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RECENSIONI

VELADIANO

MARIAPIA VELADIANO, IL TEMPO E’ UN DIO BREVE – EINAUDI, TORINO 2012

In questa sua seconda prova narrativa, sempre edita da Einaudi dopo il successo ottenuto con La vita accanto, la scrittrice trentina Mariapia Veladiano torna ad esplorare con attenta sensibilità e generosa empatia l’animo femminile: i suoi trasalimenti e la scalfibile partecipazione alla vita, gli abbandoni e le caute adesioni alla fisicità, l’immersione nella natura e l’aspirazione a una ansiosa spiritualità. Protagonista del romanzo è una giornalista laureata in teologia, che lavora nella redazione di una rivista cattolica: stimata dal direttore, ma osservata con qualche diffidenza dai colleghi a causa della sua mai placata inquietudine religiosa. Il dubbio che angustia Ildegarda (nome che esplicitamente fa riferimento alla nota mistica tedesca medievale) riguarda l’esistenza del male nella vita degli esseri umani, e la sua giustificazione divina: rifacendosi all’ “unde malum?” agostiniano, alla teodicea di Leibniz, alla riflessione filosofica contemporanea (così pienamente indagata dal nostro Luigi Pareyson), l’interrogazione che lacera la coscienza della donna riguarda l’impotenza o la non volontà di Dio di opporsi alla sofferenza innocente, al dolore incolpevole dei giusti e dei bambini («Il silenzio di Dio davanti al male mi devastava»). E questo assillo della protagonista viene in continuazione messo alla prova dalle circostanze, decisamente tormentate e infelici, della sua esistenza. In primo luogo dal matrimonio con l’aristocratico e anaffettivo Pierre («la sua tristezza inviolabile», «il suo pessimismo doloroso e intoccabile»), incapace di provare qualsiasi sentimento nei confronti della moglie e del figlio, costretto a scegliere una fuga indecorosa e silenziosa a Londra, pur di non affrontare le sue responsabilità. Ildegarda scoprirà molto tardi e fortuitamente che l’assenza del marito andava attribuita, più che a rovelli intellettuali ed esistenziali, a una mai confessata relazione con una collega di lavoro e amica di famiglia. La stessa convivenza con i parenti di lui, in una gelida e nebbiosa tenuta della pianura lombarda, è fonte per la protagonista di continui soprassalti di muto e inesprimibile dolore, di fredda incomunicabilità, di rabbioso rancore. A questa sofferenza di Ildegarda, che permea ogni pagina della sua vita e della narrazione stessa, non sa proporre alcuna tregua nemmeno l’esistenza del bambino Tommaso, tormentato alla nascita da una crudele dermatite («guardavo Tommaso e mi sembrava che la sua pelle rovinata fosse la prova straziante dell’inconsistenza di Dio»), quindi da una sorta di epilessia genetica che incombe sui suoi pochi anni indifesi come una minaccia invincibile. Ogni prova viene vissuta da Ildegarda con riferimenti costanti alla vita religiosa, ai testi sacri, ai riti, che sempre offrono consolazione, portando però anche nuovi interrogativi. Di fronte al suo bambino malato riappare la sofferenza della Vergine sotto la croce; nelle sue preghiere a Dio la contrattazione che Abramo propone all’altissimo per la salvezza di Sodoma; nei sogni ricorrenti l’eco dei sogni biblici; nell’aspirazione alla conoscenza la maledizione del Qoèlet… E quando finalmente la vita sembra poter tornare a fiorire, nell’incontro in montagna con un pastore protestante di Heidelberg (pure segnato da una storia di morte e abbandoni), ecco che di nuovo torna l’incubo del male ingiusto e inspiegabile, con la diagnosi di un inoperabile tumore annidatosi da tempo nel cervello della donna. La cifra narrativa del romanzo sembra tutta da leggersi in questa incombente atmosfera di angoscia, di lutto, di morte, a cui nessuno spiraglio di leggerezza e di serena partecipazione alla naturalità e alla bellezza dell’esistente sembra poter offrire tregua. Un dolore antico, pervasivo, connaturato quasi alla scrittura stessa dell’autrice: sorvegliata ed elegante, che tuttavia sfiora talvolta il manierismo, e sembra sempre vietarsi qualsiasi apertura alla gioia, al desiderio, all’invenzione o alla scoperta di quanto c’è di buono, dentro e fuori di noi.

«Il bilancio del bene e del male della mia vita è negativo…Al male non bisogna mai dare principio. Quando lo si è svegliato vive di vita propria, si moltiplica in proporzione dei buoni sforzi che si fanno per fermarlo, è una tenia che rinasce da ogni suo frammento».

E’ inquietante e malinconico osservare come anche il cristianesimo appassionato di Mariapia Veladiano tenda a circoscrivere fede, speranza e carità nei confini di un’illusione che non lascia scampo di fronte alle tenaglie del dubbio, alle seduzioni della negatività.

 

