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RECENSIONI

LA PORTA

FILIPPO LA PORTA, POESIA COME ESPERIENZA – FAZI, ROMA 2013

Un’antologia felicemente sbilanciata, sfrontatamente parziale nelle proposte, anticonvenzionale nei commenti, quella firmata dal critico Filippo La Porta per le edizioni Fazi. Ma si tratta con evidenza di una scelta programmatica, esplicitata già dal titolo: l’autore offre a chi legge, in particolare ai più giovani, un percorso di arricchimento culturale ed emotivo sulla base della sua esperienza di lettore innamorato della poesia, che ha eletto i suoi maestri di vita e di pensiero tra chi ha scritto in versi. I poeti rappresentati appartengono tutti alla storia, essendo morti chi da secoli e chi da anni: poeti ormai considerati “classici”, avvolti da un’aura di condiviso rispetto e ammirazione. Ci si potrebbe interrogare sul motivo di alcune originali inclusioni (Poliziano, Marino, Metastasio e gli spesso snobbati Carducci e Cardarelli), o su ancora più clamorose esclusioni (la linea lombarda, lo sperimentalismo, Luzi, la forse già troppo osannata Marini tra gli italiani; la Dickinson e Rilke tra gli stranieri). Ma La Porta ha inteso proporre i “suoi” poeti, nelle liriche più rappresentative, da Dante alla Szymborska: quelli che ha amato e che gli hanno offerto più stimoli intellettuali e “sentimentali”, e lo ha fatto partendo proprio da se stesso, dai suoi ricordi ginnasiali, dalle musiche ascoltate e dai film visti, dalle esperienze di lotta politica e dai primi timidi tentativi di composizione poetica personale. Non teme, quindi, di esporsi in giudizi anche perentori e poco prudenti su singoli autori, di cui spesso dà definizioni icastiche e memorabili (Tasso: «poeta della vita che dilegua»; D’Annunzio: «professionista dell’ineffabile»; Penna: «poeta fuori della storia… poeta inafferrabile»; Baudelaire: «intrepido maestro di moralità»; Rimbaud «un progenitore di Céline»). Non nasconde nemmeno i suoi dubbi sull’onestà intellettuale e sulla validità letteraria di poeti celebratissimi (Pasolini: «ha provato e riprovato a esprimersi poeticamente… riuscendovi solo a tratti»; Brecht: «una morale un po’ filistea e accomodante»). Da critico indipendente qual è, esibisce festosamente i suoi entusiasmi (Rosselli, Withman, Stevens, Vallejo, Szymborska) e si sbilancia fino a definire Caproni «il poeta italiano più importante della seconda metà del secolo scorso», o a suggerire un paragone tra Keats e i «giovani déracinés» del ’68, e a indicare Carmelo Bene come massimo interprete di Dino Campana. Ma ciò in cui più si manifesta il suo appassionato fervore è nella ribadita ricerca di una definizione estetica ed etica della funzione della scrittura in versi: «La poesia è pedagogia dello sguardo», «la poesia come spazio utopico, ‘antiutilitaristico’, è la posizione più ‘sovversiva’ oggi immaginabile», «non consiste in un linguaggio speciale, anticomunicativo, costitutivamente diverso da quello quotidiano, o in un gergo oscuro, autosufficiente, aggressivamente incomprensibile», «non è tanto spazio dell’irrazionale e dell’orfismo quanto pensiero concentrato, filosofia miniaturizzata»; il suo linguaggio privilegia «la non linearità, la velocità, l’essenzialità»; il suo ruolo è «mescolarsi al proprio tempo, alla contemporaneità, pensare a ciò che nel presente incombe su di noi, alla storia, incontrare le persone comuni». Polemico contro quella «corrente unica, a impronta simbolista» che ha costretto la poesia novecentesca in un conformismo oscuro, elitario e intransitivo, La Porta rivendica una lingua poetica in grado di diventare «conversazione, teatro, apologo, documento, collage, reportage, ritratto»: una lingua capace di sporcarsi, di corrompersi, anche quando si innalza a vertici di contemplazione, immaginazione e spiritualità inauditi. Celebra così la vitalità della poesia «che si oppone al nulla, un surplus immaginativo, percettivo che forza il senso ordinario, desolatamente univoco, delle cose fino a scoprirvi sensi ulteriori e analogie invisibili», e che «scompiglia la nostra idea convenzionale delle cose, che dissolve le divisioni artificiose, che disinnesca strategie e calcoli del potere, e che ci mette in sintonia con un ritmo più ampio, e imperscrutabile, del cosmo». Poesia, quindi, come pacifica ma radicale rivoluzione dell’anima, dello sguardo, dell’esistenza individuale e collettiva.

 

