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RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA SOLITUDINE DELL’ANIMA – FELTRINELLI, MILANO 2013

Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra di fama internazionale, ha dedicato un suo libro al tema affascinante e vastissimo della solitudine. I suoi precedenti volumi (otto nell’ultimo decennio, tutti editi da Feltrinelli) indagavano il mistero della sofferenza umana, nei vari aspetti della malattia psichica: dalla schizofrenia all’ansia, dalla malinconia alla depressione. Ma sempre con cuore attento ad ogni vibrazione dell’anima e della mente umana: quindi anche alle emozioni, alle attese, alle speranze che nutrono il vivere quotidiano delle persone, sane o malate che siano. In quest’ultima opera, è appunto l’universo infinito delle varie solitudini che viene affrontato anche con l’ausilio di apporti culturali diversi, che sconfinano nella filosofia (i nomi più citati sono quelli di Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenhauer: per arrivare ai novecenteschi Simone Weil, Husserl, Jaspers, Wittgenstein, Barthes ), nella religione (Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta), nel cinema e nella musica (Ingmar Bergman, Bach, Chopin), nella letteratura e poesia (Leopardi, l’amata Emily Dickinson, Rilke, Bernanos, Etty Hillesum): tutti intellettuali che hanno esplorato più le intermittenze del cuore che le diverse forme della razionalità. L’epigrafe di apertura porta la firma della Dickinson, con due suoi illuminanti versi : «Forse sarei più sola / senza la mia solitudine», che ben esemplificano il rapporto di quasi riconoscenza, di quasi confidenza e familiarità che tutti dovremmo avere con la solitudine. La quale è cosa ben diversa dall’isolamento, che Eugenio Borgna definisce «come solitudine negativa, in cui si è chiusi in se stessi, perduti al mondo e alla trascendenza nel mondo». Perché ««ci si può sentire soli anche nel contesto di una folla, e non si è soli, ci si può non sentire soli anche nel deserto: quando questo sia riscattato, e redento, da una palpitante apertura a noi stessi e, benché assenti, agli altri». E ancora: «La solitudine, come il silenzio, è esperienza interiore che ci aiuta a vivere meglio la nostra vita di ogni giorno…rientrando nella nostra vita interiore…avvertiamo l’importanza della riflessione e della meditazione, della sensibilità e della carità, delle attese e della speranza, della contemplazione e della preghiera».

Quali sono invece le cause che inducono a isolarsi, a chiudersi in una «prigione senza porte, che è quella della lontananza dagli altri»? Borgna ne elenca molte: «la malattia depressiva, la mancanza o la perdita di persone amate, la dissolvenza di ruoli sociali significativi…ma anche la nostra indifferenza e la nostra noncuranza, la nostra desertificazione emozionale, il nostro rifiuto dell’amore…». Il dolore del corpo e dell’anima, le crisi di fede, la timidezza, i sensi di colpa per colpe mai commesse, l’acutizzarsi di conflitti sociali, l’angoscia, le tante paure che paralizzano le nostre ore: sono tutti fattori che spingono le persone a chiudersi in se stesse, come monadi senza finestre. Ma non si deve, per questo, ghettizzare con giudizi impietosi chi si ammala di solitudine; l’autore ha parole molto dure verso coloro che si vantano di una loro presunta e presuntuosa normalità: «Guai a consegnarsi ai pregiudizi astratti di una normalità apparentemente portatrice e creatrice di valori che non conosce i significati, e i valori, della sofferenza e del dolore». Nell’esplorare i più diversi percorsi umani, dalla mistica alla ricerca di una felicità perduta, dall’immaginazione poetica al baratro della malattia e della morte, Borgna arriva a dare della solitudine una visione anche positiva, quasi salvifica: «come compagna di strada che ci salva, nel silenzio, dai discorsi inutili e dagli impegni lacerati, e contaminati, della insignificanza». Questo ricchissimo e necessario volume si chiude con un capitolo dedicato alla cura del dolore, in grado di analizzare in quali situazioni sorga e si perpetui la scelta della solitudine; e con quali interventi si possa soccorrere chi soffre: attraverso quali parole e silenzi, con quali carezze e attenzioni, con quanta presenza delicata e generosa insieme. Soprattutto, con quali terapie mediche, offerte dalla più avanzata psichiatria fenomenologica, che si affida alla cura farmacologica unita a quella relazionale, «nutrita di dialogo e di ascolto». Ecco quindi l’umanissimo invito finale: «Siamo gentili con chi sta male: una psichiatria gentile, che rifiuti l’indifferenza e che sia suscitatrice di speranza, è ancora possibile».