«Incroci» n.28, dicembre 2013

RECENSIONI

DAPUNT

ROBERTA DAPUNT, LE BEATITUDINI DELLA MALATTIA – EINAUDI, TORINO 2013

La seconda raccolta di versi che Roberta Dapunt (Badia, BZ, 1970) pubblica da Einaudi ha un destinatario-protagonista privilegiato, incarnato nella persona malata di Alzheimer di nome Uma: la mamma, forse, o la suocera della poetessa. Un’anziana, molto amata e rispettata, che ha perso i contatti con la realtà esterna, e con il suo stesso corpo («da un giorno all’altro / non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non / hai capito»; «Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo, / un filo d’erba che ignora il suo prato»»; «Mi hai portato nella tua mancanza di suono»; «sempre è il lungo corso che passo vicino alla tua assenza, / ospite ininterrotta della tua demenza»). Ma questa madre antica che osserva il mondo senza vedere («dal tuo dove lontano»), in piedi immobile accanto alla finestra, o seduta in attesa del niente («io vedo il tuo viso, ascetico osservare, / è nudo accadere, poiché nient’altro ti circonda»), era stata un’ infaticabile lavoratrice dei campi, una forte donna di montagna, mater familias che radunava intorno a sé la sua gente per il rito quotidiano del pranzo («tra un segnarsi di croce e un altro»), o per il rosario serale, e per la Messa alla domenica.
Persona dalla fede rocciosa e semplice («tu che insegui l’Eterno in ogni preghiera //… Mai ti ho vista nel dubbio»; «fossi io la fede sceglierei te come fortezza»), viveva in assoluta e devota armonia con il suo ambiente («Ma qui, amabile luogo, qui niente accade, / tranne che ininterrotta un’umile esistenza»): monti innevati, prati, stalle, larici, abeti, e tranquillo silenzio. Un mondo scandito dai riti religiosi – Vespri, Quaresime, Pasque – che ora si ripropone in un’inedita beatitudine, ad aggiungersi a quelle evangeliche: la beatitudine della malattia. Roberta Dapunt, che vive e lavora nel maso di Ciaminades, racconta con la stessa fede dei suoi avi, ma con qualche interrogativo in più (soprattutto riguardo all’inadeguatezza della scrittura quando deve affrontare il dolore), la sua accettazione del servizio, inteso cristianamente come accompagnamento, vicinanza, fedeltà a chi soffre: e i suoi versi, indifferenti a stilemi letterari di metrica e ricerca linguistica, testimoniano la dedizione umile di chi ancora sa affaccendarsi come Marta, profumare il corpo come Maddalena, dissetare come la Samaritana («Chiamami quando avrai finito di lavarti. / Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare / i tuoi piedi dalle dita intrecciate»; «Sono nella tua demenza il potere e la direzione, / l’autorità e la volontà egemonica»). Nella consapevolezza che «non ci è dato risolvere la fede», e che, come recitano gli Atti degli Apostoli, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».

 

© Riproduzione riservata             «Poesia» n.285, luglio 2014

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CAVALLI

PATRIZIA CAVALLI, DATURA – EINAUDI, TORINO 2013

La recente raccolta einaudiana di Patrizia Cavalli, che offre al lettore componimenti piuttosto eterogenei (dai poemetti di più ampio respiro, a un pezzo teatrale, a brevi poesie amorose, fino agli epigrammi), si intitola ambiguamente Datura, oscillando nel significato dal participio futuro femminile del verbo dare (“che si darà”, nel senso forse di una generosa e imprevedibile eredità ventura), al nome di una pianta spinosa e medicinale, dagli effetti talvolta allucinogeni. Metafora della poesia? Proprio a questo vegetale, e ai suoi fiori notturni e profumati, rende omaggio l’ultimo poemetto del volume. Proibendosi qualsiasi retorica commozione, l’autrice individua la causa delle sue «lacrime spaesate» in oscuri fenomeni atmosferici, meteorologici, che agendo sulle «parti più segrete del cervello» provocherebbero «soltanto nostalgia che gira e si rigira / dentro il suo molto affaccendato niente». Fosche trepidazioni di morte ? «Ma io non voglio andarmene così, / lasciando tutto come ho trovato / in questa scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa». L’ambizione del poeta è ben altra: «giocare alle parole / immaginando, senza un’identità, / una visione». E quindi, davanti ai fiori caduchi e pallidi della datura, convincersi «che dipenda da me la sua apparenza, / che ne sia io la sola responsabile, / questa è la gioia fiera del mio compito, / qui è il mio valore. Io valgo più del fiore».
La rivendicazione orgogliosa della sua centralità, fisica e mentale, della sua quasi immortale resistenza al tempo, ritorna ancora in molte delle poesie più brevi, insieme a un auscultare preoccupato e ironico di minimi segni di malessere: «io bevo molta acqua minerale / per poi molto pisciare, mi curo in questo / perfettissimo ospedale che vuole / fare secco il mio gran dio ormonale», «Come se il cuore inciampasse, / può cadere», «Che qualcosa di me / possa valere, dopo di me, / anche solo cinque lire più di me, / mi è insopportabile», «Rivoglio la mia salute, / fantasiosa salute / così potente e certa», «Salivo così bene le scale, / possibile che io debba morire? //…Ma adesso / che cazzo vuole da me questo dolore / al petto quasi al centro! Che faccio, muoio? / O resto e mi lamento?»