«L’Immaginazione» n. 280, marzo 2014

RECENSIONI

ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, L’INVASIONE DEI GRANCHI GIGANTI – MARIETTI, MILANO 2010

Che felice sorpresa, la lettura di questo sottile e resistente (nel senso di compatto, forte e sicuro della sua voce) libro di versi del giovane poeta e critico Federico Italiano: così fieramente lontano da stili e contenuti imperanti nella flebile, introspettiva e generica produzione letteraria dei suoi coetanei. Italiano ha qualcosa da dire, finalmente, ed è completamente padrone dei mezzi a sua disposizione per dirlo. Forse perché vive e lavora, occupandosi di arte-filosofia-scienza, tra Monaco e Vienna, estraneo quindi al provincialismo culturale della nostra penisola; o forse perché quotidianamente si misura con un’altra lingua, razionale e dura come il tedesco. Le elogiative parole che gli dedica Davide Rondoni nella quarta di copertina suonano quasi inadeguate, minimaliste: «una possibile epica… la possibile letizia… misteriosa grazia e libertà…».
Qui in realtà siamo davanti a qualcosa di diverso e di nuovo, a un poeta che riesce a scrivere di una quotidianità fatta di gesti concreti, di osservazioni puntuali sulla realtà, rifiutando qualsiasi edulcorante retorica. I ritratti dei personaggi, ad esempio, che ce li restituiscono nella loro disarmata e compiuta interezza (l’ostetrica del paese, il giocatore di scacchi siriano…).
O i ricordi, mai autocelebrativi, mai nostalgicamente commossi: (il terrificante crocefisso della stanza dei giochi, il dopobarba del papà tornato dal suo lavoro in Africa, l’alba traslunata di Miami…). Italiano parte dalla vividezza di un particolare, per poi risalire con intelligenza descrittiva alla costruzione di un episodio in cui la poesia si cala proprio per la sua peculiare e straniante unicità. I versi raccontano squarci di vita vissuta, con la tranquilla limpidezza di una narrazione che sa farsi immagine quasi filmica, come nella descrizione di una notte nordica in cui gli addetti alla nettezza urbana spargono le strade innevate di sale e terriccio: «Rincasavo con lo sguardo sbilenco / ondulante tra i miei passi e le luci / delle poche finestre accese, quando // un camion evacuò ghiaia rombante / alle mie spalle…»
Uno stile molto personale, che aderisce al concetto, non si lascia sedurre dalle sirene di musicalità obsolete, o dai tentacoli di una tradizione asfissiante. E sa misurarsi con la storia, quella addirittura universale, tellurica, che osserva con l’intatto stupore e con la curiosità scientifica dello studioso: e con le storie private della sua esistenza, gli incontri, i viaggi, gli amori. Vicende sentimentali raccontate con asciuttezza ed ironia («Relazione lessicale, la nostra, mio melograno, / mio polipo, culinaria, hai sempre amato / una certa alchimia da fornello. / Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente / ternaria, indeuropea»), e autoritratti che nulla concedono al compiacimento egotistico: «Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut». Una volta tanto, quindi, nella nostra poesia, un autore non mette in primo le venerate pieghe e piaghe della sua anima, ma la scienza (ad esempio), scandagliata nei suoi esperimenti e laboratori, con studiata applicazione nei riguardi del mondo animale (granchi, ostriche, làdani, mustelidi, lombrichi…). La geologia, testimonianza evidente e innegabile della nostra insignificanza di fronte al rincorrersi delle ere («… il progetto orografico del Buon Dio…  il cuore lo fissai al testo dei miei fossili»). E soprattutto la storia del mondo, che tutto trasforma, macina, inghiotte, confonde. Come nel poemetto  I Mirmidoni, in cui un gruppetto internazionale di giovani in un caffè di Monaco amoreggia, spettegola, sbevazza: involontari eredi e professionali comparse dei guerrieri greci, spettrali nei loro scudi, gambiere, archi e spade. O nella prima sezione del volume, forse la più interessante, in cui si ipotizza (o si vagheggia?) un’ inarrestabile invasione di rospi, locuste o granchi giganti che da chissà quali sconosciuti antipodi dilaghi nel mondo occidentale, mettendo fine al suo degrado morale, civile e ambientale: «Popolo che muovi sotto le acque, prelibata / carne della distruzione, migrazione / disgiuntiva della ricchezza / bilancia del consorzio umano, inconsapevole / armata della storia, / moltìplicati, / perché la piaga sia piena e la punizione completa». Profezia visionaria di una lucidissima coscienza poetica.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

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GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, STROFE PER DOPODOMANI – EINAUDI, TORINO 2011

Quando la poesia ha davvero qualcosa da dire, da raccontare, allora trova sempre le parole più giuste per farlo. E sono parole oneste, ricche di echi interiori, e insieme specchi di vita concreta, reale, carica di pensiero ed emozione. Così sono i versi di questo volume di Durs Grünbein, sintesi di due raccolte pubblicate in Germania, tradotto con fedele originalità da Anna Maria Carpi: si tratta di un poeta che vivaddio non si vergogna di scrivere ancora poesia civile, di parlare della storia di tutti e della sua personale immersa però in quella del mondo, di celebrare l’amore senza retorica ma anche senza stanchezza, di tentare persino una definizione estetica della poesia: «Filosofia in metrica, musica / d’allegri salti / da parola a cosa. // La miglior guida, al momento dell’esodo da questa / notte umana». E tuttavia la scrittura rimane solo un surrogato della vita vera: «Fratelli, lo sapete, anche se a volte prende il volo un verso, / subito atterra. E nulla contiene la fossetta del mento. / Si dà per qualche istante che un cervello si stringa a un altro – / ma che c’è nelle sillabe se non io sono, io sono?» Eppure questo “io” del poeta sa farsi voce universale, sia quando racconta dei suoi nonni proletari, o delle sue vacanze sentimentali in un’Italia antica ed eterna («Se non era amore quello, noi non siamo mai esistiti»), o del parto difficile della sua bambina («Die so sehr Gewollte – la voluta tanto»). Ma soprattutto se narra, lui nato a Dresda nella DDR, e oggi residente a Berlino, dell’epocale trasformazione politica vissuta dal suo paese: «Com’era bello vivere quand’era tutto male, / case in rovina, sotto le betulle materassi a bollire. / Un’infanzia fuori Dresda fino all’occupazione di Praga… / E il sogno restaurava quel che fuori mancava. // Polvere o foschia o fuliggine – l’animo presto oppresso / dal paesaggio intorno, caratteri di piombo, stampa in grigio».

