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RECENSIONI

NELLO SCAVO

NELLO SCAVO, L’ORIZZONTE DI NOTTE NON ESISTE – MANNI, LECCE 2023

Nello Scavo (Catania, 1972), inviato speciale del quotidiano Avvenire, è autore di inchieste importanti e coraggiose. Reporter internazionale, cronista giudiziario, corrispondente di guerra, collabora anche con diverse testate estere. Si è occupato dei conflitti in Africa e in Medioriente, di immigrazione clandestina, di politica vaticana, dell’invasione russa in Ucraina. Nel gennaio 2019 è stato il primo giornalista a salire a bordo della nave Sea Watch 3, che per  settimane è stata bloccata in mare dopo avere soccorso 49 migranti a cui non era stato permesso di sbarcare. La sua ultima pubblicazione, L’orizzonte di notte non esiste, mette in discussione il concetto di “confine” tra stati, là dove le frontiere nascondono in realtà muri invalicabili per chi cerca di superarli nel tentativo di salvare la propria vita. Il confine può essere una semplice formalità, o il bastione di una fortezza difeso con inflessibile crudeltà da forze militari impermeabili al sentimento della pietà.

Il testo di Scavo, rappresentato a Bologna nel luglio del 2021 con voce recitante di Ottavia Piccolo su accompagnamento musicale, racconta dunque la sofferenza di uomini donne bambini costretti a lasciare il proprio paese per cercare rifugio in zone ritenute più sicure e più ricche di quelle che abbandonano. Più sicure, ricche, sane. Raramente accoglienti.

La narrazione alterna alla nuda illustrazione di dati sui migranti la testimonianza di alcuni casi particolari, altamente drammatici, esposti con un coinvolgimento commosso ed empatico, che fa assumere alla scrittura un tono quasi lirico.

I profughi oggi sono circa 70 milioni, più di quanti ne ha provocati la seconda guerra mondiale: questo esodo massiccio e ingovernabile movimenta miliardi di dollari a beneficio dei contrabbandieri. Nel marzo dello scorso anno, la Corte penale dell’Aja si è pronunciata qualificando gli abusi contro i migranti come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma nella stessa data il Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre condannava l’invasione russa in Ucraina, taceva delle violenze in Libia. Violenze che hanno portato il diciannovenne Mohamed, scappato dal Darfur, torturato e abusato nel campo di prigionia di Ain Zara, a impiccarsi. Il Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione in Libia viene sovvenzionato economicamente dal nostro paese, perché tenga lontani i profughi dai nostri mari. Contro questa tratta di carne umana si battono generosamente alcuni buoni samaritani, come don Mattia Ferrari, sacerdote modenese finito sotto tutela delle forze dell’ordine a causa delle minacce ricevute da ambienti vicini ai trafficanti e alle autorità libiche, o come la macedone Lence Zdravkin, che soccorre i rifugiati sulla rotta balcanica.

Gli episodi narrati da Nello Scavo sono diversi e ugualmente toccanti, sia che raccontino del piccolo ivoriano Simba (uno dei tantissimi “invasori con il pannolino” da cui ci difendiamo), che da un barcone “latrina di escrementi, carburante e vomito” viene gettato di notte tra le braccia di un operatore su una scialuppa della Guarda costiera, sia che descrivano la brutalità cui vengono sottoposti i bambini siriani, libanesi, turchi, giordani, costretti a lavorare 12 ore al giorno in botteghe artigiane, o trasportando sacchi di carbone. Nel deserto al confine tra il Messico  e il Texas sono sempre i minori che patiscono le angherie di contrabbandieri, pagati per scagliarli al di là del muro, chiusi in sacchi come fagotti. Persino le strutture di soccorso finanziate dall’Unione Europea come Moria, in Grecia, non garantiscono le misure elementari di igiene e assistenza. “Concepita per 3.000 migranti e profughi, ne ospita 20.000: un bagno (sporco) ogni 160 persone, una doccia ogni 500, una fonte d’acqua ogni 325”.

L’autore stesso ha provato sulla sua pelle il senso di abbandono e paura, come quando, in un viaggio dalla Somalia all’Etiopia per testimoniare ingiustizie e violenze del continente africano, è stato abbandonato dalla sua guida Hassan, che riteneva troppo pericoloso accompagnare oltre il confine un giornalista bianco, un “walking dollar”, banconota che cammina,  pollo da spennare, o da sequestrare negoziando un riscatto.

I confini, barriere fisiche e mentali, muri che dividono difendendo le civiltà evolute e condannando i poveri e gli sfruttati, si confondono nel buio della notte, come recita il titolo del libro: “L’orizzonte, di notte, non esiste. Il confine tra il pianeta e il firmamento, semplicemente sparisce. È così che viaggiano i sogni. È così che cominciano gli incubi. In un campo di prigionia, su una zattera, con le braccia trapassate dal filo spinato, oppure nello sguardo perso di un bambino nel deserto. È così che la Storia ci rivolgerà una domanda antica: «Caino, dov’è tuo fratello?»”.

