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RECENSIONI

PORTANTE

JEAN PORTANTE, VOGLIO DIRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Inconsueta questa prova letteraria di Jean Portante proposta dalle edizioni La Vita Felice: l’autore, nato nel 1950 in un villaggio minerario del Lussemburgo, figlio di emigranti italiani, e vissuto nella condizione sradicata e arricchente del trilinguismo, offre qui ai suoi lettori cinquanta prose poetiche, in uno stile pianamente narrativo che tuttavia vibra dei soprassalti emotivi e lirici della più pura poesia. Presentate con testo francese a fronte, e con partecipi note critiche di Gabriela Fantato e Elio Pecora, queste composizioni hanno la labirintica temerarietà di una sfida visionaria al placido e composto senso comune di chi legge graniticamente, sospettoso di ogni coinvolgimento, timoroso di qualsiasi spiazzamento logico. In quasi ognuna di queste pagine ricorre la perifrasi «voglio dire», con l’intento dichiarato, ma poi non mantenuto, di esemplificare i concetti esposti, di spiegare e chiarire le immagini e le metafore: «Queste parole preferisco tacerle. / Se sono cadute con L’ULTIMA PIOGGIA è quasi come. / Da quattro mesi le aspettavo: voglio dire: aspettare è un modo di parlare: voglio dire: quel che aspettavo era il solco che di lassù chiamava prendendo il corpo delle nuvole per imitare la voce dell’umidità».

In realtà, dopo i due punti (che sono il segno di interpunzione più frequente), e dopo la ribadita volontà di dire, i sentieri polisemantici del discorso si infittiscono e accavallano, lo stile si fa più ansioso e quasi spaventato, nel tentativo di districare un pensiero sempre più intorbidito, confuso: «Voglio dire: quando la farina finisce non comincia necessariamente a mancare il pane dell’oscurità», «Voglio dire: a questo falso inizio che vuole e non vuole che tutto questo sia un fiume». Situazioni e azioni si presentano in una loro indifferente antinomia («Potrei abbassare lo sguardo o sollevarlo», «Tutto è vero e tutto è falso su queste cordate che portano alle parole intime»), in un relativismo ostentato e continuamente sottolineato da i “se”, “forse”, “chissà”, “supponiamo”. Perdura intorno, nelle cose e nelle parole, una sorta di mistero, di enigma che rende indecifrabile il procedere del tempo e dei gesti, sia di quelli quotidiani e minuti, sia di quelli ciclici e universali: e in continuazione il poeta passa dalla descrizione di fatti e sensazioni minime a meditazioni filosofiche più totalizzanti. In particolare la sua riflessione sembra ipnotizzata dallo scorrere devastante delle ere, dal trasformarsi perpetuo degli elementi, dal buio in cui si perde l’origine del cosmo. E di fronte agli interrogativi primordiali, mette in atto una sospensione del giudizio, arretra, sembra intimorito: allora, la sua richiesta di chiarezza, di svelamento, non è rivolta solo a se stesso, ma anche a un “tu” insieme nascosto e dichiarato, a cui ricorre cercando un supporto non solo sentimentale, bensì più propriamente esistenziale, che però non arriva a salvare, a mettere al sicuro: «Tu sollevavi lo sguardo ma dentro tutto si nascondeva». Il rapporto con l’amata ha le stigmate della casualità e di una sostanziale incomunicabilità, come di un ingranaggio fortuito destinato a incepparsi nello scorrere rigoroso e immutabile dei giorni. Se Elio Pecora nella sua appassionata postfazione individua il carattere fondamentale del libro in una specie di «diario amoroso, fitto di ammissioni e di sconfessioni, di estenuanti rivisitazioni e di stremanti addii», in realtà la cifra peculiare di queste composizioni sembra essere maggiormente quella del turbamento, non solamente affettivo, ma culturale: una specie di corpo a corpo con le ultime scoperte dell’astronomia, della fisica quantistica. «L’innocenza genetica», «gli assi elementari del sistema», «la meteorite dell’inizio», «la polvere cosmica» hanno agli occhi dell’autore la stessa, inspiegabile, impenetrabilità dei gesti d’amore: «Nessuna condensazione all’orizzonte tranne quella che segretamente faccio scivolare nella tua tasca», «voglio dire: quando il legame tra gli elementi mi sfugge faccio appello a questa seconda vita che non ci è dovuta». La banalità di un movimento qualsiasi assurge allora al più inquietante interrogativo filosofico, espresso sempre con l’intelligente mimesi del parlato: con le sue esitazioni, le ripetizioni, le incongruenze, le associazioni inconsce che qua e là creano però nel lettore il sospetto di un eccesso quasi manieristico di bravura, di uno sfoggio non sempre necessario di originalità.

 

«incroci on line»,  4 gennaio 2014

RECENSIONI

PONTIGGIA

GIANCARLO PONTIGGIA, BOSCO DEL TEMPO – GUANDA, PARMA 2005

Abissalmente lontano da qualsiasi chiassosa e sguaiata contemporaneità, regalmente racchiuso in una sua pura e nitida sfera di nobile e classica trasparenza di suoni, motivi e atmosfere, questo bellissimo libro di Giancarlo Pontiggia afferma una sua inconfondibile e consapevole altezza poetica, senza albagia o superbi elitarismi, ma con l’umile proposta di verità che si sanno eterne. La poesia è senz’altro una di queste, e tra le più alte: via alla contemplazione e alla comprensione dell’umano e del sovrumano; strada della memoria e del recupero del passato; riflessione sull’anima e sul pensiero; ripiegamento sulla propria storia e indagine della storia del mondo. Ciò che è fuori da questo cerchio magico di luce (e quiete, e silenzio, e meditata sospensione) può indurre a distrazione e dispersione («in questo / evo buio che delira», «Sibilano, sui tetti, sugli scialbati balconi / le antenne, le feroci parabole, portatrici / meste di una vita / che non è…», «gridi / di una vita frastornante, sospesa») non per questo merita irrisione o disprezzo («Non disprezzare nulla, sii / umile, sii / come il legno di limone,  // che profuma»), ma invece è oggetto di fraterna ed empatica solidarietà:  «gli innominati… i dispersi… O poveri, o per sempre ignorati, / o legione di spossessati / di lingua, di nomi, di mente, / ombre / di un’umanità avvilita»).