Una poesia provocatoriamente fisica, quella di Patrizia Cavalli, che si impone con prepotenza quasi canora, nei declamati endecasillabi, nelle rime ribadite, nelle immagini sempre concrete, visivamente scolpite, mai sfumate, mai eteree. Anche i versi amorosi hanno una loro sfrontata presunzione: «E se mi guardi davvero e poi mi vedi? / Io voglio che stravedi non che vedi!», «Annoiarsi da soli forse è un lusso, / ma annoiarsi in due è disperazione». Molti i punti interrogativi, molti gli esclamativi, per una poesia che si vuole soprattutto orale, declamata a voce alta. Una poesia che assume con fierezza un energico carattere teatrale, come è dimostrato anche dall’intermezzo drammatico dei  Tre risvegli, e dalle esperienze di traduzione da Molière e Shakespeare.
Altri due ironici, risentiti e appassionati poemetti sono qui riproposti dopo essere apparsi nel 2011 per le edizioni Nottetempo: L’angelo labiale è una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore insultante alla discrezione del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Più spavaldamente dissacrante e pungente è  La Patria, amara galanteria in versi rivolta all’idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di nazione: «Ostile e spersa / stranita…braccata…tentata…sbattuta / eccomi qui a pensare alla patria». Per raccontare la nostra terra comune, Patrizia Cavalli elenca una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole: la madre «calma e abbondante», «la stanca vedova in affanno» che vizia una prole stupida ed egoista, «la donna giovane, ma austera» casta e asessuata, la cortigiana «scostumata», la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Diffidando di queste immagini tradizionali e abusate, la poetessa preferisce affidarsi ai sensi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati: meglio cercare la propria patria nei «giorni santi, stupefatti», nella luce di un «trasparente cielo fino di battista».
Non si può poi tralasciare di commentare un altro poemetto, La maestà barbarica, sarcastico e bruciante, in cui si tratteggia una figura femminile poetante, che invade con la sua spudorata presenza i quartieri romani: «Grande impresaria della sua pazzia… Ha una recitazione / arcaico-tragica», «Ha un’autorevolezza ormai consolidata. / Lei non chiede, possiede», «La sua eleganza / è quasi una minaccia»: anche in questo mordace ritratto, Patrizia Cavalli si dimostra impareggiabile bozzettista, di implacabile e sferzante abilità satirica.
Ma non sarà forse eccessivo quanto scrivono Berardinelli e Agamben nella quarta di copertina, parlando di «poesie fatte per illuminare e conoscere», e addirittura definendole come «la poesia più intensamente etica della letteratura italiana del novecento»?

«criticaletteraria», 11 ottobre 2013

RECENSIONI

CASSIAN

NINA CASSIAN, C’E’ MODO E MODO DI SPARIRE – ADELPHI, MILANO 2013

Della poetessa romena Nina Cassian (Galați 1924), Ottavio Fatica scrive, nell’ affettuosamente complice postfazione alla ricca antologia da poco pubblicata da Adelphi, che fu «poetessa lirica, ultralirica… l’ultima modernista… piena di rumori e discordie», animata da «furor uterinus» e «impudica grazia». E in effetti, l’impressione più vivida che si ricava dalla lettura di queste centosette poesie, è quella di una vitalità disarmante, giocosa e fiera, arguta e appassionata. Che sia questa poetessa novantenne (residente a New York dal 1985, quando ottenne l’asilo politico per evitare l’arresto a Bucarest) a dare una sferzata di corposo ottimismo alla nostra assonnata e sospirosa produzione letteraria in versi, non deve apparirci paradossale: vista l’intensità con cui Nina ha attraversato passioni sentimentali, culturali e politiche, nutrendosi di tradizioni ebraiche e comunismo critico, di diverse esperienze editoriali e artistiche, di polemiche, di amicizie viscerali e ostilità altrettanto esibite, di conoscenze linguistiche effettive e supposte. Troviamo così nella sua vastissima produzione nell’amata lingua materna («Pur se verrò sepolta / in una terra aliena: / risorgerò un giorno / nella lingua romena») le stigmate di un orgoglio indomito, di una provocazione sarcastica: «Avida sono. L’asceta mi rimprovera / di scorrere a perdifiato / l’indice delle materie della vita / e di bramare e aver voglia di tutto. // Eh, sì, che volete! Ho fame. Ho sete, / come il suono mi aggiro nel mondo dei vivi».

Anche la natura, che dipinge con la sua abilità di celebrata illustratrice, appare in lei selvaggia e lussureggiante, sempre animata: «La finestra restò tutta la notte aperta. / La foresta entrò e si posò sul muro». Gli animali descritti paiono tutt’altro che docili e addomesticati: sono tigri, pantere, piccoli squali, elefanti. E persino la poesia viene vissuta come preda da conquistare: «Oh, giocare alla Genesi, che spasso!», «E adesso / quale parola domare?», o come allegra visionarietà, fiaba stralunata, sulle tracce della commedia dell’assurdo di un altro grande romeno, suo contemporaneo: Ionesco. «I miei visitatori sono: / un signore interrotto nel mezzo, / una donna continua / e la loro figlia di latta, / un professore che insegna formaggio, / un assassino raffreddato, una colonna / di formiche nubili, / un albero coi baffi … // Alla fine compare / il cane della sera / abbaia forte / e li caccia tutti via».

Nina Cassian non nasconde di avere un’alta considerazione di sé, del suo valore e della sua forte personalità, a partire già dal fisico descritto in un beffardo autoritratto («Mi è toccato questo volto strano, triangolare»), con l’imponente profilo del naso che la accomuna ad altri due eccelsi esuli – Ovidio e Dante- ; ma soprattutto dalla orgogliosa consapevolezza del suo anticonformismo, del suo coraggioso opporsi a ogni minaccia o seduzione del potere (nei versi di Esorcismo elenca tutte le cose di cui non ha paura….). E poi afferma con vigore: «Posso stare da sola. / So stare da sola»,  «Io sono io. / Sono personale, / soggettiva, intima, singolare, / confessionale». Della sua infanzia ricorda non affettuosi quadretti d’interno, ma scapestrate corse in campagna. Rinfaccia agli amori la banalità e l’egoismo («Perdonami se ti ho fatto piangere. / Avrei dovuto farti fuori», «Da quando mi hai lasciato divento sempre più attraente»), sbeffeggiando la farisaica simbiosi della coppia, e arrivando a concludere sette Lettere all’amato con l’esplicita e crudele affermazione «non ti amo». Nemmeno di Dio ha bisogno, e infatti non lo nomina mai, se non in una lirica programmaticamente intitolata Farsa, in cui le sue «ossa atee» si piegano nella finzione della preghiera. Rifiuta il ricatto affettivo della sofferenza, in una terribile composizione dedicata agli storpi. Celebra invece gioiosamente, sfrontatamente, il peccato («I nostri peccati erano appesi / alla coda dell’occhio, come alghe»), e l’unico colore che le sembra meritare continue citazioni è il rosso («Rosso da rosso, rosso al rosso»), simbolo di bandiere al vento e di sangue versato. E riserva tutta la sua acida ironia alla noia del pomeriggio, che anestetizza l’universo, come una grassa donna di mezza età che uccide le sue vittime imponendo loro la sua indolente presenza.
L’attaccamento alla vita fisica di Nina Cassian si esprime nel corrispondente e fiducioso attaccamento alla parola, al linguaggio, che è romeno, e poi inglese, e poi romeno tradotto in inglese, o addirittura lingua d’invenzione – lo spargano – imitativo di altri idiomi; ma è soprattutto estrema volontà di espressione e comunicazione, anche nell’età più avanzata e vicina alla morte: «la mia mano artritica / eietta a volte una penna / per iniettare una poesia / come una puntura, un’endovena, / nelle braccia manchevoli di Venere». Meritano di essere ricordati i traduttori, Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica, che sono riusciti a rendere icasticamente viva nei lettori l’energia sprigionata da questi versi.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

