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INTERVISTE

READERFORBLIND

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione
La nostra collaboratrice Alida Airaghiha intervistato la redazione della giovane casa editrice romana Readerforblind, nata inizialmente come rivista online nel 2015 e specializzata nella narrativa breve. I fondatori del progetto sono Dario AntimiAdria Bonanno e il giornalista e scrittore Valerio Valentini. Ma dietro il nome di readerforblind si nasconde anche un intero team di persone preparate e appassionate: Margherita Macrì, in redazione; Roberta De Marchis, all’ufficio stampa e comunicazione; Emilio Fabio Torsello, alla gestione e ai contenuti Social; Valentina Russo che si occupa della grafica.

Ecco come nasce la casa editrice “readerforblind”: sapete che il nome si ispira a un famoso racconto di Raymond Carver? Il perché ce lo svela la redazione nell’intervista che segue.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità?

La casa editrice nasce ufficialmente nel dicembre del 2020 e nel marzo del 2021 esce la nostra prima pubblicazione, I superflui di Dante Arfelli. Abbiamo passato l’intero lockdown del 2020 a studiare e pensare il progetto. Nasciamo a Ladispoli; abbiamo pensato all’eventualità di spostarci a Roma, ma alla fine abbiamo deciso di restare in provincia. Amiamo il nostro territorio e qui una casa editrice neanche c’era. Quindi abbiamo pensato: “Perché no?”. Non ci siamo pentiti, in qualche modo è stato un atto d’amore.
Prima di allora, readerforblind era una rivista online di narrativa breve, insomma, avevamo un sito e pubblicavamo racconti. Lo facevamo dal 2015, ma con il passare degli anni sentivamo di volere di più. Quello della casa editrice è sempre stato un sogno; alla fine è arrivata la giusta motivazione per realizzarlo.

  • Avete scelto un nome originale per le vostre edizioni: potete spiegarcene origine e motivazione?

Readerforblind ce lo portiamo dietro dall’inizio, da quando il progetto era una rivista. È un omaggio a Raymond Carver; nel racconto Cattedrale c’è questo annuncio sul giornale: “Cercasi lettore per cieco” – Readerforblind. Viene da lì. Portare avanti per cinque anni una rivista di racconti significa che il racconto lo ami, e parte del nostro amore verso questa forma narrativa deriva proprio da Carver. Quando il progetto è mutato e da rivista è diventato casa editrice, abbiamo deciso di mantenere invariato il nome, un po’ anche per ricordarci da dove – e da cosa – veniamo.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione e in quante collane si suddivide la vostra produzione?

In redazione siamo circa una decina, e saltuariamente ci avvaliamo delle competenze di collaboratori esterni. La nostra produzione si suddivide attualmente in tre collane: le polverii superflui e le polveri black edition.
Le polveri è la nostra prima collana. Qui trattiamo titoli di narrativa pubblicati nel corso del Novecento e non più ristampati da allora. Nei Superflui ci concentriamo su nuove voci contemporanee e nelle Polveri black edition trattiamo invece opere di grandi autori e grandi traduttori della letteratura.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti e secondo voi per quali motivi? Quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra i titoli che hanno ottenuto più riconoscimenti troviamo sicuramente I superflui di Dante Arfelli e Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato.
Arfelli è stata in parte una sorpresa, innanzitutto perché era il primo titolo e non ci aspettavamo una tale risposta da parte del pubblico e della critica. Abbiamo pubblicato I superflui, per un caso totalmente fortuito, nel centenario della nascita dell’autore; probabilmente c’era grande attesa circa il ritorno di Arfelli nelle librerie, quantomeno da parte di una nicchia affezionata di lettori.
Per quanto riguarda Pietro Di Donato, invece, il discorso è diverso: anche in questo caso c’era probabilmente una certa attesa, ma crediamo che il successo di Cristo fra i muratori sia dovuto al tema che il libro tratta: la storia è d’ispirazione autobiografica ed è raccontata da Paolo (personaggio appunto riconducibile a Pietro Di Donato), che all’età di dodici anni perde il padre per un incidente sul lavoro. Quello delle morti sul lavoroè un tema molto sentito nel nostro paese, ed è vergognoso che oggi come allora si muoia in tali circostanze. Dall’inizio dell’anno ci sono già state sette “morti bianche”. In soli tre giorni, e siamo all’11 di gennaio.

Nel nostro piccolo, pensiamo sia importante partire dalla sensibilizzazione per creare una sorta di consapevolezza generale, e crediamo che negli ultimi anni questo stia accadendo: sempre più persone non sono disposte ad accettare condizioni di lavoro che non garantiscono sicurezza e sempre più persone si stanno battendo per un cambiamento, perché morire di lavoro non è accettabile.
Circa i prossimi tre titoli che abbiamo in cantiere possiamo dirvi che il 27 gennaio uscirà Nella città l’inferno di Isa Mari per la collana Le polveri. A febbraio, nella collana I superflui, pubblicheremo Il corpo della medusa di Luca Martini, già autore, fra gli altri, di Manuale di sopravvivenza per bambini invisibili (Pequod, 2018) e Mio padre era comunista (Morellini Editore, 2019). Per il terzo titolo ci concentreremo nuovamente su Le polveri, ed è previsto per marzo. Su questa pubblicazione non possiamo dirvi di più, ma ne sentirete parlare presto!