Ma è allo scorrere del tempo, o alla sua crudele immobilità in un’aria di metafisico lucore, che il poeta pensa e si rivolge nei suoi versi più ispirati: «Canto ciò che fu prima / e ciò che venne. / Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto». Il cielo domina come un assoluto, in queste pagine, osservato da una posizione esiliata e carica di nostalgia: «Al cielo immenso, vuoto, a un cielo / senza di me / ogni volta cercavo di pensare; ad occhi chiusi / mi sforzavo di entrarci», «Sotto questo azzurro, vedi, lo stesso / di un milione di anni fa», «A quale alto ed inaccesso cielo / m’affacciavo, pensoso, estremo, nella polvere di un mattino sbiancato».

È un’immensità in cui il poeta vorrebbe leopardianamente naufragare, ma che insieme lo esclude, lo allontana, imprigionandolo nei suoi confini corporei: limitanti e ferrei. Ma anche la partecipazione più vivace e spontanea all’esistente gli è preclusa, per una sua indole di timida riservatezza, già evidente nella fragile e indifesa età infantile («fanciullo dolce, troppo educato», «Tra gli androni del collegio, dove / ubbidiente, mite, studiavo») e della prima giovinezza: «Era questo il tempo fluviale, rovinoso / della nostra celata adolescenza».
Tempo dedicato a letture raffinate (i lirici greci e latini, Plinio il Giovane, Petrarca, Rucellai) e al vagheggiamento di luoghi esotici, luminosi e ventosi, dorati e celesti (le Cicladi, l’India): a rincorrere un passato mitico, sorseggiando il nettare degli dei, assaporando «il miele che distilla una quieta / pace», o un vino di oraziana memoria («Perché aspettare le lucerne? / Beviamo»). Poesia che allontani ogni “cura”, quindi, priva di passioni che possano turbare l’animo, ma sia nutrita di limpida classicità, e sappia recuperare gli stilemi e i moduli non solo antichi, ma anche del nostro novecento più conclamato: perciò Saba, Montale, Caproni, Luzi, e addirittura qualche rara eco zanzottiana («Parla tu, lingua, di’ / una parola per noi, di’, fa’, su, scendi / divieni parola del mondo, vieni / tra le cose, nel tempo, divieni forte / vento!»). Con una solidissima padronanza metrica, ricca di perfetti e sonori novenari («Il sole splendeva assoluto»), di imperiosi settenari («O rime, o troppo schive»), di musicalissimi endecasillabi («Della vita mi colpiva ogni suono»). E con un’attenzione ribadita a un vocabolario desueto e straniante, nella ricerca puntuale di termini non usurati e abusati (impietra, s’invetra, s’intrude, s’impigra, s’intenebra, fiammeo, brolo, marcenti, sidereo, stremato, landa, scricchio…). Ma soprattutto con un richiamo affettuoso e rasserenante al lettore di baudelairiana memoria («lettore / (o più che ansioso, o più che amato)») a riscoprire la ferma compostezza della poesia, il suo elevato invito morale alla contemplazione stupefatta del divino e della bellezza («Tutto è caldo, sublime, esatto: una colata / di presente immane, // intatto»), e insieme alla malinconica accettazione della loro precarietà: «Siamo tutti // ospiti della vita -vedi- / per poco»».

 

«Incroci» n.27, giugno 2013

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PECORA

ELIO PECORA, NEL TEMPO DELLA MADRE – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Elio Pecora, prolifico e stimato poeta salernitano, dedica questo delicato poemetto (definito alla greca “epicedio”) alla figura della madre, morta centenaria dopo una lunga e invalidante malattia. E il contrasto tra gli anni ultimi, sofferti e in ombra, nonostante il traguardo raggiunto («cent’anni, ad aprile, un sabato: / come una meta, un traguardo / il premio di questo disfarsi / in un torpore che annaspa»), e la vita piena, felice, ormai trascorsa, risalta prepotente già nei versi di apertura: «Che n’è di quella di un tempo? / Dov’è mai stata? ma quando?». Non esistono più piedi leggeri, capelli vaporosi, le mille attività in casa e nell’orto, i discorsi con le amiche e i parenti che invadono l’abitazione. Gli anni della vecchiaia sono segnati da «l’arco dei denti nel bicchiere, / ecchimosi sugli avambracci, / livido il cranio, le dita / palpano il fazzoletto, le pupille velate…». E poi ancora la casa vuota, ricordi annebbiati e confusi, fotografie ingiallite, la badante moldava…
Allora al figlio poeta non resta che cantare, con strazio e malinconia, la «minima storia» di sua madre, che faceva Elena di nome, nata ultima e indesiderata dopo tredici fratelli e sorelle: ma subito vezzeggiata e amata più degli altri. Il paese campano, all’inizio del novecento, era «scosceso / fra le colline e la valle, / dietro gli ulivi e le selve / di castagne e di abeti», tormentato da dissesti geologici, incuria e povertà. La storia ufficiale veniva subita con rassegnazione, e maledetta: guerre, emigrazioni, fascismo… Ma la bambina Elena cresceva slanciata e dolce, suonava il piano, cantava in chiesa: fino a raggiungere l’età da marito, quindi il matrimonio con uno sposo sempre lontano («L’uomo dagli occhi azzurri / andava per mare, / ritornava distratto, / tornava per ripartire») e la nascita di due figli maschi. Il primo, il poeta che racconta: «A quel bimbo la madre / si mostrò uguale e compagna / nell’aspro amato viaggio / che non s’è ancora compiuto».
All’interno del tanto tempo condiviso dai due si è incuneata la storia di tutti, diventata individuale nel dolore di lutti familiari, stenti economici, sogni disillusi, abitudini domestiche cui aggrapparsi per andare avanti. Cose piccole, che poco aggiungono alla profondità insondabile dell’amore filiale: «Resta una ressa di oggetti, / anche rotti, perduti… E tutto il resto che è stato? / Le ansie, le febbri, i ritorni? / Che n’è delle notti, dei giorni / trascorsi, che delle attese? / … E’ tutto e così poco, / ma questo tempo è dato. / Pure da questo poco / non vuole partire, / se pure è un sogno, un gioco».

