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BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA FRAGILITA’ CHE È IN NOI – EINAUDI, TORINO 2014

La fragilità è un difetto, una colpa, la spia incontestabile di uno stato di precaria e instabile debilità?
Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra e fenomenologo di fama, le dedica questo prezioso volumetto pubblicato nella collana  Le vele  di Einaudi, da subito prendendo le sue difese: «La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi».

Fragile è il silenzio, espressione spesso di timidezza o incapacità comunicativa, e fragili sono anche le parole, inadeguati scandagli dell’anima propria e altrui. E quanto fragili, trepide e vulnerabili sono le emozioni che ci vivono dentro, siano esse positive come la gioia, la speranza e la grazia, impalpabili e transeunti, siano invece negative come la tristezza, la malinconia, la nostalgia, che oscurano gli orizzonti delle nostre giornate e i rapporti con gli altri. Eugenio Borgna riflette sulla natura della fragilità come esperienza interpersonale («… è il nostro destino… nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi»), e si addentra empaticamente con la sua decennale esperienza professionale negli stati fisici e psichici più segnati dalla fragilità: la malattia, in particolare quella mentale, nei suoi aspetti patologici e clinici.

La follia non è evento naturale bruciato dalla sua insignificanza, ma è esperienza storica ed esperienza sociale: non c’è follia nel regno animale. La follia non è qualcosa di estraneo alla vita: in alcuni fra noi essa si manifesta con grande intensità e con un diapason fiammeggiante di angoscia e di tristezza, di disperazione e di dissociazione; ma la follia nella sua radice più profonda è una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose, e con le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore. Il dolore e la stanchezza di vivere possono suggerire a chi soffre la strada definitiva del suicidio, seguita con severa determinazione dalla giovane poetessa Antonia Pozzi, o possono murare l’individuo nel «fine pena mai» dell’Alzheimer, malattia tuttora circondata «dal filo spinato del pregiudizio». E gli anni più scalfibili, le età dell’esistenza più aggredibili dal sentimento della propria inadeguatezza, sono secondo Borgna l’adolescenza e la senilità, «cittadelle assediate» da paure, sconfitte, solitudini, dipendenze emotive, subalternità ideologiche: periodi di vita non ancora sfruttabili o già totalmente sfruttati dal mondo produttivo e consumistico che ci condiziona tutti. Eppure, scriveva San Paolo nella Lettera ai Corinzi, «quando sono debole, allora sono potente». Come non riconoscere, infatti, una vittoriosa forza di resistenza in alcune esperienze mistiche solo all’apparenza inquiete e angoscianti, come quelle di Teresa di Lisieux e di Teresa di Calcutta, o nelle esili figure artistiche di Alberto Giacometti? E cosa ci può indicare la vulnerabilità del carattere femminile, più sensibile e introspettivo di quello maschile, capace di riconoscere non solo le proprie ferite, ma anche quelle altrui, quando riesce a trasformare con tenerezza «le relazioni umane, immergendole in atmosfere di accoglienza, e di non conflittualità»? La fragilità, conclude Eugenio Borgna, non è «una forma di vita inutile e antisociale, e anzi malata, e che non merita nel migliore dei casi se non compassione»: essa nasce «dalle falde più profonde e creatrici della nostra interiorità», ha l’inconsistenza di un sorriso, la sua gratuità, ma anche la sua profonda dolcezza e mite iridescenza.

 

«incroci on line», 14 dicembre 2014

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MANFREDI-CORBO

GIULIANA MANFREDI e GEORGIA CORBO (a cura di), A PROPORRE BELLEZZA E UMANITA’.  I colophon di Alessandro Scansani – EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA, ROMA 2013

Giuliana Manfredi e Georgia Corbo hanno curato con passione e riconoscente amicizia questo elegante volume dalla copertina azzurra e dal formato oblungo, che propone ai lettori un omaggio all’intelligente e coraggiosa attività editoriale di Alessandro Scansani, morto precocemente nel 2011. Scansani fu il fondatore e l’anima pulsante delle edizioni reggiane Diabasis, nate nel 1988 con il nome de  Il Guado, che già indicava l’idea di attraversamento, come quello successivo, ellenizzante: il quale sta ancor più a indicare un progetto di peregrinazione intellettuale, e di raggiungimento di salvifici approdi. Questo libro, introdotto e concluso da due puntuali commenti di Elvio Guagnini e Maria Teresa Giaveri, offre testimonianza del lavoro svolto per 23 anni da Scansani attraverso la pubblicazione di centoventitré colophon, scelti tra i moltissimi che chiudevano tutti i libri delle sue edizioni. I colophon sono le poche righe finali in cui normalmente vengono citati la data e il luogo di stampa, o il nome della tipografia: Scansani ne aveva fatto un’arte particolare e gentile, non solo citando e ringraziando tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione del libro, e fornendo indicazioni preziose anche sulla carta e sui caratteri utilizzati, ma addirittura accompagnando queste note con un commento in similversi, una sorta di epigrafe che si trasformava in una minirecensione, utilizzando suggestive metafore, illuminanti immagini visionarie. Cosicché il catalogo Diabasis si arricchiva di gemme conclusive, dettate dalla sensibilità pudica di un editore che non solo amava profondamente la poesia, ma sapeva frequentarla in prima persona con discrezione e raffinatezza. Gli autori proposti dalla casa emiliana erano i più vari: da classici come Petrarca, Ariosto e Leopardi a poeti famosi come Paul Valéry, Sbarbaro, Biagio Marin, Roccatagliata Ceccardi, Paolo Bertolani (senza dimenticare l’avanguardia e Adriano Spatola, e altri autori meno noti ma ugualmente dignitosi); da narratori di fama mondiale come Camus ai nostri Cancogni, Tomizza, Pederiali, Silvio D’Arzo. Un’attenzione particolare era rivolta agli scrutatori d’anima, e ai percorsi spirituali di Kierkegaard, Mounier, Dossetti, Panikkar, Hans Küng, Martha Nussabaum, Nicolas Bouvier, nel loro aprirsi al confronto con tutte le religioni. Scansani li commentava così: «il variare delle forme / l’orizzonte diverso delle attese / e la ricerca di risposte altre», e così: «ferita mortale per Dio / e per la morte / tra la fine e l’inizio / dei tempi…». Altrettanto rispettoso interesse veniva rivolto agli studi sociali e ambientali (arte, architettura, fotografia, storia, urbanistica, salute, femminismo, razzismo e multiculturalismo), che sapevano coniugare insieme rigore intellettuale e passione politica, e si valevano di illustri prefatori: Galante Garrone, Asor Rosa, Mario Lavagetto, Paolo Prodi, Edgar Morin, Luigi Covatta… Ad ogni volume si accompagnava un colophon particolare, sempre caratterizzato da profonda empatia e acutezza critica:  «Lungo / le infinite cesure / del nostro tempo / nel futuro smarrito / dell’utopia e nell’ossessione / della memoria…», «e la poesia / cerca il filo dei suoi labirinti…», «Nel blu / profondo / imperfetto e incerto / della creazione vissuta / dove la Bellezza / si misura e sborda», «nella primavera maudite di una povera Italia / a proporre bellezza e umanità / in versi che durino…».

