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DE GREGORIO

ANNA ELISA DE GREGORIO, DOPO TANTO ESILIO – RAFFAELLI, RIMINI 2012

Con questo titolo suggestivo (come non ricordare la candida supplica del  Salve Regina, che impetra consolazione dopo le sofferenze «della nostra malandata vita»?), Anna Elisa De Gregorio pubblica un elegante volume di versi, scandito in tre sezioni composte da un centinaio di poesie, tutte individuate da un titolo, spesso allusivo, a volte esplicativo, sempre acutamente incalzante.
Nella sua appassionata introduzione, Davide Rondoni parla, a proposito di questi versi, di «finissima auscultazione» e di «poesia obbediente… poesia udienza». Da subito infatti balza agli occhi del lettore questa disponibilità attenta e umile, partecipe ed empatica dell’autrice all’osservazione della vita in tutti i suoi aspetti: dalla descrizione vigile della natura, alla condivisione solidale con la sofferenza di chi vive ai margini della società, alla meditazione più filosofica sul senso dell’esistenza (il «paradosso dell’eternità»). La sensibilità della poetessa è orientata soprattutto verso la rappresentazione di due età particolari degli esseri umani, due età entrambe estranee al processo produttivo, al calcolo interessato dei vantaggi economici o carrieristici: l’adolescenza e la vecchiaia. Gli anni in cui ci si affaccia alla vita, in cui si è ancora capaci di perdersi dietro a un sogno («Belle le ragazze che canticchiano / al mare con le gambe lucidate / dalla crema, gli occhiali a camuffare / pensieri»), e gli anni ultimi, malinconici, in cui invece cade qualsiasi illusione. E’ il mondo e la quotidianità degli anziani che Anna Elisa De Gregorio esplora con maggiore e percettiva adesione: «Un corpo sperduto nell’alzheimer», «i vecchi vanno a pulire i ricordi dall’inverno», «Educati a non chiedere una cipolla al vicino, / ci riconosciamo dalle piante alla finestra», «Nelle case ingrigite dei soliti / anziani dove la noia è rotta / dalle pale di un ventilatore». La poetessa si commuove nel seguire il pensionato che va alla posta, si fa compagnia con un gatto o un cane, progetta il pranzo in solitudine e «fa il conto di chi non ha incontrato»: oppure il vecchio signore che raccoglie i sassi, o l’ex boxeur che si butta sotto il treno. Compito del poeta è prestare attenzione ai sentimenti, ai gesti, agli oggetti cui gli altri non badano: «nel mio esercizio di osservazione / assegnato come compito a scuola», l’autrice ubbidisce a un imperativo di «necessaria accoglienza» del tutto, a partire dalle cose minime («Nel migliore dei modi possibili / cureremo la ciotola del cane») per arrivare all’impegno culturale più elevato. Quindi, lo studio e il confronto con altre voci poetiche (da Bashō a Mark Strand, da Michele Sovente a Borges alla Szimborska), con l’arte (la Pietà Rondanini), con il cinema (Tarkovskij, Olmi, e Casablanca). Ma anche lo sguardo affettuoso alla sua città di mare («Città di mattina città d’estate»), con i suoi treni, il cimitero, le spiagge, le periferie desolate; o ad altre città (Venezia, Roma), e ad altre sofferte, scandalose, realtà di miseria e immigrazione. La natura, raccontata soprattutto nell’ultima sezione del volume, è assolutamente consolante nel tripudio della sua ricca vegetazione (salici, viburni, olivi, cachi, pini, gelsomini, ciliegi, crisantemi, trifogli, ginestre, violaciocche: «Fiori stretti ai rami, insetti viola / lucidi di pioggia, alberi di Giuda: / ci accompagnano in fila sui viottoli,  / intorno a loro aureole di nebbia»), con la constatazione che la patria di un poeta è sempre l’ovunque del mondo: «E allora l’unica mia terra è ovunque / trovi parole e lingua per dirle, / mio basso continuo e precaria tenda». In questo suo stile piano, narrativo, colloquiale, eppure aperto a diverse sperimentazioni compositive (gli haiku e i tanka manifestano una loro lieve eleganza), Anna Elisa De Gregorio offre al lettore una ricca varietà di temi e atmosfere, consapevole che le parole di un poeta sempre «rimandano luce».

 

