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RECENSIONI

VIOLANTE

LUCIANO VIOLANTE, LA DEMOCRAZIA NON È GRATIS – MARSILIO, VENEZIA 2023

Nel 1992 i paesi democratici nel mondo erano 76, oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in una democrazia, mentre il 38% patisce condizioni di totale assenza di libertà e il 42% è sottoposto a regimi parzialmente autoritari. Partendo da queste scandalose e preoccupanti statistiche, Luciano Violante nel suo pamphlet La democrazia non è gratis firma una difesa vibrante dell’unica forma di governo che garantisce ai cittadini libertà e diritti, ed è in grado di correggere i propri difetti senza mutare i suoi caratteri fondamentali, assicurando la possibilità di critica e il ricambio pacifico delle classi dirigenti.

Gli stati democratici ancora esistenti, sebbene in numero sempre più minoritario, attualmente sono minacciati e vilipesi all’esterno e all’interno dei loro confini, quasi esistesse un disegno strategico volto a mettere in crisi le loro basi ideologiche. Ad attuare tale offensiva sono in primo luogo le “tirannie elettive” esercitate da uomini arrivati ai vertici del potere assoluto non attraverso un colpo di Stato ma con un’elezione. È il caso, per esempio, di Vladimir Putin, Viktor Orbán, Recep Tayyip Erdoğan, del leader indiano Narendra Modi o di Xi Jinping, che governano più della metà del mondo, aspirando a una leadership politica totalizzante. “Sono embrioni di una nuova Internazionale, integralista e reazionaria”, che ispirano formazioni politico-religiose ostili al pensiero e al modello di vita occidentale: hanno il dispotismo come regola fondamentale d’azione, respingono la laicità dello Stato, disconoscono i diritti di libertà individuale, e pongono il tradizionalismo alla base delle relazioni familiari, sociali e sessuali. Secondo Violante esiste un’effettiva aggressione culturale contro l’Occidente, anche nei metodi attuati dalla cancel culture, che tende a interpretare la nostra storia come sopraffazione e corruzione morale e intellettuale. L’autore si sofferma a esaminare soprattutto le politiche attuali di Russia e Cina che, diventate negli ultimi decenni potenze tecnologiche, militari e finanziarie, non hanno però mai adottato le regole delle liberaldemocrazie, fondate sul pluralismo, sull’equilibrio dei poteri, sulla libertà di opinione e di espressione, sulla condanna di ogni differenza etnica, religiosa e di genere tra la popolaziome-.

Eppure, anche nei paesi democratici persistono evidenti limitazioni dei diritti umani fondamentali, e inaccettabili discriminazioni tra diverse categorie di individui: la democrazia è in crisi anche là dove sembra prosperare. L’occidente capitalista paga gravi errori nella difesa del suo presunto primato etico e ideologico: si è infatti macchiato di narcisismo politico, arroganza militarista, promozione di un mercantilismo incontrollato. Si è illuso di esportare il proprio modello di sviluppo alla stregua di un qualsiasi bene di consumo, anche attraverso l’occupazione militare, fallendo clamorosamente nei suoi obiettivi di conquista.

In Italia modelli politici demagogici e populisti hanno accentuato una serie di problematiche radicate da secoli; la lunga assenza di uno Stato capace di unificare il paese ha provocato una “perenne contrapposizione non solo tra classi sociali, ma anche tra appartenenze politiche, territoriali, professionali, corporative”. La nostra nazione è oggi indebolita da tre fragilità: l’instabilità politica, la disattenzione nei confronti delle giovani generazioni, la mancanza di un adeguato senso civico, espressa sia nell’inadempienza dei doveri fiscali sia nella mancanza di solidarietà verso gli strati popolari svantaggiati. Da alcuni decenni si è inoltre interrotta la tradizionale relazione tra politica e cultura, tra chi esercita il potere e chi lavora nelle università e nella scuola, dove il ruolo degli insegnanti è stato umiliato e privato dell’autorevolezza dovuta. Il tono di Violante si fa particolarmente esacerbato quando accusa la politica italiana degli ultimi trent’anni di avere assunto “i caratteri di una spregiudicata televendita”, e mette sul banco degli imputati Berlusconi, Renzi e il Movimento 5 Stelle, trascurando però le colpe di inefficienza, immobilismo e scarsa rappresentatività del proprio partito, il PD.

Come recuperare prestigio, fiducia e orgoglio nella democrazia? Essa “è un bene costoso, perché chiede la rinuncia attuale ad alcuni egoismi individuali in vista di un futuro benessere collettivo. Le democrazie funzionano quando i cittadini si assumono sino in fondo le proprie responsabilità, superando la malattia dell’indifferenza, frutto dell’apatia di alcuni e della disillusione di altri”.

Il primo pilastro su cui si basa ogni stato democratico è il rispetto delle persone, delle istituzioni e delle cose, che non va imposto solo legalmente, ma soprattutto attraverso un incessante impegno educativo, e lo sforzo di tutti nel superare peronalismi, egoismi e indifferenza, nell’evitare una conflittualità polemica e dannosa, nel privilegiare la collaborazione rispetto all’aggressività, anche verbale, verso l’oppositore. A conclusione del volume è riportata una lettera del partigiano Giacomo Ulivi, che fucilato a diciannove anni dalla Guardia nazionale repubblicana nel novembre del 1944, aveva scritto parole toccanti, richiamando i connazionali al proprio dovere non solo di cittadini, ma di esseri umani: “Dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali… Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra… il nostro interesse e quello della «cosa pubblica» finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 aprile 2023

RECENSIONI

BELLINTANI

UMBERTO BELLINTANI, NELLA GRANDE PIANURA – MONDADORI, MILANO 2023

Sono passati più di trent’anni da quando venni a sapere dell’esistenza di un poeta schivo e originale, che viveva e scriveva lontano dai circuiti letterari ed editoriali, Umberto Bellintani, di cui subito cercai tracce, leggendo con commossa ammirazione i pochi versi allora recuperabili.

Bellintani è nato, vissuto e morto (1914-1999) a San Benedetto Po, in provincia di Mantova, e al suo paese, alla pianura e al fiume che lo ha accolto e nutrito, ha dedicato versi sanguigni e delicati, furenti e nostalgici. Dopo aver frequentato da ragazzo una scuola d’arte a Monza, con maestri prestigiosi (Marino Marini, Arturo Martini, Raffaele De Grada…), specializzandosi in scultura, nel 1940 fu richiamato alle armi, combatté in Grecia e Albania, e fu imprigionato in campi di lavoro tedeschi e polacchi dal ’43 al ’45. Tornato a casa, lavorò per tutta la vita come segretario nella scuola media del suo comune. Dopo le prime raccolte poetiche, uscite con notevole successo di critica nel 1953 e nel 1955, non pubblicò nient’altro per trentacinque anni, pur continuando a scrivere e a esporre disegni e sculture. Solo poco prima di morire diede alle stampe due raccolte di versi, la più importante delle quali, Nella grande pianura, viene oggi riproposta da Mondadori nella sua integrità, dagli esordi fino alle ultime composizioni e ad altri inediti. Nel 2004 il regista Franco Piavoli gli ha dedicato il lungometraggio Affettuosa presenza, i cui testi sono tratti dalla corrispondenza, allora inedita, con il poeta fiorentino Alessandro Parronchi, da sempre suo estimatore e  attento critico letterario.

Estraneo allo sperimentalismo e alla neoavanguardia degli anni ’60, ma altrettanto distante dal cronachismo neorealista e dal descrittivismo pacato della linea lombarda, Umberto Bellintani era più orientato verso un lirismo classicheggiante (risuonano in lui echi di Dante, Leopardi, D’Annunzio), capace sia di usare registri bassi e popolareschi, sia di proiettarsi “in una dimensione aperta all’ «immenso della vita», in un’avventura poetica segnata da una violenta, insolita forza espressiva, capace di increspare di continuo il verso e la pagina”, secondo Maurizio Cucchi, curatore del volume di cui ci occupiamo. Fu poeta irregolare, fuori dagli schemi, guardato con qualche sufficienza  dall’establishment letterario e accademico, come si evince dalle parole che gli dedicò Eugenio Montale nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”. Poeta di paese, quindi, addirittura campestre e terragno, alla pari del suo concittadino Virgilio amante della natura, degli animali, del paesaggio. Materia dei suoi versi fu essenzialmente la frazione di Gorgo in cui abitava, e che chiamava “il guscio”: tana, ovile, culla protettiva ma anche prigione e limite, vero e proprio gorgo di passioni contrastanti e scrigno di ricordi (“O mia Gorgo, / amici arrampicati sopra i pali, / allodole nel cuore, canto lieto / alle rive dei fiumi, amici, / salviamo la memoria, la memoria / almeno del riso, la memoria”.