Un’infanzia bigia, in trappola, con ribellioni sognate in periferie operaie rassegnate e impaurite, senza dei e con scarse utopie «Che soluzione? Qualche trucco sì, si sapeva. / Poi passarono gli anni. Dell’umano restò l’idea, / non metà, non intero, una frazione», «Pesante l’aria, in compenso si stava più vicini. / Si mangiava male e abbondante». Era un universo, quello comunista di «dogmi arrugginiti»: «Be’ certo, gli affitti erano bassissimi». Ma adesso, nella Germania capitalistica e multiculturale, libera e impietosa? «La raccolta rifiuti è puntuale. Sia lode al sistema, / ora lo sciopero si chiama sciatteria. La città mette su pancia». Eccola, allora, «Berlino, questo mostro», «quest’alito di metropoli che desta compassione»: il poeta Gruenbein diventa «il testimone non richiesto», il «sopravvissuto» che afferma «A ogni rovescio mi è più familiare il mondo». Per cui il futuro si materializza in un dopodomani minaccioso quanto il passato, o addirittura irreale: «E’ il 40 d’aprile, un giovedì. / Compagno, il tempo è pazzo, / la paura ti attanaglia». I contorni del mondo si fanno incomprensibili, il suo progredire nel tempo imprevedibile e irreparabile, prendono piede il «distacco da me e da tutti gli altri», la moderata disperazione, l’aggrapparsi alle storie del mito, o all’incredibile leggerezza delle risate infantili. Perché noi, gli adulti, che ci illudiamo di fare la storia, di creare cultura, «dentro pesiamo come bolle di sapone», e il nostro io è ormai diviso. «Non parte da lui una crepa che attraversa il mondo?». Eppure il peso di queste lucide parole resta. La loro verità, anche se relativa, salva ancora. E hanno coraggio di continuare a pronunciarla, magari con meno ottimismo, ma con tenace ostinazione.

 

«Poesia» n. 268, febbraio 2012

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CASATI

ANGELO CASATI, LE PAURE CHE CI ABITANO– ROMENA, AREZZO 2011

Quante e quali sono le paure che abitano i nostri cuori, e ci chiudono al mondo, ci paralizzano, limitandoci nelle nostre espressioni, nei comportamenti, nella stessa adesione al semplice esistere?
Don Angelo Casati ne elenca undici, e a ciascuna di esse dedica riflessioni di «tenerezza e fermezza», come suggerisce la partecipe presentazione di Rosa Siciliano. Sono paure ataviche e accecanti, come quella di vivere o di morire. La prima ci blocca nell’affanno quotidiano, quando ci dimentichiamo che Dio si occupa di noi, ha cura delle nostre giornate ansimanti («il preoccuparsi è segno di stoltezza: puoi forse aggiungere un’ora sola alla tua vita?») Mentre dovremmo «ritornare a incantarci per l’oltre, per il volto che abita le cose e le fa dono… L’incantamento viene da un indugio, da una capacità di sostare… la fretta che ci consuma è parente stretta della voracità…» La seconda paura, che ha le sembianze dell’angoscia heideggeriana, e ha avvinto per poco lo stesso Gesù nel Getsemani, è la paura di morire, di non essere più, di finire con l’ultimo sospiro esalato. Per vincerla dobbiamo lasciare «lungo la strada il pomposo mantello dell’egoismo e indossare quello della compassione… L’amore non sta in una tomba, ha passi di vento…» Le parole delicate e convinte di Don Casati sanno rivestirsi di poesia, e infatti ogni capitolo del suo libro si apre con dei versi, che non hanno nulla della falsa bonomia di cui sono animate spesso le poesie religiose: sono drammatici e scabri, lontani da ogni retorica. Se dunque «neanche la morte, all’apparenza così vincente su tutto e tutti, può cantare vittoria sull’amore, ne esce sconfitta», ecco che ognuno di noi ha un motivo in più per non cedere alle altre paure: dell’inedito, dell’altro, di amare, di essere liberi, di pensare, dell’insicurezza. L’invito pressante dell’autore è a saper osare, innamorandoci della nostra libertà: dobbiamo sconfinare da noi stessi, imparare a essere visionari, superando le barriere delle architetture interne ed esterne ai nostri cuori. È questa libertà che il potere (anche quello ecclesiastico! aggiunge coraggiosamente Don Casati) teme: «meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti». Ma il volume affronta e demolisce anche timori meno scontati, come quelli della mitezza e della fragilità, «nella stagione dell’urlo» che viviamo e in cui «incenerire l’altro sembra ormai il sogno estremo». Eppure, il rabbi di Nazaret ( che è entrato a Gerusalemme su un umile asinello, che ha lavato i piedi ai discepoli…) ha promesso che saranno i miti ad ereditare la terra, cosa che spesso dimenticano anche le gerarchie della Chiesa: «Quando una chiesa dimenticò il grembiule e indossò le modalità dell’impero, cancellò dal mondo la notizia buona, divenne ovvietà sulla terra… fino a una sacrilega identificazione con le esibizioni, i riti, le macchinazioni del potere».

Ritrovare coraggio, quindi, e dolcezza consapevole: fidarsi di un Dio che è guida e tenerezza, amare la bellezza come anche la mancanza di bellezza, la luce come le ombre, il volto dell’altro anche quando è deturpato dalla povertà o dall’errore, fare «opera di detronizzazione dentro di sé». E amare con pudore e discrezione, senza invadenza, senza usurpare e travalicare i confini dell’anima altrui : «Anche nell’amore più forte e appassionato, riconosci la distanza». Vincere le paure per vivere più pienamente, più consapevolmente, il nostro mestiere di uomini e donne, con l’umiltà di affidarci a chi ci travalica e ci invita a superare i confini.
Un libro molto intenso, questo di Don Angelo Casati, da meditare e condividere con chi ci è vicino e possibilmente anche con chi è lontano da noi. Senza paura.

 

«Mosaico di pace», settembre 2011

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA FRAGILITA’ CHE È IN NOI – EINAUDI, TORINO 2014

La fragilità è un difetto, una colpa, la spia incontestabile di uno stato di precaria e instabile debilità?
Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra e fenomenologo di fama, le dedica questo prezioso volumetto pubblicato nella collana  Le vele  di Einaudi, da subito prendendo le sue difese: «La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi».