CARPI

ANNA MARIA CARPI, L’ASSO NELLA NEVE – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La postfazione di Fausto Malcovati al libro di versi di Anna Maria Carpi enuclea già tutti i temi della raccolta, lasciando poco spazio di commento ad eventuali critici (e i temi sono quelli che si trovano in ogni poeta che si interroghi, quindi in ogni poeta tout court: l’immagine di sé, l’infanzia, i luoghi, gli oggetti, l’amore e la morte…). Ma quello che a Malcovati preme è il sottolineare la peculiarità di questo dettato poetico: la limpidezza, il non nascondimento. La sincerità, la chiarezza. E infatti l’autrice non lascia nessuno spazio a fraintendimenti o interpretazioni fallaci, a ricostruzioni personali e inventive del lettore. Dice tutto, spiega tutto, quasi con un’ansia di definizione che prova nei riguardi di sé stessa prima che di chi legge. E l’ impressione che subito se ne trae è quella di un’infelicità senza desideri, rassegnata, pervasiva, che incombe su ogni aspetto del semplice esistere e perdurare nel tempo. E’ un’ accoratezza delusa che investe anche la stessa scrittura: «È il mestiere più sconcio che c’è. / Che cosa resterà di tutto questo, / di esorditi e abortiti, / di tutti noi che facciamo un po’ per amore, / un po’ per bisogno, ma soprattutto / per l’ansia di apparire / un istante / sullo sfacciato video del tempo. / Nulla, ma nessuno vuole che resti qualcosa».

Non c’è gioia, dunque, nello scrivere: forse di più nel leggere (si fanno i nomi di alcuni maestri: Bobbio, Celan, Yourcenar; ma «AD UNO AD UNO se ne sono andati / i padri / di questa mia dissennata giovinezza. // Fame di padri, fame senza fine») o nel lasciarsi trascorrere in una vita da cui non ci si aspetta più nulla: «Non voglio storia, non voglio tempo. / Solo il qui e ora, solo lui, / questo livido enigma», «La vita è questo. // Io perché non ne ho voglia?», «Si aspetta il verde, si traversa la strada, / si scende nel metrò, si fa la spesa, / si prenotano viaggi, si entra in banca. // E dopo e dopo e dopo?», «Dove sei, gioia? Dove sei, speranza?», «Che c’è vita lo sento da qualche suono anomalo, / il mio respiro, / il mio sfogliare un libro / che non voglio leggere, / no, né questo né un altro».

In questa totale apatia, senso di inappartenenza, delusione verso tutto e tutti, la più grave e incisiva scontentezza riguarda la propria persona, non all’altezza, non più all’altezza dello sforzo quotidiano di esistere, e con fantasie continue di morte: «Ma anche la metropolitana mi conforta, / perché prolunga il viaggio: se mai dovessi pensare al suicidio / lo farei quaggiù in mezzo agli altri», «Io un nulla incoronato / e votato a sconfitta. // Ho un posto, uno stipendio come tanti. / Visto da fuori, tutto ben riuscito», «Così io non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro», «Io-sciagura, io mio unico male».

Gli amici non bastano a salvare, sono appendici inutili che volteggiano nei riti serali di inviti, chiacchiere salottiere, bevute, incontri che non rivelano più nulla: «Ora è l’altro che ascolta – ascolta? / No, pensa solo: non la fare lunga», «Ci vediamo di furia / solo per dire: non ci siamo persi, / poi è il sollievo di un ‘anche questa è fatta’», «Gli amici ancora vivi – chi saranno? // Voci. Ci telefoneremo sulle dieci. / Come stai? Non c’è male. / Hai visto come piove? / E oggi cosa fai?».

Anche l’amore è deludente, non risponde mai al desiderio di assoluto: «Ma il mio compagno è assorto / o tace o parla d’altro», «non mi devi parlare come a un comune umano, / amore è dire all’altro non hai fine. / O io sono immortale oppure niente», «ho una casa decente e faccio inviti, / ho un matrimonio in cui si va d’accordo / sulla guerra in Irak, non su me stessa». E’ strano osservare come nella prosaicità priva di lirismo di questa poesia ogni tanto sbuchino improvvisi degli endecasillabi molto cantati, quasi consolatori: come se ci si aspettasse uno spiraglio nella negatività, un raggio di sole nella nebbia: «E’ nella mia casa di sempre il male, / è dalla mia esistenza / che non dovrei passare anche se amo quegli alberi all’inizio del parco / e il loro inverno e la neve». Il percorso biografico di Anna Maria Carpi giustifica tanto dolore, tanta disperata assenza di bene? Figlia unica e tardiva di due genitori che non si amavano, da allora si è aperta una voragine che il tempo non ha saputo richiudere: «E rannicchiata dorme / nel letto con sua madre la piccola obbediente. / Mai sarà altro, mai di più che questo, / soltanto brava, brava e diligente». Viaggiare serve a poco, immaginare scenari diversi (la Russia innevata, con un Pietro il Grande bambino; la Germania troppo ordinata e asfissiante; i bistrot francesi che portano echi di una lingua dolce e malinconica) non libera mente e cuore. L’unica possibilità di resistenza al male di vivere sussiste nella ripetizione ordinata e priva di slanci dei gesti più banali: «Solo un metro più sotto / c’è la disperazione. // Ancora un’ora, poi berrai qualcosa, / poi guarderai le mail, il telegiornale, / poi qualcuno telefona». E la carta dell’asso fatta a pezzi e buttata nella neve da un soldato tedesco a Stalingrado per spregio contro i russi diventa metafora del gesto gratuito e inutile che forse solo può salvare dall’incombere ossessivo della presenza nemica.