Scriveva dei suoi compaesani, redigendo una cronaca malinconica di nascite, malattie, tradimenti, lutti. Tra i vivi, avvertiva una solidarietà sociale e politica – visceralmente “di classe” –, per gli sfruttati, i contadini e gli operai (“Poveri affaticati nelle membra, / servi della gleba, paria, / per noi la morte è riposo”), esprimendo inoltre un coinvolgimento turbato nei riguardi degli infelici nel corpo e nella mente, come il ragazzino che di notte, terrorizzato dai rumori e dalle ombre nel buio, aveva perso la parola “e il senso naturale delle cose”. Verso i morti nutriva una familiarità pietosa e stizzita; la sua Spoon River padana abbraccia con uguale indulgenza buoni e cattivi, vittime e carnefici: “I poveri morti sono i miei fratelli / passeggio con loro per il cimitero, / non vi è nessuno che abbia il cuore felice. / Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato / in questa vita così fatta per gli uomini; / chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino / e ha distrutto le colture, e chi la donna / dell’amico ha condotta a perdizione”. In questa dedizione al ricordo, alla memoria collettiva e personale, è presente uno sguardo complice alla storia universale, delle trasformazioni geologiche e dei grandi eventi politici: “Amo il passato. In esso mi ritrovo / nell’unno forte, nell’ominide che balza / sopra la preda, nell’urlar del dinosauro”.

Il senso profondo di fratellanza che lo accomunava a tutto l’esistente, si riflette in particolare nel mondo animale, non solo in quello a lui prossimo, ma anche nell’universo delle creature fantastiche create dalla sua visionaria immaginazione. Il gatto e la rana, “voci dell’arcano”, e poi mucche, uccelli, pesci, cani, in una metamorfosi che lo rendeva loro uguale: “Sono un topo di campagna, sono il grillo / che nel cuore mi ricanta ogni sera / se l’ascolto dal paterno focolare”, “Il grande ragno che mi sta nel cuore, / la tarantola maligna della mia sofferenza”. Un bestiario medievale e futuristico, onnivoro e consolatorio, a cui dedicava espressioni di gratitudine: “Le mie parole sono capra / ed erano capra e pecora / le mie parole sono zappa / e asino vanga e pietra / per affilare la falce erba / medica farfalla e ragno / nella ragnatela al sole / nel granturco e mulo erano / e cavalla scrofa carretto / le mie parole amate”. Dall’immersione visiva nelle savane e nelle foreste africane, popolate da gorilla, giraffe, bufali, iene, gazzelle ed elefanti, passava al panorama apocalittico de “La terra spenta”, rinsecchita e disabitata, con i calabroni ronzanti su ossa umane dissepolte, in un paesaggio dominato da insetti: “E fu il tempo e lo spazio inondato dai ragni. / Orrendo a dirsi coprivano ogni cosa, / e non fu posa nel mondo sinché / d’esseri alfine non rimase che lo scheletro”, sempre tornando poi alle stalle, ai canili, ai fossi della sua terra. Così fa anche la mucca che in cima all’altura spaventa il paese col suo potente muggito (“e si poteva ben crederla il più grandioso dio”), ma all’arrivo del buio rientra nel recinto “come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino”.

All’animalità del proprio corpo, negli aspetti più materiali, sono dedicati i versi di All’aperto, in cui “L’uomo che sta accucciato nella vecchia latrina”, nella più prosaica soddisfazione dei suoi bisogni, appena tornato fuori si riconosce “padrone di tutto ciò che vede / e sente attorno a sé e lontano: / sia la distesa di campi, sia il bosco del barone / proprietario di pianure e di montagne; / sia la tana del topo, sia il gorgo impetuoso / del fiume che agguanta e annega un temerario / o sfortunato nuotatore; / e sia la nube del cielo e il sole e lo spazio / e tutto il passato e futuro giro del tempo”.

In versi di fuoco malediceva chi vigliaccamente si divertiva a distruggere i nidi degli uccelli, facendone cadere i piccini “ancora ignudi”, e chiunque – uomo o animale – recasse violenza agli indifesi, ai deboli, come nella poesia bellissima e crudele, che forse meglio racchiude lo spirito indocile della sua scrittura: “Poiché veramente sono fratello / del topo nella bocca della gatta / che svelta se ne corre via / e sopportare non posso il ragazzo / scemo che inchioda al tronco / dell’acero la lucertola // ecco che uccido il ragazzo / con il cuore e gli tronco le mani, / poi rendo la testa della gatta / in poltiglia con colpi di pietra / ed è davvero perché sono fratello del fossato / della latta arrugginita e dei ciottoli / della strada e di ogni essere che vive o non vive / ecco che amo e odio follemente il mondo”.

Bellintani aderiva con furore mistico all’amore francescano per tutte le creature, all’ingiusto sacrificio del Golgota e a un senso paganeggiante e panteistico del divino, lontano dalla ritualità del messaggio clericale, e invece intriso dell’animismo primitivo che rende l’uomo un’unica cosa con l’esistente non-umano, bestie, piante, nuvole, terra: “Forse non esiste Dio. Forse / solo il rapporto / fra noi esiste e gli alberi / annosi o appena d’anni / uno e le erbe / e i coccodrilli e il buon tepore / della sera”, “Quest’albero era / quando ancora non erano / i nostri padri i nostri avi. / Ed ecco io sento che qualcosa gli devo, / ma non so cosa, amici, ma la mano / mia ecco lo accosta e lo carezza, / e tutta trema la mia mano, amici”. La terra, quindi, quella umida o inaridita che patisce le piene e le secche del Po, la pianura millenaria sempre uguale a sé stessa nella sua distesa uniforme è la vera nutrice e ispiratrice della sua poesia: “E ditemi voi se non è bella una pianura verde / tutta gremita di margherite e bianchi scheletri”, “case morte della mia pianura / vite spente della gioia / aie al sole della luce / mia tristezza che non taci mai”, “Io cara mi espando nella grande pianura / ed estasiato l’ammiro…. // È la mia pianura ancor più vasta e sonora d’un gran mare”.

La grande pianura padana, oggi resa uniforme e grigia dalla cementificazione, privata dei suoi profumi dai miasmi industriali, attraversata da corsi d’acqua sempre più sofferenti e umiliata da rivendicazioni sovraniste, si staglia nei versi di Umberto Bellintani nella sua antica bellezza, di natura primigenia e profonda umanità.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 27 aprile 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

D’ARZO

SILVIO D’ARZO, CASA D’ALTRI – GARZANTI, MILANO 2023

In questi primi quattro mesi del 2023, sei case editrici italiane hanno ripubblicato Casa d’altri di Silvio D’Arzo: Feltrinelli, Rea, StreetLab, Garzanti, Alter Ego, Gilgamesh. Come mai tanto interesse per un testo di settant’anni fa? Perché si tratta di uno dei racconti più belli del nostro Novecento, definito da Montale “perfetto”, sospeso tra liricità e costruzione romanzesca, e ancora oggi apprezzato dai critici per lo stile sobrio e curato, e perché pur nell’esilità della trama riesce a tratteggiare con maestria lo sfondo naturale in cui si muovono sia i due protagonisti sia la comunità circostante.

Silvio D’Arzo (Reggio Emilia 1920-1952), pseudonimo di Ezio Comparoni, pubblicò in vita un romanzo e molti racconti su riviste, ma non fece in tempo a vedere stampato questo suo capolavoro, il cui primo nucleo compositivo risale al 1948. Rifiutato da Bompiani, Einaudi, Vallecchi, fu infine accettato da Sansoni nel 1953, grazie all’interessamento di Giorgio Bassani.

