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RECENSIONI

FERRARI

IVANO FERRARI, LA MORTA MOGLIE – EINAUDI, TORINO 2013

Versi impregnati dell’odore della morte, del suo degradante e immobile gelo, del suo imperturbabile squallore, questi di Ivano Ferrari pubblicati nella prestigiosa collezione bianca di Einaudi. Il volume si divide in due parti, scritte a distanza di trent’anni una dall’altra. La prima sezione (Le bestie imperfette) ritorna sui temi già proposti al lettore nella indimenticabile raccolta  Macello del 2004: il sacrificio cruento delle bestie nei macelli pubblici, la loro agonia, la loro ingiustificabile, orrenda e gratuita sofferenza, che tutti siamo pronti a dimenticare davanti a un sandwich al prosciutto. Eccoli qui, gli animali raccontati in versi da Ferrari: puledri uccisi appena partoriti, vermi che escono dalla carne guasta, vitelli e asini malati da scartare, veterinari impietosi, aguzzini sadici, macellai che assaggiano il sangue delle vacche o giocano con le tenie dei cavalli: «boia, squartatori / chi sgozza e chi raccoglie il sangue trippai, scuoiatori, facchini / quelli che macellano a domicilio / pellai, insaccatori e necrofori, / la classe operaia». Cosa dire ghignando alle bestie da immolare? «ricordargli che il padre / la madre / i genitori di entrambi, / i figli / i fratelli / la specie sua, / è nata / cresciuta e morta / per renderci più alti». Tenere presente però che forse «la specie ospite» siamo noi, che magari ci aspetta una sorta di contrappasso, o chissà, una vendetta a cui non siamo preparati: «Se sfondassi il muro della carne / e attaccato al gancio sorridessi / cosa direbbe chi è pagato per squartare / il timbratore di lingue / quale etichetta mi metterebbero / quanti organi scarterebbero / e il veterinario penserebbe panta rei?» Perché in un macello «l’eterno dura / al massimo un giorno», e «Più grande / del dolore è l’universo»: quindi possiamo voltarci dall’altra parte, e non pensare. Ma cosa succede quando a soffrire, a agonizzare e morire è una persona cara? Nel caso del poeta, sua moglie (La morta moglie): allora la malattia, il tumore, «i capelli radi come un angelo», le ospedalizzazioni, «la sacca dell’urina» e la casa in disordine (cibi confezionati, frigo sfornito) raccontano una disperazione lucida e senza appello. Nessuna retorica in questi versi di Ferrari («sono giorni semplici di agonia», «nella casa si raduna attesa», «sei destinata alla fluttuazione»), che rifiuta rabbiosamente sia qualsiasi consolazione fideistica, sia di rassegnarsi con umiltà. C’è rabbia, ma c’è anche consapevolezza che la morte è la conclusione naturale destinata a tutti: «Prima o poi / i luoghi scompariranno», «non c’è luogo che rimanga intero / né secolo a cui resti tempo / muore sta morendo la materia». E finire è una cosa crudele e semplice, a cui tuttavia non sappiamo arrenderci: «Entrare nel tuo sguardo obliquo / senza sentire né anima né fosforo divino / ma solo la punta fredda delle ossa e la pelle / arresa al tuo profilo». La scrittura di Ferrari si offre nella sua franca durezza, scabra e priva di concessioni a giochi linguistici; «spesse volte la poesia accumula polvere», è ridondante e inutile, elegante e sciocca. Non è il caso di questi versi.

«Poesia» n. 287, novembre 2013

RECENSIONI

ESPOSITO

EDOARDO ESPOSITO, ELIO VITTORINI. Scrittura e Utopia – DONZELLI, ROMA 2011

Edoardo Esposito, docente universitario a Milano e critico letterario, è oggi il maggior esperto italiano di Elio Vittorini: allo scrittore siciliano ha dedicato negli ultimi trent’anni numerosi saggi e commenti che ora vengono raccolti, insieme ad altri studi inediti, in un importante volume pubblicato da Donzelli. Già nel capitolo introduttivo Esposito difende vigorosamente Vittorini da una serie di accuse che gli sono state mosse in ambito letterario sin dai suoi esordi di narratore: tra queste, quella di aver voluto «essere troppe altre cose che scrittore» (s’intende traduttore, critico, polemista, giornalista, politico…), senza volergli riconoscere «l’ampiezza dell’orizzonte con cui ha cercato di misurarsi, e la generosità con cui ha saputo spendersi». Altra riserva che molti letterati hanno espresso riguardo alla prosa di questo tanto discusso e frainteso autore, è stata quella sul suo stile, «apparso via via… povero, ripetitivo, scialbo e monotono, oppure innaturale, artificioso, manieristico». Esposito riporta numerosi esempi di altissima prosa vittoriniana, riconoscendole «una sicurezza e un’agilità espressiva indiscutibile», ma soprattutto la capacità «di comunicare al lettore la propria carica emotiva». Una prosa, quindi, che seppe far tesoro sia degli insegnamenti del realismo psicologico di tradizione ottocentesca (specificamente verghiana), sia del classicismo rondesco, sia dell’atmosfera della poesia ermetica e, prima ancora, simbolista. Da subito la narrativa di Vittorini si caratterizzò per una sua consapevole opzione per la letteratura europea del 900, in una direzione assolutamente contraria al carattere “nazional-popolare” verso cui spingeva la cultura fascista dell’epoca. Quindi i tedeschi e i russi, ma soprattutto i francesi con Proust e gli inglesi con Joyce e Lawrence. Solo in seguito la lettura entusiastica e la traduzione degli americani divenne per lui fonte primaria di ispirazione e invito a «riscuotere il romanzo dall’intellettualismo e ricondurlo a sottovento della poesia». Gli autori che diventarono ben presto suoi maestri furono ovviamente Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Saroyan, Caldwell, che lo spinsero ad adottare uno stile e una sintassi completamente diverse da quello assunte fino ad allora: «oggetto di una decostruzione i cui materiali verranno collegati attraverso un principio di tutt’altro tipo: il ritmo». Esposito segue minutamente non solo l’evolversi della narrativa vittoriniana, ma anche i suoi conseguenti nuovi approdi lavorativi, con la collaborazione professionale che passò da Mondadori a Bompiani, e poi, nel dopoguerra, a Einaudi, e con l’attività pubblicistica che si specializzò appunto sugli autori americani. Il romanzo che gli dette la fama, decretandone successo di pubblico e di critica, anche in ambito internazionale, fu ovviamente Conversazione in Sicilia, pubblicato nel 1941, di cui Esposito ricostruisce sapientemente genesi e composizione, sottolineandone l’originalità stilistica («un nuovo narrare») e la portata politica, con la coraggiosa denuncia contro «un regime sempre più illiberalmente offensivo». Altrettanta partecipe attenzione il critico destina a un altro capolavoro vittoriniano, Uomini e no, del 1945, alla «dimensione ritmica del suo discorso», nel suo «procedere paratattico tributario della tecnica cinematografica», e soprattutto alla sua componente sentimentale, con la commossa rivisitazione della storia d’amore tra Berta e Enne 2. Un romanzo, quest’ultimo, «non sulla Resistenza ma della Resistenza», a cui lo scrittore siciliano partecipò «non come combattente, ma collaborando essenzialmente alla stampa clandestina», in nome di un’utopia mai rinnegata. Altro capitolo importante nella biografia di Vittorini fu il suo ruolo di operatore culturale, di traduttore e scopritore di talenti letterari, di instancabile organizzatore e polemista, come è testimoniato dal suo ricchissimo epistolario, dalla produzione di numerosissimi articoli e saggi, e dalla pubblicazione della più importante antologia di narratori statunitensi mai apparsa in precedenza: Americana. Questo fondamentale volume, di più di mille pagine, introdusse per la prima volta in Italia 33 autori d’oltre oceano, più che tradotti letteralmente “riscritti” dalle penne più importanti dell’epoca (Montale, Moravia, Piovene tra gli altri). Esposito segue le vicissitudini anche politiche (dovute a fraintendimenti e censure, a polemiche e ripicche) di tali iniziative, che sempre mostrarono il carattere indipendente e coraggioso dell’autore: «La vera scienza di Vittorini non si affidava a un’analitica realtà di studi; erano letture onnivore e appassionate a fondare la visione prospettica nella quale trovavano giustificazione le sue scelte, e il valore della sua critica, per quanto riguarda in particolare la letteratura americana, resta nell’innovatività della proposta e nella suggestione delle metafore con cui egli seppe sostenerla».