Scansani nutriva in sé la consapevolezza del dovere etico di una scrittura che sapesse farsi eleganza formale senza dimenticare la sua responsabilità di educazione civica, di impegno politico, e nello stesso modo conosceva e amava gli autori che proponeva in lettura, come si evince dalle righe dedicate a uno scrittore a lui caro, nato e morto nella sua Reggio Emilia, Giorgio Messori: «autore così assoluto e discreto / da rischiare in vita l’invisibilità». Un libro da conservare con cura e gratitudine, questo dedicato ai colophon di Diabasis, che bene evidenziano, come scrive nella postfazione Maria Teresa Giaveri, «il rapporto fra quell’amore della parola che genera poesia e quell’appassionato rispetto delle parole altrui che genera programmi editoriali».

 

«incroci on line» 10 novembre 2014

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STEINER

GEORGE STEINER, I LIBRI HANNO BISOGNO DI NOI – GARZANTI, MILANO 2013

Nel primo e nel terzo dei tre saggi che compongono questo volume di George Steiner, l’illustre critico (Parigi, 1929) esibisce una sua appassionata, vibrante, devota, apologia del libro, “oggetto” culturale e di culto a cui ha dedicato tutta la vita, da quando, a sei anni, suo padre iniziò a leggergli Omero, Shakespeare, Heine. E del libro indaga con arguta intelligenza teoremi e corollari, introducendo il lettore alle sottili distinzioni tra testo e percezione del testo, al mistero dell’incontro con la lettura (talvolta casuale) che può cambiare la vita, alla «neurochimica» dell’atto creativo: e poi al ruolo collaborativo del lettore, alla ottusa perfidia del potere che si esprime nella censura, alla vitalità eterna dei personaggi romanzeschi capaci di sopravvivere ai loro creatori, al destino futuro dell’editoria davanti all’implacabile avanzare di nuove tecniche informatiche, al declino inevitabile della lettura tradizionale, basata su memoria, concentrazione, silenzio, competenza letteraria. Ogni grande letteratura è sovversiva, afferma Steiner, perché «dice NO alla barbarie, alla stupidaggine, alla banalizzazione delle nostre attività e dei nostri giorni causata dall’etica consumistica del capitalismo tardivo». E ogni libro dimenticato «è sempre capace di resuscitare… un libro autentico non è mai impaziente». Se questi due saggi sono espressi in uno stile accattivante e con temi totalmente condivisibili, è invece il secondo testo del volume ad offrire al lettore spunti di riflessione più originali e polemici, capaci di suscitare permalosità e discussione. Con il titolo di  Il popolo del libro, Steiner esamina da ebreo il rapporto del popolo ebraico con la scrittura, che per due millenni si è totalmente identificata con Le Scritture: «La sinagoga è accecata dal ‘letteralismo’, dalla chiusura nelle immobili minuzie del testo e del commento, dell’idolatria per la lettera». Sottolineando «il valore morale, la dignità intellettuale della condizione ‘libresca’ dell’ebreo», Steiner ne mette però in luce anche la pericolosa ossessione per l’esegesi, che ha dato luogo a una «produzione interminabile, parassitaria, secondaria e, in definitiva, sterile, come un fiume di sabbia nel deserto della Namibia», e che ha immobilizzato la cultura ebraica in una sostanziale aridità letteraria e filosofica per molti secoli. Solo con Kafka e con i romanzieri contemporanei americani si è finalmente spezzato «il lungo monopolio della testualità rituale e giuridico-esegetica del giudaismo», producendo addirittura una sorta di rivolta edipica, tesa a «demolire il logocentrismo patriarcale» attraverso l’ironia dei media, o il decostruzionismo e il postmodernismo, o i contributi odierni alla logica formale. Molto interessante risulta poi la riflessione di Steiner sulla differenza tra la scrittura normativa, prescrittiva della cultura ebraica, essenzialmente filologica, e invece l’oralità dell’insegnamento di Socrate e di Gesù, basato sull’incontro con l’altro, sulla «vitalità metaforica della parola pronunciata»: quindi sulla distinzione fondamentale, istituita dal cristianesimo, tra “lettera” e “spirito”. Ma proprio in questa sua intransigente fedeltà alla “lettera” Steiner individua la particolare passione del popolo ebraico, che ne ha garantito la millenaria sopravvivenza a dispetto di ogni persecuzione: un popolo «krank an Gott, affetto dal cancro del pensiero», sopravvissuto grazie a «questa grande follia, questa irresistibile sete di conoscenza e di esercizio intellettuale». E la cui minaccia di estinzione può venire oggi non tanto da nuovi pogrom e guerre religiose, quanto dal suo desiderio di omologazione: «il giudaismo si esaurisce nella più distruttiva delle condizioni favorevoli: la normalità».