Fragile è il silenzio, espressione spesso di timidezza o incapacità comunicativa, e fragili sono anche le parole, inadeguati scandagli dell’anima propria e altrui. E quanto fragili, trepide e vulnerabili sono le emozioni che ci vivono dentro, siano esse positive come la gioia, la speranza e la grazia, impalpabili e transeunti, siano invece negative come la tristezza, la malinconia, la nostalgia, che oscurano gli orizzonti delle nostre giornate e i rapporti con gli altri. Eugenio Borgna riflette sulla natura della fragilità come esperienza interpersonale («… è il nostro destino… nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi»), e si addentra empaticamente con la sua decennale esperienza professionale negli stati fisici e psichici più segnati dalla fragilità: la malattia, in particolare quella mentale, nei suoi aspetti patologici e clinici.

La follia non è evento naturale bruciato dalla sua insignificanza, ma è esperienza storica ed esperienza sociale: non c’è follia nel regno animale. La follia non è qualcosa di estraneo alla vita: in alcuni fra noi essa si manifesta con grande intensità e con un diapason fiammeggiante di angoscia e di tristezza, di disperazione e di dissociazione; ma la follia nella sua radice più profonda è una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose, e con le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore. Il dolore e la stanchezza di vivere possono suggerire a chi soffre la strada definitiva del suicidio, seguita con severa determinazione dalla giovane poetessa Antonia Pozzi, o possono murare l’individuo nel «fine pena mai» dell’Alzheimer, malattia tuttora circondata «dal filo spinato del pregiudizio». E gli anni più scalfibili, le età dell’esistenza più aggredibili dal sentimento della propria inadeguatezza, sono secondo Borgna l’adolescenza e la senilità, «cittadelle assediate» da paure, sconfitte, solitudini, dipendenze emotive, subalternità ideologiche: periodi di vita non ancora sfruttabili o già totalmente sfruttati dal mondo produttivo e consumistico che ci condiziona tutti. Eppure, scriveva San Paolo nella Lettera ai Corinzi, «quando sono debole, allora sono potente». Come non riconoscere, infatti, una vittoriosa forza di resistenza in alcune esperienze mistiche solo all’apparenza inquiete e angoscianti, come quelle di Teresa di Lisieux e di Teresa di Calcutta, o nelle esili figure artistiche di Alberto Giacometti? E cosa ci può indicare la vulnerabilità del carattere femminile, più sensibile e introspettivo di quello maschile, capace di riconoscere non solo le proprie ferite, ma anche quelle altrui, quando riesce a trasformare con tenerezza «le relazioni umane, immergendole in atmosfere di accoglienza, e di non conflittualità»? La fragilità, conclude Eugenio Borgna, non è «una forma di vita inutile e antisociale, e anzi malata, e che non merita nel migliore dei casi se non compassione»: essa nasce «dalle falde più profonde e creatrici della nostra interiorità», ha l’inconsistenza di un sorriso, la sua gratuità, ma anche la sua profonda dolcezza e mite iridescenza.

 

«incroci on line», 14 dicembre 2014

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MANFREDI-CORBO

GIULIANA MANFREDI e GEORGIA CORBO (a cura di), A PROPORRE BELLEZZA E UMANITA’.  I colophon di Alessandro Scansani – EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA, ROMA 2013

Giuliana Manfredi e Georgia Corbo hanno curato con passione e riconoscente amicizia questo elegante volume dalla copertina azzurra e dal formato oblungo, che propone ai lettori un omaggio all’intelligente e coraggiosa attività editoriale di Alessandro Scansani, morto precocemente nel 2011. Scansani fu il fondatore e l’anima pulsante delle edizioni reggiane Diabasis, nate nel 1988 con il nome de  Il Guado, che già indicava l’idea di attraversamento, come quello successivo, ellenizzante: il quale sta ancor più a indicare un progetto di peregrinazione intellettuale, e di raggiungimento di salvifici approdi. Questo libro, introdotto e concluso da due puntuali commenti di Elvio Guagnini e Maria Teresa Giaveri, offre testimonianza del lavoro svolto per 23 anni da Scansani attraverso la pubblicazione di centoventitré colophon, scelti tra i moltissimi che chiudevano tutti i libri delle sue edizioni. I colophon sono le poche righe finali in cui normalmente vengono citati la data e il luogo di stampa, o il nome della tipografia: Scansani ne aveva fatto un’arte particolare e gentile, non solo citando e ringraziando tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione del libro, e fornendo indicazioni preziose anche sulla carta e sui caratteri utilizzati, ma addirittura accompagnando queste note con un commento in similversi, una sorta di epigrafe che si trasformava in una minirecensione, utilizzando suggestive metafore, illuminanti immagini visionarie. Cosicché il catalogo Diabasis si arricchiva di gemme conclusive, dettate dalla sensibilità pudica di un editore che non solo amava profondamente la poesia, ma sapeva frequentarla in prima persona con discrezione e raffinatezza. Gli autori proposti dalla casa emiliana erano i più vari: da classici come Petrarca, Ariosto e Leopardi a poeti famosi come Paul Valéry, Sbarbaro, Biagio Marin, Roccatagliata Ceccardi, Paolo Bertolani (senza dimenticare l’avanguardia e Adriano Spatola, e altri autori meno noti ma ugualmente dignitosi); da narratori di fama mondiale come Camus ai nostri Cancogni, Tomizza, Pederiali, Silvio D’Arzo. Un’attenzione particolare era rivolta agli scrutatori d’anima, e ai percorsi spirituali di Kierkegaard, Mounier, Dossetti, Panikkar, Hans Küng, Martha Nussabaum, Nicolas Bouvier, nel loro aprirsi al confronto con tutte le religioni. Scansani li commentava così: «il variare delle forme / l’orizzonte diverso delle attese / e la ricerca di risposte altre», e così: «ferita mortale per Dio / e per la morte / tra la fine e l’inizio / dei tempi…». Altrettanto rispettoso interesse veniva rivolto agli studi sociali e ambientali (arte, architettura, fotografia, storia, urbanistica, salute, femminismo, razzismo e multiculturalismo), che sapevano coniugare insieme rigore intellettuale e passione politica, e si valevano di illustri prefatori: Galante Garrone, Asor Rosa, Mario Lavagetto, Paolo Prodi, Edgar Morin, Luigi Covatta… Ad ogni volume si accompagnava un colophon particolare, sempre caratterizzato da profonda empatia e acutezza critica:  «Lungo / le infinite cesure / del nostro tempo / nel futuro smarrito / dell’utopia e nell’ossessione / della memoria…», «e la poesia / cerca il filo dei suoi labirinti…», «Nel blu / profondo / imperfetto e incerto / della creazione vissuta / dove la Bellezza / si misura e sborda», «nella primavera maudite di una povera Italia / a proporre bellezza e umanità / in versi che durino…».