«Leggendaria» n. 101, settembre 2013

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FERRARIO DENNA

MARISA FERRARIO DENNA, RITRATTI IN CONTROCANTO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Un’architettura rigorosa, meditata, in cui racchiudere il destino e l’arte di trenta scrittrici e di venti pittrici, e la memoria di dieci donne appartenenti alla mitologia e alla letteratura classica.
E’ questa la scelta coraggiosa ed estranea alle mode culturali attuali di Marisa Ferrario Denna, che così ha deciso di rendere omaggio a figure femminili eccezionali della storia mondiale.
Quindi, un volume che si divide in due parti, Scrivere  e  Dipingere, aperto e chiuso da due composizioni che fungono da prologo ed epilogo. La sezione Scrivere presenta trenta poetesse o narratrici, a partire da Anna Maria Ortese, scomparsa nel 1998, per risalire alla più antica, la cinquecentesca Isabella Di Morra. Ad esse seguono le poesie dedicate a dieci eroine classiche, da Ipazia a Penelope, passando per Medea e Circe. Nella seconda parte del libro, Dipingere, si percorre il cammino inverso, partendo dalla figura più antica (Sofonisba Anguissola), per terminare esemplarmente con una donna che racchiude in sé diversi ruoli e talenti: Lalla Romano, scrittrice e pittrice, moglie e madre.
A ciascuno di questi personaggi femminili, Marisa Ferrario Denna dedica due poesie, la prima delle quali è un vero e proprio ritratto in versi, in cui si tratteggia l’esistenza della protagonista nei suoi snodi essenziali: famiglia, ambizioni, amori, solitudini, malattie, violenze, morte. Talora tra le righe affiorano addirittura i titoli dei libri scritti , come nel caso dell’Ortese, o si allude alle opere più conosciute. A questa poesia introduttiva, che presenta nei tratti essenziali la figura dell’artista, ed è scritta a volte in prima persona ( in una sorta di autobiografia sovrapposta, di elezione), ma per lo più è rivolta a un tu fraterno, corrisponde in controcanto una seconda poesia, più breve, spesso epigrammatica, in cui l’autrice offre il suo ammirato o impietosito, solidale o consapevolmente amareggiato, omaggio alla donna e all’artista raccontata.
La partecipazione della poetessa è sempre vivissima e empatica, di complice sorellanza e intensa adesione intellettuale: non c’è mai rancore femminista, ma una consapevolezza fiera della dignità del lavoro artistico delle donne, insieme alla constatazione desolata di quanto questa fatica dello scrivere e del dipingere sia stata e sia tuttora spesso osteggiata o sottovalutata dall’ambiente familiare e culturale circostante. E allora la denuncia può essere aspra, il dolore causato dall’incomprensione dei più si fa acuto e risentito: «oh, Sylvia, fissata per sempre/ con gli occhi abbassati,/ in quanti ruoli, dimmi,/ in quanti ruoli furono/ i tuoi anni più dolci così devastati?»

L’elenco delle sofferenze patite da queste scrittrici si esemplifica spesso in percorsi di vita quanto mai tortuosi, sofferti, che sfociano in comportamenti autodistruttivi, in malattie feroci, in suicidi. Quando non addirittura, come nel caso di Isabella Di Morra, nell’uccisione da parte dei parenti.
Marisa Ferrario Denna riesce comunque a decantare ogni violenza, anche la descrizione del più ottuso sopruso, in una scrittura melodiosa, quasi cantata, che fa tesoro di una tradizione millenaria, scegliendo sempre una struttura metrica collaudata, utilizzando endecasillabi e novenari , quartine e sonetti che la ancorano alla norma letteraria e insieme le permettono audaci innovazioni stilistiche.
E’ in questa tonalità discreta e affabile che nascono i versi più abbandonati e lievi, quasi che l’autrice chieda alle sue eroine una dichiarazione affettuosa di amicizia, una preghiera di assistenza e ispirazione, come nella poesia dedicata a Anna Achmatova: «Sei arrivata, amica mia cara, / vieni, beviamoci un tè. / Possiamo parlare del tempo…». Esiste, in chi scrive queste poesie, una pacata e sicura fiducia nella parola poetica, nella sua purezza e gratuità: l’autrice sembra ottimisticamente certa della verità cui può giungere l’arte, nella sua ricerca dell’eterno: «C’è solo il poeta a vincere / il tempo e lo spazio».
E se nell’artista donna può sussistere un timore più accentuato dell’esposizione e del giudizio altrui, che la spinge a chiudersi in se stessa e a rinunciare anche al suo scampolo di gloria («E’ qui che sta la vita rannicchiata. / Al cuore concentrato dentro il corpo / la mente s’introverte. Si rinserra»; «Parole strappo nel tessuto / di un urlo, per anni, sottaciuto»), se è vera quindi questa esitazione femminile nell’offrire al mondo la propria arte, è d’altra parte reale anche un’orgogliosa consapevolezza della propria irrinunciabile singolarità, della fierezza della propria voce. E questo si avverte di più nelle poesie dedicate alle pittrici, quasi che lì il segno sulla carta possa esprimere maggiormente una sua incisiva peculiarità ( «è nella forza del colore / nella potenza dell’ombra e della luce / che ho riposto di me memoria»). Ancora di più si sente questa convinta considerazione di sé nelle dieci poesie dedicate alle figure classiche della storia antica, che non nascondono la loro appassionata e pervicace appartenenza alla loro realtà femminile di amanti, madri, figlie, sorelle, sacerdotesse, filosofe.
E proprio tra questi versi dedicati alla classicità, ne troviamo due che ben definiscono qual è il destino particolare dell’essere donna. «Sorgo e tramonto; e in questo divenire / vado tracciando il cerchio della vita». Legata a doppio filo al suo ciclo biologico, la donna artista se ne sa districare con sofferenza e purissima ansia di libertà: Marisa Ferrario Denna lo racconta con intenerita e ammirata partecipazione.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

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FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, DA MANI MORTALI – MONDADORI, MILANO 2012

In un suo recente articolo uscito sul sito dell’editore Lietocolle, Biancamaria Frabotta ha scritto: «Ciò che non si può spiegare è spesso solo il sintomo di un fallimento, di una scorciatoia che l’anima prende di fronte ai rischi della semplicità. La semplicità, dice Pasternak in una poesia esemplare, «più d’ogni cosa è necessaria agli uomini / ma essi intendono meglio ciò che è complesso».

Una dichiarazione di intenti, quasi a prendere le distanze da quello che è stato finora il procedere poetico di quest’autrice, finalizzato soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica – talvolta anche provocatoria, comunque sempre innovativa, e di non facile interpretazione. In quest’ultimo libro, in effetti, la complessità dello stile e l’oscurità formale si sciolgono in una discorsività più piana e comunicativa, benché il dettato dei versi non si possa definire “semplice”. Ma è il contenuto, il messaggio che ora balza in primo piano, più che il gioco e il collaudo sulla lingua: un interesse più partecipe a ciò che ci circonda, alla natura, agli uomini, alle cose. Ed è proprio nella prima sezione del volume che la poetessa tocca il vertice più alto della sua scrittura, in questo rapporto riscoperto con la vegetazione, osservata con ammirato stupore, quasi con religiosa contemplazione e solidarietà: «una foglia / pende ancora a lato del legno, trema, / si rimette al vento con l’astuzia dei deboli», «udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante. / Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia /…accorrere dove il ramerino implora una sponda…».