Ambientato nel paesino di Montelice sull’Appennino emiliano (poche case sparse sulle pendici della montagna, collegate da un’unica strada impervia che si arrampica tra i boschi e un torrente), il racconto si svolge in un periodo indeterminato del secondo dopoguerra, mantenendo però tracce di usanze molto più arcaiche. D’Arzo è attento a rendere l’atmosfera cupa che domina gli scarsi eventi narrati, utilizzando i fenomeni atmosferici e i colori di cui si riveste la natura: “Tutto il giorno era piovuto e piovuto come capita solo da noi… I fossi erano già grigi di acqua, il canale era in piena, dalle gronde rotte l’acqua cadeva a gomitoli, e non una gallina od un cane o una talpa dalla piazzetta fino in fondo alla valle…  L’aria cominciava a farsi color neve sporca e le case all’intorno erano più livide e fredde del sasso. Per le strade non c’era nessuno… Adesso era uscita la luna: ma c’era così freddo all’intorno che pareva rabbrividire anche lei… L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti…anche i sassi a quell’ora eran tristi, e l’erba, ormai di un color quasi viola, era ancora più triste… I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu…”. Le connotazioni paesaggistiche sono sparse simmetricamente e ripetute nelle pagine, così come succede con alcune cadenze dei dialoghi e dei soliloqui, e come le due scene di funerali che aprono e chiudono il testo.

Pioggia, neve, aria e acque torbide. In questo panorama avvilito e deprimente si muove la figura massiccia del protagonista, un parroco sessantenne ormai del tutto assimilato al territorio, che trascina le sue giornate e i suoi uffici tra riti stanchi e una fede vacillante.

In tale modo ne parla a un giovane sacerdote venuto a fargli visita, predicendogli a ragione un futuro di rassegnazione simile al suo: “«E che cosa succede?» mi chiese unicamente per educazione. «Niente, v’ho detto. Non succede niente di niente», cercai di rifarmi. «Solo che nevica e piove. Nevica e piove e niente altro… E la gente – conclusi – se ne sta giù nelle stalle a guardare la pioggia e la neve. Come i muli e le capre»”.

Muli, capre, cani, mucche. Uomini che portano le bestie al pascolo la mattina e rientrano tardi la sera, donne rinsecchite che lavorano nelle stalle o vanno a raccogliere la legna, ragazzini che si divertono facendo i dispetti fuori dalla chiesa. Ecco che però qualcosa accade, improvvisamente. Il parroco aveva osservato in più occasioni una vecchia lavare i panni nel canale: “E lei sempre laggiù, china sopra i lastroni di pietra. Affondava nell’acqua gli stracci, li torceva, sbatteva e via ancora. E senza fretta o lentezza. Così: e senza mai alzare la testa”. Una sera l’anziana lavandaia si presenta in canonica, e gli pone timidamente, quasi vergognandosi, una domanda sulla possibilità che la Chiesa ammetta e perdoni, in casi eccezionali, una grave colpa, un peccato mortale, come ad esempio la rottura del matrimonio. Il prete intuisce che la richiesta della donna nasconde una diversa verità, forse una innominabile sofferenza, ma non riesce a scalfire ulteriormente il riserbo di lei.

Per mesi l’incontro tra i due non si ripete. Il sacerdote continua a vedere l’anziana lavare i panni nell’acqua gelida, sempre più affaticata e scontrosa, e cerca di informarsi su chi sia. Scopre che si chiama Zelinda Icci e, arrivata da poco in paese, vive con la sua capra in una baracca fuori dall’abitato, come “un uccello sbrancato”. Tenta ancora di avvicinarla, confessando però a sé stesso la propria inadeguatezza davanti al dolore altrui: “Ormai io ero un prete da sagre: ero un prete da sagre e nient’altro… Sagre, olii santi, un matrimonio alla buona, ecco il mio pane oramai… E pensai a quel che invece ero a vent’anni, quando leggevo di tutto, e nel Seminario per giunta mi chiamavano il Doctor Ironicus”.

La vecchia si fa viva una seconda volta, portando in parrocchia una lettera che subito dopo torna a ritirare, pentita. A questo punto una spiegazione diventa più urgente e necessaria, e il suo antagonista, reso inquieto dallo strano comportamento di lei, la affronta, esigendo un chiarimento.

Non rivelerò il segreto che l’anziana lavandaia confida all’uomo di Dio, ma invito chi mi legge a trovarlo nelle pagine di Silvio D’Arzo, il quale merita almeno il nostro ricordo, perché se non avesse avuto la sfortuna (tra tante altre) di morire a trentadue anni di leucemia, sarebbe probabilmente diventato uno dei nostri maggiori scrittori novecenteschi. Dirò solo che il titolo Casa d’altri, adombra l’inappartenenza, l’estraneità di entrambi i protagonisti alla vita e alla Chiesa, precari inquilini di un’esistenza appena tollerata, come ribadisce la frase conclusiva pronunciata dal parroco: “Allora mi vien sempre di più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?”

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 19 aprile 2023

RECENSIONI

TRAVI

IDA TRAVI, DIOTIMA E LA SUONATRICE DI FLAUTO – LA TARTARUGA, MILANO 2004

Nella partecipe prefazione di Luisa Muraro, filosofa e storica del femminismo, l’atto tragico di Ida Travi intitolato Diotima e la suonatrice di flauto, pubblicato nel 2004 da La Tartaruga, trova la sua origine e destinazione nel rapporto fruttuoso che la nostra contemporaneità mantiene con il pensiero e la letteratura greca. Ida Travi (Cologne, BS, 1948) è poeta che della scrittura in versi ha da sempre sottolineato la forte valenza orale e scenica. Come affermava in un suo importante testo teorico del 2000, anticamente “la poesia fu un dono orale, un’enciclopedia del mondo, un’epica. Ed è evidente ancora: sotto la crosta della scrittura permane un flusso continuo, sonoro, vitale”. Travi è molto attiva in spettacoli teatrali in cui agisce esprimendo emozioni più coinvolgenti rispetto alla semplice lettura di versi, con l’utilizzo della voce nelle sue varie e dissonanti tonalità, accompagnata dalla musica, dal movimento sulla scena, dalla danza.

Diotima e la suonatrice di flauto è un atto unico ambientato ad Atene nel 416 a.C., e prende spunto dalla rilettura del Simposio di Platone e del breve scritto Diotima di Mantinea di Maria Zambrano. L’autrice narra di come durante il banchetto offerto dal poeta Agatone per celebrare la sua vittoria in un concorso tragico, i celebri convitati (tra cui Socrate, Alcibiade, Fedro, Aristofane) si confrontassero formulando le loro idee sul tema dell’Amore. Socrate non espone direttamente la sua opinione, ma riferisce il pensiero della sua maestra Diotima di Mantinea, che non è presente alla cena. La suonatrice di flauto Anna, incaricata di allietare la riunione con la musica, viene subito allontanata, per non distrarre l’esposizione degli ospiti, tutti uomini.

A questo punto Ida Travi immagina un incontro notturno lungo il sentiero degli ulivi tra la giovane musicista e la saggia Diotima, entrambe tenute lontane dal banchetto filosofico maschile, e accomunate dallo stesso destino di assenza e silenzio, di esclusione dalla storia degli uomini. Il nome scelto per la flautista, Anna, è volutamente estraneo alla tradizione greca, e ha la particolarità di presentarsi palindromo, leggibile da entrambi i sensi, a indicare una simultaneità e intercambiabilità di spazi e tempi, tra passato e presente, dentro e fuori.