Gli ultimi capitoli del saggio di Edoardo Esposito sono dedicati ad almeno tre avvenimenti importanti dell’ultimo ventennio di vita di Vittorini: l’avventura de  Il Politecnico, mensile di cui fu direttore e animatore dal 45 al 47, la cui pubblicazione venne sospesa in seguito alla dura polemica con i vertici del Partito Comunista. Quindi, la pubblicazione de Il garofano rosso, dopo una revisione durata molti anni: con una importante prefazione che si presentava come «la sua dichiarazione di poetica più articolata e argomentata», in cui «il linguaggio poetico cui aspira lo scrittore appare caratterizzato da due dimensioni, quella ritmica (l’esigenza della “musica”) e quella simbolica (“dire senza dichiarare”)». Infine, l’amaro episodio che vide Vittorini bocciare , con evidente miopia editoriale, la pubblicazione de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ma la grandezza dello scrittore e dell’intellettuale non ne viene scalfita, e il bel libro di Esposito la sottolinea con evidente ammirazione, riportando le parole inequivocabili di chi orgogliosamente si definiva “militante comunista”: «… ho un vecchio parere da dire: riguardo ad arte e cultura, compiti sociali di chi scrive, suo dovere di prender parte alla rigenerazione della società italiana…». Parole che, tanto più oggi, commuovono nella loro ingenua e feroce utopia.

«criticaletteraria», 8 ottobre 2013

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CANALI

LUCA CANALI, LAMPI – PASSIGLI, FIRENZE 2011

Lampi, ha voluto intitolare la sua raccolta di versi il latinista Luca Canali, intellettuale di vastissime letture e molteplici interessi letterari: lampi che squarciano il buio, illuminazioni repentine e abbaglianti come dovrebbero essere le poesie, quando si avvicinano alla perfezione. Il volume si divide in due sezioni: Gente  e  Ich, quasi che la presunzione di dire io in italiano, e quindi di un’autoaffermazione, venga mitigata dalla traduzione tedesca. E infatti il poeta non si mette in primo piano: sotto la sua lente acuta e disincantata stanno persone e oggetti, paesaggi periferici e urbani, animali e vegetazione. Tutti amaramente costretti a un destino di disfacimento, di rassegnata estinzione (farfalle e umili edere, pie donne in processione e prostitute disfatte, città stravolte dal traffico disumano e campagne violentate dal degrado): ogni cosa è soggetta a una dura legge di consunzione («primato / genetico della casualità»). Non si salvano le notti, con cani che latrano infelici; le estati canicolari («Il cielo è senza colore, / un sole svergognato… dardeggia sicario invisibile / su padri in canottiera»); nemmeno il Natale («nulla passa più in fretta / di un giorno simbolo di buone / intenzioni, d’amore, di pace… // in strade mercantili cieche / di buio festivo dove neanche / pisciano i cani»). Tutto è soggetto a una necessità crudele e matrigna, una “ananché” che rende caduca e banale qualsiasi esistenza («Effimera la vita dell’uomo: sortito dall’alvo / materno comincia l’imprevedibile / count-down…per torpida usura / di aorta, blitz di batteri, raffica d’armi da guerra»).
Non si salva la storia quotidiana, fatta di violenza e di abusi («E invece la terra / gira, l’universo si espande, si formano / bande, si stupra, si spara, il suolo / s’intride di sangue, si uccide»), e neanche il sesso riesce ad assumere una sua gioiosa, liberatoria consistenza, ma acquista una sembianza quasi animalesca, volgare: “Li guarda / senza invidia dal bus la serotina / fichina delle 20,15 scialante all’ignoto / pene di turno puntato sul suo / posteriore targato Jesus», «una baldracca inesperta/ dopo il suo orgasmo senza compenso…». I giovani non sono guardati con invidia o clemenza dall’anziano poeta, ma con severa amarezza: «e faccio / largo ai giovani che / non sanno rubare, rapinano / sparano, stuprano, po / vanno tranquilli al mare». Si respira un’aria di risentito sospetto (così il fringuello impallinato dal cacciatore si vendica accecandolo col becco; il passante solitario intravisto dall’ auto in corsa potrebbe abbracciare in lacrime il poeta, oppure piantargli nel cuore un coltello…; il lunedì lavorativo è una routine drogata che salva dalla noia della domenica…). Eppure i momenti di grazia esistono, rari, ma «quasi perfetti», e nascono da un’inattesa e insperata contemplazione di un prato, di bambini che giocano, di cieli infuocati. E nella poesia, provengono da rime improvvise che addolciscono il ritmo serrato delle composizioni, dal constatare inaspettato che la vita non si riduce a impressioni di negatività o puro sconforto. Il varco, la salvezza può presentarsi in un lampo minimo: «rimango / -il mozzicone acceso- ad ascoltare / cadere in terra la cenere / con la stessa dolcezza di queste / carezze alle tenebre, interpunzioni / di quiete fra guerre di giorni / di fuoco».  E il finale che si sogna per la propria esistenza non è un banale consumarsi, ma «un’esplosione / muta, un lampo al magnesio, una sparizione / assoluta tra fumi di effetti / speciali del cine»; o in una terribile e senechiana minaccia ( che ricorda la lettera 70 a Lucilio)  «Mi è stata / però accordata / l’estrema libertà, / sia pure spietata, / fissare del morire / il modo e la data». Ma noi lettori speriamo in nuovi libri e in nuovi versi, in cui Luca Canali incontri magari minuscole presenze o creature pronte a regalargli di nuovo un sorriso: «Su un prato / invece della mondana ho trovato / a riconciliarmi con il creato una graziosa, piccola rana», «Passo / il tempo a mirare / un rospo che si avventura / dal ciglio erboso a / traversare la strada, lo spingo a ritroso / al passare di un’auto, penso / al fluttuare del mare, mi sento / per attimi anch’io / un giullare di dio».
Il volume è introdotto da una sapiente e complice presentazione di Giuliano Ladolfi.