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Fin da subito abbiamo improntato la comunicazione e la distribuzione su tutti i canali possibili, non trascurando nessuno e cercando di essere presenti tanto nel “reale” (con un rapporto diretto con le librerie indipendenti, con un rapporto diretto con la promozione e con un aggiornamento costante con i buyer delle centralizzate) quanto nel digitale, attraverso lo shop sul nostro sito, la presenza su tutte le piattaforme digitali e una gestione dei social dinamica, ma allo stesso tempo istituzionale. Tutto ciò ci ha permesso di interfacciarci con un pubblico composto da lettori giovani e meno giovani e da lettori occasionali e grandi lettori. Il mercato delle riscoperte, sulla carta, era focalizzato sul grande lettore che ricercava da anni libri oramai giudicati introvabili, ma grazie a questo mix di comunicazione reale e digitale abbiamo constatato che siamo riusciti ad arrivare a una fetta di lettori più giovani (anche anagraficamente) e, appunto, più occasionali; lettori che hanno dedicato ore di lettura a libri di cui magari non sarebbero mai venuti a conoscenza. Questo grazie al lavoro dei librai indipendenti ma anche di catena, che hanno sposato da subito le nostre scelte editoriali.
Questo è anche un po’ quello a cui aspiriamo con il nostro lavoro: far conoscere a più gente possibile grandi autori ingiustamente dimenticati nel tempo e nuove voci contemporanee valide che troppo spesso passano in sordina.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Ogni mezzo di comunicazione è a sé, e sono diversi. Che in Italia si legga poco purtroppo è una realtà, ma chi non legge non lo fa perché Netflix gli propina un numero indefinito di serie tv tutte insieme – probabilmente queste stesse persone non avrebbero letto o non leggevano nemmeno vent’anni fa. Crediamo che l’intrattenimento non sia solo intrattenimento fine a sé stesso – molte attività provengono da forme artistiche; c’è un tempo per tutto, ed è giusto sia così. In quanti nelle ultime settimane hanno chiuso un cerchio guardando l’ultima stagione di The Walking Dead? È difficile che questo abbia impedito alle persone di leggersi un libro se questo era ciò che volevano fare. Insomma, una cosa non esclude l’altra. Tra l’altro, durante il lockdown del 2020, ci fu una lieve inversione di tendenza. Durante quelle settimane molta gente aveva a disposizione diverse ore di tempo libero e questo tempo proveniva dal non lavorare o dal lavorare da casa, non dalla mancanza di altre forme di intrattenimento.
Anche l’utilizzo dei social, da questo punto di vista, non ci preoccupa più di tanto; nonostante il tempo speso sui social sia sempre maggiore, difficilmente immaginiamo che le persone smettano di seguire le proprie passioni per questo. Se usati bene, inoltre, possono essere un ottimo strumento per seguire case editrici e progetti editoriali validi, in un modo così diretto e interconnesso che è sorprendente, e di certo non auspicabile fino a qualche anno fa.

Concludiamo con un altro spunto di riflessione: alcuni lettori hanno il brutto vizio di giudicare malamente chi legge meno, e questo è il miglior modo per allontanare le persone dalla lettura, anziché avvicinarle.

 

SoloLibri.net › Intervista-redazione-Readerforblind       12 gennaio 2023

 

RECENSIONI

CANETTI

ELIAS CANETTI, AFORISMI PER MARIA LOUISE – ADELPHI, MILANO 2015

Del piccolo volume pubblicato da Adelphi nel 2015, Aforismi per Maria Louise di Elias Canetti, più della metà è occupato dalla splendida postfazione di Jeremy Adler, che ne illustra le vicende di composizione e ritrovamento, inserendolo all’interno della produzione letteraria e filosofica dell’autore austriaco. Elias Canetti scrisse gli aforismi dedicati alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky tra il 1941 e il 1942, probabilmente facendogliene dono il giorno del suo trentaseiesimo compleanno, il 24 ottobre 1942. Il manoscritto, ritrovato tra le carte della destinataria dopo la sua morte, era vergato con inchiostro blu scuro, con titolo e dedica in giallo, e presentava le pagine forate in due punti all’estremità superiore, legate da un cordoncino dorato che gli conferiva l’aspetto di omaggio solenne e gratificante.

Per stessa ammissione dell’autore, questi 129 appunti (così preferiva definirli, anziché aforismi, massime, bozzetti o riflessioni), erano stati composti come “valvola di sfogo” durante l’onerosa e opprimente stesura del suo capolavoro, Massa e potere, durata quarant’anni e conclusasi con la pubblicazione nel 1960. Non rappresentano comunque un’opera secondaria, bensì si definiscono come un concentrato della sapienza, cultura, sapidità che ha caratterizzato l’opera omnia dell’autore, ponendolo nella scia di produzione di massime e frammenti che da Karl Kraus risale a Nietzsche, La Rochefoucauld, Montaigne, Pascal, fino ai presocratici. “L’appunto, in Canetti, va inteso come scrittura aperta, una scrittura che si muove liberamente fra l’immediatezza del diario e il rigore della riflessione. È in questa tensione che si dispiega la forma breve”, puntualizza Adler nel suo commento.