 

«incroci on line», 23 novembre 2013

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STRUMIA

FIIPPO STRUMIA, POZZANGHERE – EINAUDI, TORINO 2011

Viviamo in tempi e latitudini che proclamano a gran voce la frattura esistente tra mondo e soggettività, interno ed esterno, cultura (in tutte le sue accezioni) e natura. Una disarmonia che ferisce l’individuo e la collettività, rendendo entrambi prigionieri di una condizione esistenziale di sofferenza e di impotente sterilità. In tale terreno, scabro e irredimibile, si muovono i versi di Filippo Strumia, psicanalista romano cinquantenne, alla sua prima pubblicazione di poesia. Un poeta che si scopre soprattutto nella sua fragilità di uomo scalfibile e votato alla sconfitta («Sono nato scoperchiato // mi scopro nuovamente / qualcosa senza guscio. / E non so che fare», «sono un verme nel becco del mondo», «un esiliato ultraterrestre / come me», «io mi so mezza cartuccia», «io che sono esperto di fughe e sottrazioni»), se il vocabolo a più riprese ripetuto nei suoi versi è proprio «paura»: «anche il suono / delle foglie fa paura», «Ho diritto alla paura», «la paura morde la pelle», «in un bagno di paura e dolcezza», «Non so che paure mi versi nelle ossa».

Per cui l’unica àncora che lega all’esistente è l’osservazione disincantata e asettica di ciò che ci circonda, dall’immensamente grande (universo, stelle, nebulose, eoni, galassie) all’infinitamente piccolo (batteri, insetti, microrganismi), con una sensibilità particolare sia per la bellezza folgorante, sia per ciò che appare inquinato, corrotto, fangoso (le pozzanghere, appunto). E soprattutto è il mondo animale quello a cui il poeta presta più partecipe attenzione: il lupo con le zanne grondanti sangue, le «arcaiche scimmie», ma soprattutto i pesci, nostri ancestrali progenitori: sempre inseguiti e «infilzati dall’arpione», sempre prede di una natura feroce. E non c’è nessuna visione laica o paganeggiante, bensì un continuo rimando a un’emotività cattolicamente intrisa di senso del peccato e della colpa. Anche la professione intellettuale è vissuta come un allontanamento dalla sana vitalità del «mondo scanzonato» del lavoro manuale: «Come vorrei parlare da uomini / e andare con loro all’osteria / un po’ di vino, calcio e allegria, / vorrei mostrare che sono simile a loro / non sono migliore non sono un padrone». La psicanalisi di cui vive Strumia è quasi un raggiro: «Un altro giorno da brigante / diligente dondolando sui rami ad aspettare / i pochi viandanti smarriti per la via», e questo risentimento della coscienza finisce per esprimersi in esacerbati manifesti di intenti, in programmatiche dichiarazioni di fede o di pensiero che risultano tra le prove meno riuscite del volume. Che invece si fa più risolto quando si alleggerisce nella descrizione di una «inclita dea barista», o della riposante sala d’aspetto del dentista, con uno stile sempre oscillante tra lirismo e narrazione, prosaicità e elegia, ossequio alla tradizione e volontà di innovazione, ironia e disperazione.

 

«Orizzonti» n.43, giugno2014

RECENSIONI

TEMPORELLI

ANDREA TEMPORELLI, TERRAMADRE – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2012

Sei sezioni compongono questo libro di Andrea Temporelli, contrassegnate da titoli che rimandano alla natura o al dominio dello spirito, temi che si rincorrono e intrecciano in tutto il volume. Una natura sempre in bilico tra promessa e minaccia, seduzione e sfida («Certe mattine il cielo è una promessa», «il ticchettio spaventa i nidi, il vento / turbina foglie e lacera giornali, / promette brace fuoco e zolfo»), provocando fantasmagoriche allucinazioni mentali («crepita il fuoco e accresce in mostri / piccoli insetti»), a cui il poeta oppone una dignitosa ed esplorativa resistenza: «lui rimarrà lì immobile ad attendere», «io assisto allo spettacolo da qui, / semplicemente. // …non attendo nessuno / non ho nulla da dire / piuttosto prendo appunti». Una natura che comunque è testimone e partecipe dello srotolarsi della storia, universale nei millenni, e particolare nei giorni della quotidianità: «Non indugiare adesso / ai piedi di quelli che furono / muraglie di ghiaccio in ritiro, / acquitrini malsani, / foreste celtiche e poi / avamposti d’impero». E la storia personale di Andrea Temporelli è sfiorata con la discrezione del poeta che si sa unico e insieme comune, nel rimpianto che è di tutti per il tempo che passa («Ma gli anni gli anni come trattenere / infedeli e dannati»), e che rimane tuttavia inconfondibile nella sua peculiarità. Eccoli, dunque, gli anni turbati dell’ infanzia in seminario, con i compagni che fanno roteare il turibolo come una fionda, o nascondono le ostie nel tovagliolo per merenda: mentre lui, il futuro poeta bambino, trasforma l’ obbligatoria preghiera serale in un’invocazione quasi blasfema : «Preservaci, preservaci dal padre». Ecco l’amore in versi inteneriti : «staremo bene / avrebbe voluto dirle d’un fiato / senza paura d’essere ridicolo / ma si zittì sentendola già ridere / piena di gioia tanto da aver voglia / di fare un figlio, lì, / subito, per telefono». O la polemica con la conventicola dei letterati: «Ti giuro c’è chi scrive / per uccidere», «Si seppelliva vivo col pennino sicario, / scrocchiava sulla stilo come un’ostia». Formalmente, la poesia di Temporelli vive una sorta di oscillazione (come il funambolo descritto in una composizione, scisso tra equilibrismi e vertigini, slanci ed esitazioni) tra classicità eccessivamente esibite («Ma tu sarai per me la vita intera, / il soffio in cui la voce non arriva», «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna») e soluzioni più sperimentali («Ruzzolo / – la testa è gigantesca- / nello zenit del / cantando»): comunque, l’endecasillabo impera in moltissimi incipit e anche nel corpo di quasi ogni poesia, consapevolmente e orgogliosamente tradizionale. Ed è nel poemetto che dà il titolo al volume (Terramadre) che l’autore raggiunge la sua più consistente e sicura maturità: una sorta di Spoon River rivisitato nel cimitero del suo paese, omaggio a «Coloro che precedono in ascolto, / i prediletti», «ottimo / concime nel cortile disertato». Disfacimento della memoria e dei corpi («Sbocci dunque la rosa rovesciata / davanti a una platea di vermi»), di fronte al teatrino dei viventi, con il fantasma aleggiante e tentatore della morte («La sconcia locandiera dell’albergo») che «ci fa semplici», e tutto riconduce alla sua estrema, imperturbabile verità. Dei destini dei sepolti nella terramadre, e di uno particolarmente a lui più vicino e fratello, il poeta sa di doversi fare testimone, pur se proclama umilmente: «Ma il solo modo di onorare i morti / è dire addio come si dice addio / a un amore per salvare l’amore». Quindi, una poesia che salva, anche solo con la silenziosa e pietosa complicità dello sguardo.