Allora la missione del poeta diventa quella di guardare la vita dal basso (biancospini, ortaggi, molluschi, chiocciole..), collaborando con la misteriosa divinità positiva che protegge e recupera l’innocenza delle sue creature («il fieno / dorme senza diffidenza»), opponendosi all’artificiosità cittadina e metropolitana, alla freddezza delle sue convenzioni. Ed è proprio alla voce dei poeti («acquattati nel pelo del mondo… // scovarli, stanarli / dai loro nascondigli / i pochi (troppo pochi!) poeti») che Biancamaria Frabotta demanda il compito di uno sguardo più puro e salvifico sull’esistente: li nomina, li ringrazia, i suoi amici poeti, se ne circonda nelle pagine e nella vita. Dall’amato Giorgio Caproni che sembra sorvegliare dall’alto una sua irriconoscibile Genova («le gallerie di colpo senza / golfi, seni azzurranti, rive / mancate come ragazze viziate»), alla compianta Giovanna Sicari, ricordata nel martirio della sua malattia, ad altri raccontati nei loro incontri-scontri, nelle frequentazioni reciproche. Le esistenze private, gli amori, i gesti quotidiani comuni a tutti si ripetono come le stagioni, i cicli lunari, in un avvicendarsi di giorni e notti, di sonno e veglia, di vita e morte : «Alzarsi nel buio, strisciare nell’obbligata trincea / lungo le pareti, senza centro, né gravità, arrancare / prendere un po’ d’acqua, perderne altrettanta».

Personale e politico si intrecciano: cronache cittadine e storia ufficiale (dagli echi del declino di un impero romano corrotto alla visita di G.W.Bush in Italia), siccità naturali e terremoti distruttivi, citazioni omeriche e ritratti severi del mondo intellettuale e politico, versi d’occasione e poemetti-testimonianza, con l’unico rischio che al lettore vengano presentati troppi stimoli, troppe circostanze e immagini diverse, troppe emozioni da rielaborare. E se nelle ultime sezioni del volume Biancamaria Frabotta presta la sua voce a un dio umano, eccessivamente umano, anche nella sua impotente incapacità di opporsi al male e di soccorrere al bisogno («Sono le mie debolezze, le mie imperfezioni / a illuminare la mia oscura sintassi»), è forse in questa crudele e dolcissima metafora il significato più vero della sua scrittura: «A nord, lungo il filare dei cipressi / una trave di quercia lentamente / marciva nascosta fra le erbe. I tarli / hanno lavorato, ma il nocciolo è sano. / Certo sosteneva una casa in pericolo».

Ecco: perché la casa pericolante non crolli, può forse bastare la trave bagnata della poesia, la sua indistruttibile forza interiore.

«Leggendaria» n.106,  luglio 2014

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FRENE

GIOVANNA FRENE, IL NOTO, IL NUOVO – TRANSEUROPA, MASSA 2011

«Mi piace pensare a questo testo come a un’opera di poesia della storia», scrive Giovanna Frene a commento di questo suo denso, severo, impegnato contributo poetico. Poesia della storia e non sulla storia, quasi a mettere tra parentesi il suo ruolo di voce sola e celebrante, in favore di una testimonianza più collettiva di sdegno e denuncia. Un libro particolare, il suo, di un’originalità esibita e orgogliosa, non solo formale e contenutistica. Nella proposta editoriale, in primo luogo, della coraggiosa casa editrice Transeuropa, che affianca ai testi proposti nella collana  Inaudita  anche un allegato multimediale (in questo caso, un cd del gruppo POEMS). Nella veste grafica, che intervalla i versi con fotografie newyorkesi di Laura Callegaro, e accompagna ogni poesia con la traduzione in inglese. Nella prefazione di Paolo Zublena e nella postfazione di Silvia De March, entrambe dottissime ed esploranti tutti i collegamenti filosofici, psicologici e letterari interni al testo. Soprattutto poi nei rimandi culturali sottesi, stratificati in ogni pagina della plaquette, che richiamano i nomi basilari del pensiero novecentesco (Braudel, Deleuze, Arendt, Benjamin, fino al nostro Severino) e che rendono ogni parola poetica radicata nel terreno scabro, risentito e recettivo della coscienza civile e ideologica del secolo appena trascorso. Una poesia, questa di Giovanna Frene, assertiva, dura, compatta: concentrata sul tema del male, come si prospetta non solo metafisicamente, ma nel suo concreto operare storico. Il male come “skàndalon” intollerabile, e pure troppo spesso accettato pavidamente, non contrastato nell’operare quotidiano dei popoli e dei singoli. Un male che nei millenni si è fatto guerra, strage, terrorismo, pulizia etnica: quasi sempre senza capacità di redenzione e riscatto, senza prospettive di speranza e riparazione: «ma è mai esistito un tempo buono, inenarrabilmente / buono, aperto a conchiglia verso ogni futuribile possibilità che esista anche / solo un frammento diverso / attorno a cui germinare?».