«Incroci»,  n. 26 – gennaio 2013

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CAMON

FERDINANDO CAMON, LA MIA STIRPE – GARZANTI, MILANO 2012

Nel 1978 Ferdinando Camon aveva pubblicato  Un altare per la madre, romanzo epico e tenerissimo che concludeva “il ciclo degli ultimi”, fondendo abilmente storia privata e pubblica nell’omaggio commosso e riconoscente alla figura materna. Oggi torna, con questo bel volume edito da Garzanti, su quegli stessi temi, rivisitati con uguale e partecipe emozione, ma con una più matura e sottilmente ironica visione di ciò che in questi trent’anni siamo riusciti a raggiungere, o a perdere, come collettività. E in uno stile più sciolto e leggero che nelle precedenti prove. Questa volta il punto di partenza, sempre radicato nella vicenda della famiglia originaria dell’autore, è la malattia del padre, colpito da ictus e privato della facoltà di parlare. Intorno alla sua stanza d’ospedale si radunano i figli ormai maturi, e tutti in qualche modo estranei. Soprattutto ha tralignato lo scrittore, allontanandosi dalla civiltà contadina che l’ha partorito e cresciuto, dai suoi valori eterni e soffocanti, guadagnando in consapevolezza e forse in infelicità. Eppure al capezzale del padre, il figlio diventato intellettuale, opinionista, narratore premiato e tradotto in tutto il mondo si ritrova a considerare le sue origini come ancora fondanti e vive, fertili e castranti insieme: sente la colpa di aver tradito e l’orgoglio di aver osato percorrere nuove strade, rinunciando a tradizioni millenarie, ma anche a superstizioni ottuse, a insensibilità nei riguardi del mondo naturale e animale. Nel padre morente rivede i suoi lineamenti, quelli dei suoi figli e dei nipoti, le stesse abitudini fisiche e malattie che si tramandano da generazioni. «È come se il suo corpo ricalcasse il mio corpo che ricalca un altro corpo…E’ senso della stirpe, che in dialetto si dice razza…» Ripercorre quindi la storia del nonno, soldato nella prima guerra mondiale e estratto vivo per miracolo da una valanga: la sua fede obbediente alla patria e alla casa reale, che in queste pagine il nipote scrittore stigmatizza con sarcasmo e sacrosanta indignazione, ridicolizzando la figura mediocre di Vittorio Emanuele IV. Ripercorre anche la storia del padre, lui pure combattente nella seconda guerra mondiale, di cui era riuscito a evitare il fronte iniettandosi nel ginocchio acqua infetta. Il padre rivisitato nei suoi anni giovani, nel fidanzamento con la madre «cussì bella» e venerata come una madonna la domenica, in chiesa, nei pochi incontri precedenti il matrimonio. Nonno e padre avevano fatto entrambi un voto, mai mantenuto: quello di andare a Roma in pellegrinaggio dal Papa, in atto di riconoscenza e di sottomissione. Tocca al figlio scrittore, ora, rispondere a quella chiamata: al suo cattolicesimo mai rinnegato, ma certo più annacquato e critico di quello dei parenti contadini. Il papa tedesco lo convoca insieme a 250 artisti internazionali cui viene demandata la trasmissione del messaggio cristiano nel mondo: onore e onere. Orgoglio, trepidazione animano Camon che si sente eletto e trascurato contemporaneamente, quando intuisce che la sistemazione degli invitati dipende dalla loro rilevanza mediatica: ai primi posti nella Cappella Sistina, più vicini al Pontefice e sotto lo sguardo paralizzante e potente del Cristo michelangiolesco sono i cantanti, gli attori di commedie volgarotte, il regista freudiano, il tenore cieco. Eppure lui, ironico e contrito, si genuflette di fronte al Vicario di Cristo, offre alla sua benedizione le fotografie del nonno e del padre che nasconde sotto la camicia, a implorare un viatico per tutta la sua famiglia: antenati e discendenti, i due figli lontani, i nipotini così diversi e così uguali a chi li ha preceduti nel sangue e nei pensieri. Le ultime pagine del romanzo, divertenti e intenerite, raccontano un viaggio in treno verso Venezia con le bambine del figlio, docente universitario in un’altra città: i loro discorsi ingenui e modernamente smaliziati insieme, la loro visione del mondo multietnico in cui stanno crescendo e la loro irriverente religiosità, tanto diversa da quella del Veneto arcaico da cui vantano le radici. Nipotine tuttavia così simili nel profilo e nei gesti inconsapevoli alla bisnonna analfabeta, la madre di Camon «cussì bella». Destini differenti, un’unica stirpe.