Elias Canetti, nato in Bulgaria nel 1905 da famiglia ebrea colta e benestante, ebbe come lingua materna il ladino, ma in seguito imparò il tedesco, che utilizzò per scrivere tutte le sue opere, quindi il bulgaro, l’inglese, il francese, lo spagnolo: acquisizioni rese necessarie dalle frequenti peregrinazioni in tutt’Europa. Visse infatti a Manchester, Vienna, Francoforte, Berlino, Parigi, Londra, Zurigo, dove morì nel 1994 e dove è sepolto, accanto alla tomba di James Joyce. Si laureò in chimica, materia in cui conseguì anche un dottorato, senza mai praticarla a livello professionale. Sposò nel 1934 la scrittrice sefardita Veza Taubner-Calderòn, donna affascinante con cui ebbe un sodalizio affettivo e culturale profondo e tormentato, conclusosi con il suicidio di lei nel 1963. Conobbe e frequentò gli intellettuali più importanti della sua epoca: Brecht, Babel’, Grosz, Musil, Berg, Alma Mahler. Fu traduttore, autore teatrale (Nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza), romanziere (Autodafé), saggista (oltre al già citato Massa e potere, anche Le voci di Marrakech). Naturalizzato cittadino britannico, nel 1971 Canetti sposò in seconde nozze la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’unica figlia Johanna. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”. Forse il suo lavoro più rappresentativo rimane l’autobiografia divisa in tre parti (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi), pubblicata fra il 1977 e il 1985.

Destinataria del testo di cui trattiamo era la pittrice Marie-Louise von Motesiczky (1906-1996), come lui ebrea, ma discendente da un casato facoltoso e aristocratico, frequentatrice della Vienna più illustre. Si erano conosciuti a Londra, entrambi esiliati dall’Austria nazista, e rimasero uniti per tutta la vita in una relazione amorosa e intellettuale, tollerata da entrambe le mogli di lui. Bellissima, alta, elegante, emotivamente fragile, Marie-Louise condivideva con Elias lo stesso spirito curioso, la stessa indipendenza culturale da fedi religiose o appartenenze politiche, e interessi coltivati sia in un’assidua frequentazione personale (nella casa di lei rimase sempre a disposizione di Canetti un’intera stanza con annessa biblioteca) sia un vivace epistolario, arricchito da fotografie e ritratti, alcuni dei quali riprodotti nel libro adelphiano. “Tutto si può uccidere: una persona, un’opera, un nome e persino un dio, ma non un amore vero”, recita uno degli aforismi dedicatele dall’amante.

La maggior parte degli appunti (scritti in uno stile veemente e appassionato, utilizzando toni spesso caustici e grotteschi) ruota intorno ai tre temi fondamentali su cui si è sostanzialmente basata l’intera riflessione teorica di Elias Canetti: Dio, la morte, la guerra.

La divinità cui si ispirano non ha tratti specificamente ebraici, cristiani, buddisti: piuttosto assume un’identità oppressiva, ingiusta o tuttalpiù indifferente rispetto alle sorti del genere umano, che d’altra parte non risulta meritevole di grande considerazione da parte di alcun essere supremo. “Guardati in particolare da tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio. In questi casi si tratta sempre di una riduzione della vita; del suo impoverimento e della sua meccanizzazione; di una sorta di tirannide divina; il dio può anche essere un apprendista”, “Il Dio della Bibbia è interessante, non è mai esistita una creatura tanto assetata di potere: punisce solo il traditore, premia solo il servo fedele; ed entra in scena con la pretesa di possedere tutto, perché tutto lui ha creato”, “Gli amici di Dio sono irrimediabilmente disperati per la sua grandezza”, “Dio è morto perché il suo nome è stato profanato, adesso lo invochino pure quanto vogliono”.

La morte ispira a Canetti un odio e un rancore inestinguibile, poiché avvertita come una condanna iniqua, stupida, ingiustificabile, ed espressione massima della sopraffazione materiale e metafisica. Quasi istericamente, non ne accetta l’inevitabilità: “Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei”.

Altrettanto feroce è il suo disprezzo verso la guerra, manifestazione di brutalità, idiozia, primitivismo bestiale. Quando questi aforismi venivano scritti, infuriava il secondo conflitto mondiale, Londra veniva bombardata quotidianamente, si inaspriva la persecuzione contro gli ebrei, l’assedio di Stalingrado sembrava non avere fine. Canetti ne parla mettendone in luce gli aspetti più truci e sanguinari. “Combattono fra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue”, «Mi ha rubato l’orecchio sinistro. Gli ho preso l’occhio destro. Mi ha fatto cadere quattordici denti. Gli ho cucito le labbra. Mi ha bollito il didietro. Gli ho rivoltato il cuore. Ha mangiato il mio fegato. Ho bevuto il suo sangue. – Guerra”, “Ha salvato dalla guerra il mignolo del figlio minore”, “Chiunque riderà a guerra finita, sia messo a morte per averla dimenticata con tanta leggerezza”, “Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere”, “Durante l’ultima guerra i tedeschi portavano ancora i guanti; a maglie di ferro, a dire il vero, e con quelli ti colpivano in faccia; ma li chiamavano pur sempre guanti”.