Male che si è concretizzato nella storia «dal Giordano alla Vistola», dai lager nazisti a Ground Zero, lontano da ogni giustizia e giustificazione, che pesa con la sua crudele gratuità anche solo nella possibilità di nominarlo; il male provocato, ad esempio, dalle armate di Giovanni dalle Bande Nere, che poi si ritorce contro lui stesso, uccidendolo di cancrena a ventotto anni. Gli eccidi degli eserciti di ogni tempo sono «una piccola macelleria simulata / sopra un prato ridente e fuggitivo»: e l’ironia spiazzante dell’utilizzo di echi leopardiani diventa scherno, orrore esacerbato. Allora l’innocenza della natura, «il fruscio d’ali, va all’incontro con il marchio di esistere, / si interseca al vertiginoso concrescere botanico e sociale / per le chiare ragioni che non guarda negli occhi lo sguardo». Non sembra esserci salvezza, sollievo dal dolore, in questi versi che si rincorrono ansimanti, spezzati, lunghissimi e perentori. A volte chiusi in parentesi, in virgolette, in rettangoli che ne sottolineino la violenta icasticità. L’evento narrato non è mai grazia, illuminazione, riabilitazione: «l’occidente comune della morte non muta, tagliato / il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità». Non c’è un dopo, in queste poesie di Giovanna Frene: tutto viene azzerato in una combustione immediata di senso e di immagini: «non è l’eccezione che si pensa, la schiuma che ingoia il mare. / non si scava la fossa, questo tornare irrevocabile, / inimmaginabile, calpestato, trito dai sassi…». E ancora, in un impotente grido di ribellione contro il moloch che ci assedia e deturpa tutti, e macina ogni storia: «forza, o carne di potere, o tutto-potere, o vita che deriva dalla vita; / da ciò deriva la simulazione, la nostra vera imposta fine».

 

«Leggendaria» n. 102, novembre 2013

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FROLLA’

ROSSELLA FROLLA’, IL SEGNO DELLA PAROLA – INTERLINEA, NOVARA 2012

L’ideologia sottesa a questa antologia di poesia contemporanea curata dalla giovane studiosa Rossella Frollà non tenta in nessun modo di mascherarsi o di annacquarsi in diplomatiche posizioni di comodo, ma si rende orgogliosamente esplicita sia nell’introduzione, sia nelle approfondite ed esaustive presentazioni di ogni autore. Privilegiando una «poesia come spazio individuale e soggettivo nelle sue diverse linee e curvature che simboleggiano l’Essere», Frollà dichiara apertamente il suo credo, più etico che estetico, in affermazioni sparse e diffuse in tutto il volume, talvolta fraintendendo o decisamente violentando l’intenzionalità stessa dei poeti presi in esame: «La tenacia dell’uomo, la sua vitalità è nello Spirito che non tiene in alcun conto il suo involucro, il corpo, e contrappone a questo guscio custode della precarietà della vita l’immanenza di quell’amoroso senso che è la parola ultima dei sentimenti, delle emozioni e delle pulsioni che mai abbandonano l’uomo. Eterni galleggiano a fior d’acqua sopra il tempo eros e amore, gioia e dolore, fatica e passione (pag.121)».

La parola poetica viene quindi esaltata nel suo significato assoluto ed epifanico, di mistica rivelazione della misteriosa e tragica bellezza dell’esistente: «Il miracolo che si compie col suono e con la parola è quello di rendere l’ordinario o un qualsiasi evento un qualcosa di prodigioso e di straordinario che ci riconsegna il valore ultimo delle cose» (pag.15). Quindi la terminologia utilizzata dall’autrice rivela senza equivoci la sua evidente propensione ad una interpretazione spirituale della realtà e della letteratura: levità, autenticità, ricerca, anima, luminosità, prodigio, incanto, quiete, saggezza, miracolo, vulnerabilità, stupore, sorpresa, bellezza, natura, pensiero, sono i vocaboli che più si rincorrono in queste pagine. Con una presenza quasi ossessiva del sostantivo francese «rêverie». Sottolineando un polemico distanziamento dal «nulla di un gusto medio livellato da una cultura commerciale mediatica di massa», Rossella Frollà ignora volutamente tutta la ricerca sperimentale della poesia contemporanea che privilegia il significante sul significato, ma anche la poesia e la critica che più si compromettono sul fronte dell’impegno sociale e politico, del giudizio morale sulla storia e sulla cronaca, o che al contrario utilizzano giocosamente il divertissement e l’ironia. Una scelta di campo e di fede precisa, la sua, che si concretizza nella presentazione selezionata di dieci nomi, offerti ai lettori con un’ampia antologia di versi editi e inediti, prefati da dense, ammirate e affettuose pagine di critica. Si va quindi da Franco Loi, il più anziano («tonalità prorompente con sonorità popolari mescidate a un Io lirico quieto e delicato, di vena espressionista e dantesca»), attraverso il compianto Fabio Doplicher e alla «geografia del mito» di Umberto Piersanti, percorrendo «l’amore faticoso della vita… in un dettato lirico asciutto e chiaro» di Maurizio Cucchi, e «la ricerca spasmodica e rovente della perfezione» di Milo De Angelis, per approdare alla poesia «giocosa e scalza, fiorita, … lineare come il chicco di grano» di Claudio Damiani e «alla lirica presente al suo tempo… che gode di una spontaneità mai troppo fantastica, ma si posa come rosa fresca sulla strada» di Davide Rondoni. Il volume si chiude con i versi del più giovane Alessandro Moscé (Ancona 1969), «un sognatore che afferma la propria esistenza attraverso immagini oneste», ma si sofferma anche sull’unica presenza femminile antologizzata, Giovanna Rosadini. Di lei si riporta una bella poesia dedicata ai figli («Eccoli, nei loro giorni che si mangiano/ i nostri, luminosi e levigati come anche noi/ siamo stati…»), con altri versi segnati dalla sofferenza fisica dovuta a un tragico incidente («Ma perché io, mio dio, perché a me, proprio io?»), fino a prove inedite, foriere di un auspicabile sviluppo futuro, dedicate al mondo e al linguaggio ebraico. E forse la scelta più originale, nelle proposte di Rossella Frollà, è quella di un poeta riservato e sottovalutato, quale Giancarlo Pontiggia, di cui si sottolinea «il verso lontano da ogni contaminazione contemporanea…colto e raffinato, di matrice aristocratica», ben evidenziato in proposte di alta resa stilistica come questa: «Niente è più arduo di ciò che appare / semplice, affondando in un ginocchio / che sanguina, o nella polvere di un viottolo / che si curva per sempre, verso // un altro confine, quando / un fumo indiano sale, nell’aria / spessa e odorosa, e già diviene potenza / di una nuvola sposa».