Gli anni recenti sono i più penosi, con la madre «curva, rimpicciolita», chiusa nell’egoismo senza parole dei suoi pochi gesti, e il poeta intristito, forse rancoroso: «Il primo figlio, quello / non s’allontana, / entra, socchiude le imposte, / la siede in poltrona, / è quasi vecchio, / si pretende felice, / grida che è stanco, / s’infuria, la maledice».
Un rapporto intenso, sofferto e travagliato, quello tra la madre e il figlio scrittore, se ancora adesso lui si interroga: «Da che può intendere il figlio / se la madre l’ha amato?», e conclude il poemetto con una constatazione angosciata: «Si sono traditi entrambi, / il figlio e la madre».
L’elegante edizione de La vita felice, che in copertina riporta una vecchia fotografia color seppia della madre di Elio Pecora, è corredata da un’approfondita e partecipe nota critica di Gabriella Fantato.

 

«Incroci» n. 29, giugno 2014

RECENSIONI

MARCHESINI

MATTEO MARCHESINI, ATTI MANCATI – VOLAND, ROMA 2013
SOLI E CIVILI – ED. DELL’ASINO, ROMA 2012

Prende le mosse un po’ faticosamente, questo romanzo del giovane e agguerrito critico Matteo Marchesini, ambientato in una Bologna piuttosto provinciale e riconoscibilissima nelle sue strade e nei suoi personaggi, dai più famosi ai più caratteristici nella loro stramba originalità («un teatrino di figure petroniane»). Protagonista e evidente alter ego dell’autore è l’ intellettuale trentenne Marco Molinari, «eccessivo, intricato e sarcastico», «micidiale… e aleatorio», dal «poligrafismo un po’ presenzialista», che accumula sulla sua scrivania libri e articoli, assorbito ossessivamente in un lavoro «che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano». Intorno a lui ruotano poche altre figure: il suo mentore-guru Bernardo Pagi, «l’Adorno delle Due Torri», ritiratosi in un eremo campestre nel tentativo di allontanarsi dai riti vacui e mondani della società letteraria. Il fantasma dell’amico più caro, Ernesto, morto in un ambiguo incidente d’auto, e rivale in amore e nella scrittura, bello-benestante-limpido ma prevedibile nelle aspirazioni e nei comportamenti. E soprattutto Lucia, la sua ex fidanzata, inquieta esploratrice di interessi culturali alla moda: dalla politica solidale delle Ong alla cucina alternativa. Lucia, tornata a Bologna dopo anni di assenza, riprende i contatti con Marco a prima vista per rimproverargli i suoi «atti mancati», le sue disattenzioni e indifferenze nei confronti degli altri e del mondo, la sua «tetragona, cocciuta scelta d’inesperienza». In realtà per metterlo di fronte alla tragedia della sua malattia terminale, dapprima nascosta pudicamente, e poi rivelata nel tragico squallore della chemio, delle operazioni, dell’ indebolimento fisico. Nel rinnovato incontro-scontro tra i due, Marco non riesce comunque a sottrarsi al suo velleitarismo letterario, reso esplicito nei dialoghi spesso artificiosi e costruiti, indicativi di «un’aspirazione pubblica che interferisce con l’ispirazione vera».
Più incisivo e convincente della prova narrativa, è invece l’appassionato saggio letterario di Matteo Marchesini, pubblicato nel 2012 dalle Edizioni dell’Asino.
Nella prefazione Goffredo Fofi indica l’ultimo trentennio di storia patria come contrassegnato «dall’accettazione di una progressiva stupidità collettiva», privo di figure intellettuali e artistiche di rilievo etico o politico, e invece scisse tra potere mediatico-giornalistico e potere cattedratico: comunque imbelli, e prone. A questa estesa categoria «chiassosamente servile» di narcisi da salotto è giusto e necessario opporre personalità «portatrici di una istruttiva diversità», di una strenua e coraggiosa capacità di resistenza all’omologazione, alle blandizie delle vendite editoriali di successo, all’assalto a redazioni e studi televisivi. Così si impegna generosamente e orgogliosamente a fare Marchesini, proponendo alla riflessione dei lettori la rivisitazione dei percorsi di vita e scrittura di cinque intellettuali che hanno inciso, con la loro scabra e indocile moralità e con la loro acuta capacità critica, la storia letteraria italiana del novecento: Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. Sono ritratti ammirati e partecipi di cinque saggisti (e narratori e poeti) «soli e civili», diversi e lontani tra di loro anche nelle esperienze esistenziali e culturali, ma accomunati da una «capacità demitizzante e demistificatoria», in grado di ragionare «sulla storia del loro tempo senza idolatrarla», legati a un’idea di classicismo «dotto e popolare» a un tempo, ma nemico di qualsiasi cerebrale estetismo, e animati tutti dal sentimento imprescindibile della loro finitezza. Un richiamo sintetico e insieme approfondito, questo di Marchesini, alla riscoperta di cinque maestri del pensiero e della scrittura novecentesca che hanno saputo lasciare un’impronta fondamentale (ma troppo spesso sottovalutata) nella nostra cultura.