 

«incroci on line», 10 maggio 2013

RECENSIONI

TESTORI

L’ AMORE di GIOVANNI TESTORI
Giovanni Testori, Poesie 1965-1993, OSCAR MONDADORI, MILANO 2012.

Questa raccolta di cento poesie, scritte tra il 1966 e il 1967, fu pubblicata da Feltrinelli nel marzo del 68: anno strategico, drammatico, pulsante – per la storia, per le vicende politiche e per lo sviluppo del pensiero filosofico del mondo occidentale. Nessuna eco esterna, nessun fremito ideologico trapela dai versi di Giovanni Testori, completamente immersi, grondanti, recintati in un privato esclusivo: in un amore.
L’amore, appunto, è il titolo di questo volume di poesie, categorico e definitivo, come deve essere quando si parla di chi entra nella propria vita (nei pensieri e nella carne), e la domina, totalizzandola. Alain è il ragazzo a cui Testori offre questa testimonianza, insieme lucida e delirante, possessiva e sacrificale, di un sentimento assoluto. Una confessione, un testamento, una richiesta d’aiuto. E, insieme, una condanna.
Viene in mente l’affermazione severa di Charles Peguy: «Una parola non è la stessa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito».
Viscerale è la scrittura di Giovanni Testori; lacerata, inquieta, crudele. Anche quando si intenerisce e commuove su se stessa, anche quando sembra placarsi nella contemplazione più pura.
Confrontandola con le parole di altri poeti omosessuali, la sentiamo così lontana dall’azzurra tenerezza di Sandro Penna («La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta»), dalla dedizione ideologizzante di Pasolini («con maschile / pudore e maschile impudicizia / nelle pieghe calde dei calzoni nascondendo indifferenti, o scoprendo, / il segreto delle loro erezioni»), dalla sfrontata esaltazione di Dario Bellezza («Satana mi vuole perduto e peccatore. / Io devo smettere l’orgoglio / di sapermi diverso. Irreale / amante dei diversi»). E dall’incantato, classicheggiante omaggio di Stefan George («Quando dietro il cancello fiorito / alfine sentimmo solo il nostro respiro, / godemmo le sognate beatitudini?»), o di Kavafis («Ormai ricordo appena gli occhi: azzurri, forse… / Oh, azzurri, sì! Come zaffiro azzurri»).
«Ciascuno la propria tristezza / se la compra dove vuole», scriveva Antonia Pozzi. E Giovanni Testori ha comprato la sua tristezza profonda, irredimibile, in questi versi e in questo amore. Mai gioioso, mai esultante, anche nel possesso più totale ed esclusivo: ma temuto e riconosciuto in un presente di colpa e sofferenza, in un futuro di solitudine e distacco.
L’offerta di sé del poeta è totale, generosa, oblativa: «T’offro, amore, / guarda, / gli zigomi, le palme / e l’ultima forza / dell’insana maturazione; /…i fianchi, / il labbro t’offro, / la speranza, / il mio stesso battesimo, / la mia firmata dannazione / t’apparterrò e per sempre, / perché sarà oltre i sensi, / il dolore, / l’apparenze…».