Disgusto, rabbia, amarezza, condensati nel più feroce e amaro di questi appunti: “L’uomo è la misura di tutti gli animali”, che modifica ironicamente la celebre tesi di Protagora.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 3 gennaio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, MUSE NASCOSTE – GALAAD, ROMA 2021

“Se la poesia è espressione dell’indicibile, celato oltre le pieghe dell’esistenza, se è indagine del reale per oltrepassarne traumi e sofferenze, esprimendo ideale e bellezza, se è tensione verso un linguaggio che non si lascia addomesticare, se – in una parola – la poesia è una rivolta contro le imposizioni e le costrizioni dell’esistente per ambire a un sogno di libertà e di assoluto, allora il presente volume costituisce lo strumento per porsi in ascolto di quell’indicibile, attraverso la vita e la voce di ventiquattro poetesse, molte di loro ancora ignote al vasto pubblico, figure esemplari di un assalto ai limiti dell’esistenza individuale e sociale, ai segreti inesplicabili del mondo fisico e metafisico, alla resistenza della parola e del suo mistero”. Così Luigi Beneduci nella prefazione al bel libro di Nicola Vacca, Muse nascoste.

Le poete presenti in questa antologia occupano un raggio cronologico e geografico molto vasto: dall’America dell’800 alla pianura Padana di fine ’900, dalla Russia bolscevica all’Argentina degli anni ’70. Nicola Vacca (Gioia del Colle, 1963) – scrittore, critico letterario, opinionista – offre ai lettori un quadro sintetico ma incisivo delle loro personalità, introdotto da una breve nota biografica, e illustrato criticamente nell’aspetto formale, quindi attraverso la citazione sia dei versi più noti ed esemplificativi, sia di stringati giudizi di alcuni esegeti internazionali.

Volendo tentare una classificazione, per quanto arbitraria, che inquadri le autrici, potremmo suggerire di suddividerla in quattro ambiti di espressione: tra chi privilegia la riflessione spirituale e la ricerca metafisica, e chi affronta invece la complessità storica con le sue ingiustizie e persecuzioni, tra chi indaga la propria interiorità ferita, e chi invece è più interessata a sovvertire la tradizione linguistica. Ovviamente, nessuna delle poete antologizzate si limita a un unico settore di indagine; comune a tutte è, comunque e sempre, un forte disagio sociale, la drammatica disarmonia con il mondo in cui vivono, e una sofferenza che sembra immedicabile, particolarmente evidente nelle otto di loro che hanno scelto la morte volontaria (Cvetaeva, Pozzi, Rosselli, Pizarnik, Sexton, Plath, Campana, Ruggeri).

Icastiche, concise ma penetranti sono le definizioni con cui Nicola Vacca sintetizza le doti caratteriali e stilistiche delle varie autrici: “l’oscillazione continua tra l’abituale e l’eterno” di Emily Dickinson, “la voce deflagrante ed estrema” di Jolanda Insana, “il mondo senza speranza né redenzione” di Ágota Kristóf, la “straordinaria voce eretica che non ha mai rinunciato alla perfezione e alla bellezza” di Cristina Campo, “la rigorosa intransigenza di precisi principi morali” di Simone Weil, “il terribile deflagrare di una sensibilità acuta, lancinante e tragica” di Sylvia Plath.

Altrettanto coinvolgente ed empatica è la scelta dei versi che vengono proposti al lettore. Il classicismo composto di Lalla Romano ben si evince leggendo: “Non pensare se cerco parole / che voglia nutrirmi di vento / un dono di giuste parole / incorruttibile come la musica / dolce come la casa / triste come l’infanzia / paziente come il tempo”. L’amarezza del sentirsi ingiustamente esclusa risulta palese da quanto scrive Fernanda Romagnoli: “Io qui non mi trovo, io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato”. La preghiera tormentata e controcorrente di Margherita Guidacci ne rivela l’inevitabile isolamento intellettuale e religioso: “Mio Dio salvami dalla parola condotta in parata come un vitello / nel giorno di fiera; … meglio scrivere un libro importante nel deserto / che diventare celebre per un equivoco”.