Scansani nutriva in sé la consapevolezza del dovere etico di una scrittura che sapesse farsi eleganza formale senza dimenticare la sua responsabilità di educazione civica, di impegno politico, e nello stesso modo conosceva e amava gli autori che proponeva in lettura, come si evince dalle righe dedicate a uno scrittore a lui caro, nato e morto nella sua Reggio Emilia, Giorgio Messori: «autore così assoluto e discreto / da rischiare in vita l’invisibilità». Un libro da conservare con cura e gratitudine, questo dedicato ai colophon di Diabasis, che bene evidenziano, come scrive nella postfazione Maria Teresa Giaveri, «il rapporto fra quell’amore della parola che genera poesia e quell’appassionato rispetto delle parole altrui che genera programmi editoriali».

 

«incroci on line» 10 novembre 2014

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STEINER

GEORGE STEINER, I LIBRI HANNO BISOGNO DI NOI – GARZANTI, MILANO 2013

Nel primo e nel terzo dei tre saggi che compongono questo volume di George Steiner, l’illustre critico (Parigi, 1929) esibisce una sua appassionata, vibrante, devota, apologia del libro, “oggetto” culturale e di culto a cui ha dedicato tutta la vita, da quando, a sei anni, suo padre iniziò a leggergli Omero, Shakespeare, Heine. E del libro indaga con arguta intelligenza teoremi e corollari, introducendo il lettore alle sottili distinzioni tra testo e percezione del testo, al mistero dell’incontro con la lettura (talvolta casuale) che può cambiare la vita, alla «neurochimica» dell’atto creativo: e poi al ruolo collaborativo del lettore, alla ottusa perfidia del potere che si esprime nella censura, alla vitalità eterna dei personaggi romanzeschi capaci di sopravvivere ai loro creatori, al destino futuro dell’editoria davanti all’implacabile avanzare di nuove tecniche informatiche, al declino inevitabile della lettura tradizionale, basata su memoria, concentrazione, silenzio, competenza letteraria. Ogni grande letteratura è sovversiva, afferma Steiner, perché «dice NO alla barbarie, alla stupidaggine, alla banalizzazione delle nostre attività e dei nostri giorni causata dall’etica consumistica del capitalismo tardivo». E ogni libro dimenticato «è sempre capace di resuscitare… un libro autentico non è mai impaziente». Se questi due saggi sono espressi in uno stile accattivante e con temi totalmente condivisibili, è invece il secondo testo del volume ad offrire al lettore spunti di riflessione più originali e polemici, capaci di suscitare permalosità e discussione. Con il titolo di  Il popolo del libro, Steiner esamina da ebreo il rapporto del popolo ebraico con la scrittura, che per due millenni si è totalmente identificata con Le Scritture: «La sinagoga è accecata dal ‘letteralismo’, dalla chiusura nelle immobili minuzie del testo e del commento, dell’idolatria per la lettera». Sottolineando «il valore morale, la dignità intellettuale della condizione ‘libresca’ dell’ebreo», Steiner ne mette però in luce anche la pericolosa ossessione per l’esegesi, che ha dato luogo a una «produzione interminabile, parassitaria, secondaria e, in definitiva, sterile, come un fiume di sabbia nel deserto della Namibia», e che ha immobilizzato la cultura ebraica in una sostanziale aridità letteraria e filosofica per molti secoli. Solo con Kafka e con i romanzieri contemporanei americani si è finalmente spezzato «il lungo monopolio della testualità rituale e giuridico-esegetica del giudaismo», producendo addirittura una sorta di rivolta edipica, tesa a «demolire il logocentrismo patriarcale» attraverso l’ironia dei media, o il decostruzionismo e il postmodernismo, o i contributi odierni alla logica formale. Molto interessante risulta poi la riflessione di Steiner sulla differenza tra la scrittura normativa, prescrittiva della cultura ebraica, essenzialmente filologica, e invece l’oralità dell’insegnamento di Socrate e di Gesù, basato sull’incontro con l’altro, sulla «vitalità metaforica della parola pronunciata»: quindi sulla distinzione fondamentale, istituita dal cristianesimo, tra “lettera” e “spirito”. Ma proprio in questa sua intransigente fedeltà alla “lettera” Steiner individua la particolare passione del popolo ebraico, che ne ha garantito la millenaria sopravvivenza a dispetto di ogni persecuzione: un popolo «krank an Gott, affetto dal cancro del pensiero», sopravvissuto grazie a «questa grande follia, questa irresistibile sete di conoscenza e di esercizio intellettuale». E la cui minaccia di estinzione può venire oggi non tanto da nuovi pogrom e guerre religiose, quanto dal suo desiderio di omologazione: «il giudaismo si esaurisce nella più distruttiva delle condizioni favorevoli: la normalità».