E la fusione con l’amato ricorda la tensione religiosa dei grandi mistici («perché t’amo, carne / più della carne, / in anima»), nell’utilizzo di vocaboli, immagini e riferimenti che appartengono tutti al repertorio culturale della cattolicità (battesimo, inferno, Croce, sudario, martire, il Cristo delle spine), all’interno del rapporto tormentato e folgorante che Testori ha avuto sempre con la fede e la Chiesa.
Eppure, con quali e quante similitudini e attributi dolcissimi e innocenti il poeta definisce il suo ragazzo: petalo astante, faro, luce dell’alba, sangue, rubino e viola della sera, figlio, capanna, stella, unico amante, mia vittoria sul nulla, segno dell’aldilà dopo la fine, giovane lepre e stanca bestia, mia volpe, mio santo, eternità nel nulla, ala, carne di me, mia falce, mio martire, mia colpa, mia unica salvezza, mia fornace, tu meraviglia e gaudio, rondine mia cresciuta nel nido del mio cuore, amore disperato, mia cara luce, felce piegata in sé, mio bosco, zaffiro del passaggio, mia grande nevicata, piccolo coniglio, vigore del mio stelo, angelo, cielo, diamante, mio airone, mia gironda, edera verde e ruggine, mio bambino adulto e delicato, mia lettera prima, mio trionfo, mio sudario, mia cara nudità…
Il suo amore sa farsi anche paterno, protettivo, fino a spingersi ad immaginare per l’amato una vita di futura e tranquilla normalità, augurando e prevedendo per lui la nascita di un figlio: «padre responsabile, felice, / e i figli attenderanno / il tuo ritorno», «Il figlio che avrai un giorno, / il figlio arcano e biondo, /… che segno porterà in sé / di me, / nella sua anima e nel cuore?», «Vedo tuo figlio in te. / Ancora non è nato / ma già ne scorgo salire / dal tuo sonno / il primo riso. / Lo guarderai dormire / com’ io guardo te, / padre ingiusto e furtivo».

Perché invece è lui, il ragazzo-amante, il figlio vero e sognato, non generato e inventato, ricreato a parole e nei gesti dell’amore, quello in cui il poeta si perpetua e cerca un’eternità profana, promettendogli un’eredità perenne di ricchezze inestinguibili: «O figlio amato, / mai avuto che in te, / di cui accolgo nel bacio / lo spasimo dei sensi / ancora chi t’ha amato / t’amerà / e così sempre, / mio figlio, / mio sudario».
Di Alain il lettore conosce poco, a parte il neologismo che accompagna alcuni luminosi vocaboli: alanina luce, alanina alba, alanina infanzia. Forse la sua Parigi, a cui il poeta allude velatamente; il suo scendere da un aereo, salutando: «Scendevi, / l’ala appena immobile; / emergere ti vedevo /…- la piccola valigia tra le mani, / il trench, / la sciarpa che s’alzava /… l’aria ronzava / dell’oro del tuo viso / e della grazia adolescente /…  Al tuo saluto / s’accendevano le foglie / di brughiera / – la mano in alto, / mollemente- / ed io perdevo forza, / ero lì, / morivo, / io che t’aspettavo / travolgendo me in me, / carbone, legno arido, / fuoco vivo di te, / della tua luce».

Pochi sono i particolari fisici recuperabili nei versi: «la tua dolce, tenera saliva… il curvato ventre… la schiena adorata… l’alito denso», fronte, guance, mento, ciglia, ricci: ma senza una descrizione vera e propria che stagli un’ immagine corporea. Eppure Testori riesce a rendere indelebile, con pochi leggerissimi tratti, la delicatezza della giovane figura. Come quando racconta di un improvviso ricovero ospedaliero del ragazzo, del tremore di entrambi (amanti, ma anche padre e figlio) nell’ attesa di una diagnosi, della gioia di una riconquistata salute: «Seguo l’occhio sapiente; / tormento di domande / lo sguardo del medico, / il suo braccio; / l’aiuto a liberarti; / t’alzo la maglia; / t’abbasso il caro slip: / il ventre appare. / Tremi nel suo tremito, / piccolo coniglio».

L’amore tra i due è assolutamente fisico, sensuale, ma lontano da qualsiasi crudezza o volgarità; piuttosto dilaniato in un possesso che vorrebbe superare anche i confini della fisicità, in un’ansia divorante che sembra non conoscere sorriso, clemenza, perdono: «mentre bacia il tuo bacio / la mia vana caverna», «fusi nell’abbraccio che ci avrà distrutti, / cancellati», «ti stringo / oltre il curvato ventre, / ombra interiore di carezze / che ti bacio, / abbacinante nudità», «nudi castamente /… senza lasciarci mai, / coperti di sudore», «se scivolo entro te, / sfascio le bende / e, disperato, senz’averti / ti vedo, / è perché t’amo, carne», «di nuovo i corpi nudi / e l’amore lucido, furioso», «amore cieco, / vieni su me, / in me, / coprimi, neve, / luce, / benda cercata, / benda disperata», «Ti vedo nudo, / carne di me, / mia falce; / steso t’adoro / sui lenzuoli», «E la tua schiena è lì; / la bacio; / la ricolmo di saliva; / specchio diventa e fiore / del mio cieco, / inutile dolore».

Questo ritrovarsi dei corpi e delle anime al di là di ogni futile o falsa apparenza, lo scoprire nell’altro il messaggio di dannazione o salvezza che comunque avvicina alla verità ultima, il dono estremo di sé nel reciproco disvelarsi e comunicarsi, è qualcosa che ha procurato a Testori censure imbarazzate e santificazioni esaltate, troppo spesso discutibili e insincere.
Il suo situarsi ai margini della tradizione novecentesca, abissalmente lontano da tutti gli esiti della poesia italiana del dopoguerra, ne ha fatto un eccentrico, indefinibile, non catalogabile poeta dalle soluzioni formali poco condivise. I nomi che sono stati fatti dai critici per accostarlo a una qualche fonte letteraria, facendone un originale epigono (dai futuristi a D’Annunzio, da Rebora a Caproni), sembrano tutti alquanto opinabili. Forse invece potremmo scoprire una vaga rimembranza dell’Ungaretti di Sentimento del tempo, o un’eco dell’angosciata ricerca formale e esistenziale di Paul Celan.
In questo volume troviamo versi brevi, persino brevissimi, in strofe singole, prive di rime e artifici retorici, indifferenti ad ogni metrica, e invece incalzati da un ritmo ansioso e franto, talvolta colloquiale e più spesso classicheggiante: invocativo, esclamativo, interrogativo, ma sempre con una vocazione esibita per la confessione ostentata, plateale, pubblica. Poesie da leggere a voce alta, proclami amorosi da recitare con orgogliosa consapevolezza della loro superba nobiltà.
Il volume riproposto ora negli Oscar Mondadori offre ai lettori una meditata scelta da questo libro altissimo, poco recensito e poco antologizzato, addirittura imbarazzante nella sua esplicita e disarmata sincerità, che fa del suo titolo, L’amore, una rivendicazione ferita e altera.