«incroci on line» 11 giugno 2014

RECENSIONI

CACCIARI

MASSIMO CACCIARI, DOPPIO RITRATTO – ADELPHI, MILANO 2012

Ottantasei pagine molto dense e appassionate, queste che Massimo Cacciari pubblica per Adelphi in omaggio al Santo d’eccellenza, la cui esistenza fu pervicacemente radicata nella esemplarità della vita di Cristo: San Francesco. Il titolo del libro si presta a diverse interpretazioni: doppio è il ritratto che Giotto e Dante fecero del frate di Assisi, doppia la loro interpretazione della figura e del ruolo di Francesco nella storia della Chiesa e della cristianità. Ma doppio anche il leggendario ritratto che Giotto dipinse di se stesso e di Dante su una parete del Palazzo Pubblico, di cui parla Villani; e doppio il ritratto che Dante fa nel Paradiso di Francesco e Domenico attraverso le parole di Tommaso e Bonaventura. La persona e la missione di Francesco («nel suo tentativo inaudito di armonizzare il cuore di una mistica cristocentrica, fondata sull’imitazione del Modello… con la Chiesa storica, per necessità approssimabile soltanto a quella spirituale») ispirò ovviamente tutti i linguaggi artistici della sua epoca, pervasa da «tensioni e dissonanze», irradiandola e irradiandosi da essa sia nel fulgore accecante della sua spiritualità, sia nel rivoluzionario rovesciamento dei valori incarnato dalla sua concreta vicenda storica. Destino umano, culturale e teologico di Francesco, tenacemente votato alla perfetta imitatio di Cristo, fu quello di imitare Cristo anche nell’essere tradito: dal suo Ordine, dalla Chiesa, da chi lo interpretò, narrandolo nell’arte.
Cacciari si interroga sulla possibilità di confrontare il ritratto dantesco di Francesco con quello lasciatoci da Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, partendo proprio dalle differenze ideologiche ed esistenziali dei due artisti: differenze che si riflettono acutamente proprio nel modo in cui consegnano il Santo alla tradizione e alla storia. La lettura che Dante fa della vita di Francesco privilegia senz’altro la sua concreta appartenenza alla realtà del suo tempo, alla missione di riforma della Chiesa, alla sua de-cisione dal mondo «per correre alle nozze mistiche con Povertà», alla sua sete di testimonianza e di martirio manifestate in particolare nella predicazione. Una lettura storica, incardinata nel suo tempo, quella che Dante ci tramanda di Francesco: «Il grande intellettuale vede in Francesco l’incarnazione di elementi essenziali del proprio progetto culturale, politico e religioso».
Molto diversa, più leggendaria e popolare, «commista a un preciso disegno edificante, governato dalla Chiesa» l’interpretazione giottesca della vita del Santo. Il Francesco di Giotto predica ai fiori e agli uccelli, esprime una nuova idea di natura, è giullare e poeta, innamorato lodatore di Dio e del Creato: «Il ciclo francescano di Assisi vuole essere immagine di questo accordo tra l’escatologia spirituale… e la dovuta reverenza all’autorità papale e alla gerarchia ecclesiastica». Giotto interpreta la volontà dei Frati Minori di radicare Francesco nella sua comunità e in un Chiesa restaurata e riappacificata, eliminando dall’iconografia del Santo tutti i tratti più straordinari e stridenti: censurando addirittura alcuni episodi della sua vita (l’incontro con il lebbroso, il dolore e lo strazio delle malattie e della morte, i chiodi delle stigmate, la scelta privilegiata e drastica della Povertà). Il Francesco di Giotto è umile, ilare, ubbidiente, «aureolato». Non «pauper». Sia Dante sia Giotto convergono nella volontà di rimuovere il tratto più scandaloso della santità di Francesco: la rinuncia, il «va’ e vendi tutto» evangelico.
E l’ultimo capitolo del libro di Cacciari assume un tono quasi profetico e ispirato nel rivendicare la portata rivoluzionaria della scelta francescana di «elezione del ptochós», del povero. «Povero non è il bisognoso, colui che manca-di, ma all’opposto, il teleios, il perfetto, colui che perfettamente imita il Figlio. Per Francesco, cioè,… il cristiano è povero o non è. Mendicante è il cristiano, così come è peregrinus et advena». La cultura del 900 ( e Cacciari cita, contestandoli, Rilke, Lukács, Heidegger, Nietzsche) non ha compreso pienamente la grandezza del messaggio francescano, che collega povertà a kenosis, allo svuotamento. Non solo dei beni, delle proprietà, ma del nostro possesso più geloso: la nostra psiché. Svuotarsi del Sé, liberarsi di ciò che ci è proprio per accogliere l’altro, «in tutti i volti con cui ci viene contra», «spossessarsi di tutto per risorgere con e per ogni ente», «La mistica francescana è amore ri-creante», «Paupertas è energia agente»: così il messaggio di Francesco ha giocato un ruolo fondamentale anche nel rinnovamento dei linguaggi artistici. Spogliandosi di ogni possesso, amando, benedicendo, non giudicando. Povertà, misericordia, letizia, perdono. Cacciari sottolinea l’aspetto femminile, materno della santità francescana, che Dante e Giotto sono riusciti a rappresentare solo parzialmente. Perché Francesco li oltrepassa e sovrasta, così come la sua “figura futuri” supera ogni progetto religioso, teologico, politico: «esattamente come quella del suo Modello resiste oltre ogni cristianesimo».