«Orizzonti» n. 53, giugno 2014

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ANGIULI

LINO ANGIULI, APPELLO DELLA MANO – ARAGNO, TORINO 2010

Secondo la puntuale e approfondita postfazione di Daniela Marcheschi, questo libro di poesie di Lino Angiuli manifesta un «entusiasmo della lingua», un «gusto spiccato della parola» che evidenzia «tensione di corporea fisicità… concretezza… invenzione verbale… tono assertivo… all’insegna del molteplice trionfante». E infatti questa ricchezza esuberante di significati, la positività comunicativa del messaggio, la pienezza inventiva del lessico, coniugate a un severo controllo formale, rendono la scrittura del poeta pugliese decisamente originale nel panorama piuttosto minimalista, scarsamente coraggioso e innovativo della nostra poesia contemporanea. C’è senz’altro ironia nei suoi versi, ma anche un risentito richiamo etico al dovere civile di osservazione e comprensione di ciò che ci circonda, e l’invito a una solidarietà partecipe verso chi rimane ai margini, della società e della vita. Allora il titolo del volume sembra suggerire la necessità di una presa di posizione: una mano che si alza, si apre e si schiera, sia per interrogare che per esprimere la sua decisa intenzionalità. Come forse dovrebbe saper fare anche la poesia, al di là delle incertezze ed esitazioni di tono e di senso tanto di moda oggi. I versi di Angiuli non sembrano soffrire crisi di valori, le parole si rincorrono nette e affollate, quasi prive di segni di interpunzione e sospensione: solo ribadite dal punto fermo finale, che è anche e sempre una constatazione di realistica volontà affermativa.
Nelle sei sezioni che costituiscono il volume la polifonia delle immagini è soprattutto indirizzata allo scandaglio dell’alterità, piuttosto che all’introspezione egotistica. Lo sguardo del poeta è rivolto al fuori di sé, con un interesse partecipe e vivace a tutto ciò che è “mondo”. Il paesaggio, innanzi tutto, con la sua vegetazione mediterranea fatta di mentuccia, limoni, gerani, arance, peperoncini, capperi, cipolle rosse, rosmarino e pomodori. E poi la terra argillosa, la sabbia, i golfi e il mare («Io e il mare siamo due fratelli / e certe volte lui mi piglia in braccio / mi parla greco dei suoi pomeriggi»), in una «geografia salata» concretissima e immersa nella fisicità. Si stagliano imperiosamente sulla pagina come in un bassorilievo i visi e i corpi delle persone, le loro voci e storie, i loro amori e lavori che dalle vicende particolari di esistenze minime assurgono a una universalità paganeggiante: «Niente è più sacro del respiro nostro / che riesce a incollare il principio e la fine». Sebbene infatti i riferimenti a una religiosità popolare abbondino in tutta la raccolta (spiritosanto, altarini, erode e pilato, breviario, miracoli, reliquie, avvento, resurrezione e «il signore sia con voi andate in pace»), il ciclo delle esistenze raccontate appartiene a una corale e antica tradizione impastata di natura e leggende, più profane che devote. Il cielo non confina tanto con lo spirito, quanto con l’ «azzurro che / confonde pesci e uccelli», e nella sezione più originale del libro («In lungo e in largo- orazioni settimanali»), scandita in sette sermoni laici, ciascuno formato da sette strofe di sette versi “narrativi”, il poeta riesce a trovare una sua voce pietosa e profetica insieme, clamans nel deserto dell’indifferenza morale che ci livella tutti: sia che mediti sulla morte, sulla guerra o sull’emigrazione, sia che sbeffeggi sarcastico le mode alimentari o salutistiche («pesce azzurro tre volte a settimana e la verdura cruda / occhio alla bilancia occhio al grasso occhio alla ruga»), o elevi una preghiera scandalizzata e polemica al dio dell’ufficialità ecclesiastica.
La rigorosa struttura e la disciplina formale in cui Angiuli sembra voler controllare la foga travolgente del suo dettato poetico è evidente ancora in altre due sezioni del volume: nelle otto composizioni di  S’io fossi donna, immedesimate in una sensibilità assolutamente attenta al femminile, composte tutte da due quartine di otto versi quasi sempre formati da due ottonari, e nelle  Tre tredicine di tredici versi, molto giocati linguisticamente. Angiuli riesce infatti a ben destreggiarsi tra neologismi, accostamenti spiazzanti, invenzioni lessicali, plurilinguismi, divertissment, irridendo ogni paludata e autocompiaciuta seriosità letteraria, con la consapevolezza di chi sa di avere qualcosa da dire, e sa anche come dirlo.