 

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SoloLibri.net › … › L’orizzonte di notte non esiste di Nello Scavo,  2 febbraio 2023

RECENSIONI

FLICK

GIOVANNI MARIA FLICK, CATERINA FLICK, L’ALGORITMO D’ORO E LA TORRE DI BABELE – BALDINI & CASTOLDI, MILANO 2022

Giovanni Maria Flick, Ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Prodi e  Presidente emerito della Corte Costituzionale, dopo aver pubblicato libri coinvolgenti sul tema della legalità e dell’ambiente, ha firmato con la figlia Caterina Flick (Docente di diritto internazionale dell’era digitale e sistemi giuridici dei Big Data e titolare di un importante studio legale a Roma), un volume edito da Baldini & Castoldi: L’algoritmo d’oro e la torre di Babele. Con il sottotitolo Il mito dell’informatica, il testo – scandito in due sezioni, cinque capitoli e una nutrita bibliografia – invita a una consapevolezza più attenta nei riguardi delle prospettive e delle conseguenze di uno sbilanciamento della società verso il sovra-dominio di una cultura digitale di massa. Se è vero che tra le urgenze della politica europea viene indicata la realizzazione di un modello di sviluppo innovativo, basato non solo sulla protezione dell’ambiente, della salute, della dignità individuale, ma anche sul progresso della tecnologia informatica, è altrettanto vero che è necessario guardarsi da una civiltà delle macchine che tenda a sovrapporsi alla civiltà umana, accompagnata da un eccesso di entusiasmo acritico, in una sorta di delirio di onnipotenza. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), nelle quali rientrano l’informatica, la cibernetica, l’elettronica e la telematica, hanno determinato una svolta epocale nelle relazioni interpersonali, nel modo di studiare, di lavorare, di produrre e di consumare risorse, utilizzando sistemi altamente sofisticati in grado di subentrare alla persona in compiti complessi. Gli autori di questo volume esprimono tuttavia il timore che in un prossimo futuro la persona venga sostituita dai computer anche nelle funzioni più̀ connaturate alla sua identità̀ e coscienza.

Partendo dal commento degli articoli 9 e 33 della nostra Costituzione (che promuovono lo sviluppo delle cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutelando il patrimonio artistico e storico della Nazione e proteggendo l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi e gli animali, anche nell’interesse delle future generazioni), Giovanni e Caterina Flick insistono sull’importanza di collegare la conoscenza e la difesa del passato alle istanze di rinnovamento digitale presenti nella società, purché tale progresso sia vigilato da indispensabili regolamentazioni istituzionali e da processi educativi, in modo da non fare dell’algoritmo un nuovo vitello d’oro da idolatrare. Raccomandano pertanto qualche cautela nell’esaltare euforicamente l’innovazione del mercato e del linguaggio globale, ricordando due episodi narrati nell’Antico Testamento: il diluvio universale e la torre di Babele. Nel primo racconto la rottura del rapporto con la natura aveva condannato l’ambiente umano e naturale alla catastrofe, nell’altro la presuntuosa utopia di una lingua unificante aveva portato alla distruzione dell’edificio costruito collettivamente.

Tante sono le minacce che provengono da un uso incondizionato e privo di controllo della digitalizzazione universale: non solo il cyberbullismo, la pedopornografia, le fake news, il rilevamento dei dati biometrici in luogo pubblico, il non rispetto della riservatezza personale, la sicurezza delle reti, le diseguaglianze nello sviluppo delle capacità cognitive. Si sono anche sottovalutati i costi della rivoluzione informatica e il suo consumo energetico, la necessità di investimenti e infrastrutture dispendiose, la competitività e il confronto sul piano internazionale con i colossi del web, l’urgenza di diffondere una nuova alfabetizzazione nelle diverse età e classi economiche.

Gli obiettivi di profitto e di potere che condizionano la gestione delle relazioni sociali potrebbero mettere in secondo piano l’identità dell’individuo-persona nell’eguaglianza di tutti e nella diversità di ciascuno. Si pongono infatti altri interrogativi di ordine etico e sociale, culturale e filosofico: l’uso dei Big Data, il diritto alla memoria e all’oblio, il rapporto con l’autorità e l’amministrazione pubblica, la strumentalizzazione dell’informazione per finalità non trasparenti, una percezione distorta della realtà attraverso la manipolazione virtuale, l’uso di un linguaggio criptato accessibile a pochi eletti, o addirittura l’utilizzo di tecniche subliminali in grado di interferire sul pensiero umano. In campo giuridico, poi, si prospetta una «giustizia predittiva» in grado di suggerire decisioni, anziché fornire dati obiettivi ai magistrati, con il rischio di arrivare a una giustizia robotica.

In sostanza rischiamo forme di controllo e di sorveglianza di massa, senz’altro non democratiche e non rispettose dei diritti civili. Per di più, in termini di pura convivenza, “l’avanzamento della tecnologia – con la velocità, l’elimi nazione delle distanze, la modifica del modo di comunicare– si traduce nella riduzione dello spazio, del tempo e delle relazioni, oltre che in una competitività esasperata”, producendo spesso dipendenza emotiva e intellettuale, e incoraggiando il narcisismo individualistico.

Sono problematiche che non vanno sottovalutate, per le quali gli autori propongono alcune possibili soluzioni nella seconda parte del volume, dedicata alla normativa giuridica che disciplina l’intricato e problematico universo informatico.

In primo luogo sarà fondamentale l’elaborazione di regole sulla raccolta delle informazioni e dei dati, sulla sorveglianza commerciale e sulle forniture di servizi, individuando e definendo l’ambito di responsabilità dell’utente, delle imprese produttrici e di quelle che sviluppano i sistemi software installati, predisponendo inoltre modalità risarcitorie in base ai rischi di danni. Poi si dovrà ridiscutere il sistema di tassazione per le grandi imprese, provvedere al rafforzamento del mercato e dei suoi nuovi strumenti come gli smart contract e le block chain, senza dimenticare la lotta alla disinformazione, all’hate speech, al furto di conoscenza e di identità. Infine, se è indifferibile il continuo aggiornamento delle conoscenze informatiche nei programmi scolastici a tutti i livelli, lo è altrettanto l’approfondimento di materie che sono state svilite, la rivalutazione della capacità di critica individuale, insieme alle competenze nella scrittura, oggi messa in secondo piano rispetto all’espressione orale.