L’atto unico (che Travi definisce “tragedia lampo, quasi un trasalimento”), conserva la struttura della tragedia: ingresso e uscita del coro, episodi, stasimi. Si snoda soprattutto come un monologo di Anna, la quale racconta di come sia stata allontanata dal convito per non disturbare le dotte conversazioni degli uomini, ma le abbia comunque ascoltate nascosta nel vestibolo, rimanendo colpita dalle parole di Socrate: “Diotima, la mia maestra, pensa che muovendo dalla povera bellezza dei corpi si possa salire, su, su, fino alla bellezza delle anime e poi da lì, su fino alla bellezza delle leggi, e poi ancora fino alla bellezza delle scienze, per arrivare alla visione di una Bellezza ultima, assoluta”. Rivela a Diotima di essersi proposta volontariamente come flautista, al fine di mettere in atto una personale vendetta. Avrebbe voluto infatti avvelenare Aristide, padre fedifrago di sua figlia, e confessa la delusione e lo sconforto per non esserci riuscita. La sua interlocutrice le risponde illustrandole la differente natura dei caratteri maschili e femminili, dei pregiudizi e delle sottovalutazioni degli uomini sulle donne, dei loro egoismi riguardo al ruolo di cura che spetta alle loro compagne: “Il latte delle donne nutre i piccoli nei corpi e poi, più avanti, la scienza delle donne diventa nutrimento trasparente”. C’è, nel testo di Ida Travi, questa fondamentale rivendicazione di generosa grandezza della femminilità, anche quando la gravità delle cose terrene le costringe troppo spesso a procedere a “passi misurati, lenti”, rinunciando al volo. L’aspirazione della giovane flautista a ritrovare la propria eccellenza viene patita come una colpa, e la tragedia si compie nella decisione di uccidersi non appena viene informata della morte improvvisa della sua bambina.

La conclusione drammatica del testo teatrale viene ribadita dall’appendice che chiude il sottile volume, intitolata La Verità, in cui l’autrice racconta un episodio biografico che sembra ricalcare quello vissuto dalla flautista, e che le ha fornito l’ispirazione per scrivere l’atto tragico di cui ci stiamo occupando: un invito a cena nell’abitazione elegante di una coppia di intellettuali, tra commensali eruditi che si interrogano sul significato della Verità (non dell’Amore, come durante il banchetto di Agatone). La poetessa rivive con un senso di umiliazione lo stesso sentimento di inappartenenza ed esclusione provato da Anna, ed estraniandosi dalle futili e pompose conversazioni degli ospiti, riflette su quanto la cultura e la bellezza dell’antica Grecia possa ancora nutrire la sensibilità del mondo contemporaneo, offrendo spunti di riflessione sulla storia del mondo da cui le donne per millenni sono state estromesse.

Il testo di Ida Travi, messo in scienza in diversi teatri, è stato trascritto come libretto d’opera e musicato nel 2011 dal Maestro Andrea Battistoni.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net        18 aprile 2023

RECENSIONI

CORBETTA

ALESSANDRA CORBETTA, ESTATE CORSARA – PUNTOACAPO 2022, p. 100

Il libro di Alessandra Corbetta, Estate corsara, pubblicato da Puntoacapo, è scandito in tre sezioni, Prima Durante Dopo, che definiscono l’evolversi (o involversi) di un percorso sentimentale ed esistenziale lungo l’ascissa temporale di una ventina d’anni, vissuti dall’autrice all’insegna della nostalgia, ma in una costante crescita della consapevolezza di sé e del mondo.

Il capitolo iniziale inquadra un periodo situato tra l’adolescenza e la giovinezza, rivissuto nel ricordo di giornate rese più luminose dal filtro indulgente della memoria. Per quanto Alessandra sia ancora molto giovane (Erba, 1988), tuttavia gli anni che la separano dalle estati acerbe e vivaci del passato acquistano veridicità nel tono sospeso e leggero della narrazione, nei particolari recuperati con tenerezza e rimpianto. I mesi caldi di luglio e agosto (la spiaggia, gli ombrelloni blu, le fresche bevande al chiosco, occhi e sorrisi dei compagni, serate in gruppo al lunapark, addii immagonati alla stazione), si prestano come testimoni alle prime schermaglie amorose, nella tentazione di “fare quelle cose / da grandi” tra l’ascensore e le camere dell’hotel, “cose da poco / tutte però a perdifiato”.

Incastonata tra citazioni tratte dalle canzoni dei Baustelle e i versi di Umberto Fiori, la raccolta procede con Durante, sezione introdotta da una breve prosa esplicativa, a indicare la tattica comportamentale messa in atto per fronteggiare una sofferta esperienza del cuore: “spostare ai lati le pedine e prepararsi al grande scacco, trattenere tutta l’aria per fuggire”.

Questi versi appaiono sostanzialmente come una lunga e tormentata dichiarazione d’amore, in cui due persone affrontano un viaggio che le porta a scoprire non solo splendide città dell’Italia centrale, sfondo scenografico all’approfondimento del loro rapporto (“la voglia / di prendere insieme un gelato”), ma anche “l’agguato della vita”, che suggerisce la necessità di “cambiare il corso / riparare il guasto” per salvarsi. Il dialogo con l’altro si esplicita nell’uso di un “tu” che è desiderio di confessione e consolazione reciproca: “Non puoi immaginare quante cose / restano nascoste a dio”, “la paura di vedere che / è tutto precipizio”, “a chi come me non crede / che un luogo ci tenga / per sempre”, “Non volevo sapere e non l’ho saputo / quanto è veloce la parola addio, / come passa inosservata in mezzo a una gioia brevissima”.

L’inevitabile fine della relazione viene descritta in Dopo, a conclusione del volume. E qui Alessandra Corbetta prende coscienza che “Qualcosa è esploso, qualcosa ha distrutto tutto”. Le metafore usate per esprimere questa distruzione sono il silenzio, il “guardare la notte da un balcone di provincia”, il temporale, l’ombra, l’oscurità di un pozzo, la contaminazione e la putrefazione dovuta a batteri che proliferano, e continuamente treni che partono, si allontanano.

L’unica possibilità che resta è allora “scegliere di vivere”, riabbracciare la normale quotidianità (“Ed ecco farsi avanti nuovi giorni, / le tesi da correggere e le chiusure, / le notti, le ansie e le piogge”). Sebbene l’autrice sappia che “scrivere è una briciola di non-vissuto”, proprio la scrittura, la poesia, può offrire un’ancora cui aggrapparsi, per riappacificarsi con il dolore, ricostruendosi in un possibile futuro. E infatti Ricostruzione è il componimento che sigilla la raccolta, in cui la sconfitta e l’abbandono vengono riconosciuti non come fallimenti ma come possibilità di rinascita: “C’è da ricostruire il luogo / del patto che è stato / violato. E perdonare, l’estate. // … Chi resta vince. Chi resta sopravvive / e traduce la memoria. Chi scappa / dimentica la strada”.

 

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SoloLibri.net › Estate corsara di Alessandra Corbetta       13 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AMÉRY

JEAN AMÉRY, RIVOLTA E RASSEGNAZIONE – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2023

Assistiamo da un po’ di anni alla celebrazione e autocelebrazione della tarda età. Osserviamo anche l’inamovibile occupazione di ruoli istituzionali di altissimo prestigio da parte di ottantenni e novantenni, insieme alle performance artistiche, sportive, sentimentali e sessuali di chi si avvicina trionfalmente al secolo di vita. Rispolverando le quattro idee portanti del De senectute ciceroniano, diversi autori firmano articoli, saggi e volumi che esaltano i lati positivi dell’invecchiamento. Per questo mi sembra salutare rileggere le pagine che Jean Améry scrisse in Rivolta e rassegnazione, affermando schiettamente che l’essere anziani è triste, difficile, frustrante. In una parola: brutto.

Améry (Vienna,1912 – Salisburgo,1978), nato da famiglia di origini ebraiche non praticante, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938, emigrò in Belgio unendosi alla Resistenza. Nel 1943 fu arrestato e torturato dalla Gestapo, quindi deportato ad Auschwitz e poi a Buchenwald e a Bergen-Belsen, dove venne liberato dall’esercito britannico il 15 aprile 1945. Trasferitosi a Bruxelles, pubblicò numerosi volumi su temi etici e filosofici, tra cui il più famoso rimane Intellettuale a Auschwitz. Morì suicida, e proprio sul finis vitae e la morte volontaria si era espresso laicamente sostenendo tesi scomode e molto discusse.

In Rivolta e rassegnazione, uscito in Germania nel 1968, in Italia tradotto e riedito più volte dal 1988 a oggi, lo studioso austriaco demolisce ogni falsa illusione, ogni consolazione retoricamente attribuita alla vecchiaia, che se in passato godeva ancora di rispetto e venerazione perché considerata portatrice di sapienza e autorità, adesso viene esplorata dal punto di vista sociale e medico nei suoi reali effetti di impoverimento fisico e mentale. “Tutti i mezzi raccomandati su come sia possibile accettare, addirittura attribuire valore al declino – nobiltà della rassegnazione, saggezza crepuscolare, tarda pacificazione – mi parevano ignobili inganni, contro i quali si doveva mobilitare ogni parola”.