 

«criticaletteraria», 25 novembre 2013

RECENSIONI

CANDIANI

RITRATTO DI POETESSA: CHANDRA LIVIA CANDIANI

Ho conosciuto Chandra Livia Candiani in una giornata primaverile del 1986, quando si è presentata nel nostro appartamento zurighese in compagnia di Vivian Lamarque, dei suoi giovani editori reggiani Giorgio Messori e Beppe Sebaste, e di un suo amico. Erano venuti per festeggiare in terra elvetica il quarantesimo compleanno di Vivian, e noi li avevamo accolti con una merenda accompagnata da una tentatrice torta di panna e fragole. Chandra mi era parsa da subito un po’ intimidita: minuta, silenziosa, se non a disagio appena spaesata, quasi interrogativa nel guardarsi attorno e nel soppesare meditabonda e lontana da qualsiasi intenzione giudicatrice le nostre chiacchiere, le nostre prevaricanti esibizioni di loquacità. Le mie bambine, Daria e Silvia, avevano allora sette e un anno, e Vivian, presentando Chandra alla più grande, l’aveva così avvertita: «Vedi questa ragazza? È un folletto!» E in effetti, con la sua espressione di infantile stupore, i capelli corti, biondi e dritti sulla testa, il corpo agile e inquieto, Chandra ben si prestava a incarnare una vaporosa figurina boschiva. Quando poi la Polaroid rese a noi, increduli e divertiti, una foto di gruppo in cui il viso del poetico folletto risultava coperto da una luminosa bolla a raggiera, una sorta di sole o simbolo azteco, mia figlia fu convinta definitivamente della straordinarietà extraterrestre della nostra ospite. Per più di venticinque anni non ci siamo riviste o risentite, ma mesi fa le poesie di Chandra Livia Candiani sono apparse, insieme alle mie e a quelle di altre dieci poetesse, nel volume einaudiano Nuovi Poeti Italiani n.6, curato da Giovanna Rosadini. Ed è stato commovente e rivelatore leggere i suoi versi, introdotti da una presentazione particolarmente affettuosa e partecipe. La curatrice infatti così la tratteggia: «Personalità schiva e appartata… un talento genuino e prolifico… leggerezza è il termine che la contraddistingue. Ci sono, nella serenità e nello spirito compassionevole e lieve della poetessa, una profonda sapienza e saggezza, nutrite di consapevolezza psicanalitica e ricerca religioso-filosofica».

Effettivamente da moltissimi anni Livia Candiani, nata a Milano nel 1952 da famiglia di origini russe, si è convertita al buddhismo, ha passato lunghi periodi di tempo in India e vive nel capoluogo lombardo traducendo dall’inglese testi buddhisti: ma non appena può si ritira in un monastero sulle colline del Northumberland, ai confini con la Scozia. Il suo nome elettivo, “Chandra”, significa “Luna”, e del suo interesse per la meditazione e la spiritualità sono pervasi tutti i suoi testi. Che ora possiamo avvicinare, proprio partendo dall’antologia einaudiana uscita nel giugno del 2012. Dopo aver esordito con la pubblicazione di libri di fiabe (Fiabe vegetali, 1984, e  Sogni del fiume, 2001), Chandra Livia si è concentrata soprattutto sulla poesia, e dalla sua feconda produzione -in gran parte tuttora inedita- sono stati editi nell’ultimo decennio quattro piccoli volumi. I testi presenti in  Nuovi Poeti Italiani n.6 sono tratti dalle raccolte Versi d’asino, Il sonno della casa, Bevendo il tè con i morti e Pianissimo per non svegliarti.
Dalle venti composizioni antologizzate nel volume Einaudi si trae, è vero, una prima impressione di sottile e discreta lievità, che tuttavia viene subito contrastata, ad una lettura più attenta, dalla consapevole rivelazione di una vena meditativa più profonda e malinconica, di una assidua e sincera ricerca di significati ultimi, di verità illuminanti: «Noi siamo i vetri / non c’è un dietro per noi / da cui poter guardare / parvenze di altri, / siamo rivolti a tutte / le intemperie / dell’anima e dell’aria», «Noi siamo l’incisione / tra spazio e tempo / taglio netto e profondo / dormiamo così / calpestati da chi sale / e chi scende bare / e culle mattine e notti / feroci e opache, / i testimoni delle scale: / gocciola in silenzio / su di noi la paura dei passaggi».

Se il “noi” di una fratellanza universale, di un comune destino cosmico che unisce tutte le creature viventi, e le lega a tutte le generazioni passate e future («resta / questo filo teso di contati / respiri sopra l’abisso. / Che ci ama. / Tutti.») è il sentimento prevalente della riflessione filosofica di Chandra Livia, la sua storia personale, di gioia-amore-sofferenza-lutti non viene occultata da una retorica sentimentale livellatrice, ma viene assunta e esplicitata nelle sue luci e nelle sue ombre: «dunque la gioia / è questo sangue che bussa / ai polsi, questo amico / dei rintocchi», «Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento sono / bambino sbucciato / corso via perdutamente e poi caduto / a terra, come sparato, / al cuore».