Se quindi Rossella Frollà ha l’onestà di rivendicare fieramente la propria visione ideologica, indicando esplicitamente quali sono i fini e i confini in cui secondo lei deve muoversi la poesia («I poeti presenti in questo libro sono animati da un dettato profondo e quasi totalizzante della vita, lo stesso che ha reso autentico il mio interesse verso la massima centralità del testo»), forse pecca per alcune ingenuità espressive e involuzioni sintattiche che spesso inficiano la credibilità della sua lettura critica, come ad esempio nelle pagine 268-271, in cui l’entusiasmo recensorio trascina l’autrice verso considerazioni scarsamente condivisibili, anche formalmente.

 

«criticaletteraria», 2 dicembre 2013

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INSANA

JOLANDA INSANA, TURBATIVA D’INCANTO – GARZANTI, MILANO 2012

Le sei sezioni di cui è costituito l’ultimo libro di versi di Jolanda Insana risultano assolutamente omogenee nell’esibire una provocatoria, esacerbata violenza di immagini e tonalità; un linguaggio che si squaderna incalzante e scorticato, contorto, dissacratorio, privo di qualsiasi punteggiatura che non sia il punto di domanda; strofe disuguali e graficamente distribuite tra caratteri corsivi e tondi; un rincorrersi esaltato tra sensibilità civile e politica da una parte e egocentrica, insuperbita assunzione del privato dall’altra. Una poesia che si infossa, intorcigliata, sbaragliata, gracchiante – per usare alcuni degli attributi presenti nel primo poemetto-, a indagare «la vita offesa che cerca la verità»: offesa, ma anche malata, rabbiosa, atterrita, inabissata. Che affronta le tragedie di una storia universale di distruzione e imperdonabile ingiustizia (dalle alture del Golan all’Afghanistan, da Gerusalemme risalendo fino al bombardamento di Dresda, a un mortificato ecologismo sconfitto): ovunque dove «scortati e scortatori / finiscono nelle reti dei pescatori». Ma soprattutto grida il suo spasimo furioso, bilioso, quando «battibecca / con il suo doppio condiscendente», un alter ego odiato e svillaneggiato, un’ombra femminile onnipresente e castrante: forse la vicina di casa del piano di sotto, più giovane e più stupida, del tutto impermeabile alla poesia, alla cultura, alla storia («perché ce l’ha con me / e attenta alla mia vita?»). Con lei ingaggia un corpo a corpo arrabbiato, fatto di reciproche definizioni offensive («blenorragica e garosa», «sdrumata e sdrucita», «squinzia vampiretta sbollentata», «diabetica ipertrofica parabolante», «cachettica pelosa»). Si tratta di due solitudini rancorose che si confrontano in duelli verbali sarcastici e volgari, maledicendosi e oltraggiandosi, in una totale e ostentata incapacità di comunicazione, in un turpiloquio che oscilla tra la banalità del pettegolezzo condominiale e la sfrontatezza di farisaici processi ideologici. Droga, sporcizia, squallore quotidiano, sesso brutale: ciascuna figura diventa il fantasma ossessivo dell’altra («sei tu che ingrassi i miei dèmoni / stitica ulcerosa»), e all’ottusità intellettuale dell’una si oppone l’ambizione poetica insoddisfatta dell’altra («mi cammini sopra la testa / con gli scarponi chiodati / e urli notte e giorno / tu con le tue poesie / con la tua falegnameria»). Il ritratto della nemica è impietoso, si risolve in coppie di aggettivi contrapposti e crudeli (banale e boriosa, pelosa e segreta, razzista e oltranzista, frodolenta e imbonitora, sciancata e lazzariata, infibulata et sitibonda…), fino alla rivelazione finale, che è anche una confessione pentita, un’ammissione di colpa e sconfitta. L’altra sono io, la poesia crea i suoi spettri, incubi deliranti: «non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato / ma non c’era e non c’ero / era il mio doppio disagiato / ora lo so e sloggio», «esce di scena l’azzoppata iena / muta e scriteriata / e più non urla ti faccio guerra ti spacco». Un turbamento, una turbativa che sa di sfida illegale, di compiaciuta provocazione, di letteraria sobillazione.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