In questa galleria di ritratti femminili, “la voce possente e polifonica, straziante e al tempo stesso appartata” di Nadia Campana, il suo “esercizio di dolore che ha trovato lo schianto” nel gettarsi, appena trentunenne, da un ponte della tangenziale est di Milano, appaiono emblematici dell’angoscia che ha relegato la quasi totalità delle poete qui rappresentate all’emarginazione, a un rifiuto o a un’ingiusta sottovalutazione. La fragilità, la rabbia e la disperazione intuibili nelle loro tormentate biografie, ha cercato e trovato una possibile via di comunicazione, di resistenza e riscatto proprio nel dono gratuito della poesia, che, come ammoniva Simone Weil “deve ambire a esprimere qualcosa, e contemporaneamente nulla – il nulla che si manifesta dall’alto”.

 

© Riproduzione riservata        «L’indice dei Libri del Mese» n. I,  gennaio 2023

POESIE

JOSEPH

JOSEPH

 

Otto anni Benedictus

poi gravatus senectute

sofferente di salute

a basite eminenze

in concistoro

flebilmente scandisce

inaudita insospettata

decisionem

dopo fervida preghiera

tormentata riflessione

ribadisce

pervenuto

ad certam cognitionem

supplicando comprensione

declaro renuntiare

io semplice operaio

nella vigna del Signore

coscientia coram Deo

explorata

risolto ad abdicare

se si trova zizzania

più che grano

nel campo della Chiesa

Benedictus iam Joseph

preferisce migrare

spogliato di mitrie

pivali fanoni

sontuose liturgie

si allontana silenzioso

il più antiquus

vegliardo

della storia vaticana

invocando

la schiera dei santi

i saggi timonieri

della barca di Pietro

testimoni

di una croce sostenuta

restaurando

nel solco traditionis

ha scelto

il vicino più spoglio

monastero

dove un gatto

lo attende

e Mozart lo consola

pontifex non summus

ma emerito soltanto

altero curvo bianco

patiendo

et orando

lui teutone severo

così stanco

del mondo.

 

 

© Riproduzione riservata                   «La Poesia e lo Spirito», 31 dicembre 2022

RECENSIONI

TOLENTINO DE MENDONÇA

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA, IL PAPAVERO E IL MONACO – QIQAJON, BOSE 2022

José Tolentino de Mendonça (Machico,1965) teologo e docente universitario, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia, perché di poesia si occupa sia criticamente sia attraverso un’apprezzata produzione personale. Ha trascorso l’infanzia in Angola, dove suo padre faceva il pescatore in alcune città portuali.

Il rapporto con la natura è tra i temi principali delle sue raccolte, insieme alla riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico. Il suo ultimo volume di versi, Il papavero e il monaco, ha tratto ispirazione da un viaggio in Giappone e dalla forma letteraria più tradizionale e nota di quel paese, l’haiku. L’haiku, che ha molti estimatori e seguaci anche in Italia (al punto che ogni anno gli si dedicano numerosi concorsi e convegni, con una vivace partecipazione di appassionati) è, come si sa, una poesia in tre versi privi di rime, che non supera le 17 sillabe, suddivise in 5/7/5 more per verso.

Nelle sue composizioni, Tolentino non si attiene rigidamente a questo schema metrico, ma rimane comunque fedele tanto a una struttura di estrema concisione, quanto alla dimensione spirituale, al richiamo evocativo, alla sensibilità pittorica tipica di tale figurazione poetica: nella premessa, afferma di essere debitore, per le sue composizioni, sia a Kerouac sia a Bashō.

Il silenzio, come intenzione di ascolto e svotamento interiore, è spesso protagonista dei versi: “Il silenzio solo raramente è vuoto / dice qualcosa / dice quel che non è”, “Il silenzio non è una forma / di riposo o sospensione / ma di resistenza”, “Silenzio: / contemplare la neve / fino a confondersi con lei”, “Impara a rinunciare / a tutto / persino al silenzio”, “Il silenzio / non è l’opposto / ma il rovescio”.

La preghiera è disposizione dell’animo, in una misura che non appartiene solo al cristianesimo, ma al sentire religioso universale, la cui espressione primaria è contemplativa, di ringraziamento e meraviglia, e i cui celebranti sono gli antichi pellegrini, i monaci di tutte le fedi: Vuoi sapere che cosa prego quando prego? / tronchi secchi, ramoscelli / recinzioni e creta rossa”, “Felice colui che bacia l’icona / con devozione totale / senza nulla chiedere”, “La vita monastica / è una forma di nudità / che non ha vergogna di sé stessa”, “La vera scienza della santità / è vivere / senza perché”, “L’estate / insegna la stessa preghiera / al papavero e al monaco”, “Il pellegrino / preferisce le scarpe / più volte riparate”.

La natura celebra la bellezza in totale gratuità: “Oggi le nuvole sembrano / monaci che prendono il tè / in silenzio”, “Cose che non lasciano traccia: il lampo nella notte / il volo degli aironi contro la neve”, “La begonia è tornata a fiorire / e la pernice ha ritrovato intatto / il proprio nido”, “Nel ramo del melo cotogno / scopro nuvole / che non avevo visto”, “Tante volte / dico alla rugiada / sono come te”.

Tra i colori di questi acquerelli poetici prevale senz’altro il bianco, nel candore della neve e dei cirri, nel vuoto della pagina che accoglie le scarne sillabe vergate in nero. Ma sono presenti anche il verde dell’erba e dei boschi, l’azzurro del cielo e dei laghi, il giallo e il rosso dei fiori.