L’amore ha il suo spazio, importante, fondamentale, nel riconoscimento del proprio sé nell’altro, nella condivisione del tempo e dei sogni, nel dono di una reciproca generosità: «Io farina / tu pane / io goccia d’acqua / tu sete / io orlo / tu veste celeste. / Scambiami per un tuo pensiero, un difetto / nella tua smemoratezza, / un inciampo. / Inciampa in me / come in un parente avvinghiato». E alla base di questa capacità e volontà di affidarsi a tutto ciò che avvolge e accoglie il nostro piccolo io, c’è senz’altro questa tranquilla fede nella bontà di un ascolto trascendente: «La saggezza del giorno / si scioglie in pioggia, / sono ascoltata: / goccia per goccia / si stende il velo / pietoso / di un udito / che non ha premura / accoglie / il gradino / su cui si stende preciso il gatto / l’oro nero dell’olmo / l’asfalto lucido e stellato».
Le tre sezioni che compongono il volume che Livia Candiani ha pubblicato da Campanotto nel 2005, Io con vestito leggero, hanno in comune la levità delle atmosfere e delle parole, quasi avessero timore di ferire, o di incidere una realtà che la poetessa desidera solamente sfiorare: con la delicatezza di un soffio leggero, di uno sguardo appena posato, e subito rivolto altrove per discrezione. Si avverte addirittura qualcosa di volutamente svagato, distratto, programmaticamente inteso ad evitare il troppo di ogni passione, di ogni dolore. Ambienti e personaggi vivono la stessa, magica estraneità al mondo concreto delle figure di Lewis Carroll, lontane dalla pesantezza calcolata dell’età adulta. Così La Signora protagonista del primo capitolo «si è seduta sui rami», «è nata ieri / e già la polvere la insegue», «cade tra le pupille imprestate», «chiude i giorni / come fossero veli», «prepara il letto di foglie»: è una fata, forse, o una fantasia, o una promessa di bene. Vive circondata da alberi, foglie, cieli, nuvole e uccelli. Tutte «cose leggere e vaganti», direbbe Saba. Nella seconda sezione, Lettere mai scritte, la malinconia per ciò che non è avvenuto, ed è rimasto sospeso, irrealizzato, si fa più evidente, pur rimanendo circoscritta ad un’impressione sfumata di tristezza: «con quali passi / si finisce se stessi / in una lettera», «Anche una lettera d’affari / è nostalgia / di un impossibile parlarsi», «Come vorrei saper scrivere / una lettera ai boschi / a un fiume o a una / qualità del cielo», «Strano mettere la data alle lettere come fossero / valide solo per oggi».

Il capitolo conclusivo che dà il titolo all’intero volume, ha il merito di aprirsi a versi che offrono il ritratto più esaustivo della loro autrice: «m’inchino ai semafori / e accarezzo con le suole l’asfalto», «Sospendo il petto / ai fili del bucato /…è mia questa capacità / d’amare senza possibilità / d’oggetto», «non siamo rose / né uccelli / né il vento / ma l’attesa di soffiare / di volare / di sbocciare».
Ma c’è un’ ultima, fondamentale, raccolta di versi che Chandra Livia ha pubblicato nel 2007: Bevendo il tè con i morti ( Viennepierre, Milano), in cui i trapassati, sia quelli che abbiamo amato o appena conosciuto, sia quelli che appartengono alla memoria comune, alla fantasia, all’aria, recuperano una loro voce dimenticata o trascurata in vita, memento alla nostra distrazione quotidiana, affettuoso rimprovero per le nostre disattenzioni o temporanee insensibilità. Qui «celeste e terrestre si compenetrano», come suggerisce Giovanna Rosadini, e come appare evidente da questi esempi: «Verso sera / i morti siedono sui fili della luce / come gocce di pioggia / che è già caduta», «il morto che ha paura di vivere / si alza di notte / rassetta la terra / cambia l’acqua ai fiori / della tomba / si siede a guardare le stelle / da lontano. Sfugge / le rassicuranti chiacchiere / dei vissuti», «Non ai morti / si addice la tristezza / ma al bugiardo / perdurare dei vivi », «La morta / con il canarino sulla spalla / dice che come l’uccello / dalla gabbia / lei dal corpo / è sfuggita», «Il passo sboccia / da un’andatura del pensiero / forti come nuvole / passano i morti».

In questa Spoon River milanese, dagli esotici accenti orientaleggianti, Chandra Livia Candiani riflette la sua sensibilità ricettiva e premurosa, con una voce che si riconosce assolutamente femminile e lontana da paludate tradizioni letterarie del nostro novecento: più vicina semmai alla delicatezza delle liriche cinesi, a una storia millenaria di ascolto e aconfessionale preghiera.  La stessa discrezione partecipe che la tiene lontana dai circuiti editoriali e mediatici di produzione poetica tanto in voga oggi, e invece attiva conduttrice di seminari di poesia nelle scuole elementari. Forse proprio in uno di questi appuntamenti con i più piccoli, Chandra ha incontrato la ragazzina cui dedica i versi finali dell’antologia einaudiana: «Fatema, la bambina rom, ha scritto: / è bello / vedere l’aria felice». Ecco, questa sembra essere l’ambizione più assoluta della sua poesia: una condivisione gioiosa di purezza, di verità.