Rimane irrisolta la questione di fondo, nei riguardi dei sistemi basati sull’intelligenza artificiale, e cioè se sia possibile “inserire” in essi principi e idealità umane, in modo che sappiano operare scelte etiche, restituendo il giusto ruolo ai concetti di altruismo e cooperazione che si sono persi nel tempo. Per tale motivo deve soprattutto essere favorita “una coesistenza equilibrata tra uomo e macchina, nella consapevolezza che quest’ultima più si potenzia, più tende a essere vista come un fine e un valore, non come un mezzo e uno strumento”.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 30 dicembre 2023

 

MAESTRI

GRAVES

PARLA DEL SUO AMORE IN MEZZO AL SONNO

Parla del suo amore in mezzo al sonno,

nell’ora buia,

con parole spezzate, lievi sibili:

 

come la Terra si desta dal suo sonno invernale

e mormora erba e fiori

nonostante la neve

nonostante la neve che cade.

 

**

 

RIPORTARE IN VITA I MORTI

Riportare in vita i morti

non è somma magia.

Pochi sono completamente morti:

soffia sopra le ceneri di un morto

e scoccherà la fiamma viva.

 

Lascia che si ricomponga il dolore perduto

e le speranze avvizzite;

sottometti la penna alla sua scrittura

finché sia naturale

firmare col suo nome come col tuo.

 

Zoppica come lui zoppicava

bestemmia le sue stesse bestemmie;

se preferiva il nero, vestiti nello stesso modo;

se la gotta censiva le sue dita

sia lo stesso per te.

 

Raccogli gli oggetti che gli erano cari −

un mantello, il sigillo, la penna:

intorno a questi dettagli costruisci

una casa familiare

per l’avido redivivo.

 

Permettigli la vita, ma ricorda

che la tomba in cui abitava

non è più vuota adesso:

avvolto nei suoi abiti luridi

sarai tu a giacere lì dentro.

 

**

 

COME NEVE

Infine, lei, come la neve nella notte oscura,

caduta in segreto. E il mondo si sveglia

meraviglia di occhi assonnati,

alcuni mormorano “c’è troppa luce”,

e chiudono le tende.

Come neve, più calda di dita cagliate

dalla paura, docile al suolo;

fila le store della notte in trame ancora confuse.

 

Robert Graves (1895-1985)

MAESTRI

FOLLAIN

CANE CON GLI SCOLARI

Gli scolari per gioco spezzano il ghiaccio

in un sentiero

presso la ferrovia

hanno vestiti pesanti

di vecchia lana scura

e cinture di cuoio consumato

il cane che li segue

non ha una ciotola dove può mangiare

è vecchio

perché ha la loro età.

 

**

SEGNI PER VIAGGIATORI

Viaggiatori dei grandi spazi

quando vedrete una ragazza

che attorce nelle sue mani splendenti

un’immensa chioma nera

e quando inoltre

vedrete

accanto a un oscuro panificio

un cavallo che giace come morto

da questi segni riconoscerete

che state in mezzo agli uomini.

 

Jean Follain (1903-1971)

 

 

RECENSIONI

ELIOT

T.S. ELIOT, QUATTRO QUARTETTI – BOMPIANI, MILANO 2022

Un lavoro eccezionale, quello che la giovane anglista Audrey Taschini, docente all’Università di Bergamo, ha compiuto curando e traducendo i Quattro Quartetti di Thomas Stearns Eliot.  Il volume è diviso in tre parti, l’ultima delle quali riporta l’originale in inglese e la traduzione della curatrice, elegante e puntuale: forse la migliore tra le diverse che ho letto, perché non indugia in ostentazioni ed estrosità personali. Per rendersene conto, basta controllare la resa fedelissima, priva di pedanterie o enfasi, dei famosi primi versi di Burnt Norton: “Il tempo presente e il tempo passato / Sono entrambi forse presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile”. Rispettose persino della disposizione grafica del testo, ci appaiono altre strofe successive: “Ma a che scopo // Disturbando la polvere su una ciotola di foglie di rosa / Io non so. // Altri echi / Abitano il giardino. Li seguiremo?” Rimane intatto il ritmo, il suono fermo e insieme gentile del modello.

Se qualcuno vorrà leggere questo importante omaggio al Premio Nobel anglo-americano, consiglierei di affrontare il libro proprio dalla fine, lasciandosi trasportare dall’equilibrio armonico della versione italiana. Nella Premessa, la curatrice specifica le linee guida del suo lavoro: “La traduzione ambisce a fornire nel testo italiano elementi sufficienti a rappresentare gli echi dell’intertestualità eliotiana e la ricchezza delle valenze semantiche e della suggestività dell’originale”.

Stimolante e nuovo è tutto l’impianto interpretativo della ricerca di Audrey Taschini. Nella prima sezione si prendono in considerazione le molteplici fonti culturali che hanno ispirato l’opera, a partire dalla Bhagavad Gita, attraverso le fondamentali intuizioni scientifiche e filosofiche del Novecento, con riferimenti all’arazzo compositivo della Commedia dantesca, agli assunti teologici nella poesia di John Donne e agli spunti morali del predicatore anglicano Lancelot Andrews. In particolare vengono messi in luce gli interessi che il poeta approfondì durante gli studi ad Harvard: il sanscrito e i Veda, i presocratici con la predilezione per Eraclito, l’attrazione per il pensiero magico in opposizione al razionalismo, la tesi di laurea su Bradley, l’interesse per la nuova fisica soprattutto nella definizione del concetto di tempo, lo studio del simbolismo e dello strutturalismo, l’adesione all’imagismo. La partecipazione a questo movimento letterario portò Eliot a condividere – con Pound, Joyce, Doolittle, Lawrence e altri scrittori –, l’ideale di un linguaggio iconico, secondo cui immagine e parola agiscono sinergicamente evocando direttamente le emozioni, aldilà di ogni concetto o locuzione astratta. Fu proprio Eliot che diede inizio a un nuovo modo di concepire e produrre poesia, pubblicando nel 1920 il saggio The sacred wood, in cui coniava il termine di “correlativo oggettivo”, riferendosi al procedimento poetico che da un fattore esterno (un oggetto, una serie di eventi, una situazione) lascia germinare immediatamente una sensazione e un’esperienza emotiva.