 

«incroci on line», 25 aprile 2014

RECENSIONI

PICCINI

DANIELE PICCINI, INIZIO FINE – CROCETTI, MILANO 2013

Il titolo di questa raccolta poetica di Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) ben riassume il tema unificante delle varie sezioni: una riflessione pacata, malinconica, di meditativa interrogazione sul significato dell’esistenza, nel suo sorgere e nel suo finire. La morte, quindi, «Solo la morte le contiene tutte / le infinite varianti delle storie», «Pensa: occuparsi solo della fine, / non ingannare o ingannarsi di dare / inizio ad altro che si finga nuovo», «Dopo la morte la vita è un immenso/ geroglifico opaco traversato/ da segni incomprensibili». Morte osservata in un cimitero di campagna o attraverso le finestre di un ospedale periferico, morte incomprensibile e sofferta di una persona amata («ma la morte che toglie via il più caro / è come un buco nella tela, o altro / che si può dire / così: niente è più uguale… // Niente è più uguale, il mondo / pullulante / non sarà più lo stesso senza quello / che non ha avuto il tempo / di darti un solo abbraccio andando via»): ma anche la constatazione della «vanitas vanitatum», del transeunte a cui nulla si sottrae («che cosa può durare? //… il fiore non fiorisce che è già gelo»). A questo destino di consunzione, di annullamento a cui non sfuggono nemmeno gli animali («Il non sapere nulla della morte / non salva gli animali dalla morte»), nemmeno le stelle e l’universo tutto («L’enorme solitudine delle stelle / somiglia forse a quella / d’uomini alla deriva», «stelle morte / che bussano alla porta. / Ascoltale, perdonale»), il poeta vorrebbe contrapporre, come unica ipotesi di salvezza, un ritorno all’origine, quasi uno scorporamento che ci disincarni dalla corruttibilità della materia: «Sempre la scelta è fra venire a riva / e perdersi nel gorgo, / rinunciare, non essere mai nati», «Deve sempre andare avanti lo show? / Fermatevi pianeti, / cessate lune e mondi di ruotare / davanti alla morte della creatura». Rinunciare, ritornare, sono termini ricorrenti in questi versi; l’aspirazione a una libertà che sollevi dal peso vincolante della riproduzione, della nascita e del disfacimento (l’eco dei Four Quartets eliotiani: “In my end is my beginning”…): «Un soffio nel creato, senza centro, / che non leghi più altri alla catena… // una bolla senza più genitura / che le accolga tutte quante le cose/ orfane e smenticate, che le medichi…». Allora l’espediente retorico più utilizzato a ribadire il proprio convincimento, nel desiderio forse inconscio di renderlo più sicuro e incontrovertibile, è la ripetizione: «nel sangue-con il sangue», «era scritto, scritto in cielo», «Guàrdali, guàrdali che si perdono!», «Fa’ che chiuda, fa’ che chiuda le mani». Daniele Piccini, critico letterario e filologo, studioso di poesia medievale e contemporanea, propone un uso consapevole e originale della tradizione, in particolare nella sezione più convincente del volume, Cellule, in cui una trentina di sonetti mascherati, privi di rime, ma aperti tutti da melodiosi endecasillabi, ripercorrono con raffinata eleganza e sospesa delicatezza i temi dell’intera raccolta, un dialogo assorto con la natura e il divino, con la scrittura e il pensiero, il corpo e lo spirito, l’inizio e la fine: «un andare verso, un terminare».

 