 

«incroci on line», 23 novembre 2013

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STRUMIA

FIIPPO STRUMIA, POZZANGHERE – EINAUDI, TORINO 2011

Viviamo in tempi e latitudini che proclamano a gran voce la frattura esistente tra mondo e soggettività, interno ed esterno, cultura (in tutte le sue accezioni) e natura. Una disarmonia che ferisce l’individuo e la collettività, rendendo entrambi prigionieri di una condizione esistenziale di sofferenza e di impotente sterilità. In tale terreno, scabro e irredimibile, si muovono i versi di Filippo Strumia, psicanalista romano cinquantenne, alla sua prima pubblicazione di poesia. Un poeta che si scopre soprattutto nella sua fragilità di uomo scalfibile e votato alla sconfitta («Sono nato scoperchiato // mi scopro nuovamente / qualcosa senza guscio. / E non so che fare», «sono un verme nel becco del mondo», «un esiliato ultraterrestre / come me», «io mi so mezza cartuccia», «io che sono esperto di fughe e sottrazioni»), se il vocabolo a più riprese ripetuto nei suoi versi è proprio «paura»: «anche il suono / delle foglie fa paura», «Ho diritto alla paura», «la paura morde la pelle», «in un bagno di paura e dolcezza», «Non so che paure mi versi nelle ossa».

Per cui l’unica àncora che lega all’esistente è l’osservazione disincantata e asettica di ciò che ci circonda, dall’immensamente grande (universo, stelle, nebulose, eoni, galassie) all’infinitamente piccolo (batteri, insetti, microrganismi), con una sensibilità particolare sia per la bellezza folgorante, sia per ciò che appare inquinato, corrotto, fangoso (le pozzanghere, appunto). E soprattutto è il mondo animale quello a cui il poeta presta più partecipe attenzione: il lupo con le zanne grondanti sangue, le «arcaiche scimmie», ma soprattutto i pesci, nostri ancestrali progenitori: sempre inseguiti e «infilzati dall’arpione», sempre prede di una natura feroce. E non c’è nessuna visione laica o paganeggiante, bensì un continuo rimando a un’emotività cattolicamente intrisa di senso del peccato e della colpa. Anche la professione intellettuale è vissuta come un allontanamento dalla sana vitalità del «mondo scanzonato» del lavoro manuale: «Come vorrei parlare da uomini / e andare con loro all’osteria / un po’ di vino, calcio e allegria, / vorrei mostrare che sono simile a loro / non sono migliore non sono un padrone». La psicanalisi di cui vive Strumia è quasi un raggiro: «Un altro giorno da brigante / diligente dondolando sui rami ad aspettare / i pochi viandanti smarriti per la via», e questo risentimento della coscienza finisce per esprimersi in esacerbati manifesti di intenti, in programmatiche dichiarazioni di fede o di pensiero che risultano tra le prove meno riuscite del volume. Che invece si fa più risolto quando si alleggerisce nella descrizione di una «inclita dea barista», o della riposante sala d’aspetto del dentista, con uno stile sempre oscillante tra lirismo e narrazione, prosaicità e elegia, ossequio alla tradizione e volontà di innovazione, ironia e disperazione.

 

«Orizzonti» n.43, giugno2014

RECENSIONI

TEMPORELLI

ANDREA TEMPORELLI, TERRAMADRE – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2012

Sei sezioni compongono questo libro di Andrea Temporelli, contrassegnate da titoli che rimandano alla natura o al dominio dello spirito, temi che si rincorrono e intrecciano in tutto il volume. Una natura sempre in bilico tra promessa e minaccia, seduzione e sfida («Certe mattine il cielo è una promessa», «il ticchettio spaventa i nidi, il vento / turbina foglie e lacera giornali, / promette brace fuoco e zolfo»), provocando fantasmagoriche allucinazioni mentali («crepita il fuoco e accresce in mostri / piccoli insetti»), a cui il poeta oppone una dignitosa ed esplorativa resistenza: «lui rimarrà lì immobile ad attendere», «io assisto allo spettacolo da qui, / semplicemente. // …non attendo nessuno / non ho nulla da dire / piuttosto prendo appunti». Una natura che comunque è testimone e partecipe dello srotolarsi della storia, universale nei millenni, e particolare nei giorni della quotidianità: «Non indugiare adesso / ai piedi di quelli che furono / muraglie di ghiaccio in ritiro, / acquitrini malsani, / foreste celtiche e poi / avamposti d’impero». E la storia personale di Andrea Temporelli è sfiorata con la discrezione del poeta che si sa unico e insieme comune, nel rimpianto che è di tutti per il tempo che passa («Ma gli anni gli anni come trattenere / infedeli e dannati»), e che rimane tuttavia inconfondibile nella sua peculiarità. Eccoli, dunque, gli anni turbati dell’ infanzia in seminario, con i compagni che fanno roteare il turibolo come una fionda, o nascondono le ostie nel tovagliolo per merenda: mentre lui, il futuro poeta bambino, trasforma l’ obbligatoria preghiera serale in un’invocazione quasi blasfema : «Preservaci, preservaci dal padre». Ecco l’amore in versi inteneriti : «staremo bene / avrebbe voluto dirle d’un fiato / senza paura d’essere ridicolo / ma si zittì sentendola già ridere / piena di gioia tanto da aver voglia / di fare un figlio, lì, / subito, per telefono». O la polemica con la conventicola dei letterati: «Ti giuro c’è chi scrive / per uccidere», «Si seppelliva vivo col pennino sicario, / scrocchiava sulla stilo come un’ostia». Formalmente, la poesia di Temporelli vive una sorta di oscillazione (come il funambolo descritto in una composizione, scisso tra equilibrismi e vertigini, slanci ed esitazioni) tra classicità eccessivamente esibite («Ma tu sarai per me la vita intera, / il soffio in cui la voce non arriva», «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna») e soluzioni più sperimentali («Ruzzolo / – la testa è gigantesca- / nello zenit del / cantando»): comunque, l’endecasillabo impera in moltissimi incipit e anche nel corpo di quasi ogni poesia, consapevolmente e orgogliosamente tradizionale. Ed è nel poemetto che dà il titolo al volume (Terramadre) che l’autore raggiunge la sua più consistente e sicura maturità: una sorta di Spoon River rivisitato nel cimitero del suo paese, omaggio a «Coloro che precedono in ascolto, / i prediletti», «ottimo / concime nel cortile disertato». Disfacimento della memoria e dei corpi («Sbocci dunque la rosa rovesciata / davanti a una platea di vermi»), di fronte al teatrino dei viventi, con il fantasma aleggiante e tentatore della morte («La sconcia locandiera dell’albergo») che «ci fa semplici», e tutto riconduce alla sua estrema, imperturbabile verità. Dei destini dei sepolti nella terramadre, e di uno particolarmente a lui più vicino e fratello, il poeta sa di doversi fare testimone, pur se proclama umilmente: «Ma il solo modo di onorare i morti / è dire addio come si dice addio / a un amore per salvare l’amore». Quindi, una poesia che salva, anche solo con la silenziosa e pietosa complicità dello sguardo.