Se lo studio delle fonti rimane senz’altro illuminante e necessario, è tuttavia proprio nel secondo capitolo, dedicato al commento particolareggiato di ogni Quartetto, che maggiormente si dispiega l’intuito critico di Audrey Taschini, con l’attenzione specifica rivolta alla rielaborazione delle teorie imagiste.

Lo scetticismo eliotiano nei confronti del materialismo moderno lo induceva a riscoprire nel complesso linguaggio delle immagini e dei simboli il ruolo cognitivo e spirituale loro attribuito nell’antichità, quando rivestivano la funzione di dialogo e mediazione con l’Essere, mai raggiungibile in maniera puramente logica e razionale. La novità dei Four Quartets, tutta interna alla sfera religiosa, si evince quindi non tanto dai contenuti quanto dall’utilizzo di un linguaggio denso, allusivo e penetrante, capace di ricongiungere il trascendente con la realtà quotidiana, riunendo a un livello simbolico il corpo del mondo al suo spirito universale, nell’unità del tutto, là dove intellect and sensibility are in harmony. Per Eliot la poesia doveva esprimere una perfetta commistione tra senso, emozione e pensiero, trasformandosi in un’esperienza completa del vissuto, e aprendolo contemporaneamente a una verità sovrastante la pura percezione materiale e intellettuale.

Per ogni quartetto Eliot scelse il nome di un luogo dal particolare valore sentimentale o spirituale, con la funzione di correlativo oggettivo, fondamento concreto alle meditazioni filosofiche e teologiche trattate in ciascuno dei poemi: Burnt Norton, East Coker, The Dry Salvages, Litlle Gidding. Il numero quattro nella filosofia pitagorica era il simbolo del cosmo e dell’armonia delle sfere, richiamata anche dalla metafora musicale alla base dei Quartetti. Ma soprattutto il quattro rimanda agli elementi empedoclei – aria acqua terra fuoco –, principi costitutivi dell’universo, trasmutanti uno nell’altro in una trasformazione ciclica, in cui la natura rispecchia l’immobile movimento dell’Eterno (“Still and still moving”), come nel susseguirsi delle stagioni. La resa poetica dei legami tra l’individualità concreta e l’universalità astratta, il contingente e l’Assoluto, il temporale e l’infinito, il visibile e l’invisibile mira a riprodurre la fusione degli opposti in un principio divino unificante. Tale compenetrazione tra umano e sovrumano può essere rappresentato solo attraverso la riflessione sul tempo, inteso come un fluire indiviso di passato, presente e futuro: “Ciò che chiamiamo l’inizio è spesso la fine. / E fare una fine è fare un inizio, / La fine è dove cominciamo”.

Congedando questa sapiente rilettura dei Four Quartets, mi sembra opportuno riportare alcuni tra i tanti versi ricchi di emozione e significato, che nel periodo oscuro in cui furono scritti, e in quello altrettanto minaccioso che stiamo vivendo, offrono uno spiraglio al chiarore di una nuova alba: “Dissi alla mia anima, stai ferma, e attendi senza speranza / Poiché la speranza sarebbe speranza per la cosa sbagliata; attendi senza amore, / Poiché l’amore sarebbe amore per la cosa sbagliata; ancora c’è la fede, / Ma la fede e l’amore e la speranza sono tutte nell’attesa. / Attendi senza pensiero, poiché non sei pronto per il pensiero: / Così il buio sarà la luce, e la quiete la danza”.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, NÉ TIMO NÉ MAGGIORANA – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

“Le api suggono i fiori di qua e di là, ma poi ne fanno miele. Ed è miele loro in tutto, non più né timo né maggiorana: così l’autore delle cose prese in prestito da altri: le trasformerà e mescolerà per farne una cosa tutta sua, giusta il suo modo di vedere le cose”. Questa frase, tratta dagli Essais di Montaigne, fa da epigrafe al libro di Giovanni Orelli Né timo né maggiorana, sessanta sonetti pubblicati nel 1996 che spaziano dall’eros alla morte, dalla memoria personale alla polemica politica o civile. Sonetti onnivori e onnicomprensivi, pervasi da un’ansia di raccontare e raccontarsi che li rende agli occhi di un lettore di poesia, abituato ormai a un certo ermetismo formale e orfismo criptico nei contenuti, tanto più originali e sconcertanti. Difficile, infatti, trovare antenati o padrini alla poesia di Giovanni Orelli (1928-2016). Giustamente Remo Fasani nell’introduzione parla di “vena narrativa”, che si esplica nella preferenza data ai versi lunghi, e soprattutto in un contenutismo esasperato: voglia di dire tutto, e con una certa eccitata tensione comunicativa. Rimane, della tradizione, l’involucro formale del sonetto: due quartine e due terzine, ma per così dire sbeffeggiato, preso in giro da un’innovazione continua e dissacrante: rime false o strabordanti, enjambement provocatori, metrica strapazzata…

Anche i contenuti della poesia sono vari e fantasmagorici: il Ticino, la Svizzera di Orelli c’entrano di sbieco, in questa raccolta. Qualche profumo e colore, qualche faccia contadina o frase dialettale. Invece protagonista è il mondo intero, con i suoi avvenimenti tra storia e cronaca, con le ideologie e le utopie. In particolare, la danza vorticosa tra eros e thanatos sembra molto interessare il poeta. Un eros libero e gioioso, “vertigine di vento” che si insinua tra occhi e pensieri, subdolo e invincibile, per esplodere poi esaltato ed esaltante: “il Robinson che esplora è la mia mano sola, / giunge a una Sierra Madre penetra un folto / di piume, l’occhio intanto cerca il tuo volto / insegue un guizzo che nell’iride vola, / il sangue che ti trema nella gola, / il tuo ventre che esulta, dalle catene della mente sciolto”.