«Incroci» n.29, giugno 2014

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COSTANTINI

GIOVANNI COSTANTINI, ATTRAVERSANDO LA SENILITA’ – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2013

Giovanni Costantini è sacerdote da più di cinquant’anni, e ha insegnato al Seminario di Vicenza per nove lustri. Ma da più tempo ancora è poeta, avendo iniziato a scrivere versi da bambino, con passione indefessa e ordinata, con puntigliosa consapevolezza dell’originalità della sua voce.
Nel corso delle sue giornate, quando è libero dagli impegni presbiteriali o di comunità, prende appunti su tutto ciò che legge e impara dal mondo, catalogando il suo sapere in inflessibili schedari. Dopodiché compone le sue poesie: non edulcorate, retoriche o falsamente devote come quelle cui ci ha abituato tanta letteratura religiosa. I suoi versi sono duri, caleidoscopici, quasi apocalittici, mai consolatori: icastici e frantumati anche nella disposizione grafica sulla pagina, sfalsati sul rigo, punteggiati da lettere maiuscole persino all’interno delle parole. Ogni poesia è articolata in diversi brani e chiosata alla fine da didascalie esplicative. Perché si tratta di versi non facili, mai banali, che hanno portato Raffaele Crovi a definire don Costantini «il più grande poeta cattolico italiano».
Senz’altro un poeta vero, e diverso da tutti, che non si rifà ad alcuna tradizione novecentesca. Invece, leggendolo, vengono in mente i Salmi, i Profeti, per il vigore e la luminosità del suo dettato poetico, e per l’infiammata ispirazione che lo sostiene. Quindi, Sacerdos in aeternum, lontano da qualsiasi annacquamento della fede, incastonato pervicacemente nei due millenni della Chiesa, pastore e gregge, ministro e popolo: vocatus da un Dio potente e magnanimo, non solo a una missione clericale, bensì a un compito ancora più esaltante e impegnativo. Cantore della divinità, di Colui che chiama- con termine dedotto dal profeta Daniele, e ripreso da Dionigi Areopagita nelle sue invocazioni- «l’Antico dei Giorni».
Perciò anche Poeta in aeternum, poeta innamorato della Parola, interprete che si muove tra invenzioni linguistiche azzardate e neologismi spiazzanti, in una visionarietà che si avvicina e supera spesso quella dei più infuocati mistici medievali. E come sa leggere la sua poesia, con quale spaventosa forza interpretativa, che quasi intimidisce chi l’ascolta!
In questo libro (delle decine che ha composto, quasi tutti inediti, o pubblicati in tirature limitate) il tema affrontato non è propriamente religioso, ma in qualche modo rimane un tema sacro: la vecchiaia, gli anni ultimi, con le loro miserie e la loro gloria, in una sorta di De Senectute meno apologetica, anzi talvolta crudele ed esasperata. Sono sei capitoli, che segnano un crescendo di significato, dal disfacimento del corpo a una serena accettazione del declino verso la morte, questa «Signora grigia». Niente di più distante dall’età «mollem etiam et iucundam» di ciceroniana memoria, ma semmai, sempre per dirlo con le parole dell’arpinate, «onus Aetna gravius»…
Senectus ipsa morbum, quindi, peso gravoso, a volte repellente, che il poeta Costantini non fa nulla per edulcorare, profumare, relativizzare. La vecchiaia è l’anticamera della morte, qualcosa che ci aspetta tutti e che ci rende menomati, inabili fisicamente, tardi psichicamente, spesso sterili nei sentimenti: Peso a se stessi, come nella prima sezione, in cui è più evidente e penoso il crollo del corpo («sulle ginocchia contorte come pruni», «e le mani si artigliano in silenzio», «dall’obesità si acciabatta dovunque», «d’un solo dente e le gengive a fosse», «S’inunghia in lerce lunule. / La pelle delle mani / a rinsecchirsi. / Via via s’invetra», «Per midolli riarsi / in ossi rosi», «Raffreddandosi adagio: / invetriato nella propria colla», «nella seconda e lenta bavosità».) Sono versi inclementi, spietati, che non ammettono morbidezze diplomatiche. Il vecchio «ingobba», «si rattrappisce», per cui alla fine «Lo inlettano: fagotto / che bofonchia e più stronfia / contro le sponde / a un vaporar di biacca».
La seconda e terza sezione della raccolta sono, se possibile, ancora più feroci, perché descrivono la realtà odiosa degli anziani malsopportati nell’ospizio o a casa. E lo fanno talvolta con macabra ironia, addolorato sarcasmo: «Là se ne sta, / polsi dietro la schiena, / ed altro non gli tocca che guardare», «E le vecchie da aiuti infumiganti / vengono sciacallate / per avarizie vili, morso a morso», «E continua a parlare, / a pronunciare quello che le sguscia / dalla testa decrepita», «Oggi il progresso, con l’antilingua sua, / case-alberghi le chiama. / E nel mangiare muto / soltanto lo stonare dei cucchiai». Infermieri, parenti e volontari assistono come possono, spesso controvoglia o per un malinteso senso del dovere: «gli interi sindacalizzati / si sentono al sicuro da qualunque eroismo», «Infermiere che sbagliano dentiere», «intolleranza d’infermiere / che traleggono farmaci scaduti, / ansiose d’una rapida agonia».
Il poeta e sacerdote si commuove nel seguire l’anziana che al ricovero sbaglia stanza, aspetta la visita dei nipotini, o i coniugi che si fanno compagnia fino all’ultimo respiro e poi sconsolati si lasciano morire. Sorride al ricordo di un’ottuagenaria che si innamora del suo medico, confondendolo con il fidanzato di settant’anni prima. O ancora ironizza sui vecchi che si imbellettano ridicoli per mascherare l’età, o si prestano ai media ringalluzziti da una parvenza di successo: «Oh qualcuno s’illude di servire, / che so, al mercato della pubblicità. / Rampante a sabbiature / o, almeno, d’una colla per dentiere».
Lo «spensiero debole» dell’odierna civiltà dei consumi sfrutta i corpi e le anime fino a un’indecorosa solitudine pre-morte («Negli Usa e getta / settantamila abbandonati l’anno», «Più questo mondo d’atei / gli rifiuta la Pietas degli Antichi Pagani»). Oppure la «nuova Gerontocrazia» insegue il mercato delle Pantere Grigie con proposte indecorose di viaggi e divertimenti adolescenziali, o proponendo «farmaci / che illudono al durare / dell’eros quei decrepiti: /spettacolo penoso».
Cosa rimane a questo punto, per non atrofizzare del tutto l’umanità che ci resta a disposizione, per recuperare un rispetto e una solidarietà troppo spesso sviliti e calpestati di fronte alla debolezza del senescente? Aiutarli a risvegliarsi,  Ringiovanire, propone il poeta, esorcizzare la vecchiaia recuperandone la dolcezza e armonia: «La libertà verace di dedicarsi / al pensare prudente», rincorrendo «la verità struggente / del ricordare… / lungo i sentieri della curiosità / di sua trepida infanzia».
E l’esortazione che ne deriva è vitale, concreta: «Non elogiare quei bei tempi andati; / il presente è il tuo tempo, / stolto che ti martelli nell’inerzia», «Sgàngati alla ventura / d’ogni giorno donato».
Il  Viaticum dalla vita è, nell’ultima sezione del volume, un discreto e saggio accompagnare i giorni dell’ombra verso il declino finale: «Qualsiasi senescenza / sprofonda adagio, d’occhi cimiteriali / che imbuiano più fissi». Accettare, quindi, che la ruota giri per tutti, lasciare posto ad altri che verranno ad occupare il nostro posto, senza assurde ribellioni o poco dignitosi infingimenti.
I versi qui assumono una sentenziosità proverbiale, gnomica: «Stolta la voglia di restare giovani / e vani gli esorcismi contro il morire». E l’ uomo di Dio fa sentire la sua voce più potente e pregna di fede : «L’arte dell’adattarsi a quel che accade, / perché vi è la fessura / per cui l’Eterno irrompe… // Rassegnarsi a invecchiare: / l’unica strada per un cammino lungo / fino a varcare / esattamente all’Oltre», «Con te, Sposo, Volatile / lo Spirito s’inAngela un istante».
Il lettore si sarà accorto e avrà apprezzato il linguaggio poetico di don Giovanni Costantini, così coraggiosamente innovativo e inventivo, quasi privo di rime -considerate espediente letterario troppo facile e abusato – ma ricco di neologismi, di vocaboli volutamente storpiati o desueti, a rincorrere un senso più profondo della parola, volta a sferzare occhi e orecchi abitudinari e pigri, a pungolare un interesse troppo spesso scialbo e viziato dalla consuetudine in chi si confronta con la poesia.
E avrà modo, leggendo questo libro così compatto e coerente, di riconoscere un poeta importante e purtroppo sottovalutato, che oltre ad una consistente operazione di novità nel linguaggio, propone contenuti di solida rilevanza, con voce cristiana di antica pietà , facendo eco al Salmo 92 : «Nella vecchiaia daranno ancora frutti».