«Qui Libri», dicembre 2012

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FO

ALESSANDRO FO, MANCANZE – EINAUDI, TORINO 2014

Quali siano le mancanze cui allude il titolo di questo delicato libro di Alessandro Fo, possiamo solo ipotizzare da vaghe tracce disseminate qua e là nel testo: forse i «Reliqua desiderantur», scritta posta in calce ai tre capitoli di cui si compone il volume (e allora ci viene in soccorso il latino, materia d’insegnamento dell’autore all’Università di Siena, in cui eccelle come traduttore egregio di Virgilio, Catullo, Apuleio, Rutilio Namaziano…). «Il resto manca», ciò che si è perduto rimane tra i desideri inespressi o irrealizzati. Come, forse, l’identificazione totalizzante con la poesia quando essa esprima e sveli «nella più favorevole posa, momenti alti, significativi (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone». Così, prosasticamente, il poeta chiarisce nelle esaurienti note finali. E ancora, più poeticamente, in versi in cui indica la mancanza come «insufficienza», «nostalgia di amorosa visione», «sera / priva d’angeli o di affetti». La poesia, nelle intenzioni dichiarate e spesso ribadite dell’autore, serve proprio a recuperare dolcezza, sensibilità, attenzione verso ogni aspetto della vita che ci circonda, facendoci crescere in consapevolezza e generosità, aprendoci a una visione meno materiale e scontata dell’esistenza. Alessandro Fo uomo di fede, più per una particolare e ormai in disuso disposizione dell’animo che per un’adesione (che pure esiste, si avverte concretamente salda tra le righe) al cattolicesimo. Una sorta di aspirazione quasi francescana al rispetto per ogni forma del vivere («scuotendo per i passeri / la tovaglia in balcone», «il lastricato / è cosparso di chiocciole. / Le schiaccio / involontariamente, / e mi dispiaccio / di sterminare vite, / anche minuscole», «mentre resto intento a una sua vena / (come fa a funzionare? / chi l’ha mossa e la fa così pulsare?)»). Muovendo da un doloroso evento biografico, come l’incidente stradale occorso alla moglie Francesca, o la morte del padre per tumore, il poeta inizia un suo percorso di conversione e rivelazione, una vera ascensione spirituale, che lo spinge a recuperare gli aspetti più tradizionali della nostra religione (le parabole evangeliche, la recita delle preghiere, la frequentazione della Messa…), e ad adottare un nuovo sguardo, più sorgivo, con cui affrontare l’esterno, nel tentativo di «accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà». Questa scoperta del divino nella bellezza, nella tenerezza, nella discrezione non compete infatti esclusivamente al sentire religioso, eppure ha in sé qualcosa che rimane magicamente epifanico. Alessandro Fo lo intuisce, con assoluta e commossa