© Riproduzione riservata             «La poesia e lo spirito», 7 novembre 2012

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, SULLA BOCCA DI TUTTI – CROCETTI, MILANO 2011

Un libro importante, denso e profondo, di una poesia che scava se stessa alla ricerca della verità, ultima o approssimativa, di una parola -comunque- che sia rivelatrice d’altro, e accompagni lettore e poeta, insieme, verso un approdo di conoscenza e di riconoscenza, di indagine e di perdono. Poesia radicata nel dolore, che è di tutti, della natura, del mondo e della storia. Una storia che ci precede («gli scomparsi», tanto citati in questi versi: dai primi abitanti della terra ai soldati con le corazze dello stesso argento del cielo, dai genitori suicidi alle vittime di ogni violenza); una storia illuminata da flash improvvisi, incubi e allucinazioni : paesi sterminati dai nazisti, stragi e attentati, macerie, mutilazioni. Partendo dai sacrifici animali dei riti antichi per arrivare all’undici settembre, descritto con analiticità quasi scientifica, a evitare qualsiasi retorica o abuso di commozione, nel cemento e nel piombo che si sgretolano insieme al sangue, all’amianto e alle travi («proiettili di corpi fusi»), secondo leggi fisiche immutabili: «come chiariva Galileo», «poveri corpi fatti di paura / primordiale, un gesto come avere gettato il pane». Non c’è traccia di innocenza, in questi versi: sentimenti e corpi vengono disarticolati con asciutta compunzione, con anatomica precisione. Non troviamo sguardi, carezze, capelli: la fisicità è fatta di crani, tendini, vertebre, viscere, atlanti cerebrali, e la nudità della sostanza di cui siamo composti ci condanna senza scampo a un destino di annullamento, di silenzio eterno: «Siamo l’effetto di un contratto / provvisorio tra la materia e il nulla». Non si può certo parlare di freddezza, per queste poesie così severamente e tranquillamente disperate; esse esprimono una loro sacralità però quasi paganeggiante, lontanissime dal tono umile e solidale della letteratura religiosa. Vibrano orgogliosamente di una voce perentoria, declamata, alta e severa, del tutto laica, nonostante i numerosi riferimenti evangelici, e le sentenze latine che richiamano a una lontana patristica riecheggiata esclusivamente per la sua nobile e altera ascendenza culturale. Poesia visionaria e misteriosa, ma estranea al sentimento del fantastico e dell’immaginoso: invece concreta e dura nel dichiarare ed esibire l’ingiustizia di una condanna alla mortalità, alla sofferenza: «in mute cuciture prenatali / tra bordi di lesioni provocate / da uno sgomento / sproporzionato alla fragilità del corpo», «il castigo ci colpisce senza / intelligenza e / all’improvviso spacca l’armatura». C’è insomma questa amara consapevolezza del nostro comune destino, di noi piccoli episodi transeunti nella indifferente e grandiosa vicenda universale: «Siamo depositi di li- / mature / a passeggio tra gli alberi di questo bosco. Nessun / dolore, siamo bellissime / composizioni / di rovine del mondo / quando era perfetto». La presenza del “noi” è una costante, mai progettuale, mai gioiosa o affratellante : «Siamo una compagine di vento / un canneto di carne lapidata / un fluttuare canoro di risorti», e a questo senso sconfortato di disfacimento della materia, la poetessa può e sa opporre solo la potenza inclemente dei suoi versi: «tutto questo apparente incorruttibile / verde sarà fieno, alimento, latte / di nuovo carne che si disfa / e carcassa / lisca / saturnale. / Io più di questo non potevo fare per mettere argine a questa / fine».

 

«Leggere Donna» n.155, giugno 2012

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, LA VITA CHIARA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: La vita chiara, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: «l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische». Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione («il gelsomino / colma di fango tenebroso / le corolle», «i sassi / trasportati dai vermi / nella bocca»). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: («sono una piccola catasta di membra / che la sua nudità dovrà pur / calpestare»). E’ lo stesso «amore ammalato» che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa («sotto gli occhi di tutti», «sulla bocca di tutti») è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile  («Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore», recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla «bassezza del marmo» ritorna e si riduce implacabilmente («il mio corpo è bersaglio / e colonna di fuoco / è setaccio / e tamburo»); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. «Mon coeur mis à nu», appunto.

 

«Poesia» n.266, dicembre 2011

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RONDI-GAY DES COMBES

ELENA RONDI-GAY DES COMBES, DISSOLVENZE – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Questo libro, secondo la prefatrice Maria Rosa Valentini, «non vanta una trama ossuta, ma piuttosto si avvale di un gioco di specchi, di giustapposizioni che pongono in evidenza ritratti e profili di molte donne risucchiate dalle ragnatele della quotidianità». Ambientato in una provinciale cittadina della Svizzera Italiana (l’autrice è ticinese), il romanzo intreccia le storie di cinque protagoniste femminili, diverse per età, carattere e condizione sociale, ma accomunate tutte dalla stessa attenzione verso lo sguardo: soggettivo od oggettivo, interiore o esterno. Quindi l’interesse è focalizzato su quegli oggetti che maggiormente si fanno interpreti dell’atto visivo: la macchina fotografica e lo specchio. La vicenda si apre nella boutique in cui Anna, commessa, offre i suoi competenti consigli alla signora Kramer, cliente assidua ed esitante. La prima, attenta ad interpretare la psicologia delle acquirenti, è una giovane donna appassionata di fiction televisive, pratica e senza particolari esigenze esistenziali: la seconda è una signora della buona borghesia, mediamente infelice e ingessata nel suo ruolo di moglie-madre incapace di ribellioni. Entrambe usano lo specchio, una in modo professionale e distaccato, l’altra come scrutatore dell’anima.
Anna ha una sorella più giovane, Chiara, in grado di muoversi con naturalezza solo nel suo giardino e nei rapporti umani che sa indagare con profonda sensibilità, ma privata della vista per una malattia infantile: cieca quindi verso l’esterno ma attenta osservatrice dell’interiorità.
Le altre due protagoniste sono Lucia e Eileen, legate da un misterioso rapporto di complicità iniziato casualmente da uno scatto fotografico rubato. Ognuna di loro vede nel ritratto fotografico ciò che desidera vedere: la felicità o l’angoscia dell’altra, le proprie proiezioni e aspettative di riconoscimento. Dunque le dissolvenze cui si allude nel titolo del romanzo sembrano soprattutto indicare una difesa dall’aggressione troppo esplicita dell’esistenza.
La fotografia non riproduce la realtà, ma tende a ricostruirla: «Di autentico c’è solo il nostro sguardo iniziale… se l’immagine non corrisponde alla realtà, tanto peggio per la realtà».
Lo stile con cui Elena Rondi-Gay del Combes racconta le vicende intrecciate delle sue protagoniste è curato ed elegante, i dialoghi credibili e funzionali.