Il primo, intenso e acuto capitolo introduttivo dedicato al concetto di tempo (“è il nostro nemico giurato e il nostro più intimo amico, l’unica cosa che possediamo in esclusiva totale, ciò che non siamo mai in grado di afferrare, il nostro tormento e la nostra speranza”) indaga l’essenza del tempo personale, interiore, vissuto nella quotidianità, in relazione con il tempo misurato dall’orologio e dal calendario, esterno, collettivo e storico. Il primo può essere segnato dalla noia, dall’esaltazione, dalla fretta, il secondo è implacabile, scorre nell’unica direzione di un futuro che rimane come prospettiva aperta per il mondo, ma va inesorabilmente chiudendosi per l’individuo singolo. Dallo “scatenato galoppo” vissuto nella giovinezza, si passa al “regolare piccolo trotto della maturità” e allo stanco trascinarsi degli ultimi anni. Se il giovane si proietta nel domani e nello spazio che gli si apre intorno, il vecchio vive le sue giornate interiormente, consapevole di quanto siano limitate quelle che gli restano da godere. Il suo è un tempo de-spazializzato, di attesa, di cui avverte pienamente l’irreversibilità, sapendo che presto il suo corpo non occuperà più nessun posto nell’esistenza concreta degli altri. Per lui il tempo torna ad avere senso solo nella memoria del vissuto, cronologicamente confuso, per cui “cinque anni fa” valgono quanto “vent’anni fa”, recuperabili entrambi solo nell’intensità del ricordo di avvenimenti fondanti, incisi nella gioia o nel dolore.

Il testo di Améry esamina il modo in cui la persona anziana trascorre gli anni che la separano dalla fine: diventando estranea a sé stessa, senza riuscire a trovarsi più in sintonia con la società che cambia, patendo lo sguardo indifferente e spazientito degli altri, vivendo con/per il morire.

Attraverso una lente lucidamente severa, l’autore racconta di come il senescente si osservi nel decadimento del corpo, arrabbiandosi con le rughe del viso, la presbiopia e la sordità, i muscoli non più tonici, la caduta di denti e capelli: “misera gamba, disobbediente cuore, stomaco ribelle: a me fate male, nemici, a me, che vorrei palparvi e proteggervi e compatirvi e al contempo strapparvi dal mio corpo, sostituirvi”. In una società che impone all’individuo di rimanere sano ed efficiente fino alla morte, agli imperativi esterni si somma anche l’umiliazione di chi si sente sempre più fragile e snervato. E gli altri (i figli, i nipoti, i vicini) con che indulgenza guardano le teste incanutite? Non le guardano, semplicemente. Le trovano imbarazzanti, perché riflettono un futuro problematico, di sofferenza, e di inutilità attuale. Viene in mente quello che ci hanno tramandato Strabone ed Eliano, (e ricordato da Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali), sulla legge in vigore nell’isola di Ceo, che obbligava gli anziani a suicidarsi con la cicuta, compiuti i sessant’anni, in quanto considerati di peso alla comunità. Qualcuno sorrideva, durante la recente pandemia del Covid, riflettendo sui risparmi dell’INPS nell’elargire pensioni…

L’individuo che invecchia, persino se ha avuto un’esistenza felice, ricca di soddisfazioni morali e successi finanziari, si ritrova comunque perdente, perché “il suo agire è già stato quantificato e soppesato” dall’ economia di mercato e del profitto. Ha prodotto, è stato utile, è vero: ma non produce più, non serve più. Le jeux sont faits.

Un numero sempre più consistente di “âgées” si ribella, vuole continuare a competere, va in palestra, si trucca, ricorre a diete e alla chirurgia estetica; altri si rassegnano, accettando con dignità il tramonto, l’inattività, la solitudine. In questo caso rischiano però l’arroccamento in un privato sempre più ristretto ed egoistico, il rifiuto snobistico di ogni novità, la retrograda ostinazione nel considerare il mondo irritante e incomprensibile, arrivando così a un’inevitabile alienazione culturale. Sebbene nel subconscio ciascuno di noi sia convinto della propria immortalità, come affermava Freud, il confronto con la grande nemica, l’innominabile falciatrice, diventa più pressante e minaccioso con l’avanzare degli anni. Per quanto cerchi di allontanarne l’idea, il vecchio sa di essere un moribundus, e come tale è preda di angosce e paure, vive in equilibrio precario, in “un’aspettativa vuota e fallace”, tormentata dal pensiero di quando e come arriverà il momento fatale. Jean Améry ha deciso di sceglierlo autonomamente, seguendo l’ammonimento nietzschiano del Crepuscolo degli idoli: “Si dovrebbe, per amore della vita, volere una morte diversa, libera, consapevole, senza alcunché d’improvviso”.

C’è chi non accetta la calata definitiva del sipario, soffre, si dispera: “Tutti i miei dominii per un attimo di tempo”, sembra siano state le ultime parole di Elisabetta I d’Inghilterra. Ma ‘a livella è decisamente democratica, non conosce privilegi.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 12 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

EINSTEIN

ALBERT EINSTEIN, RELIGIONE COSMICA – MORCELLIANA, BRESCIA 2016

Si è discusso a lungo se Albert Einstein (1879-1955) fosse o meno credente, riportando spesso a sproposito la sua nota affermazione “Dio non gioca a dadi con l’universo”, che ribadiva al collega Max Born la granitica convinzione di un ordine armonico del cosmo strettamente determinato dai principi fisici di causa ed effetto. Già molti filosofi della natura (Galileo, Cartesio, Pascal, Newton, Leibniz…) avevano manifestato uno spirito religioso, e anche Einstein veniva spesso inserito in questa corrente di pensiero, come si evince dal suo saggio del 1931, Cosmic Religion with Other Opinions and Aphorisms, riproposto integralmente per la prima volta in italiano dall’editrice Morcelliana nel 2016, con il titolo Religione cosmica.

Questo volumetto raccoglie non solo i contributi diretti dello scienziato, ma anche un apprezzamento di G. B. Show alle sue teorie scientifiche e un dialogo con il poeta e mistico indiano Rabindranath Tagore (1861-1941) sulla controversa relazione tra scienza e teologia. Einstein non nascose mai la sua avversione nei confronti delle religioni organizzate, e nel dibattito con Tagore contrapponeva alla prospettiva soggettivistica, umanistica e antropocentrica di quest’ultimo un punto di vista oggettivistico della natura, svincolato e non condizionato dalle opinabili credenze degli uomini: “Credo che il teorema di Pitagora affermi qualcosa di approssimativamente vero, indipendentemente dall’esistenza umana”.

Nei due testi sul Pacifismo e sugli Ebrei, come in alcuni Aforismi che accompagnano il saggio iniziale, le opinioni del geniale scienziato possono apparire utopistiche, ingenue, o addirittura sconvenientemente datate. Se negli anni ’30 Einstein proponeva con innocente candore l’abolizione del servizio militare e degli eserciti per arrivare al disarmo mondiale, esprimendo una ferma condanna della corsa agli armamenti da parte di tutte le nazioni, nello stesso tempo tuttavia caldeggiava, in una prospettiva decisamente sionista, la colonizzazione della Palestina per rafforzare la dignità degli ebrei della Diaspora, e preservarne la tradizione spirituale. Negli Aforismi rivelava inoltre di aver imprudentemente sottovalutato la pericolosità del nazismo: “Hitler vive – o dovrei dire sta seduto? – sullo stomaco vuoto della Germania. Non appena miglioreranno le condizioni economiche, Hitler cadrà nell’oblio”. Pure la sua considerazione delle donne, come reso manifesto da alcuni elementi biografici, rivelava i pregiudizi maschili di un uomo nato nell’ultimo ventennio del XIX secolo: “Nella signora Curie non vedo altro che una brillante eccezione. Anche se ci fossero più scienziate del suo calibro questo non costituirebbe un’argomentazione contro la debolezza fondamentale dell’organizzazione femminile”.