Ci troviamo davanti a una carambola di occhi, seni, capelli, gambe che costituiscono un vero inno alla vita e alla felicità, chiosato da un verso-viatico-programma esistenziale: “misura per amare è amare, sempre, senza misura”. A questo imperativo fa da contraltare un richiamo ossessivo alla morte, al disfacimento del corpo, temuto eppure aspettato. Gli accenni alla fine sono così ripetuti da sembrare quasi apotropaici: (“Giovanni Orelli è morto? No, per Zeus, ma è giù di forze”, “Morirai, e sarà libero un posto…”, “due volte con le sue ali mi ha sfiorato / nostra sorella morte…”, “Ovunque il guardo giro è, per metastasi, un diffuso odore / di morte…”), ma comunque anch’essi travolti da un incoercibile amor vitae.

Il volume è corredato, in chiusura, da una serie impressionante di note, che rimandano alle letture da cui sono scaturiti i sonetti: letture le più varie, di antropologia, scienza, storia, filosofia o religione, a indicare la molteplicità e la varietà degli interessi dell’autore, oltre che la sua abilità a sfruttare per fini poetici qualsiasi argomento, con un distacco razionale dalla materia egregiamente dominata e asservita.

Giovanni Orelli appare qui un innamorato entusiasta, che nei versi mostra le tenerezze e le improvvise rabbie di tutti gli amanti: “così vi insulto miei versi, veterosonetti / vi chiamo rimbambiti libidinosi antipatici avari / male invecchiati trasandati: sì, ciabatte, / voi versi siete le mie capre malnate / e io il becco che dovrebbero castrare. / C’è un punto, sotto il sole, tutto per voi: voi fate latte”. Un latte nutrito da timo maggiorana e altre sapide erbe, che il vulcanico poeta-narratore-saggista ticinese ha lasciato in eredità ai tanti lettori che tuttora avvertono la sua mancanza.

 

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SoloLibri.net › … › Né timo né maggiorana di Giovanni Orelli              22 gennaio 2023

 

 

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MAYER

HANS MAYER, I DIVERSI – GARZANTI, MILANO 1992

Sarebbe opportuno e auspicabile riproporre oggi, almeno in e-book, il volume di Hans Mayer I diversi, edito da Garzanti nel 1978 e poi ripubblicato nel 1992, perché il tema affrontato rimane, ahimè, tuttora prepotentemente attuale, nonostante gli incessanti ma inascoltati inviti alla comprensione e al rispetto per qualsiasi minoranza, rivolti agli individui e alle società, alla sensibilità dei singoli e alla legislazione ufficiale. Mai come oggi, però, tale puntuale ed enfatica esortazione viene nei fatti disattesa, con una recrudescenza preoccupante di sadismo, intolleranza, violenza fisica e verbale nei riguardi di chi è “altro”.

Hans Mayer (1907-2001), allievo di Adorno e Horkheimer, distintosi in Germani a noto anche in Italia per i suoi studi letterari sforanti nel sociale, suggerendo coinvolgimenti etico-politici (cfr. Letteratura vissuta, Milano 1991), propose negli anni ’70 una lettura totalizzante, quasi enciclopedica, della discriminazione, che attraversando diacronicamente la storia letteraria mondiale, percorreva un filo di pensiero unificante sulla diversità, individuata in tre grandi categorie umane: la donna, l’omosessuale, l’ebreo.

Servendosi di strumenti scientifici e approcci specialistici eterogenei, confezionò con I diversi un volume ambizioso da utilizzare come manuale e compendio antologico, più che come testo critico vero e proprio. I diversi si propone infatti come libro a tesi, pamphlet politico, già a partire dalla lapidaria affermazione iniziale: “L’illuminismo borghese è fallito… l’uguaglianza formale davanti alla legge… non ha comportato una conseguente uguaglianza materiale delle prospettive di vita”. Considerazione quasi scontata, condivisibile pressoché universalmente, soprattutto per ciò che riguarda i tre gruppi presi in considerazione da Mayer: donne, omossessuali, ebrei pagano ancora a caro prezzo la contraddizione irrisolta di essere altro dalla maggioranza dominante in cui tuttavia sono inseriti. Difficile però parlare coma fa Mayer di tre gruppi omogenei, per cui nei secoli e alle latitudini più diverse siano valse lo stesso tipo di discriminazioni culturali. Cosa unisce Giovanna d’Arco a Klaus Mann, Jean Genet allo Shylock shakespeariano, Giuditta a Edoardo II, Rimbaud ai personaggi ebrei di Dickens e di George Eliot? Basta il tratto unificante della differenza a collegare tra loro esperienze intellettuali e sociali così lontane e ambivalenti? Con quale rigore scientifico si può, oggi, dopo decenni di studi approfonditi della cultura femminista, parlare della donna come “minoranza diversa” in tutta la storia della letteratura dalla Bibbia in poi?