Respiriamo qui la tranquilla serenità di chi si sa creatura simile a qualsiasi altro essere vivente, animale e vegetale, riconoscendosi inessenziale al mondo ma comunque amato da Dio; di chi desidera abbandonarsi al fluire del tempo, rinunciando a ciò che appesantisce mente e cuore: il tormento del pensiero, l’imposizione della volontà, l’afflizione della memoria, l’ansia del progetto. “Tutto è effimero: / ieri ascoltavo la tua / voce oggi solo il vento”.

Nella sua ammirata e intensa prefazione, l’italianista Lina Bolzoni così commenta queste pagine: “È un libro fascinoso e perturbante. Ci porta lontano, tra i giunchi e i crisantemi del Giappone e insieme scava nella nostra interiorità, ci provoca con le sue domande, con i suoi rovesciamenti di prospettiva, ci incanta con la magia del verso, con la danza turbinosa dei punti di vista”.

Oltre a essere poeta, José Tolentino de Mendonça è Cardinale della Curia Romana dal 2019.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 23 dicembre 2022

 

 

 

RECENSIONI

FALCI – TONDELLI

GIUSEPPE ALBERTO FALCI – JACOPO TONDELLI, DOPO LA DEMOCRAZIA

ZOLFO, MILANO 2022

 

In sei capitoli, un’introduzione e una conclusione, due giornalisti politici – Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli – raccontano “un decennio vissuto pericolosamente, tra populismo e tecnocrazia”, come recita il sottotitolo del loro volume da poco uscito presso l’editore milanese Zolfo: Dopo la democrazia.

Il periodo di storia italiana preso in esame dagli autori va dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi (novembre 2011) alla nascita del governo Meloni (ottobre 2022), anni in cui a Palazzo Chigi si sono succeduti Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, tutti arrivati al potere senza una reale investitura popolare. Il decennio in questione è stato contraddistinto da una serie di emergenze economiche, sociali e sanitarie a cui non sono state offerte soluzioni significative, impedendo oltretutto la partecipazione democratica nella scelta dei rappresentanti incaricati di reggere il Paese.

Sebbene accolto con freddezza e pregiudizievole timore dai media e dagli intellettuali progressisti per la sua provenienza post-fascista, il governo di Giorgia Meloni risulta quindi il primo, dopo dieci anni di “avvelenamento della democrazia italiana”, ad aver rispettato il volere degli elettori, che hanno scelto di votare la coalizione dei partiti di destra, a cui non ha saputo opporsi una sinistra allo sbando nelle idee, nei programmi e nelle alleanze.

Il volume si apre dunque sulle pagine dedicate all’attuale maggioranza, presieduta da una leader della destra post-missina e nazionalista, fedele tuttavia all’Europa e al patto atlantico, in consonanza con le scelte del predecessore Mario Draghi, soprattutto in difesa dell’Ucraina contro l’aggressione sovietica. Il libro, soffermandosi sugli esordi politici e sulla vita familiare della prima donna italiana capo di governo, ripercorre puntualmente le giornate frenetiche della sua vittoria alle ultime elezioni del 25 settembre: elenca i collaboratori che ne costituiscono l’entourage più fidato, l’entusiasmo dei conservatori europei, il sarcasmo dell’opposizione, le prime schermaglie con gli alleati della Lega e di Forza Italia. Il governo nascente si è caratterizzato da subito come iper-politico, nella volontà di creare un esecutivo di alto profilo, a netta egemonia del partito vincitore, Fratelli d’Italia, che ha imposto a un Parlamento acquiescente sia i Presidenti di Camera e Senato, sia Ministeri più rilevanti.

Retrocedendo nel tempo al novembre 2011, vengono ricostruite le vicende che hanno portato l’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano a incaricare l’economista Mario Monti di guidare un governo tecnico, retto da una vasta maggioranza. Soluzione che era parsa inevitabile, dopo il declino dell’epopea berlusconiana durata 25 anni, e conclusasi tra inchieste giudiziarie e scandali sessuali, nell’aggravarsi di una crisi economica segnata da uno spread insostenibile. Il programma di austerità promosso da Monti, supportato dalle figure carismatiche ma discusse di Elsa Fornero e Corrado Passera, sembrava rappresentare gli interessi di una minoranza stabile e influente, intesa a rassicurare soprattutto i timori dell’alta finanza europea, tenendo contemporaneamente a bada la rabbia sociale incanalata dal Movimento 5 Stelle, che in effetti alle elezioni del febbraio 2013 ottenne il 25,5% dei voti. Davanti al partito creato da Beppe Grillo si apriva però un dilemma gravido di conseguenze: “Tenere duro e negarsi a ogni alleanza e compromesso, costi quel che costi, oppure accettare la fine del proprio mito fondativo e governare, scegliendo l’alleato «migliore»?”