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IZQUIERDO

PAULA IZQUIERDO, LE AMANTI DI PICASSO – CAVALLO DI FERRO, ROMA 2014

Questo libro, uscito in Spagna nel 2003, e ripubblicato in seconda edizione quest’anno dalle edizioni Cavallo di ferro, ha un sottotitolo esplicativo e polemico: Quando il genio diventa crudeltà. E in effetti, leggendo la biografia di Picasso “sub specie amorum”, si rimane impressionati dalle capacità onnivore e feroci, fin quasi a sfiorare il sadismo, delle sue prestazioni sessuali e sentimentali, ripercorse qui dall’autrice con l’intento di offrire spessore al profilo delle donne che lo amarono. «Quale misterioso magnetismo fece sì che tante donne impazzissero per lui, accettassero la sua tirannia, i suoi sbalzi d’umore, il suo disprezzo, compresa la persecuzione, fisica e mentale?», si chiede (e noi con lei) Paula Izquierdo. E quindi le racconta, nei capitoli dedicati alle tredici più rilevanti, sorvolando sulle centinaia di incontri occasionali, nei bordelli o in avventure trasgressive, negli ossessivi tradimenti, nelle ostentate e trionfanti seduzioni, e soffermandosi invece sulle raffigurazioni pittoriche, scomposte, violente, morbose, allusive, spesso vendicative. Uno sguardo magnetico, una personalità travolgente, quella di Pablo Picasso: ma anche frequentemente travolta e sconvolta dalle presenze femminili della sua vita, se è vero che «ogni donna che conobbe lo colpì talmente da fargli cambiare lo stile della sua pittura». Ciascuna amante suscitò nel maestro un entusiasmo creativo febbrile, e subito dopo il desiderio compulsivo di distruggere brutalmente il suo sentimento e la persona che l’aveva provocato. «Le donne devono essere passive e sottomesse… le donne sono macchine per soffrire», affermava provocatoriamente. Tre delle sue compagne lo resero padre quattro volte, due lo sposarono, due si uccisero dopo la sua morte: avvenuta a 92 anni, in piena e vivace attività creativa, in un corpo a corpo con la pittura, che per lui fu sempre e fino alla fine metafora del corpo a corpo divorante con il desiderio sessuale.
Le donne di Picasso narrate dalla Izquierdo assumono spesso le sembianze di menadi ossessionate, pronte sia ad immolarsi che ad immolare: ma almeno due di loro non si riducono al ruolo di amanti. La madre Maria, che lo ebbe nel 1881 a Malaga da un pittore di scarso talento, José Ruiz, di cui Pablo disconobbe persino il nome, preferendogli quello materno; e la sua mentore-protettrice Gertrude Stein, che lo aiutò economicamente e lo introdusse negli ambienti culturali e artistici parigini. Il primo amore fu Fernande Olivier, con cui divise la dimora del Bateau-Lavoir, una vita bohèmienne, l’abitudine all’oppio e una reciproca estrema gelosia. A lei seguì la giovane Eva Gouel (“ma jolie”, come la chiamava il pittore), morta precocemente di cancro. Quindi una girandola di artiste, cabarettiste, prostitute, fino alla sofisticata ballerina russa Olga Koklova, che sposò nel 1918 e che gli diede il primo figlio Paul. Si separarono nel 1935, dopo una convivenza tormentata da litigi ed eccessi, quando Picasso conobbe l’ingenua Marie Thérèse Walter, ancora minorenne, di cui fece una sorta di schiava sessuale, iniziandola a pratiche sadomasochistiche. Marie Thérèse partorì la secondogenita di Picasso, Maya; a loro il pittore rimase comunque teneramente affezionato anche dopo averle abbandonate, al punto che ricorreva alla compagna persino per farsi tagliare capelli e unghie, obbligandola a conservare questi suoi preziosi reperti fisici poiché temeva superstiziosamente che qualcuno potesse con essi fargli una fattura. Quindi fu il turno di Dora Maar, forse l’unica presenza femminile intellettualmente all’altezza del maestro, fotografa che testimoniò le varie fasi della creazione di Guernica. Successivamente arrivò Françoise Gilot, madre di Claude e Paloma, di quarant’anni più giovane: fu l’unica donna che lo lasciò, nel 1954, stanca dei suoi continui tradimenti. Dopo una lunga parentesi di vita in comune con la studentessa Geneviève Laporte («Con lei, tutto è dolcezza e miele. E’ come un alveare senza api»), Picasso conobbe la sua seconda moglie, a 72 anni (lei ne aveva 27): Jacqueline Roque, con cui visse l’ultima parte della sua vita, forse la più serena, e per cui dipinse quasi duecento ritratti. Anche Jacqueline, come già aveva fatto Marie Thérèse, si uccise dopo la morte del «suo monsignore».