Altrettanto difficile da condividere appare la scelta di Mayer di eludere temi e nomi essenziali all’interno delle tre categorie prese in considerazione, tacendo di autori che hanno dibattuto a lungo, e pagato sulla propria pelle, la diversità: Christa Wolf, Elie Wiesel, Pierpaolo Pasolini, per indicare personaggi notissimi anche al dibattito culturale tedesco, nemmeno citati nel repertorio delle note.

Un volume quindi, quello di Mayer, di notevole interesse documentario, senz’altro pungolante e animato da vis polemica, ma ideologicamente ibrido e formalmente appesantito da uno stile assertivo e perentorio, nella sua monotona paratassi; teutonicamente rigoroso nel negare a noi lettori l’addolcimento di qualche metafora, la pausa diluente di qualche subordinata.

 

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SoloLibri.net › Recensioni di libri › I diversi di Hans Mayer              18 dicembre 2023

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SCHLINK

BERNHARD SCHLINK, IL LETTORE – NERI POZZA, MILANO 2018

Pubblicato da Garzanti nel 1996 con il titolo A voce alta, riedito nel 2010 come The reader, e nel 2018 da Neri Pozza come Il lettore, da questo avvincente libro di Bernhard Schlink è stato tratto nel 2008 un film interpretato da Ralph Fiennes e Kate Winslet, per l’occasione premiata con l’Oscar. Si tratta di uno dei romanzi fondamentali della narrativa tedesca contemporanea, “stilisticamente perfetto, inquietante e moralmente devastante”, secondo la definizione del Los Angeles Times, tradotto in più di venti lingue, premiatissimo e a lungo ai vertici delle classifiche di vendita nel mondo intero. La sua fama deriva dall’aver saputo dosare in giusta misura vicende private e storia collettiva, tenerezza personale e sdegno civile, attraverso una prosa asciutta, incalzante, priva sia di retorica sia di morbosità.

Protagonista maschile è Michael Berg, un quindicenne che vive a Heidelberg negli anni del secondo dopoguerra. Colto da malore sulla strada di casa viene soccorso da una vicina, bionda e solida quarantenne dai modi spicci e sicuri. L’avvenenza tranquilla e senza artifici della donna colpiscono profondamente il ragazzo, il quale, non appena riavutosi da una debilitante e lunga malattia, inizia a frequentare la casa di lei animato da un turbamento che pian piano si trasforma in passione. Hanna Schmitz lo accoglie con naturalezza compiaciuta, iniziando con il “ragazzino” – come lo chiama – una relazione sempre più coinvolgente.

Il rapporto tra i due, tenuto segreto a tutti con una complicità che è vergogna degli altri ma anche reciproco imbarazzo, si approfondisce nel tempo non solo da un punto di vista sessuale, ma anche affettivamente e culturalmente. Perché la donna, semplice bigliettaia su una linea tranviaria molto frequentata, e Michael, liceale figlio di un professore universitario, sembrano avere inclinazioni letterarie comuni, e lei pretende che il giovane le legga a ogni incontro pagine e pagine di classici, da Omero a Tolstoj, “a voce alta”. La loro relazione va avanti per quasi un anno, arricchendosi di stimoli nuovi (un viaggio di alcuni giorni in bicicletta attraverso il paesaggio del Baden-Württemberg; concerti, cinema, teatro), finché tra loro si apre qualche incrinatura, poiché Hanna sembra voler custodire con gelosia inconfessabili segreti, e Michael le tace la propria attrazione per una compagna di scuola.

Improvvisamente, la bigliettaia sparisce senza lasciare traccia di sé, e il ragazzino vive questo abbandono come un tradimento, si indurisce nei riguardi del prossimo, chiudendosi in una corazza di indifferenza e superficialità: si concede molte storielle facili, pratica svogliatamente un po’ di sport, studia senza interesse fino all’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Qui la sua strada si intreccia nuovamente con quella di Hanna, accusata di aver redatto un elenco di donne ebree da deportare ad Auschwitz e processata come ex-sorvegliante in un lager nazista. Michael assiste a tutte le udienze in tribunale, senza perdere una seduta, senza scambiare nemmeno una parola con l’imputata, pur sentendosi legato a lei da un filo tenace di comprensione, di condivisione anche del non detto, del molto taciuto. E finalmente arriva a intuire il motivo reale dell’abbandono dell’antica amante, i tanti sotterfugi cui ricorreva, gli appuntamenti mancati, le lettere rimaste senza risposta, la continua richiesta di fare di lui un lettore privilegiato. Pur di non rivelargli il suo analfabetismo, Hanna aveva deciso di troncare il loro rapporto, e in seguito preferisce passare per criminale piuttosto che umiliarsi confessando pubblicamente di non saper né leggere né scrivere: ammette quindi le proprie responsabilità politiche, pur con qualche esitazione, e viene condannata a diciotto anni di carcere.

Michael potrebbe parlare, salvandola così dalla prigione, ma non lo fa per rispettare la sua riservatezza. Sceglie una monotona professione in ambito legale, si sposa e divorzia, passando con indifferenza attraverso altre relazioni, ma è sempre ad Hanna che pensa, e ricorda con uno struggimento misto a sensi di colpa e a rimpianto. Decide infine di farsi vivo con lei nell’unico modo che gli è concesso, e registra decine di cassette leggendo e inviando alla detenuta tutto quello che gli capita, oltre a quello che man mano va componendo lui stesso come scrittore. Solo dopo alcuni anni, la donna gli risponde con grafia incerta: “Ragazzino, l’ultima storia era molto bella. Grazie”.

Così i due continuano a comunicare, lui attraverso le registrazioni, lei con bigliettini scritti via via con maggiore sicurezza, fino a quando, sessantenne, termina di scontare la pena.