riconoscenza, nella musica, ad esempio. Soprattutto in Chopin, a cui dedica tutta la seconda sezione del volume: ritrovando nel suo compositore d’elezione («Ariel del pianoforte», «ponte arcobaleno», «un Virgilio polacco», «gioco di carezza e di abbandono») una sorta di alter ego, una corrispondenza alla sua stessa gentilezza, scandita nei preludi, nei valzer e negli studi più amati. Bellezza come dono imprevisto e imprevedibile, talvolta immeritato, che si concretizza nell’eleganza di sottili figure femminili incontrate per strada («L’infinita bellezza del creato / si rifrange in singole creature») e narrate recuperando stilemi stilnovistici (««Così vo cercand’io fra opachi effetti, / donna, quanto è possibile in altrui…»). Nell’ultimo capitolo del libro sono gli Angeli portatori di «una dimensione / di una metafisica dolcezza»: angeli carnali e insieme disincarnati, che si mescolano a noi nella vita quotidiana, figure salvifiche e illuminanti, in cui il poeta si imbatte sui banchi di una chiesa in una semideserta funzione infrasettimanale, o nelle stazioni, o in solitarie passeggiate senesi. Ragazze spaurite o trasgressive, anziane eleganti, preti indiani, archeologi in piscina, bambine incantate, giovani donne down, figure rese riconoscibili da «un’andatura appena un po’ sospesa / fra la fluidità e l’esitazione», che sembrano destinate da sempre al «mondo dei gentili», con lo scopo di riscattare la banalità, la sofferenza, la trascuratezza. A queste apparizioni miracolose il poeta pare voler accomunarsi, offrendo al lettore un ritratto di sé consapevolmente e orgogliosamente diverso da quello del letterato da salotto («Amo i versi, e altre schegge / di libri e vite», «Ero abbastanza felice, stavo bene / con i miei cari e le cose belle e vere / dentro i miei libri», «Amo la dissolvenza di me, della mia scia»). Nella volontà non tanto di proporre ai lettori soluzioni di vita, risposte fideistiche, quanto di suggerire trame, «filamenti che in modi anche eccentrici collegano punti, disposti chissà dove ‘a piacere’ oltre la nostra percezione». Alla poesia, quindi, Alessandro Fo demanda questo dovere di illuminare e salvare «le mancanze»: a questi suoi versi che sanno unire tradizione classica e ritmi più narrativi, fedeltà alla metrica dei settenari e gusto delle ripetizioni (unico artificio retorico, cui si affida più frequentemente che alla rima). Convinto della necessità di un messaggio espresso in contenuti – mai polemici, mai ironici, mai dissacranti – più che in velleitari sperimentalismi formali. Poesia che sappia saldare lo iato tra cielo e terra, eternità e tempo, Creatore e creature: «ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore». Alle mancanze, nostre e di tutti, essa può forse offrire una risposta.