 

«Mosaico di pace»,  giugno 2012

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, BIZZARRIE DELLA PROVVIDENZA – EINAUDI, TORINO 2014

In questo smilzo libretto di versi pubblicato da Einaudi, Erri De Luca si mantiene fedele alla sua vocazione di risentito menestrello fustigatore di ingiustizie e costumi corrotti, di violenze fisiche e morali: «il passato è poetico, / il presente una dissenteria». Il passato da decantare è quello dei profeti, degli illuminati, dei folli di Dio, degli imbizzarriti che sanno discostarsi dalla consuetudine:
«Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra». Esploratori del diverso, paladini della gratuità, là dove «la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri». Figure della Provvidenza, che abbracciano «la sovversiva economia del dono / offerto a spargimento, / restituito a scroscio». Sul dono della profezia visionaria, della poesia inutile ma necessaria, si fonda «l’avvento del gratis, della grazia, / lo spariglio infallibile / su cui si regge il mondo». E il non credente De Luca fa di Gesù il protagonista per eccellenza di questa rivoluzione mite e radicale: «È stato il più precoce latitante». Insieme a lui altre figure-faro dell’Antico Testamento: Abramo, Noè, Davide, Sansone, Giona, da sempre frequentate nella passione per l’ebraico e le Scritture. Che di base è comunque un viscerale amore per la parola, per il vocabolario e per la lingua, come possibilità/necessità di comunicazione, di relazione e riscatto: «l’italiano mio sarto, calzolaio, piccione viaggiatore, / farina del mio grano, / clorofilla che fabbrica la linfa con la luce, / mio mandorlo piantato davanti alla finestra». Negli ultimi trent’anni che l’hanno visto tra i maggiori esponenti della nostra letteratura, Erri De Luca ha costruito un’immagine di sé savonaroliana, imbastita di un’ineliminabile esigenza etica, intesa a denunciare i mali del mondo, ferocemente schierata contro il potere, e alleata «con chi sconta». In questo libro, carcerati, migranti, sconfitti, analfabeti. Cantastorie con la missione di correggere tradizioni menzognere («Allora restauro leggende»), contrabbandiere di verità negate, dalla parte dei “troppi” rifiutati dal mondo occidentale del benessere, pur nella consapevolezza della sua situazione di privilegio («Ma noi stasera qui parliamo di prigione / come sazi che parlano di fame»), De Luca ha praticato sempre una convinta scelta di campo, anche nella descrizione dei luoghi che fanno da sfondo alla sua scrittura: Bosnia, Palestina, bassi di Napoli. Quando si concede qualche leggerezza, lo fa quasi vergognandosene, e tentando sterzate di ironia: come nelle due sole poesie d’amore presenti (simpaticamente divertita quella dedicata al naso di lei, «navigante… nocchiero», infallibile nell’individuare odori), o nella tarantella sarcastica  Viva l’Ita’: «Figaro qua / Figaro là / fegato fri- / tt’e baccalà. / Figaro su / Figaro giù / tricccheballa-/ cche putipù»). I toni prevalenti sono tuttavia quelli narrativo-prosastici, con una propensione evidentemente didascalica, e i termini più utilizzati quelli che evidenziano una mai domata rabbia, una propensione alla violenza verbale, ansiosamente anti-lirica (scannare, raffica, sguainato, scompiglio, dismisura, aggrovigliato, scervellati, asfissiato, scatarro, gracchiare, squaglio aggrumato…), che arriva all’invettiva e alla maledizione: «Sia danno e carie in bocca la sua parola / detta e non tenuta». Per cui persino la definizione di amore risulta inflessibile e perentoria: «Amare è un verbo scatenato. / Non risparmia niente di se stessi». E nel non risparmio di sé è anche questa sorta di testamento, di umile lascito che arriva a negare la propria sopravvivenza: «Ricorda che sei polvere: d’accordo. / Se però posso scegliere di cosa: / non dell’oro, non della conchiglia, / ma polvere di gesso / di una parola appena cancellata / dalla superficie di lavagna».

 

«Poesia» n.284, giugno 2014

RECENSIONI

BUKOWSKI

CHARLES BUKOWSKI, UNA TORRIDA GIORNATA D’AGOSTO – GUANDA, PARMA 2014

«sto usando questa poesia per riempire lo spazio / mentre bevo / il mio ultimo bicchiere di vino //
stasera // è stata una serata soddisfacente: ho visto un / eccellente incontro di pugilato / prima //
messo l’antipulci ai gatti // risposto a due lettere / scritto quattro poesie. / certe notti scrivo dieci
poesie / rispondo a sei lettere»

Quale fosse il rilievo che Charles Bukowski attribuiva alla sua attività poetica risulta evidente dai versi citati: scrivere poesie, o lettere, o i racconti che gli venivano sollecitati – e ben retribuiti – da editori di pornografia, gli richiedeva la stessa concentrazione e dedizione che occuparsi dei suoi amati gatti. Ironizzava molto sul suo essere un «grande scrittore americano», simile a Norman Mailer nei «10 chili in sovrappeso», e invitato a conferenze in giro per il mondo, quando in realtà si riteneva un poeta mediocre, e commentava sarcasticamente la produzione sua e di altri famosi colleghi: «gli stessi poeti che leggono e / rileggono negli stessi posti; sono imbarazzato per / loro e per / me stesso: / pensiamo davvero di forgiare la lingua in modo / più in- / consueto rispetto alle previsioni della borsa o / del tempo? // tutte quelle parole – che scriviamo a profusione – / ancora e ancora – la maggior parte di noi vive vite / ordinarie e senza coraggio – siamo folli a pensare / che i nostri / discorsi siano eccezionali?»

Nessun rispetto per la tradizione letteraria, nemmeno quella classica, che volutamente tendeva a smitizzare: «metto giù Rabelais / e gli strizzo l’occhio. / questo è quello che gli / scrittori si fanno / a vicenda. // al posto suo, mi / prendo una pastiglia di / vitamina C. //… Rabelais / eri un / ragazzo tanto tanto / interessante».

Nello stesso modo sbeffeggiava lo stile tradizionale, con i suoi versi smozzicati, interrotti a metà, volutamente prosastici e ignari di maiuscole, sia all’inizio che all’interno delle poesie, quasi a voler sottolineare un polemicamente divertito understatement. Più interessato all’alcol, alle corse dei cavalli, al sesso, alla banalità della vita quotidiana, ai soldi facili, Bukowski esibiva anche rabbiosamente il suo sostanziale e motivato distacco dal mondo artefatto del sogno americano, e la sua assoluta, solidale preferenza per gli emarginati, gli ubriaconi, le puttane, le camere d’albergo, i bar più squallidi. «Be’, copuli e copuli. / lasci la casa di questa e / vai nella casa di quella e confronti / copriletto / salviette del bagno / televisori / carta igienica / e il contenuto dei / frigoriferi; la mia lunga esistenza è sempre stata / solo questo e niente di / più; non c’era / altro da / fare / se non scopare; Vicini ottusi e impiccioni, lavori sopportati a malapena e per poco tempo, riti-doveri-cerimonie borghesi (Natale, Capodanno, servizio militare, tasse, pulizia corporale, civismo farisaico) da rispettare per quieto vivere:; mi scoccio quando mi fotto con le mie stesse mani;se vuoi spedirmi in un inferno anticipato / costringimi a passare una giornata intera a / Disneyland».