Il romanzo non si conclude qui, ma chi volesse conoscerne il finale, di certo non consolatorio, farebbe bene a non accontentarsi di questa recensione, e a leggerlo per intero, non solo per soddisfare la  curiosità, ma anche per godere di uno stile elegante di scrittura, come si addice a un appassionato “reader”.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ISA MARI

ISA MARI, NELLA CITTÀ L’INFERNO – READERFORBLIND, LADISPOLI 2023

Nella letteratura italiana del ’900, un posto di rilievo è stato occupato da Goliarda Sapienza, scrittrice di importanti romanzi, tra cui L’università di Rebibbia, in cui descriveva la sua reclusione in carcere per il furto di gioielli compiuto in casa di un’amica. Un’altra prigionia, durata otto mesi nella sezione femminile di Regina Coeli per motivi politici, è stata raccontata da Isa Mari, nel volume Roma, via delle Mantellate (Casa Editrice Libraria Corso, 1953). Isa Mari (1910-1992), pseudonimo di Luisa Rodriguez, era figlia dell’attore e regista Febo Mari e dell’attrice Piera Vestri. Fu attrice cinematografica e teatrale come i genitori, e inoltre sceneggiatrice e autrice di un secondo libro di successo oltre a quello citato: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, del 1972. Dai suoi romanzi sono stati tratti due film altrettanto famosi. Il primo, Nella città l’inferno, diretto da Renato Castellani nel 1959, aveva come protagoniste Anna Magnani e Giulietta Masina. Nel secondo, spesso riproposto dalle nostre emittenti televisive, un magistrale Alberto Sordi era affiancato da Claudia Cardinale per la regia di Luigi Zampa.

Il romanzo di Isa Mari, che le edizioni RFB ripropongono ora con il titolo del film di Castellani, Nella città l’inferno, si apre con la numerazione delle detenute in attesa di salire sul camioncino cellulare che le condurrà alle Mantellate: “Una… due… tre… quattro… cinque… La carne è caricata. Si parte”. La narratrice, compresa nel gruppo, elenca i vari stadi dell’ingresso in carcere, le reazioni delle arrestate e la crudele impassibilità delle guardie: consegna del denaro e degli oggetti preziosi, richiesta dei dati anagrafici, prelievo delle impronte digitali, perquisizione fisica, attraversamento del cortile. “Alzo la testa: finestre, finestre, finestre, piccole, una vicina all’altra, protette da sbarre… E visi fra i riquadri delle sbarre e bocche spalancate e capelli scompigliati di teste ammonticchiate una sull’altra dietro i ferri e mani che scuotono i ferri e voci rauche e frizzi osceni e risate grasse”.

Il racconto procede con la sinteticità di appunti diaristici, sia nella descrizione del susseguirsi degli avvenimenti, sia nel commento delle caratteristiche fisiche e morali dei personaggi che li animano. Dialoghi serrati, spesso in romanesco, in pagine che mantengono la struttura di un copione cinematografico neorealista.

Le donne che costituiscono il popolo di Regina Coeli hanno età diverse, sono poco più che adolescenti, madri di famiglia mature, vecchie avvizzite e malate: assassine, ladre, matricide, truffatrici, prostitute, strozzine, oppositrici politiche. Tra loro convivono malate psichiatriche, ragazze gravide, drogate in astinenza. Isa Mari le presenta senza retorica e senza falsi pietismi, con un’oggettività che non indulge né a toni accusatori o recriminatori, né a volontà di redenzione o consolazione, limitandosi a constatare che nella “tomba dei vivi” si respira un’aria di perpetua agonia, di miseria e violenza, di ignoranza e sporcizia diffusa: “qua dentro tutto sa di morte”. Le giornate si avvicendano tutte uguali, dal caffè sbobba col pane duro della mattina, all’ora d’aria in cortile, con pasti scarsi e insipidi, notti passate a rigirarsi su lettini di ferro, turpiloquio continuo. “Corpi bolsi, visi giallastri, fiato pesante. Anche le più giovani… Un’aria disfatta. Sempre spettinate, con quelle camicie corte che tagliano male le gambe, i piedi nudi… senza far nulla dalla mattina alla sera. Qualche passo su e giù per la cella e poi sdraiate, gambe all’aria, sigaretta in bocca. Quattro per cella, vicende diverse ma ugualmente trucide e infelici. L’autrice, passata presto all’ambito incarico di bibliotecaria, ricostruisce la storia familiare e il percorso giudiziario delle sue compagne di sventura, partendo dal loro apprendistato al crimine: l’ambiente sordido e violento che le ha viste nascere e crescere è di per sé causa e giustificazione del loro delinquere, e non necessita di alcuno scavo psicologico da parte di chi lo descrive. Donne marchiate per sempre, che non troveranno pace nemmeno una volta uscite di prigione.

Ma in quell’aria “putrida di ogni colpa” succede anche che una detenuta partorisca il suo primo figlio, accompagnata nelle doglie e poi nello sgravarsi dall’emozione di tutto le recluse: “Le donne, tutte, di tutte le celle, di tutte le sezioni, balzarono dal letto e si attaccarono alle sbarre delle porte, delle finestre, volgendo il capo in alto, su, dove la robusta contadina della campagna romana, aveva dato alla luce il suo primo nato… E da un’ala all’altra del fabbricato, da una finestra all’al tra, più argentine di un suono festoso di campane, cento, duecento, trecento voci, a due, a tre, a cinque squillarono: È un maschio!”.

Con il suo venire al mondo in un luogo di pena e sofferenza, il neonato reclama il diritto alla vita di ogni creatura, per quanto colpevole possa essere o sembrare, come commenta una delle condannate: “Che? Siam fatti Dio, noi, per giudicare?”