«Qui Libri»,  giugno 2012

RECENSIONI

ZUCCO

RODOLFO ZUCCO, GLI OSPITI DISCRETI – ARAGNO, TORINO 2013

Rodolfo Zucco (Feltre, 1966), Professore di Linguistica all’Università di Udine, studioso della nostra letteratura settecentesca e novecentesca, e curatore dei due fondamentali Meridiani  Mondadori dedicati a Giovanni Giudici e Giovanni Raboni, ha pubblicato con l’editore Aragno nove saggi scritti tra il 1991 e il 2007, riguardanti la produzione in versi di altrettanti importanti poeti italiani del secondo 900. Nella nota di apertura, Andrea Cortellessa attribuisce la discrezione cui fa cenno il titolo del volume non solo «al carattere di chi firma i nove saggi qui raccolti», ma alla stessa «acribia» critica evidenziata dalla loro struttura, che partendo dall’esame di aspetti talvolta marginali, discreti, del testo poetico, «rinvia a un’ interpretazione complessiva» dell’opera e dell’autore preso in esame. E Zucco precisa ulteriormente, nella sua premessa, il senso da attribuire al titolo scelto (dopo sofferta gestazione!): «Si può ben parlare di ‘ospiti’ in ragione della mia lunga ‘convivenza’ con loro in un ventennio di studi e di scrittura. Ma è altrettanto importante per me l’accezione di ‘ospite’. Sono ospiti, i miei autori, nel senso che mi ospitano o mi hanno ospitato: giacché la loro opera veicola infine gusti miei, determinate zone della mia sensibilità».

Il libro si apre infatti con uno studio su Vittorio Sereni, che si rivela un affettuosissimo omaggio, più che al poeta, alla persona: nella rievocazione di particolari biografici (talvolta commoventi, talaltra spiritosi) che offrivano spunti alle dediche delle sue poesie, spesso poi cassate nella pubblicazione a stampa, a causa «della riservatezza dei sentimenti che doveva essere un tratto dell’uomo».
Altri saggi «procedono essenzialmente come accertamenti di fatti linguistici e metrici (il verso, la rima e la strofa)». Ad esempio l’indagine su rima, rima interna, enjambement intesi come segnali specifici dell’oralità nella produzione di Giudici. O il rilievo dato all’uso della citazione e dell’allusione in Raboni. O ancora, nel confronto tra due libri di Valerio Magrelli (Ora serrata retinae  e  Nature e venature), la sottolineatura del mutamento dell’ autocoscienza critica – attraverso lo studio di analogie, metafore, deissi, metrica- nella severa tensione autoriflessiva che da sempre caratterizza la produzione del poeta romano. Di particolare interesse, pur presentando qualche difficoltà per il lettore non specialistico, è il saggio sui «versi a gradino» di Giorgio Caproni, ereditati dalla divisione in battute della lirica teatrale, attraverso differenti epoche e generi poetici, da Leopardi a Gozzano.
A Fernando Bandini, suo maestro negli anni universitari a Padova, Rodolfo Zucco dedica un lungo studio che del poeta vicentino esplora la cospicua attività di traduttore, in particolare da Baudelaire. La produzione in versi di Iolanda Insana e di Eugenio De Signoribus viene minuziosamente analizzata negli esiti formali sintatticamente contorti e febbrili dell’una, attenti con virtuosistica perizia all’uso delle rime nell’altro.
Infine, l’ultimo saggio del volume è dedicato a un poeta sottovalutato e quasi dimenticato, Ferruccio Benzoni, di cui si considera il libro del 1998  Sguardo dalla finestra d’inverno, con le sue derivazioni da Fortini e Sereni, e la particolare «strategia della negazione», sempre comunque all’insegna di un dettato elegante e discreto. E se Zucco conclude le sue letture, di autorevolissima competenza critica, ricordando che nella poesia è quanto mai implicita una «vocazione alla felicità», sono le parole di Raboni che meglio offrono la chiave di interpretazione di questi studi, approfonditi e comparativi: «nella vita di una poesia…ci sono tante altre vite, le vite di tante altre poesie».

«L’Immaginazione»  n. 279, febbraio 2014

RECENSIONI

TUROLDO

DAVID MARIA TUROLDO, IL MO AMICO DON MILANI – SERVITIUM, MILANO 2012
PROFEZIA DELLA POVERTA’ – SERVITIUM, MILANO 2012

Le edizioni Servitium ripubblicano dopo quindici anni due libri di Padre David M. Turoldo, nel ventennale della sua morte. Il primo raccoglie tre saggi-testimonianza che il frate friulano ha dedicato negli anni all’amico don Lorenzo Milani, conosciuto personalmente nel 1954, frequentato poi fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia nel 1967: «eravamo amici fino a urlare insieme là dove non eravamo d’accordo». I due religiosi, nonostante le evidenti differenze di carattere, di percorso esistenziale e di scelte pastorali, avevano secondo il prefatore di questo volume, Abramo Levi, «un comune progetto: rompere la quiete sonnolenta del cattolicesimo italiano», pur nella loro «dissomiglianza verticale». Padre Turoldo tratteggia la figura di Don Milani con un affetto e una stima assoluti: «ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti puntava gli occhi in faccia come due perforatrici», «un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di rottura radicale… di lotta implacabile… tanto tenero quanto feroce, tanto obbediente quanto libero… di una segreta e profondissima gioia, perfino di affabilità e di grazia, … pur sempre disteso sulla graticola delle sue scelte… una gettata di lava incandescente… un cratere in eruzione».