 

Prefazione al volume

RECENSIONI

SARAJLIC’

IZET SARAJLIC’, CHI HA FATTO IL TURNO DI NOTTE – EINAUDI, TORINO  2012

Izet Sarajlic’, nato nel 1930 e morto nel 2002, è stato forse il più noto poeta bosniaco del 900, grazie anche all’immediatezza della sua scrittura, lontana da ogni intellettualismo e artificiosità letteraria. La sua esistenza ha attraversato due guerre sanguinose, la seconda mondiale e quella della ex Jugoslavia, perdendo in esse parenti stretti e amici cari, abitazioni e sicurezza economica, libri e pagine scritte. Ma nei suoi versi parla di queste tragedie con una sorta di pacata accettazione, accentuando soprattutto l’aspetto sentimentale dei suoi rapporti umani, la vitalità degli affetti che perdurano anche e nonostante i cataclismi storici. Così, il fil rouge che segna i cinquant’anni della sua poesia è senz’altro l’amore unico e insostituibile per la moglie, dagli anni giovani alle visite bagnate dalla pioggia alla tomba di lei, in versi commossi: «Un immortale agosto ti ha portato nelle mie ballate», «al cinquecentesimo chilometro dell’amore / ti amavo esattamente come al primo», «da quando sei andata via tu / è come se fosse andata via anche la città», «Cosa facevo io mentre durava la storia? / Mi limitavo ad amare te».

Talvolta tuttavia eccedendo in qualche banalità, od effetto troppo facile: «In questa tristezza che ci opprime entrambi, / e io piango, piango, piango, / perché sono tempi duri per l’amore, sempre più duri», «In quest’anima si è ammucchiata / tanta tristezza, /tanta delusione, / tanta amarezza, / tanta disperazione», «Oggi per me è importante ogni giorno / in cui ti posso guardare».

Alcune sue soluzioni stilistiche potrebbero ricordare Prévert, o un nostro Saba alquanto diluito: manca del tutto il senso del tragico, e ogni descrizione appare sospesa in una levità lontana dalle passioni. Quindi anche Auschwitz e Sarajevo sono vissute attraverso le sofferenze particolari di una sola anima, e non dei destini collettivi di un popolo. Qualche accennata ironia si riserva alle incongruenze e al conformismo della cultura letteraria, mentre il rimpianto è tutto per il tempo dei sentimenti che fugge: «La vita è trascorsa, e se ne va via. / Resta da scriverci una poesia», «L’epoca della grande arte è passata. // Io / almeno / c’ho vissuto dentro». E rimane comunque in chi legge questi versi l’impressione di cantabilità e semplicità eccessive, di un sentimentalismo esibito, di un consapevole e orgoglioso rifiuto dell’elaborazione linguistica, quale invece si presuppone in un poeta contemporaneo. Erri De Luca, nella sua partecipe prefazione ( in cui come sempre riesce a parlare di se stesso anche quando deve parlare di un altro) afferma: «In un poeta cerco, esigo che la sua vita sia all’altezza della sua pagina»». Giustissimo: ma anche la pagina deve essere alta.

 

«Atelier» n.65, marzo 2012

RECENSIONI

PESSOA

FERNANDO PESSOA, POESIE – NEWTON COMPTON, ROMA 2014

In una curata veste grafica con testo portoghese a fronte, e ad un prezzo addirittura risibile, l’editore Newton Compton propone ai lettori una cospicua scelta della produzione poetica orto-eteronima di Fernando Pessoa (1888-1935). Orietta Abbati ne ha curato con appassionata partecipazione sia la documentata nota biobibliografica sia l’approfondita introduzione, mentre a Piero Cacucci è stato affidato l’incisivo commento finale, indagante lo sguardo metonimico su interno ed esterno dell’esistenza e dell’ideologia pessoana, simboleggiato dalla persistente metafora della finestra. A entrambi gli studiosi si deve la traduzione dei testi. Ne  Il libro dell’inquietudine, sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, così Pessoa descriveva la frantumazione identitaria che albergava nella sua interiorità: «La mia anima è una misteriosa orchestra: non so quali strumenti suonino e stridano, dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco solo come una sinfonia». E a questa sinfonia, a questo suo teatro mentale, offrivano le loro voci tre controfigure poetiche, con caratteri, timbri e vicende esistenziali assolutamente diverse e originalissime: Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos. Il volume in questione ne testimonia la grandezza e la peculiarità stilistica e ideologica: a cominciare dal primo eteronimo, quell’Alberto Caeiro presente con ventuno componimenti, e considerato il maestro degli altri due. Una sorta di autodidatta rurale, orgogliosamente privo di ogni speculazione metafisica, immerso paganamente nello splendore della natura, e fedele solo al richiamo delle sensazioni. Proprio all’innocente esperienza sensoriale, infatti, Caeiro demanda la possibilità di conoscere il mistero della vita e dell’anima umana: «Sono un pastore di greggi. / Il gregge è i miei pensieri / e i miei pensieri sono tutti sensazioni. / Penso con gli occhi e con gli orecchi / con le mani e con i piedi / con il naso e la bocca. // Pensare un fiore è vederlo e odorarlo / e mangiare un frutto è saperne il senso».