Sempre negli Aforismi troviamo alcune intuizioni sull’esistenza di Dio che ci indirizzano verso la comprensione del saggio più importante: “Il mio sentire religioso è un umile stupore di fronte all’ordine rivelato nel piccolo appezzamento di realtà a cui corrisponde la nostra debole intelligenza”, “Vedo una trama. Ma la mia immaginazione non è in grado di raffigurare l’autore di questa trama. Vedo l’orologio. Ma non riesco a figurarmi l’orologiaio. La mente umana non è in grado di concepire le quattro dimensioni. Come potrebbe concepire un Dio, per il quale mille anni e mille dimensioni sono uno?”

Cosa affermava quindi Albert Einstein nelle cinque paginette di Religione cosmica? Poche, scarne e radicate convinzioni. In primo luogo, che il pensiero religioso è stato determinato agli albori dell’umanità da due sentimenti basilari: la paura (della morte, della malattia, della fame, degli animali selvatici) e il bisogno (di guida, amore, protezione, aiuto). Tali stati emotivi hanno fornito lo stimolo alla crescita della concezione di Dio, successivamente stabilizzata dalla formazione di caste sacerdotali mediatrici tra il popolo e un essere superiore, che ha garantito loro una posizione di potere. Riteneva dunque che il senso religioso nella sua forma più elementare fosse basato su una percezione irrazionale di timore, e solo successivamente si fosse trasformato in religione morale, per giungere nello stadio più elevato a un terzo livello di esperienza, quello della religione cosmica, lontana sia da qualsiasi dogma e superstizione, sia da un’idea di Dio dai caratteri antropomorfi in grado di interferire negli eventi naturali o nelle azioni umane con premi e castighi. “Il comportamento etico dell’uomo trova miglior fondamento nell’empatia, nell’educazione, nelle relazioni sociali, e non richiede alcun supporto della religione. La difficile condizione dell’uomo sarebbe, invero, triste se la paura della punizione e la speranza di ricompense dopo la morte fossero gli unici modi di fargli rispettare l’ordine”.

Il libro qui preso in esame si conclude con un’ampia e interessante postfazione degli stessi curatori del testo inglese, Enrico Giannetto e Audrey Taschini, docenti all’Università di Bergamo, che esplorano le radici spinoziane della teofisica di Einstein, con un ricchissimo apparato di note. Come per Baruch Spinoza (1632-1677), per Einstein Dio e Universo coincidono, e nella loro misteriosa impenetrabile bellezza possono essere intuiti solo da una religione cosmica, vera e disinteressata forza motrice della ricerca scientifica. La scienza, lungi dal minare le fondamenta della morale, si fonda su una visione razionale della struttura regolata e mirabile del cosmo e sulla compassione per tutti gli esseri viventi. Entusiasta lettore dell’Etica spinoziana, Einstein aveva scritto: “Noi seguaci di Spinoza vediamo il nostro Dio nell’ordine meraviglioso e nella pienezza della legge di tutto ciò che esiste, e nella sua anima come si rivela negli esseri umani e animali”.

Giannetto e Taschini, in un denso excursus delle teorie della fisica da Galilei a Hawking, sottolineano quanto la scoperta della relatività generale einsteiniana sia stata influenzata dalla teologia del filosofo olandese, convinto assertore dell’identificazione di Dio e Natura: energia e materia che si auto-costituiscono in uno spazio-tempo diventano attributi dell’unica sostanza divina, attiva e potente nell’Universo, al cui ordine l’uomo deve uniformarsi in un sentimento religioso di ammirazione per il creato e di collaborazione con i suoi simili.

 

© Riproduzione riservata               «La poesia e lo spirito», 6 aprile 2023

 

 

 

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, VI AVVERTO CHE VIVO PER L’ULTIMA VOLTA – MONDADORI, MILANO 2023

 Paolo Nori (Parma 1963), romanziere, traduttore, saggista, docente universitario, si occupa soprattutto di letteratura russa, e il suo ultimo lavoro è dedicato alla poetessa (anzi, poeta, come giustamente pretendeva di essere definita) Anna Achmatova. Il libro, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ha come sottotitolo Noi e Anna Achmatova, esplicita indicazione di come vada letto, sottintendendo un’ammirata complicità con la vita e l’arte della protagonista. Ma non solo. Perché la tragica vicenda esistenziale di lei, perseguitata insieme alla famiglia dal potere bolscevico e impedita nella libera manifestazione del pensiero e degli scritti, riverbera riflessi anche sui tragici avvenimenti contemporanei di oppressione antidemocratica, intolleranza, aggressività ed egoismo.

Chi era, dunque, Anna Achmatova? Nata nei pressi di Odessa nel 1889 (quindi ucraina?), morì a Mosca nel 1966, essendo vissuta perlopiù a Leningrado, oggi Pietroburgo, o nel vicino centro di Carskoe Selo (perciò russa?), tornata a Kiev dopo il divorzio dei genitori (di nuovo ucraina, come Gogol’, Bulgakov e Isaak Babel’?), si sposò una prima volta con il poeta russo Nikola Gumilëv, passando però lunghe vacanze in Crimea. Paolo Nori sottolinea questa sua duplice ma univoca nazionalità, oggi messa dolorosamente in discussione: Anna Achmatova era poeta di lingua russa, e la sua scrittura ha superato confini, burocrazie, eserciti, alzandosi a livelli di tale eccezionale sensibilità e maestria formale da non poter venire ingabbiata in nessuna coercitiva definizione di genere o provenienza.

Il suo vero cognome era Gorenko, ma il padre – ingegnere navale ucraino e funzionario pubblico di origine nobile –, l’aveva diffidata dall’usarlo per le sue poesie, attività secondo lui decisamente “discutibile”. Scelse pertanto di firmarsi con il cognome della nonna materna, discendente da una principessa tartara erede di Čingis kan. Selvaggia da bambina, “strega” da sposa secondo la definizione del marito, Anna Achmatova era una donna bellissima, intensa, severa. Sembrava imperiosamente alta pur essendo di statura media, elegante anche se vestita in modo dimesso, aveva una voce roca eppure quando parlava calava intorno a lei un intimorito silenzio. In alcune situazioni si dimostrava arrogante, in altre addirittura spietata. Di sé sembra ripetesse: “da sempre vivo così, sconsolata”.

Del suo fascino catalizzante furono testimoni amici, intellettuali, poeti come Osip Mandel’štam e il premio Nobel Iosif Brodskij. Tre volte condannata dal Comitato centrale del Partito comunista sovietico, le uccisero due mariti e le arrestarono il figlio: veniva spiata, pedinata, censurata; per diffondere i suoi versi li recitava o dettava alle amiche, che li imparavano a memoria e li divulgavano clandestinamente. Il funzionario di partito Ždanov la fece escludere nel 1946 dall’Unione degli scrittori con l’accusa di falsità, decadenza, elitarismo, disimpegno politico: “Mezza suora, mezza prostituta, o meglio, sia suora che prostituta, mischia il sesso alle preghiere; questa è l’Achmatova, con la sua piccola, misera vita privata, le sue emozioni insignificanti e il suo erotismo mistico-religioso. La poesia dell’Achmatova è lontanissima dal popolo”.

Paolo Nori ripercorre gli snodi fondamentali dell’esistenza di lei inframezzandoli non solo con commenti e riflessioni personali, ma soprattutto con estese digressioni autobiografiche e memorie private: ci racconta della nonna Carmela (“a casa sua c’era una miseria che quando son diventati poveri hanno fatto una festa”), delle lezioni universitarie e dei frequenti viaggi in Russia sulle tracce di scrittori amati, di una lunga degenza ospedaliera nel reparto Grandi ustionati, di altre totalizzanti passioni (il tifo per la squadra del Parma, l’adorazione per il poeta futurista Chlebnikov, l’aria respirata nelle biblioteche, moglie e figlia soprannominate spiritosamente Togliatti e Battaglia, i mistici sufi, la carta oro di Trenitalia…). Si sofferma in particolare sulla propria angosciata reazione allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, con gli incredibili e farseschi episodi di censura verso la cultura e l’arte russa che ne sono seguiti: l’espulsione di sportivi e artisti da manifestazioni come la Champions League e la finale dell’Eurovision, il divieto di eseguire sinfonie e balletti di Čajkovskij, la rottura di contratti con musicisti di fama internazionale. In quel periodo uno stupido affronto diretto alla sua attività di docente lo aveva ferito e indignato, quando l’Università Bicocca di Milano arrivò ad annullargli seminario su Dostoevskij   programmato da tempo, tra le proteste di molti intellettuali italiani ed europei.