 

«incroci on line», 10 maggio 2013

RECENSIONI

TESTORI

L’ AMORE di GIOVANNI TESTORI
Giovanni Testori, Poesie 1965-1993, OSCAR MONDADORI, MILANO 2012.

Questa raccolta di cento poesie, scritte tra il 1966 e il 1967, fu pubblicata da Feltrinelli nel marzo del 68: anno strategico, drammatico, pulsante – per la storia, per le vicende politiche e per lo sviluppo del pensiero filosofico del mondo occidentale. Nessuna eco esterna, nessun fremito ideologico trapela dai versi di Giovanni Testori, completamente immersi, grondanti, recintati in un privato esclusivo: in un amore.
L’amore, appunto, è il titolo di questo volume di poesie, categorico e definitivo, come deve essere quando si parla di chi entra nella propria vita (nei pensieri e nella carne), e la domina, totalizzandola. Alain è il ragazzo a cui Testori offre questa testimonianza, insieme lucida e delirante, possessiva e sacrificale, di un sentimento assoluto. Una confessione, un testamento, una richiesta d’aiuto. E, insieme, una condanna.
Viene in mente l’affermazione severa di Charles Peguy: «Una parola non è la stessa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito».
Viscerale è la scrittura di Giovanni Testori; lacerata, inquieta, crudele. Anche quando si intenerisce e commuove su se stessa, anche quando sembra placarsi nella contemplazione più pura.
Confrontandola con le parole di altri poeti omosessuali, la sentiamo così lontana dall’azzurra tenerezza di Sandro Penna («La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta»), dalla dedizione ideologizzante di Pasolini («con maschile / pudore e maschile impudicizia / nelle pieghe calde dei calzoni nascondendo indifferenti, o scoprendo, / il segreto delle loro erezioni»), dalla sfrontata esaltazione di Dario Bellezza («Satana mi vuole perduto e peccatore. / Io devo smettere l’orgoglio / di sapermi diverso. Irreale / amante dei diversi»). E dall’incantato, classicheggiante omaggio di Stefan George («Quando dietro il cancello fiorito / alfine sentimmo solo il nostro respiro, / godemmo le sognate beatitudini?»), o di Kavafis («Ormai ricordo appena gli occhi: azzurri, forse… / Oh, azzurri, sì! Come zaffiro azzurri»).
«Ciascuno la propria tristezza / se la compra dove vuole», scriveva Antonia Pozzi. E Giovanni Testori ha comprato la sua tristezza profonda, irredimibile, in questi versi e in questo amore. Mai gioioso, mai esultante, anche nel possesso più totale ed esclusivo: ma temuto e riconosciuto in un presente di colpa e sofferenza, in un futuro di solitudine e distacco.
L’offerta di sé del poeta è totale, generosa, oblativa: «T’offro, amore, / guarda, / gli zigomi, le palme / e l’ultima forza / dell’insana maturazione; /…i fianchi, / il labbro t’offro, / la speranza, / il mio stesso battesimo, / la mia firmata dannazione / t’apparterrò e per sempre, / perché sarà oltre i sensi, / il dolore, / l’apparenze…».

E la fusione con l’amato ricorda la tensione religiosa dei grandi mistici («perché t’amo, carne / più della carne, / in anima»), nell’utilizzo di vocaboli, immagini e riferimenti che appartengono tutti al repertorio culturale della cattolicità (battesimo, inferno, Croce, sudario, martire, il Cristo delle spine), all’interno del rapporto tormentato e folgorante che Testori ha avuto sempre con la fede e la Chiesa.
Eppure, con quali e quante similitudini e attributi dolcissimi e innocenti il poeta definisce il suo ragazzo: petalo astante, faro, luce dell’alba, sangue, rubino e viola della sera, figlio, capanna, stella, unico amante, mia vittoria sul nulla, segno dell’aldilà dopo la fine, giovane lepre e stanca bestia, mia volpe, mio santo, eternità nel nulla, ala, carne di me, mia falce, mio martire, mia colpa, mia unica salvezza, mia fornace, tu meraviglia e gaudio, rondine mia cresciuta nel nido del mio cuore, amore disperato, mia cara luce, felce piegata in sé, mio bosco, zaffiro del passaggio, mia grande nevicata, piccolo coniglio, vigore del mio stelo, angelo, cielo, diamante, mio airone, mia gironda, edera verde e ruggine, mio bambino adulto e delicato, mia lettera prima, mio trionfo, mio sudario, mia cara nudità…
Il suo amore sa farsi anche paterno, protettivo, fino a spingersi ad immaginare per l’amato una vita di futura e tranquilla normalità, augurando e prevedendo per lui la nascita di un figlio: «padre responsabile, felice, / e i figli attenderanno / il tuo ritorno», «Il figlio che avrai un giorno, / il figlio arcano e biondo, /… che segno porterà in sé / di me, / nella sua anima e nel cuore?», «Vedo tuo figlio in te. / Ancora non è nato / ma già ne scorgo salire / dal tuo sonno / il primo riso. / Lo guarderai dormire / com’ io guardo te, / padre ingiusto e furtivo».