Agli antipodi si pone la lezione estetica del secondo eteronimo, Ricardo Reis, che costruisce con rigore neoclassico una poesia antimodernista, modulata sulla lezione degli antichi, in particolare di Orazio. Equilibrio e misura sembrano essere le parole d’ordine della produzione reisana, insieme a un’istanza pedagogica tesa a educare alla saggezza epicurea dell’atarassia: «Oggi, quali servi di lontani dèi, / in casa d’altri, senza il giudice, / beviamo e mangiamo. / E domani accada quel che accada». Il terzo membro della famiglia eteronomica, Álvaro de Campos, si staglia imperiosamente nella sua singolarità di ingegnere navale innamorato della modernità e del progresso, da lui trionfalmente esaltati con espressioni iperboliche e deflagranti, secondo il suo dettame di dover «sentire tutto in tutte le maniere», «O ferro, o acciaio, o alluminio, o lastre di ferro ondulato! / O moli, o porti, o treni, o gru, o rimorchiatori! // Ehilà grandi disastri ferroviari! / Ehilà crolli di gallerie di miniere! / Ehilà deliziosi naufragi dei grandi transatlantici!…». Questi tre specchi deformanti del sentire poetico di Pessoa trovano una loro ricomposizione nelle sue poesie ortonime, caratterizzate da un’angoscia esistenziale indicativa della sua complessa interiorità spirituale e intellettuale: «Ho graduato le influenze, ho conosciuto le amicizie, ho udito, dentro di me, le discussioni e le divergenze di opinioni, e in tutto questo mi pare che sia stato io, creatore di tutto, ad essere il meno presente. Mi sembra che tutto sia avvenuto indipendentemente da me. E mi sembra che ancora avvenga così».

La disgregazione del soggetto, il crudele processo di spersonalizzazione e il conseguente anelito alla simulazione e contraffazione, vengono evidenziati in versi quasi programmatici: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che giunge a finger che è dolore / il dolore che davvero sente», «Sono una vita oscillante / sulla coscienza d’esistere», «Oggi che estraneo a tutto e a me stesso, / posso, alla luce del dì vasto e ricco, / verificare che fui uno a casaccio, / è ancora a casaccio che lo verifico. // Tutto è estraneo; quanto sono o fui / un altro da me e senza me sospinge». Ecco quindi che la poesia pessoana diventa emblema e simbolo della devastante crisi filosofica e ideologica che interessò le coscienze e la produzione artistica mondiale nel XX secolo, incarnandone la sofferenza e l’ambiguità.

«Poesia» n.298,  novembre 2014

RECENSIONI

MAGRELLI

VALERIO MAGRELLI, IL SANGUE AMARO – EINAUDI, TORINO 2014

Il sangue amaro di Valerio Magrelli, che esce a otto anni di distanza dal suo ultimo volume, è una raccolta estremamente articolata e varia, sia nei contenuti sia formalmente. Suddivisa in dodici sezioni, spazia dal privato al politico, dalla religione alla denuncia civile, dalla polemica letteraria alla riflessione filosofica. Lo stile sa adeguarsi plasticamente ai temi trattati, sia utilizzando metri e formule tradizionali (sonetti, endecasillabi, epigrammi: con un ricorso più esplicito che nel passato alla rima, sfruttata non solo ironicamente), sia servendosi di curiosi stratagemmi quali le sciarade e finti rebus, o inserti prosastici e narrativi. In maniera decisamente meno cerebrale e oscura che nelle precedenti prove, qui l’ansia comunicativa del poeta diventa più esplicita, segnata dalla risentita amarezza nei riguardi della società e del mondo cui fa riferimento il titolo. «Io mi faccio il Sangue Amaro. / E’ una specialità della casa, sin dal lontano 1957»: così nell’ultima sezione, dedicata a un se stesso depresso e immalinconito, talvolta rabbioso («Mia debolezza, debolezza mia //… la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi, / e in questo Grande Sfascio…», «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza», «Sopporto le ingiustizie dalla nascita / a cominciare ovviamente dalla nascita. / Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, necroburi, ogni variante dell’illegalità…»). Aiutarsi medicalmente non basta («Queste che prendo gocce / con tanta religiosa compunzione…»), se lo spettro della morte attanaglia pensieri e cuore («Qui, tutti noi aspettiamo / sulle rive del Nihil»; «Poi, di colpo ho capito che il problema non è morire, ma rimanere soli nella morte»), attraverso le sembianze di una futura malattia neurologica o della insopportabile separazione definitiva dai propri cari. E’ proprio dagli affetti familiari che può arrivare l’unica redenzione, e quindi i versi più inteneriti del volume sono quelli rivolti alla figlia («Ho una figlia che ha voglia di cantare / e canta. / Può bastare»), al figlio che studia Dante sotto la doccia, e alla moglie, nella splendida sezione La lettura è crudele. Dove la constatazione banale che quando la persona amata e vicina si immerge nella lettura, inevitabilmente si allontana da noi (precipitandoci in una solitudine -vuoto, silenzio, abisso, distanza, vertigine, paura, sono i ricorrenti termini chiave- che è sostanzialmente estraneità, irraggiungibilità), sembra far precipitare il poeta in un’angoscia senza scampo («atterrito e remoto, separato, / legato alla vertigine che amo, / se amore è la distanza che ci chiama e insieme la paura di varcarla»). Paura che torna anche in un altro capitolo del libro, kierkegaardianamente intitolato Timore e tremore, e aleggia ovunque, intrecciata a sentimenti di rivolta e rifiuto nei riguardi di ogni bruttura e ingiustizia, naturale o sociale: quindi verso le infermità dei bambini handicappati, i morti della Thyssen, gli incidenti stradali, i giovani disoccupati, i balzelli fiscali, le disonestà finanziarie, le dittature telematiche («La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi»), i ladri che penetrano in casa, gli uccelli che entrano dalla finestra («Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato»), lo sfacelo urbano, le latrine insozzate di una Roma pasolinianamente suburbana, o zingaresca. Non si salva nemmeno Dio, in questa rappresentazione negativa dell’esistente, nelle sue epifanie natalizie desolatamente commerciali, o nella corruzione istituzionale della Chiesa: «reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione», «Tutti noi siamo vittime di una chiesa delebile, / priva del vero inchiostro della sua verità». Una geremiade sconsolata, con toni di pessimismo leopardiano: «Non la Crocefissione, ma la Culla // è segno di martirio, lutto, scandalo». La stessa diffidenza Magrelli sembra nutrire anche riguardo al suo campo d’azione più proprio, la letteratura («il linguaggio / ha innanzitutto lo scopo di nascondere», «O forse sono cavie, queste poesie che scrivo»), e pare attenuarsi solo nella descrizione attenta di alcuni aspetti della quotidianità (gesti, rumori, oggetti, musiche), o nella descrizione della natura. Così, nella sezione La lezione del fiume assistiamo a un partecipe omaggio, a una convinta celebrazione del fenomeno acquatico, dal lavaggio dell’auto all’intrico delle tubature sotterranee, dalle sorgenti agli argini, dai ponti ai canyons, alle dighe, ai pesci: nel calore estremo come nel rigore dei ghiacci.
E nei Paesaggi laziali una nota nostalgica e quasi idilliaca riconcilia il poeta con il bene, e non più con il male, di vivere: in una delle poesie più delicate e commosse della raccolta, Principe delle Volpi!, riemerge dal passato la figura proletaria di un amico adolescente dal «sorriso mite», regale come un elegante nobile russo, che avanza nell’incenso di copertoni bruciati in periferia, reso salvo dal «sacramento / di un’Aristocrazia nata dal cuore».