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

RECENSIONI

LIBERALE

LAURA LIBERALE, MADREFERRO – PERDISA, BOLOGNA 2012

La seconda prova narrativa della poetessa e indologa Laura Liberale, dopo l’originale romanzo Tanatoparty del 2009, viene definita dalla quarta di copertina «un racconto magnetico, colto e suggestivo, sul passato che riaffiora tra memoria e mitologia», e sembra avere ancora una volta come origine e confine ultimo una sofferta, angosciata, rancorosa meditazione sulla morte. Morte intesa non solo come limite dell’esistenza personale, sempre ingiusto e doloroso, ma anche come “finis mundi”, tragedia storica e culturale, violenza e sopraffazione del più forte sul più debole.
La protagonista di queste pagine è una giovane studiosa che torna al suo paese d’origine in Piemonte dopo sette anni d’assenza e la tragica scomparsa dei suoi genitori, nel tentativo di ricomporre non solo le lacerazioni della sua anima, ma anche la trama di un tessuto familiare slabbrato, inciso da angherie mai del tutto comprese e sempre ritenute ingiustificabili, imperdonabili. Il paese si chiama Fabrica; è «un paese vampiro che passa indenne attraverso la storia», sopravvissuto nei secoli con gelida indifferenza a carestie, epidemie, invasioni, due guerre mondiali e alle recente, invasiva ed economicamente onnivora immigrazione cinese. Alla ricerca di se stessa, nella rivisitazione dei traumi infantili che l’hanno resa sostanzialmente «estranea, esclusa» alla mentalità farisaica dell’ambiente che l’ha vista crescere, Laura appunta su un diario lungo un mese sia la materialità delle sue giornate, con gli incontri-scontri quotidiani (un vecchio, rassicurante e banale fidanzato; l’unica zia novantenne, animata da «una costante d’infido, di paludoso… di furbizia e insaziabilità»; i notabili del luogo, compresi in una loro assurda e ottusa rispettabilità) e con le rivisitazioni di luoghi sempre lugubri e minacciosi (cimiteri, ospizi, edifici abbandonati e diroccati), sia le divagazioni fantastiche, gli incubi, le improvvise e abbaglianti rivelazioni di un inconscio soffocato per anni.
Realtà e immaginazione si susseguono e compenetrano nel testo, ma ben individuabili anche da una diversa impostazione grafica del narrato. Guidata nei suoi labirinti mentali e fisici dai disegni di un album ottocentesco, quasi unico lascito di un’eredità trafugata da parenti infidi, Laura ripercorre boschi e radure, sulle tracce di divinità celtiche e streghe bruciate, diavoli e ossessioni collettive, riti blasfemi e feste patronali, adolescenti scomparse e stupri inenarrabili, cancrene marcescenti nel fisico e soperchierie negate collettivamente. «Venire qui è arrendersi ai simboli», afferma la protagonista, intenta a rincorrere fantasmi, a riscoprire il proprio «destino necroscopico». Soprattutto poi a fare i conti con «il seme gramo dell’ascendenza femminile, il mito appreso e indiscusso: insania, collera, odio, frustrazione, ottusità, potere». Per indagare in se stessa, senza alcuna pietosa indulgenza, le tracce genetiche di un «matriarcato potente e invasivo… fatto di estremi: orchesse e sante», in una linea che partendo dalla nonna e dalla madre, sottomesse, docili, sacrificate, che mai si potranno emulare, arriva a zie e prozie megere, prevaricanti, che mai si potranno perdonare.
L’infanzia è allora un sogno infausto da cui fuggire, con l’immagine drammatica del primo mestruo inarrestabile e vergognoso, con il rimorso per un incidente provocato a un piccolo amico che rimarrà deturpato per sempre, con le voci gracchianti delle vecchie che recitano il rosario. Il ritorno alle origini quindi non offre nessuno scampo, e in una scrittura lucida, secca, inclemente come le storie che racconta, Laura Liberale sottolinea la sua inesorabile condanna: «Non mi sono mai spostata da qui. Mai».

 

«Leggere Donna» n.159, aprile 2013

RECENSIONI

MANCINELLI

FRANCA MANCINELLI, MALA KRUNA – MANNI, LECCE 2007

Mala kruna significa “piccola corona di spine”, ed è un titolo che ben esprime il dolore sottile e penetrante che pervade ogni pagina del primo volume di poesie della poetessa marchigiana Franca Mancinelli (1981), edito da Manni nel 2007. Sia i due versi danteschi che fungono da esergo, sia la composizione iniziale, con il suo mare tormentoso, il vento, l’isola, la madre nera vaticinante e «un cattivo tempo che non faceva / partire le barche», introducono al sentimento di rassegnata e consapevole tristezza che costituisce la nota dominante, il basso continuo del libro. I versi «essenziali, incisivi, affilati» ribadiscono con ostinata asciuttezza il senso di perdita e di abbandono che l’autrice patisce sulla propria pelle dall’infanzia: «anni che perdono parole / dalle mie dita aperte», «come dondola il mondo e le cose / di nuovo tremano, anch’io / sarò nel buio», bambina segnata forse da una separazione o da una lontananza, o semplicemente da quel di più di sensibilità che le permetterà, diventata adulta, di trovare una sua ricomposta consolazione proprio nella poesia. La ferita patita nei primi, decisivi, anni di formazione rimarrà comunque a lungo nel rapporto con la natura, con gli amori, con se stessa. Il paesaggio marino viene fissato negativamente («sale solidificato», «gusci morti», «schianto sullo scoglio»). Il sentimento amoroso vive in una sostanziale estraneità e incomunicabilità dei corpi («vieni negli anni muti, mani premute / sulle labbra, il corpo perso», «quale piaga insieme siamo / distanti // solo arsa saliva pesto petto», «insieme / staremmo come due cucchiai riposti / asciutti nel cassetto», «in una piazza ci sfioriamo / le lingue come gambi senza fiore»). Ma è soprattutto la visione di un sé mai riappacificato che rivela la cicatrice lasciata dalla «mala kruna», resa con indubbia icasticità e pregnanza da questi versi, impietosi, ripiegati sul proprio patire: «sono seduta in briciole», «chiudo le arterie e torno / monca alla vita», «mentre mi scucio e frano»», «sono / creta sul letto di un fiume di passi». Recentemente, versi inediti di Franca Mancinelli, tratti dalla raccolta «Pasta madre», sono stati pubblicati nell’antologia Einaudi Nuovi Poeti Italiani, 6. La più giovane delle poetesse qui proposte, riconferma la sua voce consapevolmente sicura e decisa, un’originalità di timbro poetico che ne fa certamente un nome di rilevanza nazionale nel panorama della nuova poesia. In questa sua ultima prova editoriale, i versi si impongono al lettore asciutti e concreti, e sempre animati da uno sguardo inclemente sul mondo e chi lo abita: esseri umani, animali, vegetazione (e pensieri, e sentimenti). Rami e foglie, frutti e semi, alghe e fieno, uccelli e bisce, insetti e gatti diventano sangue e pelle umani, si trasformano in una metamorfosi continua che cerca redenzione e salvezza in qualcosa d’altro, in uno scambio perpetuo e ciclico di vita: «lasci la pelle sul lenzuolo / come una biscia al cambio di stagione», «Dovrai seppellirti / tornare calda radice», «bocca che passa calore / all’aria come potesse svegliarsi / essere ancora salvata», «ti corrompi come cibo», «sugli occhi rinserrati le formiche / al posto delle ciglia». Una poesia impastata di fisicità, calda di una matrice assolutamente femminile e materna, ma anche in grado di tagliare con secca precisione qualsiasi cordone ombelicale. Difficile, infatti, trovarle degli antecedenti, dei richiami a collaudate tradizioni novecentesche. Non ci sono concessioni facili a rime o assonanze, nessun gioco di prestigio linguistico, calembours, pastiches, sperimentalismi vacui. Ogni verso sembra calato nell’obbediente fedeltà a un pensiero, quasi con etica severità. Così anche quando viene rispettata rigorosamente la metrica (due settenari e un endecasillabo), il lettore non si trova remunerato da alcuna musicale consolazione formale, perché il significato, il messaggio suggerito sovrasta con la sua asseverativa durezza la delicatezza del segno: «qualcosa in noi respira / soltanto nel trasloco: / gioia per ogni terra cancellata». Un’autrice, Franca Mancinelli, che è ormai più che una promessa, e di cui è bello riportare qui, a conclusione di questo limitato ritratto critico, la splendida poesia iniziale della raccolta, perfettamente calibrata nello stile e nel contenuto: «Cucchiaio nel sonno, il corpo raccoglie la notte. Si alzano sciami sepolti nel petto, stendono ali. Quanti animali migrano in noi passandoci il cuore, sostando nella piega dell’anca, tra i rami delle costole; quanti vorrebbero non essere noi, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani».