Perché invece è lui, il ragazzo-amante, il figlio vero e sognato, non generato e inventato, ricreato a parole e nei gesti dell’amore, quello in cui il poeta si perpetua e cerca un’eternità profana, promettendogli un’eredità perenne di ricchezze inestinguibili: «O figlio amato, / mai avuto che in te, / di cui accolgo nel bacio / lo spasimo dei sensi / ancora chi t’ha amato / t’amerà / e così sempre, / mio figlio, / mio sudario».
Di Alain il lettore conosce poco, a parte il neologismo che accompagna alcuni luminosi vocaboli: alanina luce, alanina alba, alanina infanzia. Forse la sua Parigi, a cui il poeta allude velatamente; il suo scendere da un aereo, salutando: «Scendevi, / l’ala appena immobile; / emergere ti vedevo /…- la piccola valigia tra le mani, / il trench, / la sciarpa che s’alzava /… l’aria ronzava / dell’oro del tuo viso / e della grazia adolescente /…  Al tuo saluto / s’accendevano le foglie / di brughiera / – la mano in alto, / mollemente- / ed io perdevo forza, / ero lì, / morivo, / io che t’aspettavo / travolgendo me in me, / carbone, legno arido, / fuoco vivo di te, / della tua luce».

Pochi sono i particolari fisici recuperabili nei versi: «la tua dolce, tenera saliva… il curvato ventre… la schiena adorata… l’alito denso», fronte, guance, mento, ciglia, ricci: ma senza una descrizione vera e propria che stagli un’ immagine corporea. Eppure Testori riesce a rendere indelebile, con pochi leggerissimi tratti, la delicatezza della giovane figura. Come quando racconta di un improvviso ricovero ospedaliero del ragazzo, del tremore di entrambi (amanti, ma anche padre e figlio) nell’ attesa di una diagnosi, della gioia di una riconquistata salute: «Seguo l’occhio sapiente; / tormento di domande / lo sguardo del medico, / il suo braccio; / l’aiuto a liberarti; / t’alzo la maglia; / t’abbasso il caro slip: / il ventre appare. / Tremi nel suo tremito, / piccolo coniglio».

L’amore tra i due è assolutamente fisico, sensuale, ma lontano da qualsiasi crudezza o volgarità; piuttosto dilaniato in un possesso che vorrebbe superare anche i confini della fisicità, in un’ansia divorante che sembra non conoscere sorriso, clemenza, perdono: «mentre bacia il tuo bacio / la mia vana caverna», «fusi nell’abbraccio che ci avrà distrutti, / cancellati», «ti stringo / oltre il curvato ventre, / ombra interiore di carezze / che ti bacio, / abbacinante nudità», «nudi castamente /… senza lasciarci mai, / coperti di sudore», «se scivolo entro te, / sfascio le bende / e, disperato, senz’averti / ti vedo, / è perché t’amo, carne», «di nuovo i corpi nudi / e l’amore lucido, furioso», «amore cieco, / vieni su me, / in me, / coprimi, neve, / luce, / benda cercata, / benda disperata», «Ti vedo nudo, / carne di me, / mia falce; / steso t’adoro / sui lenzuoli», «E la tua schiena è lì; / la bacio; / la ricolmo di saliva; / specchio diventa e fiore / del mio cieco, / inutile dolore».

Questo ritrovarsi dei corpi e delle anime al di là di ogni futile o falsa apparenza, lo scoprire nell’altro il messaggio di dannazione o salvezza che comunque avvicina alla verità ultima, il dono estremo di sé nel reciproco disvelarsi e comunicarsi, è qualcosa che ha procurato a Testori censure imbarazzate e santificazioni esaltate, troppo spesso discutibili e insincere.
Il suo situarsi ai margini della tradizione novecentesca, abissalmente lontano da tutti gli esiti della poesia italiana del dopoguerra, ne ha fatto un eccentrico, indefinibile, non catalogabile poeta dalle soluzioni formali poco condivise. I nomi che sono stati fatti dai critici per accostarlo a una qualche fonte letteraria, facendone un originale epigono (dai futuristi a D’Annunzio, da Rebora a Caproni), sembrano tutti alquanto opinabili. Forse invece potremmo scoprire una vaga rimembranza dell’Ungaretti di Sentimento del tempo, o un’eco dell’angosciata ricerca formale e esistenziale di Paul Celan.
In questo volume troviamo versi brevi, persino brevissimi, in strofe singole, prive di rime e artifici retorici, indifferenti ad ogni metrica, e invece incalzati da un ritmo ansioso e franto, talvolta colloquiale e più spesso classicheggiante: invocativo, esclamativo, interrogativo, ma sempre con una vocazione esibita per la confessione ostentata, plateale, pubblica. Poesie da leggere a voce alta, proclami amorosi da recitare con orgogliosa consapevolezza della loro superba nobiltà.
Il volume riproposto ora negli Oscar Mondadori offre ai lettori una meditata scelta da questo libro altissimo, poco recensito e poco antologizzato, addirittura imbarazzante nella sua esplicita e disarmata sincerità, che fa del suo titolo, L’amore, una rivendicazione ferita e altera.

«Qui Libri»,  giugno 2012