Gli affetti familiari gli suonavano irrimediabilmente retorici e insopportabili (la moglie querula, la suocera che gli rimproverava le parolacce, un padre detestato che gli aveva rovinato l’infanzia): «i piedi di mio padre puzzavano e aveva il sorriso / come un / mucchio di merda di cane. // essere lo stesso sangue di quell’odiato sangue / rendeva le finestre intollerabili, / e la musica e i fiori e gli alberi / brutti. // ma si vive: il suicidio prima dei dieci anni / è raro».

Cosa può salvare dallo sconforto, se nemmeno la scrittura offre più scampo? Forse solo la magia di una «mattina strana», come quella narrata in una lunga poesia che descrive lo spontaneo e immotivato adunarsi di una folla di uomini davanti a un bar: varia e inconcludente umanità che si ritrova solidale intorno al nulla di un mezzogiorno libero da qualsiasi impegno. Oppure la rara e rivelatrice consapevolezza che al puro esistere bisogna comunque e sempre rimanere grati: «trovi una sedia, ti siedi, accendi un sigaro. / di ritorno da un migliaio di guerre / guardi fuori da una porta aperta nella notte. / Sibelius suona alla radio. / nulla è stato distrutto. / soffi fumo nella notte nera, / sfreghi un dito dietro l’orecchio / sinistro. / ehi bello, in questo momento, sei in cima al / mondo».

 

«nazioneindiana», 15 aprile 2014

RECENSIONI

BRULLO

DAVIDE BRULLO, S – MARIETTI, MILANO 2010

La sinuosa S che dà il titolo a questo eccellente libro (romanzo? meditazione filosofica? diario? affresco immaginoso? epistolario?) di Davide Brullo, potrebbe alludere a una marea di significati diversi. Forse indica l’iniziale di un nome di donna (l’amata, l’odiata, la sola immaginata…) o di un figlio (il Samuele bambino cui si deve il disegno della tartaruga in copertina) o di un luogo (e allora la mitica e irraggiungibile Samarcanda, o l’infernale carcere di Sing Sing). Ma potrebbe anche voler suggerire salvezza, sesso, satana, serpente, sacrificio, storia, speranza, silenzio, sortilegio, specchio, schizofrenia, sofferenza, strategia, suicidio («Debbo sempre ringraziare mio padre: il suo suicidio ha concesso il mio esordio nella storia – o la mia definitiva espulsione: la sua morte è la sola garanzia della mia regalità. Senza di essa non sarei nulla, da allora sono costretto a riscattarla, forzandomi a vivere»). E la condanna a vivere è per Brullo anche costrizione ad esprimersi sulla pagina, attraverso la scrittura: che salva e vendica, inchioda ed esalta. «S» come scrittura, quindi, celebrazione della parola intesa come Verbo, unica possibilità di incarnazione e immortalità («le parole sono gesti inesorabili», «Alcuni pensano che la scrittura dovrebbe far esplodere le cose, i corpi, espanderli fino all’irragionevole: io so che deve contenerle, custodirle come dentro un astuccio in cui si strofinano anelli», «Una scrittura che afferma, precisa e superiore come un ordine, non reclama un lettore ma un fedele»). Custode del miracolo dell’ espressione, artefice di una creazione che lo assimila a un dio minore è quindi lo scrittore, il poeta, il regista che sa intrecciare frasi e immagini in un caleidoscopio vorticoso e assillante di emozioni e turbamenti, cui si deve negare solamente il rigor mortis dell’imperturbabilità, dell’indifferenza, della freddezza. «S», dunque, soprattutto come  «sé» . E il libro di Davide Brullo è un gigantesco monumento, una narcisistica, ammirata, ansiosa ricostruzione ed esaltazione del proprio io psichico, della propria coscienza di uomo e artista: vita brulicante e malattia paralizzante, animali e cose, infanzia e senilità, corruzione e nobiltà, bene e male, persino dio, sembrano vivere in funzione della rappresentazione dell’occhio implacabile, feroce, di chi li descrive, distruttivo e violento anche nei riguardi di se stesso. Una sorta di Zarathustra «radicale… intransigente», animato da una «truce ossessione», è il ritratto che Brullo offre di sé:

«Sono inappagato e famelico», «domando l’inconcepibile, pretendo l’inafferrabile…. pretendo devozione», «non sopporto le cose parziali, interrotte, misere», «so di essere incapace e inadempiente, per questo sono superbo»», «non posso pensare a una creatura che non abbia il mio volto», «ogni mio giudizio è infallibile, inappellabile», «Semplicemente, ambisco al genio, ed esso, nella sua ambivalenza e tirannia, si dimostra con perfezione nella scrittura», «La mia qualità è quella di essere un uomo espulso dalla storia: pervertendo ogni idea di destino sono immune alla pena e alla compassione…». In questa ansiosa bramosia di assoluto, in questo totale e ossessivo scorticamento di sé e del reale, insofferente di qualsiasi tenerezza e indulgenza, Davide Brullo incide con l’analitica cupezza di un anatomopatologo il rapporto con ogni alterità. L’amore assume contorni cannibaleschi e onnivori, in uno sbranamento reciproco che non lascia alcuno spazio alla leggerezza, all’affettuosa comprensione, alla delicata e rispettosa dedizione. Una vertigine dei sentimenti e della fisicità possiede gli amanti, scorporandoli dalle loro individualità per farne un essere unico e mitico, quale forse quello del Simposio: «Ti amo come se fossi il prototipo dell’uomo prima della caduta, poi abortito: come se tu fossi la valle e io l’eco che la stringe e crea. Ma ciò che ti dico non ha testimoni, è nostro. Concedimi questo spreco. Di essere mortale e assoluto, consumandomi ora, per te… Se ti dicessi che spero in una catastrofe di cui noi saremmo il solo resto, cosa penseresti? Probabilmente ci odieremmo, giungeremmo a sopprimerci, perché è l’impossibilità dell’unione a unirci, la perversione del tradimento a darci l’idea dell’ebbrezza e dell’eternità».