Con lo stile che gli è proprio, colloquiale e travolgente, scandito da frasi brevi, semplicissime, spesso ripetitive, intessuto di intercalari domestici in cui pare addirittura di ascoltare la cadenza dialettale emiliana, Paolo Nori ci coinvolge in un susseguirsi incalzante di episodi della propria vita, ironici e autoironici, per condurci empaticamente a riflettere su questioni di rilievo etico e politico, o ad approfondire alcuni tra i tanti temi e personaggi citati. Quando leggo i suoi libri, mi capita di scoppiare a ridere improvvisamente, poi di commuovermi, poi ancora di irritarmi: credo di dovergliene essere grata, perché mi evita la noia e il disappunto procuratomi da tanta narrativa italiana contemporanea.

Di Anna Achmatova qui scrive di sguincio, in rapporto a tutto ciò che le girava intorno, accennando a riunioni di scrittori, cabaret, riviste letterarie, poetesse rivali, Blok, Mandel’štam, Majakovskij, Cvetaeva, Bulgakov, Modigliani, mariti e amanti. Gli splendidi versi della poeta, pubblicati a partire dal 1912 con la prima raccolta, Sera, vengono citati con parsimonia, e soprattutto non commentati criticamente. Lontano da qualsiasi pretesa di interpretazione accademica, l’autore ne trascrive alcuni giusto per chiosare diverse sensazioni o circostanze biografiche della donna: il rapporto difficile con il figlio, le separazioni sentimentali, la nostalgia per l’illustre passato della Russia, la coraggiosa resistenza all’ottusità del potere. “Io sono un appassionato, non un esperto”, scrive per giustificare il proprio scarso interesse letterario verso ogni valutazione formale.

C’è una poesia dell’Achmatova che mi sembra bellissima, e purtroppo non è compresa in questo volume, Il canto dell’ultimo incontro, in cui lei per indicare il suo turbamento mentre si reca nella casa dell’amato prima di lasciarlo, non accenna a tristezza o paura, ma usa pochi indicatori, a metà tra metafore e correlativi oggettivi: il guanto destro infilato per sbaglio sulla mano sinistra, i gradini che sembrano tanti ma sono solo tre, la luce della candele nella casa buia che ardono di un lume “indifferente e giallo”. Non amava indulgere a introspezioni retoriche, ma era straordinaria nel rendere le emozioni attraverso l’uso di immagini puntuali e insolite.

Troppo poche le poesie presenti in un volume che voleva essere un omaggio alla più grande poeta russa del ’900. Ma almeno di un altro addio in versi Paolo Nori offre opportuna testimonianza, ed è raccontato in Ultimo brindisi. Mi sembra giusto riportarlo, come un regalo fatto a noi lettori, che “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati”:

“Bevo a una casa distrutta, / alla mia vita sciagurata, / a solitudini vissute in due / e bevo anche a te: / all’inganno di labbra che tradirono, / al morto gelo dei tuoi occhi, / a un mondo crudele e rozzo, / a un Dio che non ci ha salvato”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 3 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, L’ALBERO DI LUTERO – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1999

I cugini letterati Giorgio e Giovanni Orelli hanno animato la vita culturale ticinese per più di cinquant’anni. Entrambi coltissimi, erano tuttavia profondamente diversi sia caratterialmente sia nella produzione letteraria. Giorgio (1921-2013), docente di italiano, critico e traduttore, fu uno dei più raffinati rappresentanti della poesia post-ermetica del ‘900. Giovanni (1928-2016), anch’egli insegnante al Liceo di Lugano, fu romanziere di successo – insignito del prestigioso Premio Schiller –, poeta in lingua italiana e in dialetto, esponente del Partito Socialista e  deputato al Gran Consiglio del Canton Ticino. Il primo composto e garbato, il secondo irruente, provocatorio, generoso.

Giovanni Orelli ebbe il merito di reinventarsi il più tradizionale e collaudato genere poetico, il sonetto, pubblicando alla fine del secolo scorso due volumi editi da Marcos y Marcos: Né timo né maggiorana (1996) e L’albero di Lutero (1999), entrambi di sessanta composizioni. Il sonetto veniva da lui utilizzato e giustificato “come un giuoco per far rigare dritto il tessuto narrativo, il discorso della logica e quello della morale”. Una gabbia formale, insomma, in cui costringere temi e toni esuberanti, vivacissimi, scoppiettanti di ironia, di verve polemica, di gioia di vivere. Ottimismo, entusiasmo e speranza sono già evincibili dal titolo del volume di cui ci occupiamo, L’albero di Lutero: “Se sapessi che il mondo è domani che finisce / pianterei lo stesso un albero di melo: / così Lutero”. Una gaia filosofia del carpe diem tinge di ritrovata giovinezza la raccolta, nei motivi tipici rincorsi in ogni opera orelliana: la donna, l’amore, il sesso, la natura, la storia, la vita ticinese, e l’idiosincrasia per il sacro, il canonizzato, il codificato.

Un accento originale assume quindi in questi sonetti l’esacerbato anticlericalismo, che riecheggia gli sberleffi della nostra tradizione dialettale, da Carlo Porta al Belli, in omaggio a un paganeggiante inno all’eros: “Amore cosa sei? Vetriolo su carne non mai spenta, / mosca pantera nuda caduta nella rete, / occhi di ragno alla sua preda intenti? / amore cosa sei? / acqua salata alla mia sete? // Amori fuori del sacramento, dicono i preti, è guerra / sozza, ossessione, libido d’unghie, manicomio, / è il maligno, una Furia che gira per la Terra”; “O sacra unione coniugale, dove tua quiddità? / Se atto naturale è, e così è, viva natura. / Natura, nel parlar materno, è vulva, è duro / parto cui femmina in dolore sottostà. //… Voi preti lo chiamate sacro? A tanta enormità // non tremano i pilastri del mondo? E sacra unione / allora non vi attira? Perché non vi sposate? // … Vostre benedizioni / et laus et jubilatio sacri fanno così e pene e pube”.

È proprio la donna (anzi, il corpo, il sesso di lei) che merita i più alti peana della poesia di Orelli, e un ironico self-portrait dell’artista maturo ma non domo, come nel divertente sonetto d’apertura, dedicato alla provocante vicina di casa che si sporge in mutandine sul balcone, in un assolato mattino d’agosto: “O pompieri, gendarmi, / arrestatela: saracinesche giù, idranti, tra me e la vampissima”. O ancora, in versi che si esaltano della loro stessa sensualità, rasentando un linguaggio volgarmente plebeo: “Sentirai il solletico sulla guancia, sul molle / del volto, un bacio come un ragnetto in festa / ti correrà sul collo… // Dirai ‘cerca!’ piegando un poco la testa, / Avremo tutto il tempo per trovare la bestiolina / che cammina cammina…”; “ho macinato l’acqua nel tuo bel mulino, / ho sbattuto, come sull’alpe fa il mungitore, / col suo bastone su e giù nel foro, / dentro il tuo corpo-burro sulla terra supino”; “E sono al ventre, al varco, al tuo cancello / del paradiso, e un lieve epitaffio / scrivo, il pennino trema, sulla pelle; // sono alla coscia, ai piedi, e torno al graffio, / a diteggiare tra i versi capelli / serpenti già indomabili per Saffo”.

L’animalità del corpo scopre un suo contraltare nell’animalità tout-court, nella descrizione partecipe del brulicante regno zoologico: a farla da padrone sono gatti, uccelli, cervi, lucciole e serpi, presi sempre a esempio di libertà, di fame di vita, di felicità e innocenza brutale nell’accoppiamento: “La biscia intanto / presso il muro la vecchia pelle ha abbandonato, / una cravatta di lusso. Potessi fare io lo stesso / con pelo e pene, riavere un selvatico sesso”.