L’imprevedibile ascesa, e il conseguente declino della formazione, merita nelle pagine dei due autori un’analisi attenta e puntuale, esattamente come quella dedicata al loro rappresentante di maggiore rilievo istituzionale, Giuseppe Conte, a capo di due governi (2018-2019 e 2019-2021).

Molta attenzione critica viene riservata anche alla rielezione del Presidente Sergio Mattarella, che con il plebiscito del 29 gennaio 2022, dopo un lungo lavoro diplomatico sotterraneo ha spazzato via tutti gli altri candidabili (Draghi, Casellati, Casini, Belloni, Cartabia, Amato), in nome di un “mero principio di autoconservazione”, per mantenere “l’unico equilibrio possibile”. Mattarella viene definito dagli autori del libro “Moroteo di stile e di contenuto, grisaglia d’inverno e d’estate, silenzioso”, e pari severi giudizi sono riservati anche a un altro vulcanico protagonista di questi anni: Matteo Renzi (il rottamatore, il royal baby), e infine al “mito impossibile di Mario Draghi” (“L’ex direttore del Tesoro è il salvatore della Patria che tutti evocano per qualsiasi ruolo istituzionale”).

I commenti che Falci e Tondelli riservano a big, comprimari e comparse del Parlamento risultano quasi imbarazzanti, nel sottolineare volubilità e volatilità di proposte e idee, nell’elenco vorticoso di manovre oscure, riciclaggi e ripescamenti di figuranti inattendibili, nell’ostentato culto dell’immagine praticato su tutti i media, intrecciandosi prima e svincolandosi subito dopo in caroselli ideologici

Agli attori principali di questa recita nazionale (farsa, commedia o tragedia) sono dedicate esplorazioni e riflessioni che non riguardano solo alleanze, tradimenti espliciti, sgambetti imprevisti, ma anche gli interventi di amici-nemici-fidanzati, di intellettuali-industriali-giornalisti-magistrati,  riportando alla memoria dei lettori episodi e figuranti dimenticati della scena politica più o meno  recente, come evidenzia il lunghissimo elenco dei nomi citati a fine volume, giustamente inghiottiti nelle sabbie mobili dell’oblio.

A conclusione di tale sconfortante e impietoso ritratto, gli autori tentano un bilancio dei problemi strutturali del nostro Paese. Problemi ereditati da un passato certo non edificante, che minacciano di incacrenirsi nel futuro: l’irrilevanza politica sullo scacchiere internazionale, la perdita progressiva di prospettiva industriale e di investimento nel tessuto produttivo, l’incapacità di attrarre capitali economici dall’estero, la criminalità organizzata, il consolidarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali, il degrado delle periferie urbane, il costante calo demografico, l’immigrazione clandestina, le scarse risorse destinate alla sanità e all’istruzione…

Sono solo una parte delle questioni irrisolte a cui la classe politica attuale non sembra poter o voler rimediare.

 

© Riproduzione riservata          19 dicembre 2022

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RECENSIONI

ORECCHIO

DAVIDE ORECCHIO, QUALCOSA SULLA TERRA – INDUSTRIA&LETTERATURA, MASSA 2022

Davide Orecchio (Roma, 1969), autore di racconti, romanzi e di un libro per l’infanzia, redattore del blog Nazione Indiana, ha pubblicato con le edizioni Industria&Letteratura una storia che racconta persone, ambienti, fatti collocati ai margini della “Storia”, troppo politicamente ed economicamente irrilevanti perché il mondo politico ed economico se ne occupi. E tanto tracimanti dolore e sofferenza da creare disagio, senso di colpa e impotenza in chi scrive e in chi legge.

Il titolo del suo breve romanzo, Qualcosa sulla terra, è tratto da una poesia di Paul Celan, i cui versi fungono da epigrafe al libro: “Fare qualcosa, / Qualcosa / fare nell’alto, nel / basso.  Qualcosa, sulla terra”.

L’incipit è concisamente drammatico, foriero di un messaggio allarmante: “Vivevo in una città che s’incendia, pazza per l’odore del fuoco. Alcuni odiavano la città e le davano fuoco. Altri, assediati dal fuoco, pure la odiavano, ora che non sapevano più comprendersi se non come vittime”. Il fuoco è il reale protagonista della narrazione, nella sua cieca violenza di elemento naturale, ingovernabile nella propria incosciente ferocia, ma orientato verso la distruzione dall’incuria, dal tornaconto o dalla malvagità umana.

Chi narra in prima persona assiste impotente e rabbioso all’imbarbarimento della sua città, ricca di storia e priva di speranza nel futuro, “città dell’arsura e dal destino desertico” assediata dalle anime nere di spettri incendiari, piromani astuti e viziosi. Svegliandosi all’alba per l’acre odore di fumo che invade l’appartamento, immagina che a bruciare siano i cumuli di rifiuti abbandonati per strada, nauseante testimonianza di degrado urbano. Scopre invece, turbato, che a venire distrutta dalle fiamme è stata l’abitazione di una donna anziana e sola, “che non apparteneva ai pensieri del mondo”, arsa nel letto mentre dormiva, in una stanza illuminata da candele perché priva di elettricità. Avvicinandosi all’edificio affumicato, incontra un vecchio in lacrime, che gli narra la triste vicenda esistenziale della vittima, da lui conosciuta all’ospedale dove erano entrambi ricoverati per Covid. Bianca, si chiamava la donna, e il suo commosso ultimo amico Gilberto.