Contestando il ritratto edulcorato che certa stampa ed alcune gerarchie cattoliche hanno tentato di avallare di lui, Turoldo ricostruisce il tempo e il luogo della formazione di Don Milani, la sua origine alto borghese ed ebrea, la sua conversione che ne fece un neofita appassionato e intransigente, la sua passione per i poveri e per la scuola, la diffidenza profonda verso gli intellettuali «responsabili di una cultura astratta» che si dimenticava degli ultimi, la sua polemica verso una chiesa troppo accondiscendente con il potere, e spesso lontana dal Vangelo. «Solo quando la chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani, avremo una chiesa veramente nuova»: così si augurava Padre Turoldo, e questo era l’augurio che rivolgeva anche all’istituzione ecclesiastica.
Il secondo volume edito da Servitium, si apre con una prefazione appassionata e profetica di Raniero La Valle a undici saggi che David Maria Turoldo compose nel corso della sua vita sulla povertà, intesa come mistero antropologico («non è la disgrazia di qualcuno, ma è la grazia di tutti», che «invece di abbattimento, può essere beatitudine, invece che spossessamento può essere acquisto, invece che espressione della ‘nera esistenza del male’, può essere il segno del ‘bianco mistero della grazia e dell’amore divino’»). Libro che si conclude con una appendice poetica del frate friulano, con versi intensi dedicati al bisogno e alla sua indicazione di verità: «allora siederemo a tavola insieme / e divideremo quel nulla / che ci sarà d’avanzo», «Poveri e liberi, / eredi del regno, / eletti della nuova alleanza / il mondo sarà salvato dai poveri».

Forte della sua esperienza diretta di miseria e di fame patita nell’infanzia («Ed eravamo così felici, così sereni, così forti!… Io credo che sia più divina la povertà che la ricchezza… Il ricco è sempre più triste, le cose non gli bastano mai… Infatti non c’è un ricco che canti»), Padre Turoldo non si limita affatto a offrire un’immagine scontata e retorica della povertà, ma afferma con risolutezza polemica il dovere di opporsi a qualsiasi sfruttamento e ingiustizia sociale, proprio basandosi sulle parole di Cristo («è sempre nato in periferia e viene sempre ucciso in prefettura»), che pone la povertà dello spirito come prima tra le beatitudini. Cosa si deve intendere, quindi, per povertà? Prima di tutto libertà dalle cose; sconfitta delle cupidigie; superamento del diritto di proprietà, giustizia che sia veramente distributiva e comunitaria. Per povertà non si intende certo miseria, e meno ancora miserabilità: si intende che l’uomo sia preso nel suo assoluto valore e non per quello che possiede. Però la risposta allo scandalo del bisogno «non può essere soltanto spirituale, ma dev’essere anche politica», anzi: scientifica. Là dove ha fallito anche il comunismo perché si è dimenticato dell’anima, deve ora intervenire con più coraggio il messaggio cristiano, «sul binario della pietà e della giustizia».

«Mosaico di pace», novembre 2012

RECENSIONI

FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, SOTTO IL NOME DEL CARDINALE – ADELPHI, MILANO 2013

Edgardo Franzosini, scrittore e traduttore lombardo, alla sua terza pubblicazione da Adelphi, affronta ancora una volta la vita di un personaggio storico, la cui vicenda biografica -non immediatamente e universalmente nota, ma nemmeno del tutto sconosciuta- assume nelle sue luci e nelle sue ombre, nei riconoscimenti meritati e nelle ingiustizie patite, un valore paradigmatico, esigendo un riscatto postumo. Quindi, dopo aver raccontato di Raymond Isidore e Bela Lugosi, l’autore ricostruisce qui la tormentata storia del sacerdote Giuseppe Ripamonti, nato nel 1577 e morto il 14 agosto 1643 (e non è forse casuale che il giorno del suo decesso coincida con il compleanno di Franzosini, così come il luogo della sua morte -Rovagnate in Brianza- sia il paese natale del nostro autore: se queste coincidenze possono in qualche modo giustificare il coinvolgimento emotivo di chi scrive nei riguardi dell’oggetto del suo studio…). Ripamonti fu uno storico utilizzato come fonte da Alessandro Manzoni sia nei Promessi Sposi sia nella Storia della colonna infame, e da lui molto apprezzato per la documentata puntigliosità descrittiva, e per l’eleganza del suo latino «rigorosamente modellato sui grandi autori classici». Franzosini ripercorre l’esistenza del personaggio a partire dalle origini contadine, dagli studi in seminario e dai primi impieghi come precettore, fino all’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1605, mettendone in luce soprattutto il carattere: «Riservato, introverso, suscettibile, con la precisa consapevolezza della propria superiorità intellettuale, arso dal fuoco dell’ambizione… istintivamente insofferente verso alcune regole di disciplina».