Il mondo intorno assume allora i caratteri apocalittici di un day-after, rovinoso e perturbante, in perpetua e orrifica metamorfosi, in cui persino gli oggetti più quotidiani (una tazza, un barattolo, una piastrella…) si deformano alterando i loro confini, trasformandosi in altri oggetti, corpi, animali.   Le città, desolate in un’atmosfera kafkiana di solitudine metafisica, sono invase da colonie di insetti, lucertole, gabbiani, cani e lupi (o dal preistorico, minaccioso varano), che le costringono in scenari da incubo, da flagello biblico e maledizione cosmica: «Vedo scorrere sulla via, di fianco al cancello screpolato, moribondo, bestie impreviste. Creature che non ricordo di aver visto in alcun manuale, esseri che forse reclamano un creatore. Sfilano di fronte a me, in una marcia dimostrativa».

È straordinaria e ammirevole la maestria descrittiva di Brullo, la sua capacità visionaria di squadernare sotto gli occhi del lettore immagini di una concretezza quasi filmica, coinvolgendolo emotivamente, impressionandolo. Se poi la scrittura si concentra nell’analisi delle figure umane, ecco che da pura rappresentazione figurativa assurge a meditazione filosofica sull’imprescindibilità del male, sulla sua non riscattabile necessità. Vecchi e bambini dominano la scena del mondo, gli uni mortificati nel disfacimento repellente del loro corpo («Gli occhi della vecchia erano bianchi e vertiginosi, e nel loro incavo si era impiantata una colonia di formiche…»), gli altri vendicativi, crudeli, mutanti, in preda a istinti omicidi e distruttivi: non esiste innocenza, nell’infanzia descritta da Brullo, né pietà o solidarietà.

«A turno, manovrando un coltello di pietra, i bambini affrontarono il colpevole, stordito, estasiato, scavandolo ed estraendo un pezzo dal suo corpo. Roteavano, ebbri, ciascuno con il proprio coccio sanguinante, come se fossero mostri primordiali che illuminino il cosmo muto, sabbioso, impugnando stelle comete». Quali possono essere le radici di cui si è nutrita negli anni la scrittura così sapiente, meditata e vibrante di Davide Brullo? Senz’altro ritroviamo i toni appassionati dei profeti, da Isaia a Geremia, e le esaltate allucinazioni dell’ Apocalisse; ma anche l’indignazione dei mistici e dei predicatori medievali, e qualche immagine dantesca. E la lettura partecipe dei più noti narratori americani del 900, da Faulkner all’ultimo McCarthy; passando attraverso il rumeno Cioran di  Squartamento, fino all’assorbimento di alcuni echi da Ceronetti e Sgalambro. Frasi severe, asseverative, pregne di un gusto gnomico per la sentenza, per l’aforisma dilatato in constatazione, in tesi teorica che non ammette deroghe o appelli. Alla densità compatta di questo libro, e all’altezza indiscussa della sua prosa, nuocciono forse una ventina di pagine finali, una sorta di memento composto da illuminazioni poetiche, simil-versi scanditi da trattini di separazione, che poco aggiungono alla ricchezza fremente delle pagine precedenti. Le quali trovano la loro disperante giustificazione in affermazioni come questa: «Non ho alcuna ambizione se non quella di estenuarmi, liberandomi dal carcere delle parole e della mia storia». Ovviamente non condivisibile da chi legge Davide Brullo, e si augura invece che lui continui a scrivere narrativa così nobile e coinvolgente, sofferta e imperiosamente rigorosa.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA SOLITUDINE DELL’ANIMA – FELTRINELLI, MILANO 2013

Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra di fama internazionale, ha dedicato un suo libro al tema affascinante e vastissimo della solitudine. I suoi precedenti volumi (otto nell’ultimo decennio, tutti editi da Feltrinelli) indagavano il mistero della sofferenza umana, nei vari aspetti della malattia psichica: dalla schizofrenia all’ansia, dalla malinconia alla depressione. Ma sempre con cuore attento ad ogni vibrazione dell’anima e della mente umana: quindi anche alle emozioni, alle attese, alle speranze che nutrono il vivere quotidiano delle persone, sane o malate che siano. In quest’ultima opera, è appunto l’universo infinito delle varie solitudini che viene affrontato anche con l’ausilio di apporti culturali diversi, che sconfinano nella filosofia (i nomi più citati sono quelli di Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenhauer: per arrivare ai novecenteschi Simone Weil, Husserl, Jaspers, Wittgenstein, Barthes ), nella religione (Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta), nel cinema e nella musica (Ingmar Bergman, Bach, Chopin), nella letteratura e poesia (Leopardi, l’amata Emily Dickinson, Rilke, Bernanos, Etty Hillesum): tutti intellettuali che hanno esplorato più le intermittenze del cuore che le diverse forme della razionalità. L’epigrafe di apertura porta la firma della Dickinson, con due suoi illuminanti versi : «Forse sarei più sola / senza la mia solitudine», che ben esemplificano il rapporto di quasi riconoscenza, di quasi confidenza e familiarità che tutti dovremmo avere con la solitudine. La quale è cosa ben diversa dall’isolamento, che Eugenio Borgna definisce «come solitudine negativa, in cui si è chiusi in se stessi, perduti al mondo e alla trascendenza nel mondo». Perché ««ci si può sentire soli anche nel contesto di una folla, e non si è soli, ci si può non sentire soli anche nel deserto: quando questo sia riscattato, e redento, da una palpitante apertura a noi stessi e, benché assenti, agli altri». E ancora: «La solitudine, come il silenzio, è esperienza interiore che ci aiuta a vivere meglio la nostra vita di ogni giorno…rientrando nella nostra vita interiore…avvertiamo l’importanza della riflessione e della meditazione, della sensibilità e della carità, delle attese e della speranza, della contemplazione e della preghiera».