 

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SoloLibri.net › Recensioni di libri › Nella città l’inferno di Isa Mari    14 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ANDREOLI

VITTORINO ANDREOLI, LETTERA A UN VECCHIO – SOLFERINO, MILANO 2023

Lo scorso anno Papa Francesco ha raccolto nel volume La vita lunga diciotto catechesi dedicate al senso e al valore della vecchiaia, da considerare non tanto un peso quanto “una benedizione per la società”. Anche Enzo Bianchi nel 2018 aveva pubblicato sullo stesso tema La vita e i giorni, seguendo le tracce di una lunga tradizione culturale, che dal De Senectute ciceroniano alle esortazioni di Schopenhauer, mette in luce gli aspetti positivi dell’anzianità.

Nello stesso solco di rivalutazione dell’età avanzata si situa l’ultimo volume dello psichiatra Vittorino Andreoli, Lettera a un vecchio, che utilizza il collaudato espediente letterario della comunicazione epistolare aprendo il testo con un “Carissimo”, e concludendolo con “Un abbraccio commosso”, nella volontà di sottolineare non solo una solidale partecipazione nei riguardi dei suoi coetanei (già dal sottotitolo “Da parte di un vecchio”), ma pure il diritto di affrontare l’argomento con cognizione di causa, dal di dentro, nella condivisione delle stesse ansie, malinconie e speranze di chi si trova a percorrere il viale del tramonto.

In disaccordo con la cruda animosità delle tesi espresse dal filosofo Jean Améry in Rivolta e rassegnazione sull’avvilimento del declino senile, nel prologo Andreoli afferma orgogliosamente e ottimisticamente: “Sono un vecchio, contento di esserlo, e con la speranza di continuare a esserlo ancora per un lungo tempo”, convinto che invecchiare sia di per sé un grande privilegio, rispetto al concludere prematuramente l’esistenza, e che la durata della vita dipenda anche, sebbene non solo, dalla voglia di vivere, dal desiderio di affrontare ogni giornata con positività, dinamismo e apertura al nuovo.

Chi è vissuto a lungo ha avuto l’opportunità di sperimentare una storia personale e collettiva composita, ricca, talvolta problematica e sofferta, comunque piena di avvenimenti, incontri, insegnamenti offerti e ricevuti, da poter rivisitare e ripensare con soddisfazione: “Se non devi correre nelle strade del mondo, va’ in pellegrinaggio sui sentieri tracciati nel tuo passato”. È opportuno recuperare memorie di cui essere fieri, mettendole a disposizione dei più giovani, per arricchirne l’esperienza, piantando alberi per chi verrà, come suggeriva Schopenhauer quando scriveva “il polline raccolto va condensato in miele”.

Andreoli ammette di aver vissuto giovinezza e maturità “di corsa, freneticamente”, ma ora, superata la soglia degli ottant’anni, è grato di poter dedicare più tempo a sé stesso e alla riflessione, senza l’impellente esigenza di produrre risultati in termini di successo intellettuale ed economico, avendo allentato il controllo sul mondo e sulle cose, con “un minore condizionamento dei «doveri» sociali” e con il distacco dall’ossessione del denaro.

Invecchiare è un’arte, e da medico prima ancora che da psichiatra, l’autore offre indicazioni basilari su come avanzare nell’età in maniera sana ed efficace: controllando l’alimentazione, facendo movimento, nutrendo interessi culturali, esercitando la memoria, mantenendo rapporti affettivi e amicali anche transgenerazionali. Se si evita l’imperativo giovanilista di rincorrere, in maniera spesso ridicola, atteggiamenti da teenagers (capelli tinti, lifting, abbigliamento vistoso e seduttivo, ore di palestra sfiancanti, viagra a gogo) si può godere con saggezza e tranquillità di relazioni valorizzanti, di una sessualità più intenerita e meno aggressiva, di relazioni fondate sulla reciproca e gratuita cordialità.

Il pensionamento senz’altro per molte persone rimane un trauma, intensifica il senso di inadeguatezza e abbandono, ma alla deprivazione e depressione ci si deve opporre conservando acceso il desiderio di emozioni e sentimenti vitali. Accettare la propria fragilità fisica, le proprie debolezze caratteriali e intellettive, non indica rassegnazione o sfiducia, ma il riconoscimento della inevitabile trasformazione del proprio esser-ci. Se gli anziani spesso dimenticano nomi, oggetti, azioni compiute nel quotidiano, godono tuttavia dell’importante prerogativa di ricordare e rivalutare il vissuto, a cui danno un significato emotivo più profondo. In loro cambia soprattutto la percezione del tempo, essendosi radicalmente modificato lo spazio del futuro a disposizione rispetto al passato trascorso. Si trascorre più tempo in solitudine, ma questo offre la possibilità di non disperdersi nella nevrosi di rapporti imposti, illusori o poco sinceri, e di approfondire argomenti trascurati, come il rapporto con la fede, la politica, la scienza, le grandi questioni sociali. In tal senso, è utile approfittare il più possibile delle incredibili opportunità fornite da internet, evitando involuzioni del pensiero come l’egoismo, il sospetto, l’irrigidimento e l’indifferenza.

Alla fine della sua indagine, Vittorino Andreoli affronta il problema del rapporto tra la vecchiaia e la morte, avvenimento ineludibile della condizione umana, da accettare indipendentemente da qualsiasi credenza nell’immortalità o nella reincarnazione.

Il problema non è di eliminare la morte, ma di spostarla nel tempo, attivando tutte le risorse residue per continuare a stare nel mondo, con una sensazione di bene-essere, e accettando poi di finire come finisce qualsiasi cosa, lasciando che la vita si perpetui in altri e altro da noi.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 12 gennaio 2023