«Caffè Michelangiolo», aprile 2014

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ARMINIO

FRANCO ARMINIO, CARTOLINE DAI MORTI – NOTTETEMPO, ROMA 2011

Per le Edizioni Nottetempo è appena uscito un piccolo, esemplare volume di 128 brevi racconti, talvolta costituiti da una sola frase, e in un’occasione da cinque parole. La particolarità assoluta di queste fulminanti composizioni è che si immaginano dettate in prima persona da uomini e donne defunti, in una sorta di Antologia di Spoon River in prosa.
Franco Arminio è un autore campano, che ha pubblicato poesia e narrativa, distinguendosi per una sua visione amara e risentita, e tuttavia assolutamente ispirata e commossa, del destino della sua terra, l’Irpinia: destino di tragico abbandono e desolazione, di totale assenza di speranza, di futuro, di gioia.
E così anche in questo libro, l’orizzonte pare essere solo quello angosciante, definitivo, della morte come fine di tutto: solitudine, dimenticanza, disperazione o indifferenza. Comunque fine senza riscatto.
Nella nota conclusiva, l’autore, evidentemente da poco provato da «una morte appena trascorsa» (probabilmente quella del padre a cui è dedicata la splendida dedica in apertura), afferma : «Allora puoi scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa». E in effetti, la presenza della fine incombe quasi terrorizzante in tutte queste “cartoline” scritte da un cimitero che si immagina paesano e campano: terrorizzante perchè spesso inaspettata e improvvisa («Stavamo parlando della ringhiera. Come si fa a credere in dio quando uno muore mentre sta parlando di una ringhiera?», «Basta una distrazione piccolissima. Sono caduto dalle scale perché stavo pensando che tipo di dentifricio mi dovevo comprare»).
Si muore senza poterlo prevedere: a scuola, in macchina, davanti alla tv, sul balcone, mangiando un mandarino, durante le analisi in ospedale. Si muore uccisi o suicidi, per una malattia non diagnosticata, e per un tumore covato a lungo. Si muore bambini o centenari, in paese o all’estero, soli o durante una processione religiosa, falliti o vincenti. Alcuni nell’indifferenza totale dei familiari («la mia malattia non gli procurava nessun dispiacere, solo un po’ di fastidio per il fatto che certe volte la madre non aveva tempo di fare le torte», «All’inizio chi ci ama vorrebbe riaverci, poi si abitua al fatto che siamo morti, poi per tutti stiamo bene dove stiamo»), altre volte nella disperazione di chi è vicino («Mi dispiace per te, ho detto a mia moglie che mi stringeva le mani. Nessuno quando stiamo bene ci stringe le mani in questo modo, nessuno», «Qualcuno che ci tocca il polso, qualcuno che pronuncia continuamente il tuo nome»).
In alcune persone sopravviene una ribellione finale, velleitaria e inutile: smettono di nutrirsi, o di parlare, o di alzarsi dal letto («Io bestemmiavo veramente, ero veramente arrabbiato», «Ogni tanto guardavo il crocefisso e pensavo che la vita è tutta un imbroglio»), in altre appare una rassegnata accettazione («Sono sempre stato un ottimista. E va bene anche così»», «Ero appena tornato dalla Svizzera. Ero contento»), o un umorismo sprezzante («Sono sempre stato un tipo sfortunato. Il giorno del mio funerale si parlava del funerale della figlia del farmacista, morta il giorno prima»).
Talvolta quello che rimane al momento del trapasso è tuttavia un’immagine di dolcezza, di nostalgico lascito della vita: una rosa o un geranio appena innaffiato, una luce sul comodino, un maglione verde stretto tra le mani, il profumo del caffè. Altrettanto spesso, tuttavia, si impongono visioni di macabro disfacimento («Una mosca si è posata sulla mia faccia sudata: io stavo morendo e lei si godeva il mio cattivo odore», «Una vicina di casa mi ha messo una mano sulla fronte. Aveva un odore di mele marce»). E in generale, a vincere è una rappresentazione desolata della totale insignificanza della vita e della morte: «Prima di me erano già morte ottanta miliardi di persone», «Non c’è neanche il niente, almeno così mi pare».
Un libro che è un piccolo trattato filosofico, disperante. Perché (è l’ultima frase dell’autore) : «I morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina».

 

«Orizzonti» n. 42, giugno 2013

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AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, IL MISTERO DEL MALE – LATERZA, BARI 2013