 

«Fermenti» n. 239, gennaio 2013

RECENSIONI

MONTANARI

GABRIELLA MONTANARI, ARSENICO E NUOVI VERSETTI– LA VITA FELICE, MILANO 2013

Il poeta e critico letterario Lino Angiuli, nell’introdurre questo «urticante» volume di versi di Gabriella Montanari (Lugo di Romagna, 1971), parla di «intenzione non sublimatoria ma ‘bassa’, ovvero provocatoria e sovversiva, dell’intera raccolta». E ancora di «reattività fino alla rabbia, corporalità fino all’esibizionismo, diversità fino all’antipoesia, lotta senza quartiere verso le mosse perbenistiche e autopromozionali dell’io lirico». Una poesia, quindi, che percorre un itinerario decisamente trascurato dalla vena petrarchesca, intimistica, oracolare, ermetizzante della nostra produzione letteraria più in voga, e invece assume spavaldamente, sprezzantemente, i toni insofferenti alle regole, sarcastici e “maledetti” sulle orme di un Bukowski («di certo c’è / che a Bukowski / una botta gliel’ avrei data, di sicuro»), per risalire – attraverso Villon – fino al nostro sghignazzante Cecco Angiolieri. Gabriella Montanari si fa ironicamente beffe di qualsiasi tronfia ispirazione poetica “alta”, di ogni atteggiato versificatore à la page: «i versi seguono le mode e la domanda di mercato, / si attengono al formato e ai criteri editoriali, / non sgarrano, non dicono una parola di troppo, / profondi perché incomprensibili, sublimi se lo decreta l’Arnoldo // l’orifizio anale non è degno di menzione, / la vita va bene finché non sporca / e a forza di ermetismo e introspezione / vien voglia di scalfire, sverginare / non per posa, ma per amore».

Ma non c’è solo la tradizione letteraria nostrana nel suo target: il feroce e liquidatore arsenico a cui allude il titolo del libro è riservato a qualsiasi aspetto della vita in cui l’autrice si trova impazientemente e rancorosamente costretta: dal «fottutissimo padre padrone» che l’ha messa al mondo, ai parenti morti («la tipica puzza di salma / il tanfo cimiteriale»), alla stupida dirimpettaia diventata madre controvoglia dopo goderecci bagordi, al pontefice («per terra c’è un profilattico esausto / e io mi interrogo sull’utilità del papa») e alla religione tout court («il paradiso è un morso in un tartufo d’alba / il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia / l’inferno, il frigo vuoto»), in una sua personale teologia più blasfema che eretica. Nemmeno la natura, nella sua innocente bellezza, si salva dal furioso cupio dissolvi della poetessa («spasmi di pesce rosso a corto d’acqua, / l’ananas immaturo / col suo pennacchio sprezzante, / le banane turgide / come peni con l’ittero», «fuori i gabbiani abbaiano da almeno un’ora / o forse gracchiano», «la battigia è uno sfacelo di meduse, / un mattatoio di granchi e murici dissanguati»), e persino gli innocui e silenziosi libri si meritano velenosi insulti: «inerpicati sugli scaffali / mi ossessionano con le loro facce da campioni d’incassi… // cos’ avranno mai avuto da dire di tanto speciale… / tanto, prima o poi, li vendo al chilo». L’amore stesso è finzione, presa in giro, perdita di tempo e tutt’al più scambio di liquidi o tempesta ormonale: «L’ho accettato come un inevitabile contrattempo. Così come si accetta il ciclo mensile, il tacco della scarpa che nella corsa si spezza o la carta igienica che manca sul più bello», e il sesso «ha il soffio corto dei coiti clandestini / e delle sveltine da divano immondo». Il lettore può ritrovarsi sconcertato o addirittura divertito da questo allegro e rabbioso vorticare di vesciche, genitali, sigarette, birre, obitori, scopate,
maledizioni, sperma: mai scandalizzato, tanto provocatoriamente eccessiva è l’immagine che la poetessa tende a dare di sé («sputai contro le macchine / e pisciai in faccia ai passanti, / presi a sberle il cadavere di mia madre, / rinserii i figli nella placenta, / ritornai feto, spermatozoo ovulo e orgasmo»), ossessivamente insultante anche contro la sua stessa scrittura: «Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente». Al punto che chi legge questi versi finisce addirittura per dimenticarsi di valutarli esteticamente, travolto com’è dalla sardana di tanta esplicita fisicità.

 

«L’Immaginazione» n. 276, luglio 2013