L’indole geniale e ribelle di Giuseppe Ripamonti venne ben presto a scontrarsi con quella, altrettanto «viva e risentita… calda e collerica», per quanto mascherata da una «pacatezza imperturbabile», del suo superiore e mentore, Cardinale Federico Borromeo, di cui Manzoni ci ha lasciato un ritratto monumentale. Dopo aver nominato Ripamonti «istoriografo» nel Collegio dei nove Dottori della Biblioteca Ambrosiana, e averlo accolto nel suo stesso palazzo arcivescovile per sottrarlo all’invidia velenosa degli altri studiosi, e dopo avergli affidato l’incarico prestigioso di redigere una Historiarum Ecclesiae Mediolanensis, Borromeo diede inizio a una sistematica persecuzione del suo sottoposto, che sfociò in un arresto, in vari e lunghi processi, in una condanna dell’Inquisizione e infine nella prigionia durata quattro anni.
Scandagliando documenti d’archivio, lettere autografe, cronache dell’epoca e posteriori, Franzosini riesce a offrirci un’esauriente ricostruzione dell’ambiente della curia ambrosiana del 1600, dei suoi intrighi, delle faziosità culturali, delle falsità ufficiali e delle verità ufficiose, principalmente in fatto di ortodossia ed eresie religiose. Ma soprattutto indaga nei meandri dell’inconscio e del rimosso, che possono portare anche anime fulgide e personaggi in odore di santità a manifestazioni di puerile fragilità, di insospettabili e meschine ripicche. Le accuse terribili, mai del tutto provate, che condussero Giuseppe Ripamonti in carcere (insubordinazione, tradimento, stregoneria, forse sodomia) potevano essere frutto di un risentimento personale, dovuto a gelosia intellettuale? Edgardo Franzosini ci descrive un Cardinale Federico Borromeo tormentato da una «irresistibile vocazione letteraria» e insieme bloccato da un impedimento paralizzante che lo rendeva complessato sia nei confronti dell’inarrivabile modello – il cugino San Carlo- , sia verso altri letterati contemporanei. Con uno stile rigoroso e classico, e offrendo al lettore un ricco apparato di note e una puntuale bibliografia, Franzosini ha saputo restituirci un ritratto convincente di due personalità di grande spessore, legate in vita e in morte da un contrastato rapporto di stima-disistima, amore e odio. Rapporto ipocritamente edulcorato nell’epigrafe incisa sulla lapide apposta alla casa natale di Ripamonti a fine ‘800: «espiò duramente in se stesso l’invidia altrui e le proprie stranezze solo confortato dal patrocinio dell’immortale Federico Borromeo».

 

«incroci on line», 23 giugno 2014

RECENSIONI

FINZI

GILBERTO FINZI, DIARIO DEL GIORNO PRIMA – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

Gilberto Finzi ha dedicato lunghi e operosi anni alla letteratura in qualità di docente, critico e consulente editoriale, distinguendosi inoltre in modo particolare come poeta impegnato nella ricerca linguistica e sperimentale: ha pubblicato numerosi volumi di versi con le maggiori case editrici italiane, è stato tradotto all’estero, antologizzato, premiato, discusso e celebrato.
Raggiunta la ragguardevole età degli ottantacinque anni, ha deciso di dedicare a se stesso l’omaggio di una pubblicazione, presso le eleganti edizioni Nomos, di una sessantina di poesie scritte nell’arco di pochi mesi, «versi insoliti e inattesi… poesie non liriche, umane, forse irripetibili», tutte incardinate intorno al tema, sofferto e desolante, della senilità: l’età «monstre».
Ovviamente, il fil rouge che lega la maggior parte dei versi (che l’autore stesso definisce, forse con eccessiva severità autocritica, «un insolito mix di metafisica, ricordo, fatti qualunque, sogni… il tutto condito da un linguaggio prosastico e ben poco lirico») è quello della memoria («ieri o ierlaltro, / un secolo addietro»»). Quindi la nativa Mantova, con Piazza Sordello percorsa da turbe di studenti vocianti; i sogni di gioventù irrealizzati (la Parigi-Dakar così spesso vagheggiata); la maestra elementare («Severa crocchia alla nuca, / mano tremula e odore di caffè»); le donne amate, le polemiche letterarie; gli scrittori più ammirati e studiati: Dante, Foscolo, gli Scapigliati, Ungaretti e Quasimodo, i francesi… Ricordi di una vita, che ora appaiono annebbiati e talvolta privi di significanza: «Vengono e vanno gli zero colorati, / i fosfeni, gli inganni di tutto il passato». Ma la meditazione sul tempo che passa riguarda anche lo spettrale presente, fatto di isolamento («La solitudine si svela al mattino / con le ossa che dolgono»), di visite mediche («Ho preso il numeretto, / ho fatto il prelievo, ho dato, / sono in attesa del verdetto»), di disfacimento fisico («lo scadimento dei muscoli, degli arti, / le orbite profonde degli occhi / luciferini, le petecchie / nella pelle infisse come chiodi»). E la vanità dei gesti e dei pensieri, la noia di ore che non passano mai e non si sa come riempire («vivere ormai significa fingere / fingere fingere / che si è vivi», «Uscire, non uscire. / Andare, non andare. / Camminare, forse?»). Anche meditare sulla realtà della morte non aiuta più, e i filosofi tante volte interrogati ed esplorati non sembrano avere più risposte da suggerire: «È quando / non riesci ad allacciarti / le stringhe della scarpe che comprendi». Allora la domanda più insistente riguarda il momento della fine, che si spera improvvisa, indolore e notturna: «Sento il cuore che batte. / Insiste. / Anche questa notte è passata. / Non è successo», e che si tende ad esorcizzare con qualche ironia: «In bagno no, prego, sono tanti i modi, / il luoghi, i destini, non questo / mi tocchi e mi sorprenda, / in bagno, solo, no!» Se il futuro non può riservare sorprese («enigmatica anima finita/ in attesa, in attesa…»), Gilberto Finzi sa però mantenersi poeta fino in fondo, e continua a credere nel miracolo dell’istante da penetrare con ammirata gratitudine: «Molto mi preme / questo attimo, lasciarmelo / vuol dire vivere».

 

«criticaletteraria», 18 marzo 2014