 

© Riproduzione riservata       «Nazione Indiana», 16 marzo 2014

RECENSIONI

LANARO

PAOLO LANARO, POESIE DALLA SCALA C – L’OBLIQUO, BRESCIA 2012

Delle sei sezioni che compongono questo elegante volume di versi, pubblicato da una piccola casa editrice bresciana, le prime due – Qui Rebus – sembrano dare l’impronta più profonda e caratterizzante all’intero corpus delle composizioni.  Rebus in realtà è un capitoletto di una settantina di illuminazioni in prosa, brevissimi brani che tanto si avvicinano alla poesia nel delineare con tenerezza e pudore la figura del padre dell’autore, ragioniere ed ex prigioniero di guerra dotato di «un senso appropriato delle relazioni, una sorta di costruita politesse». Un uomo anziano, garbato, che si sorveglia nei rapporti col mondo e con il suo inarrestabile, crudele tramonto fisico («Cammina con difficoltà. Dice: tanto, dove vado?»), un piccolo-borghese che passa il tempo a guardare fuori dalla finestra o a risolvere i rebus, a collezionare francobolli, rassegnato a una sorta di non vita e alla fine che si avvicina («Scivoliamo via lentamente»), fine che il figlio scrittore chiosa con una domanda crudele e retorica insieme: «Dunque in che modo termina la bellezza?». Alla bellezza Paolo Lanaro, poeta schivo e delicato, dedica i suoi versi migliori : «Ho visto il ricordo tramutarsi / in un frammento di bellezza», e sembra assaporarla in sorsi brevi, quasi con timore di sciuparla. La trova nei gesti minuti quotidiani, nei pensieri che si affacciano timidi e balenanti, in memorie sfocate, negli incontri più banali. O in affetti ( la moglie, i figli, i vicini della scala C) che non diventano mai passioni, ma servono comunque per andare avanti. Così come ancore di salvezza sono le cose piccole che ci circondano, e a cui non si presta mai abbastanza attenzione: l’erba, i fiori sul balcone, i mobili consunti, gli animali: «C’è da chiedersi come si potrebbe / essere amici di un uccello. / Come si fa a incontrarsi a una certa ora, / prestarsi le cose, dirgli che l’erba ci piace?», «Un giorno la lampadina scoppia, / lasciando il ricordo della luce». Sono gli eventi miracolosi e quasi inavvertiti che riescono a dare il significato più vivo all’esistenza: ««Un sasso schizza sul parabrezza, / frantumando la luce in piccolissime / fibre cieche. C’è un esito / delle cose che nessuno si aspetta». Niente ha più valore che trascorrere la giornata in un rituale semplice di azioni ripetute, come nella struggente poesia : «Che c’è da dire?», scandita da successivi «dopo» che elencano i gesti più triti insieme al passare delle ore, al modificarsi dell’ambiente esterno, al succedersi di pensieri e sentimenti diversi nel proprio intimo. Dunque, la filosofia che sorregge la vita non ha più nulla di ideologico, non combatte più con speranze, illusioni o lotte: «Tra un po’ seminerò l’asteria e il rosmarino. / Ormai credo soltanto a questo: all’erba / che germoglia al chiaro di luna, / che cresce e non ha nessuno scopo / salvo il suo splendore». E questo lasciarsi vivere, osservando ciò che intorno ci rassicura della nostra stessa esistenza, diventa una dichiarazione di poetica e di fede: «Questo non è che l’inizio di una serie / di piccoli fatti sconosciuti. // Il tappeto con un angolo sdrucito, / il barometro stabile, il ronzio del frigo… // Quando infine si risolve tutto / ascoltando il fragore del vento, // tagliandosi la barba, spazzolando / le scarpe, facendo pulizia».

E ancora «Mi sono successe varie cose / nelle ultime ore. // Infine è sceso il silenzio. Il lungo, infaticabile / coro del silenzio delle nuvole e della luna». I poeti amati, soprattutto i classici  (Orazio, Virgilio, Persio) fanno compagnia, così come alcuni contemporanei per cui si scrivono omaggi: ma sembra comunque che anche questo non basti, perché «Tutto scorre. Noi e anche voi, naturalmente. / Anche adesso. Anche senza saperlo». E una presenza femminile che avrebbe potuto offrire salvezza se ne è andata insieme agli anni giovani («Ma quali guinzagli ci volevano / per impedirti di fuggire? / E adesso quale lingua parli nel buio?»). Per cui non resta che rassegnarsi all’attesa, in compagnia della pioggia, degli abiti che indossiamo, degli oggetti cui ci aggrappiamo, per raggiungere la sola meta concessa: «Una sfatta dolcezza della mente».

 

«Poesia» n. 277, dicembre 2012