Quali sono invece le cause che inducono a isolarsi, a chiudersi in una «prigione senza porte, che è quella della lontananza dagli altri»? Borgna ne elenca molte: «la malattia depressiva, la mancanza o la perdita di persone amate, la dissolvenza di ruoli sociali significativi…ma anche la nostra indifferenza e la nostra noncuranza, la nostra desertificazione emozionale, il nostro rifiuto dell’amore…». Il dolore del corpo e dell’anima, le crisi di fede, la timidezza, i sensi di colpa per colpe mai commesse, l’acutizzarsi di conflitti sociali, l’angoscia, le tante paure che paralizzano le nostre ore: sono tutti fattori che spingono le persone a chiudersi in se stesse, come monadi senza finestre. Ma non si deve, per questo, ghettizzare con giudizi impietosi chi si ammala di solitudine; l’autore ha parole molto dure verso coloro che si vantano di una loro presunta e presuntuosa normalità: «Guai a consegnarsi ai pregiudizi astratti di una normalità apparentemente portatrice e creatrice di valori che non conosce i significati, e i valori, della sofferenza e del dolore». Nell’esplorare i più diversi percorsi umani, dalla mistica alla ricerca di una felicità perduta, dall’immaginazione poetica al baratro della malattia e della morte, Borgna arriva a dare della solitudine una visione anche positiva, quasi salvifica: «come compagna di strada che ci salva, nel silenzio, dai discorsi inutili e dagli impegni lacerati, e contaminati, della insignificanza». Questo ricchissimo e necessario volume si chiude con un capitolo dedicato alla cura del dolore, in grado di analizzare in quali situazioni sorga e si perpetui la scelta della solitudine; e con quali interventi si possa soccorrere chi soffre: attraverso quali parole e silenzi, con quali carezze e attenzioni, con quanta presenza delicata e generosa insieme. Soprattutto, con quali terapie mediche, offerte dalla più avanzata psichiatria fenomenologica, che si affida alla cura farmacologica unita a quella relazionale, «nutrita di dialogo e di ascolto». Ecco quindi l’umanissimo invito finale: «Siamo gentili con chi sta male: una psichiatria gentile, che rifiuti l’indifferenza e che sia suscitatrice di speranza, è ancora possibile».

«Orizzonti» n. 53, giugno 2014

RECENSIONI

ANGIULI

LINO ANGIULI, APPELLO DELLA MANO – ARAGNO, TORINO 2010

Secondo la puntuale e approfondita postfazione di Daniela Marcheschi, questo libro di poesie di Lino Angiuli manifesta un «entusiasmo della lingua», un «gusto spiccato della parola» che evidenzia «tensione di corporea fisicità… concretezza… invenzione verbale… tono assertivo… all’insegna del molteplice trionfante». E infatti questa ricchezza esuberante di significati, la positività comunicativa del messaggio, la pienezza inventiva del lessico, coniugate a un severo controllo formale, rendono la scrittura del poeta pugliese decisamente originale nel panorama piuttosto minimalista, scarsamente coraggioso e innovativo della nostra poesia contemporanea. C’è senz’altro ironia nei suoi versi, ma anche un risentito richiamo etico al dovere civile di osservazione e comprensione di ciò che ci circonda, e l’invito a una solidarietà partecipe verso chi rimane ai margini, della società e della vita. Allora il titolo del volume sembra suggerire la necessità di una presa di posizione: una mano che si alza, si apre e si schiera, sia per interrogare che per esprimere la sua decisa intenzionalità. Come forse dovrebbe saper fare anche la poesia, al di là delle incertezze ed esitazioni di tono e di senso tanto di moda oggi. I versi di Angiuli non sembrano soffrire crisi di valori, le parole si rincorrono nette e affollate, quasi prive di segni di interpunzione e sospensione: solo ribadite dal punto fermo finale, che è anche e sempre una constatazione di realistica volontà affermativa.
Nelle sei sezioni che costituiscono il volume la polifonia delle immagini è soprattutto indirizzata allo scandaglio dell’alterità, piuttosto che all’introspezione egotistica. Lo sguardo del poeta è rivolto al fuori di sé, con un interesse partecipe e vivace a tutto ciò che è “mondo”. Il paesaggio, innanzi tutto, con la sua vegetazione mediterranea fatta di mentuccia, limoni, gerani, arance, peperoncini, capperi, cipolle rosse, rosmarino e pomodori. E poi la terra argillosa, la sabbia, i golfi e il mare («Io e il mare siamo due fratelli / e certe volte lui mi piglia in braccio / mi parla greco dei suoi pomeriggi»), in una «geografia salata» concretissima e immersa nella fisicità. Si stagliano imperiosamente sulla pagina come in un bassorilievo i visi e i corpi delle persone, le loro voci e storie, i loro amori e lavori che dalle vicende particolari di esistenze minime assurgono a una universalità paganeggiante: «Niente è più sacro del respiro nostro / che riesce a incollare il principio e la fine». Sebbene infatti i riferimenti a una religiosità popolare abbondino in tutta la raccolta (spiritosanto, altarini, erode e pilato, breviario, miracoli, reliquie, avvento, resurrezione e «il signore sia con voi andate in pace»), il ciclo delle esistenze raccontate appartiene a una corale e antica tradizione impastata di natura e leggende, più profane che devote. Il cielo non confina tanto con lo spirito, quanto con l’ «azzurro che / confonde pesci e uccelli», e nella sezione più originale del libro («In lungo e in largo- orazioni settimanali»), scandita in sette sermoni laici, ciascuno formato da sette strofe di sette versi “narrativi”, il poeta riesce a trovare una sua voce pietosa e profetica insieme, clamans nel deserto dell’indifferenza morale che ci livella tutti: sia che mediti sulla morte, sulla guerra o sull’emigrazione, sia che sbeffeggi sarcastico le mode alimentari o salutistiche («pesce azzurro tre volte a settimana e la verdura cruda / occhio alla bilancia occhio al grasso occhio alla ruga»), o elevi una preghiera scandalizzata e polemica al dio dell’ufficialità ecclesiastica.
La rigorosa struttura e la disciplina formale in cui Angiuli sembra voler controllare la foga travolgente del suo dettato poetico è evidente ancora in altre due sezioni del volume: nelle otto composizioni di  S’io fossi donna, immedesimate in una sensibilità assolutamente attenta al femminile, composte tutte da due quartine di otto versi quasi sempre formati da due ottonari, e nelle  Tre tredicine di tredici versi, molto giocati linguisticamente. Angiuli riesce infatti a ben destreggiarsi tra neologismi, accostamenti spiazzanti, invenzioni lessicali, plurilinguismi, divertissment, irridendo ogni paludata e autocompiaciuta seriosità letteraria, con la consapevolezza di chi sa di avere qualcosa da dire, e sa anche come dirlo.

«Qui Libri», dicembre 2012