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

RECENSIONI

ATTANASIO

DANIELA ATTANASIO, IL RITORNO ALL’ISOLA – NINO ARAGNO, TORINO 2010

Si apre con una poesia intitolata  Risveglio, questo bel libro della poetessa romana Daniela Attanasio: quasi un augurio di nuova vita, che penetra nei versi con la luce dell’alba. E «luce», infatti, è forse il vocabolo che più si rincorre attraverso i quattro capitoli che compongono il volume, come una costante di apertura, di desiderio chiaro, di energica vitalità modulata in versi che hanno la solida positività di una narrazione che si vuole condividere. Così nella prima sezione, intitolata luminosamente  aQualche scintilla, è la metropoli di oggi, brulicante di esistenze e razze differenti, di colori profumi rumori e lingue diverse, che si impone nelle descrizioni stupite e grate dell’autrice. La sua «Roma di rosa pallido di azzurro sporco», si spalanca con disordinata allegria su «un secchio di fiori una panca la metropolitana / la croce della farmacia, odori molli dolci / di pelle indiana»: per cui, quasi pasolinianamente «a snodare la passione del giorno / è un disperante bisogno di vita». Ma è soprattutto la seconda sezione, che dà il titolo al volume, ad aprirsi al miracolo dello sguardo ricreante, in una vertiginosa identificazione con la natura e l’esplosione dei suoi colori. L’isola di cui si parla nel poemetto («quest’isola / piccola e selvaggia») è Ginostra («felicità infantile / come un giro di / giostra»): esplode nella sua concreta e paganeggiante rigogliosità fatta di “roccia nera / vulcanica sulfurea / raspi di capperi… terrazze accovacciate… teli di bucato… gigli di mare… corpi scivolati nel / sudore… gabbiani reali appollaiati… spiaggia trascolorata… intonaci /increspati come petali di / un fiore… livide raffiche di vento… rosso dei pomodori / rimasti a seccare sotto il sole». Una fisicità di cielo e mare, odori e suoni che si fa pura, esaltata visione, e insieme volontà di comunione, non solo con l’amato con cui si condividono i gesti più quotidiani e attenti, bensì con il tutto che respira intorno, fino alla riconoscente resa in poesia: «Vera ragione di esistere / è questo guardare la vita / patendola fino al raschio / delicato della poesia», «cerco un verso che / sanguini fedeltà alla vita», «il mio modo / di guardare l’isola / è una forma del / pensare, qualcosa di / molto umano, una cosa / pura, un inizio // come cercare Dio nella bocca del vulcano». Proprio la forza incombente del vulcano, guardiano del suolo, testimone sedimentato da millenarie età geologiche, rappresenta più una sicurezza che una minaccia: «il vulcano è ancora lì / con la sua mappa di rughe ctonie- / solo lui resiste»: ed è una promessa di solida e fedele permanenza nel fluttuare incostante delle vicende umane. Il ritorno alla banalità urbana, la fine della vacanza e dell’immersione in un’innocenza primordiale, si concretizza in un  Dopo che corrisponde al terzo capitolo del libro, e a una separazione, alla fine di un rapporto d’amore: «circondata dal buio e dal / silenzio, posso iniziare a ricordare», «poi è accaduto qualcosa che non so capire», «siamo corpi separati dentro una cassa di gesti morti». Eppure, anche nella malinconia del distacco, non sono davvero buio e silenzio a prevalere. La poetessa sembra voler chiedere ancora una volta soccorso alla natura, alla bellezza del creato per una consolazione che non sia fittizia: «vieni luna gentile, lava le pietre della mia memoria / attraversa con i tuoi raggi bianchi cuore e cervello / chiudimi dentro una suadente amnesia», «amo anche te vela nera d’agosto / e amando te amerò il dopo del buio e della pioggia». Sono versi che indicano sempre e comunque una salvezza, una gioiosa accettazione e adesione all’esistente. Persino la visione della morte futura non ha nulla di spaventoso e di tragicamente definitivo: «soccombere alla luce- un modo di morire contenta / scivolando nella materia che amo». La scrittura poetica di Daniela Attanasio («un nome ebraico e un cognome greco») sembra rifiutare i moduli tradizionali di rima o metrica, ma si avvale spessissimo di metafore e di enjambements che aspirano a creare nel lettore effetti di straniamento e sospensione, di sorpresa e meravigliata interrogazione, in linea con la convinzione etica espressa dai suoi contenuti: un inno alla vita, una partecipazione convinta alla bellezza . Così anche l’ultima parte del libro, con le tragiche epigrafi tratte da Amelia Rosselli, e allusive alle «sue disarmate visioni», alla malattia, alla fine, termina con un «cordoglio d’allegria», con la constatazione che «da tutti i tuoi mali d’amore nasce sempre qualcosa, / tocca la primavera di aprile scolpita sulle foglie / i voli frastagliati degli uccelli, le rondinelle…».

 

«Atelier» n. 67, settembre 2012