aveva rifiutato la preghiera come richiesta d’aiuto anche nei momenti più tragici della sua detenzione nel lager. Un’altra ebrea, invece, Simone Weil, suggeriva una risposta paradossale all’ipotesi di un colloquio col divino da parte di chi non crede: “Pregare Dio, non solo in segreto rispetto agli uomini, ma pensando che Dio non esiste”. Pregare, diciamo così, “gratuitamente”, “abolendo il dativo di ogni richiesta… l’oggetto di ogni lode”, per arrivare magari alla purezza esaltante dell’esortazione di Sant’Agostino: “Nolite quaerere a Deo nisi Deum”. Trevi accenna quindi alla sua esperienza personale, anch’egli ebreo ma cresciuto in un ambiente misto, assolutamente tollerante e pluralista, portato a credere in un ecumenismo senza confini: definendosi incapace di pronunciare alcun credo, ma nello stesso tempo in grado di pregare, si dichiara convinto che Dio e preghiera siano la stessa cosa, e che in essa si possa “sperimentare la vertigine di una condizione spirituale” intesa come pietà religiosa nella forma dell’amore.

Il secondo, coltissimo intervento di Roberta De Monticelli, docente di filosofia e poeta, si interroga su “La poesia è preghiera?”, e partendo dall’Inno omerico alle Muse e ad Apollo, attraverso Aristotele e Platone, Dante e Montale, Husserl e Max Scheler, in un crescendo di rimandi e citazioni dotte, postula un’origine comune alla poesia e alla preghiera, come a ogni parola “sorgiva”, individuabile nel canto di riconoscenza, un grazie che appartiene alla nostra memoria inconscia, quella poetica, vicina alle radici dell’essere, più tardi razionalizzata nella memoria conscia della ricerca filosofica.

A un monaco buddista è affidata la terza riflessione del volume, riguardante la preghiera intesa come “cammino verso il nulla”, dato che per il buddismo fine ultimo di ogni percorso umano è appunto l’approdo al nulla, al vuoto. Un intervento, questo del monaco Shoten Minegishi, attento alle pratiche di preghiera più rigorose, al simbolismo severo di una religione intesa non tanto come filosofia, quanto come pratica di vita, cammino verso l’ineffabile, attraverso lo svuotamento di sé e la comunione con l’altro da sé.

Il Cardinale Martini, promotore dell’iniziativa e ideatore del tema del convegno, si è riservato il compito di concludere il volume, collegando tra loro le tre testimonianze attraverso l’individuazione di un filo comune, che indica nella preghiera un elemento connaturale alla nostra esistenza storica e uno strumento di adesione al mistero dell’Essere. Preghiera come passaggio dalla ratio (soliloquio, esplorazione teorica) all’oratio (dialogo con l’Altro, abbandono fiducioso), per arrivare all’adoratio (adesione e compenetrazione nell’Essere), aldilà di qualsiasi facile fideismo e intento di persuasione volto a chi non crede, o pratica una fede differente dal cristianesimo.

 

© Riproduzione riservata      «La Poesia e lo Spirito», 14 febbraio 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

DRIEU LA ROCHELLE

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE, O IL MASCHIO O LA MORTE – MAGOG, ROMA 2022

L’editore romano Magog ha pubblicato, con il titolo O il maschio o la morte e un’intensa prefazione di Davide Brullo, le due uniche raccolte poetiche di Pierre Drieu La Rochelle, uscite in Francia nel 1917 e nel 1920: Interrogation e Fond de cantine. Drieu La Rochelle (Parigi, 1893-1945), romanziere e saggista, fu uomo e intellettuale impegnato e contraddittorio, fragile e violento, vitale e infelice, che concluse prematuramente la sua esistenza, dopo due tentativi di suicidio, uccidendosi nel marzo del 1945 per sottrarsi alla cattura in quanto accusato di collaborazionismo con la Germania. Dichiaratamente reazionario, vagheggiava la fondazione di una “internazionale fascista” in grado di opporsi all’imbelle tatticismo delle democrazie europee, simpatizzando sempre più platealmente con il nemico tedesco. Secondo Louis-Ferdinand Céline, tuttavia, non fu mai un vero seguace di Hitler: “Non è un venduto: non ne ha il comodo cinismo. È venuto al nazismo per affinità elettiva: al fondo del suo cuore come al fondo del nazismo c’è l’odio di sé”.