Un Orelli carnale, quindi, quello di queste poesie, ma che in alcuni sonetti sembra dibattersi ancora nel dubbio se concedersi o meno alla spiritualità, al volo alto, alla sublimazione del desiderio: ma sempre con un eccesso di vitalità, lontanissimo dall’esangue misticismo di chi sacrifica se stesso all’ Altro da sé: “Alla fine chi voglio? Venere con voluptas o la pace / domestica di Psiche?”; “voraginosa Notte del Giudizio: / un attimo anzi che sia cenere tra cenere / chi invocherà quel Giovanni, chi? Vergine o Venere?”

Lo scarso interesse metafisico di Orelli è comunque tutto cerebrale e intriso di scetticismo, se l’unico sonetto dedicato a un tema religioso si interroga causticamente sul tempo libero di Gesù, e se la dichiarazione programmatica del suo credo suona cinicamente così: “Noi uomini siam l’animale supremo e l’infimo. In letargo / ci lascia un dio che bisogno non ha di noi, che timidi o tumidi / di vanità per un poco di soldi o letame in lungo e in largo, // non abbiamo riguardo per lui. L’uomo fatto di humus / va sicuro come se sulla morte ci fosse lunghissimo embargo / poi nel volgere di un quarto d’ora è tutto cenere e fumo”.

Anche l’adesione, senz’altro progressista e democratica, ai temi sociali ha una sua valenza terragna, fisica, di solidarietà ai poveri, ai loro odori e sudori, ai loro riti collettivi, in una sorta di affresco da Pellizza da Volpedo. Mentre alla cultura da rotocalco patinato, ai cellulari e alla moda della medio-alta borghesia, al suo linguaggio servile e asservito, ai miti finanziari e pubblicitari è riservata l’ironia più feroce, il sarcasmo più impietoso.

D’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da chi ha bistrattato il sonetto, esempio fulgido della storia letteraria italiana? L’albero di Lutero non mostra alcun rispetto per la metrica, e l’uso di rime e assonanze è assolutamente dissacratorio (ad esempio, nel primo testo: mattino-mutandine; Dio-follia-Caino; stoccafisso-Calipso-vampissima). L’omaggio che Giovanni Orelli ha reso nel volume alla nostra letteratura rimane in realtà un ironico e coraggioso omaggio a se stesso, intellettuale non organico, non intruppato, capace di burleschi e ammiccanti (ma quanto eruditi!) brindisi alla vita.

 

© Riproduzione riservata              Gli Stati Generali, 31 marzo 2023

 

RECENSIONI

TERRANOVA

NADIA TERRANOVA, IL CORTILE DELLE SETTE FATE – GUANDA, MILANO 2022

Nel quartiere Ballarò di Palermo si trova Piazzetta Sette Fate, luogo in cui credenze popolari hanno ambientato oscure leggende. “Racconta Giuseppe Pitrè, collezionista e narratore di storie siciliane, che a Palermo, nonostante i controlli della feroce Inquisizione, c’era un cortile dove di notte si davano appuntamento sette donne misteriose, una più bella dell’altra. Quando decidevano di portarsi dietro qualcuno gli facevano fare cose mai viste: danze mistiche, canti paradisiaci, voli eterei, camminare sull’acqua e altri prodigi. All’alba i fortunati si risvegliavano come se nulla fosse successo, però di quell’avventura ricordavano ogni dettaglio”.

Con queste parole si apre la fiaba che Nadia Terranova ha pubblicato per le edizioni Guanda, Il cortile delle sette fate, immaginosamente illustrato – come si conviene per l’argomento – da Simona Maluzzani. Nadia Terranova (Messina 1978) nella sua produzione letteraria ha alternato romanzi classici a libri per ragazzi. Tradotta in diverse lingue e pluripremiata, lo scorso anno ha vinto il Premio Andersen con Il segreto.

Questo suo nuovo testo è ambientato nel 1586, in un’epoca in cui essere donne (e soprattutto donne non conformi al sentire ufficiale di Chiesa e autorità, e a quello popolare imbastito di superstizione e ignoranza) non doveva essere facile, sia in Sicilia che altrove.  Anche essere gatte nere poteva essere molto pericoloso, a quanto afferma la co-protagonista del racconto: “Provateci voi a essere una gatta nera al tempo dell’Inquisizione. Voglio dire, non `e facile. Innanzitutto non `e detto che possiate tenere il vostro nome, anzi conviene che ve ne troviate uno buono per salvarvi la pelle. Io, per esempio, mi presento come Arte ma in realtà mi chiamo Artemide, come la dea della caccia: pensate a cosa succederebbe se qualcuno sapesse che porto il nome di una divinità pagana, no, non voglio neanche immaginarlo, già la mia vita è difficile così”.

Perseguitata perché ritenuta creatura diabolica, la gatta Arte gira con circospezione nei vicoli del capoluogo siciliano, dove gli inquisitori, affidandosi al Malleus Maleficarum, un manuale per la caccia alle streghe, istillano ovunque sospetti e diffidenza. Eppure, nelle sue due vite precedenti in Egitto e in Grecia, Arte era stata rispettata e onorata, addirittura con la considerazione dovuta a un essere di origini divine. Una notte il suo fortuito incontro con Carmen la mette in contatto con le forze indomabili e ribelli della natura. Carmen è una bambina “furtiva e zingaresca… libera come il vento e zozza come la pece, vestita di stracci sotto un mantello damascato e i piedi nudi incrostati di strada fin dentro le unghie”. È cresciuta in un bosco, accudita da lupi, donnole, lepri, ricci e ghiri, nutrita con “bacche, frutti ed erbe”, assimilando così comportamenti ed espressioni selvatici, lontani dalla sensibilità della gente comune. Ora vaga per le vie della città, impaurita e affamata. La notte in cui Carmen e Arte si incrociano     per la prima volta  nei pressi della Chiesa di Santa Chiara, vicino a una torretta d’acqua, è animata da voci e sussurri indecifrabili, da passi femminili leggeri, da intensi profumi di piante aromatiche. Mentre la gatta si rifugia spaventata dietro a un muro, la ragazzina viene circondata da sei bellissime donne che intorno a lei ballano e cantano, vestite d’oro e d’argento, prima di dissolversi nel nulla. L’irruzione di due ossessionati inquisitori marchia Arte e Carmen dell’accusa di stregoneria, conducendo la prima alla fuga, e la seconda in prigione con l’accusa infamante di “guaritrice”, di “ciamavermi”. A salvare entrambe, ecco che arrivano le sei donne concretizzatesi dal buio, streghe o fate: comunque figure libere e liberanti, capaci di ribellione, allegria e lievità in un’epoca di gretta repressione. Raccolgono erbe mediche per preparare infusi magici che inducono sogni rasserenanti in chi dorme. Manifestano una saggia teoria sugli inquisitori: “I pensieri negativi sono quelli che qualcuno chiama diavolo. Si impossessano della mente di chi li partorisce e non se ne vanno più, inquinano il  cuore  e  i  sentimenti,  fanno calare le tenebre, creano paura, odio, sospetti.  Anche se certi signori lo vanno cercando per le  strade  di  Palermo,  in realtà   il  diavolo `e solo dentro di noi, pronto ad apparire e a rovinarci la vita quando non siamo consapevoli di poterla godere appieno”. Regalano alla gatta nera esperienze gioiosamente visionarie, sollevandola in atmosfere sconosciute. Si rendono invisibili per penetrare nella prigione in cui è rinchiusa Carmen, e immobilizzano l’inquisitore che la sta sottoponendo a un interrogatorio brutale per farle confessare peccati mai commessi.

Una delle fate, Pia, rivela alla bambina di essere stata la sua levatrice, raccontandole i misteri della sua nascita: figlia di una guaritrice, la bambina aveva ereditato le stesse facoltà taumaturgiche della mamma, e ora che ne è consapevole può unirsi a loro sei, diventando la settima fata fornita di ali, capace di volare più in altro di ogni pregiudizio, vessazione e ingiustizia, tenendosi stretta una gatta nera, decisamente portafortuna!

 

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SoloLibri.net › … › Il cortile delle sette fate di Nadia Terranova           31 marzo 2023