In questo volume pubblicato da Laterza, Giorgio Agamben – forse il più noto filosofo italiano in ambito internazionale- riunisce due suoi brevi e recenti saggi, impegnativi ma affrontabili anche da un pubblico non specialistico, che riflettono su argomenti di profonda rilevanza teologica.
Il mistero del male  indaga il problema filosoficamente più dibattuto già dai primi albori del pensiero religioso (unde malum? cur malum?), coniugandolo con un’empatica meditazione sulle ragioni che hanno indotto Benedetto XVI alle dimissioni. Il primo intervento (Il mistero della Chiesa) si sofferma inizialmente sulla crisi della società contemporanea, dovuta non solo alla diffusa illegalità delle istituzioni, ma soprattutto al fatto che esse hanno perso la loro legittimità, che dovrebbe fondare e autorizzare il loro potere. Non è quindi solamente la corruzione che disaffeziona il cittadino dalle istituzioni democratiche, ma l’interrogativo sulla effettiva necessità e legittimità dell’esercizio del potere. In questo senso Agamben legge il “gran rifiuto” di Ratzinger come un gesto coraggioso e rivoluzionario, perché la sua abdicazione è stata una rinuncia al potere temporale in nome di un richiamo forte e lungamente meditato alla superiorità del potere spirituale, «rispetto a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia».
Con questa prospettiva il filosofo ripercorre tutta la parabola teologica di Benedetto XVI, a partire dai suoi studi ecclesiologici degli anni ’50, su Ticonio e Agostino, sulla coesistenza di bene e male all’interno della stessa Chiesa («Gerusalemme è nello stesso tempo Babilonia, la include in sé»), per arrivare alla lettera paolina ai Tessalonicesi, che profetizza la fine dei tempi. Il brano di  2 Tess 2,1-11  è stato commentato, contestato, chiosato dalla Patristica fino alle interpretazioni di Dostevskij, Carl Schmitt, Ivan Illich, Quinzio e Cacciari: chi sia l’Anticristo qui adombrato (se l’Impero Romano o la Chiesa stessa nei suoi membri più ipocriti e corrotti), e in che modo la parusia venga ritardata dalla sua opera malvagia, è ciò su cui da sempre gli studiosi si sono interrogati.
Benedetto XVI ha costantemente riflettuto sia sul corpo bipartito della Chiesa, scissa tra bene e male, sia sulla “discessio” , la separazione finale tra malvagi e fedeli che avverrà alla fine dei tempi. Con la sua rinuncia, ha invitato i credenti a tornare a pensare al tema escatologico così spesso trascurato dalla teologia contemporanea, e al senso delle cose ultime che devono «guidare e orientare l’azione nelle cose penultime» nella storia, nella politica, nell’agire sociale e comunitario, «nell’intervallo fra la prima e la seconda venuta, cioè nel tempo storico che noi stiamo ancora vivendo»: la sua abdicazione afferma che «non è possibile che la Chiesa sopravviva, se rimanda passivamente alla fine dei tempi la soluzione del conflitto che ne dilania il ‘corpo bipartito’», se non riesce a scegliere tra l’economia e l’escatologia, tra l’elemento mondano-temporale e quello spirituale. Lo stesso parallelo vale per la società politica, scissa tra mercato e legge, crimine e onestà, incapace oggi di scelte coraggiosamente e radicalmente etiche.
Sempre prendendo spunto dalla Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi, Agamben nel secondo saggio del volume indaga il  Mysterium iniquitatis, ambiguamente riletto dalla filosofia contemporanea in una sorta di ontologia del male. Il filosofo romano dà invece del testo paolino un’ interpretazione più radicata nella concezione cristiana della storia, che conferisce al tempo, lineare e irreversibile, un significato soteriologico. Quindi, rivalutando la traduzione del termine greco «mysterion» non più come «segreto» ma piuttosto come azione drammatica realizzata nel “qui e ora” per la salvezza di chi vi partecipa, nella concretezza del dramma storico della passione di Cristo, e nella prassi in cui si rivela «la presenza divina nel mondo delle creature», Agamben colloca il mistero paolino nello spazio teatrale della storia, dove si gioca la salvezza e la dannazione degli uomini, al di là e oltre ogni potere costituito, violento e delegittimato. Compito di una Chiesa che assicuri salvezza è quindi di reinserire il mistero del male nel suo contesto escatologico, senza trasformarlo in una struttura intemporale, ma concretizzandolo in ogni azione storica in cui «il conflitto decisivo è sempre in corso», e in cui «ciascuno è chiamato a fare senza riserve e senza ambiguità la sua parte». E’ forse quindi il caso di ricordare un versetto di Matteo, troppo poco citato, (Mt.12, 6): «Qui c’è qualcosa di più importante del tempio». Qui, adesso, in questo luogo in cui viviamo.
E viene spontaneo allora interrogarsi sui motivi che hanno spinto Agamben, e pochi mesi fa Cacciari, a dedicare le loro ultime pubblicazioni a un tema teologico così spinoso e dibattuto, ma insieme tanto avulso dalle questioni che più tormentano la contemporaneità, e così lontano dall’ inconcludenza che ci sta affondando in un pantano morale e politico: se i filosofi laici si occupano oggi con tanta acribia delle Scritture, forse dobbiamo sperare più coraggiose indicazioni di comportamento etico e di resistenza civile dai gesuiti?