Nel corso della prima guerra mondiale, mobilitato a Charleroi, Drieu fu ferito a Verdun e ricoverato in ospedale: leggendo Nietzsche, Rimbaud, Verlaine e le Cinq grandes odes di Claudel volle cimentarsi nella scrittura in versi, animato da un sentimento eroico di grandezza, amor di patria, disprezzo verso le abitudini borghesi di un occidente decaduto.

La prima sezione di sedici poemetti suddivisi in quattro capitoli, si apre con un verso programmatico: “E il sogno e l’azione”, interrogandosi (come indica il titolo) sull’ambivalente realtà di guerra e pace, sacrificio e riposo, desiderio amoroso e ferocia bellica, rivoluzione e tradizione. Lo fa utilizzando versi lunghi, privi di sorveglianza metrica, altisonanti e volutamente retorici, inneggianti alla virilità, alla giovinezza, alla forza militare: “Guerra, rivoluzione del sangue, /  poderoso flusso al cervello, guerra, progresso, fatalità della moderna / pulizia e rimessa a nuovo della nostra casa”.

Più prose liriche che poesie, vibranti di scherno e passione, esaltano la guerra come slancio vitale e forza redentrice, il cameratismo tra commilitoni, il passato glorioso della Francia insieme alla speranza di un riscatto futuro. L’autocelebrazione è costante ed esplicita: “Mi occorre la potenza totale dell’uomo… Non posso collocarmi tra i deboli. Devo misurare la mia forza”. Il richiamo della morte ha qualcosa di epico e seduttivo: “Fra le illusioni della forza militare di cui s’inebria un adolescente, mi sei apparsa, oh morte: buia bocca da cui erompe lo strillo luminoso della tromba. Da allora, sono stato colui che sa”. Apoteosi della propria audacia e insieme consapevolezza di un’umanità ferita da condividere in trincea con i compagni: “Oh, miei fratelli! Miei affetti! Siete distesi nella terra che conosco…Sì, un po’ del mio sangue si è già mischiato con il vostro nella terra sventrata che il tempo richiuderà sulla nostra oscura semenza”. Il disprezzo per “la folla indegna” che non merita il sacrificio di tante giovani vite, è soprattutto disprezzo per la viltà degli anziani, delle autorità, dei generali, degli imboscati, dei neutrali. Insomma, di tutti i non-combattenti: “Ci sono due ordini di maschi: i guerrieri e gli altri”. Il mito della Patria da ricreare si fonde a quello dell’Idea: “La Francia è. Ognuno la porta negli occhi. È una bella ragazza che somiglia alla Repubblica. È la Repubblica stessa”. “L’idea vuole distruggere il mondo per poi ricomporlo con un nuovo artificio… E l’idea è la superbia dell’essere, la superbia del mondo. L’idea è esplosiva, l’idea è deflagrante”. Anche la folla, come la Francia e l’Idea, assume sembianze femminili, sensuali, adescatrici, di “donne con la bocca di carne rossa”.

Molto diversi sono stile e temi della seconda sezione del libro, “Fondo di cassetta”, in cui le poesie – scritte a guerra conclusa – assumono forme più tradizionali, con versi brevi, strofe misurate, utilizzo di rime e assonanze. Gli argomenti, più eterogenei, risentono di evidenti influssi del futurismo trionfante in Europa, con la celebrazione della modernità rappresentata dalle automobili, dallo sport, dalle nuove espressioni artistiche e musicali, pur nel persistere dell’orgoglioso sciovinismo francese contro l’arrogante volgarità dell’invasione yankee. Lo spirito della guerra alleggia ancora in quest’ultima parte del libro, non più nell’odore del sangue e del sacrificio, quanto nel perdurare di una inebriata mitologia virile: “È tempo di adirarsi / Oh folla! Oh donna! / O il maschio o la morte”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 9 febbraio 2023