«incroci on line»,  26 agosto 2013

RECENSIONI

AFFINATI

ERALDO AFFINATI, ELOGIO DEL RIPETENTE – MONDADORI, MILANO 2013

Eraldo Affinati, stimato e impegnato narratore quanto appassionato insegnante, racconta in questo volume la scuola italiana di oggi, prendendo una decisa e coraggiosa posizione a fianco degli ultimi, dei più deboli: dei bocciati. Cinquant’anni dopo Don Milani, la sua lettera pedagogica non ha più come destinatario una ipotetica professoressa appartenente a una borghesia intellettualmente e moralmente striminzita, bensì uno dei tanti pinocchi (spilungone, annoiato, strafottente, addirittura violento) che occupano sbadigliando gli ultimi banchi delle nostre classi. Il ritratto che fa Affinati di questa dilagante massa di irrecuperabili alunni è impietoso e disperante: maschi e femmine provenienti da famiglie inadeguate, culturalmente ed economicamente povere, spesso straniere. Adolescenti che esibiscono provocatoriamente la loro ignoranza, assistono alle lezioni in stato semi-catatonico oppure opponendo resistenza attiva, esprimendo la loro rabbia verso oggetti e persone, frustrati dall’indifferenza delle istituzioni e disperati nelle loro prospettive future. Affinati, forte della sua decennale esperienza in istituti professionali della periferia romana, solidarizza completamente con questi incolpevoli paria della nostra istruzione, vittime di anacronismi didattici, confinati in scuole fatiscenti, incapaci di qualsiasi dialogo con il mondo degli adulti, privi di curiosità intellettuali e insensibili alla politica. Consapevole dell’importanza del suo ruolo di educatore, e del rilievo affettivo (da vice-padre) della sua figura di docente, convinto anche di esercitare «il mestiere più bello del mondo», Affinati tratteggia i ritratti di questi suoi alunni: li segue nei loro tortuosi percorsi esistenziali e scolastici, li va a cercare a casa, se li porta in giro per Roma o li recupera nelle discoteche, sui campetti da calcio, nelle officine dove lavoricchiano in nero, nei bar, sul litorale quando ci si rifugiano in gruppetti per fumare canne. Ogni risposta esatta nelle interrogazioni è una conquista, ogni promozione una vittoria, la maturità ottenuta un riscatto davanti alle macroscopiche ingiustizie sociali. Lo studente preferito non è tuttavia quello promosso, ma quello che esprime una sua eccellenza umana, fatta di generosità e solidarietà verso i compagni. Perché se è legittimo scagliarsi contro sistemi di valutazione obsoleti e castranti (griglie, voti, note, dettati, prove Invalsi, DSA, programmazioni assillanti), è altrettanto doveroso sottolineare che a questi «ragazzi persi» è stato rubato qualcosa di fondamentale: la fiducia in se stessi e nel domani, la possibilità di un riscontro positivo in chi li giudica solo dai risultati e mai dagli sforzi compiuti, l’autostima, o semplicemente uno sguardo più comprensivo, affettuoso, incoraggiante.

«Incroci» n.29,  giugno 2014