La seconda parte del romanzo si occupa quindi di ricostruire la vita dei due pensionati condannati all’emarginazione, all’irrilevanza sociale. Altri decessi importanti erano avvenuti in quello stesso anno: una grande poeta, una grande attrice, un grande narratore, che morendo avevano un po’ ucciso anche il mondo intorno, da cui erano amati e celebrati. Ma della morte di Bianca non si sarebbe occupato nessuno: ingiustizia patita nel corso e alla fine di tutti gli anni vissuti.

L’ottantenne Gilberto, che divideva le sue due stanze con il gatto Alberto, narrando della subdola infezione che nell’anno trascorso gli aveva tolto il respiro, descrive all’autore del romanzo il suo ricovero e le cure, quando nella città deserta e spaventata si sentivano ululare solo le sirene delle ambulanze, e le famiglie e i condomini rimanevano asserragliati nel proprio egoismo e nella paura.

Qui la narrazione di Davide Orecchio assume contorni fiabeschi, perché protagonisti diventano gli animali, il gatto di Gilberto, la gatta Lisa di Bianca, che entrambi disperati rincorrono l’ambulanza dove sono stati caricati i loro padroni, colpiti dallo stesso morbo e ricoverati nello stesso ospedale. I due gatti, fino ad allora estranei l’uno all’altro, si perdono insieme nel gelo di viali e piazze spettrali, vengono attaccati e feriti da uno stormo di gabbiani feroci, e poi salvati dall’intervento di un cane randagio che li conduce verso il nosocomio a cercare Bianca e Gilberto.

La scrittura si fa ansiosa, ritmica, smozzicata, replicante l’oralità delle frasi pronunciate balbettando, come temesse il suo stesso procedere verso una tragedia annunciata.

I gatti rivedranno i loro padroni, intubati in due letti vicini, e li saluteranno attraverso il vetro della terapia intensiva: metafora di quattro esseri innocenti che tutti insieme patiscono il male del mondo.

Il racconto di Davide Orecchio si conclude con un accenno solidale al percorso umano di Bianca, una pensionata dall’esistenza mansueta comune a tanti anziani, che “per distrazione o penuria” non pagava le bollette della luce, e aveva affidato il suo sonno a delle candele.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

COTTAFAVI

CECILIA COTTAFAVI, A QUALCUNO PIACE IL VINTAGE  – BOOKABOOK, MILANO 2021

Cecilia Cottafavi è una venticinquenne di Milano con la passione del vintage, che ha saputo trasformare questo suo interesse in un’attività lavorativa (creando un team con un proprio blog “www.maertensmilano.com”), e in un libro: A qualcuno piace il vintage, edito da Bookabook lo scorso   anno.

Dal primo approccio adolescenziale alla moda anni ’70, vissuto con un esitante desiderio di trasgressione e di non omologazione, Cecilia dopo il liceo ha sviluppato una consapevolezza ideologica che l’ha portata ad approfondire la storia del vintage anche dal punto di vista del mercato finanziario, della sostenibilità ambientale e dello sfruttamento dei lavoratori tessili nel Terzo Mondo. Se il suo libro è pensato soprattutto per un pubblico milanese, nel blog offre alcune mappe e percorsi di negozi in altre città italiane ed europee, dato che proprio nei paesi nordici è nata, si è sviluppata e diffusa capillarmente la tendenza di vendere ed acquistare l’usato.

Nel volume illustrato, la dettagliata introduzione si sofferma sulla definizione di vintage, che va riferita a capi di vestiario o a oggetti creati almeno una ventina di anni fa, mentre per second hand si considerano gli articoli acquistati e rivenduti nell’arco di poco tempo, dopo un evidente utilizzo o consumo. Viene spiegata la differenza tra charity shop, thrift store e vintage shop, dove il primo termine indica un’attività di raccolta e vendita a scopo benefico, senza fini di lucro, il secondo si riferisce a “esercizi commerciali delle occasioni/degli affari” con fascia di prezzo bassa, e il terzo al negozio che vende articoli realmente vintage. Si approfondiscono poi i significati di terminologie affini a questo tipo di attività: customizzare un capo significa apportargli delle modifiche, personalizzarlo tramite disegni, tagli, ornamenti vari; il “conto vendita” è il metodo piuttosto diffuso con cui i privati possono portare il proprio usato al negozio, ottenendo il 50% del prezzo di vendita; il vintage washing è la deprecabile pratica attraverso cui alcuni marchi fast fashion imitano i prodotti vintage servendosi di materiale più scadente; fare decluttering è la sana e consigliabile abitudine di creare spazio, eliminando ciò che non serve più attraverso donazioni, scambi, regali.

La parte che risulta più interessante agli acquirenti del vintage, è la guida vera e propria ai numerosi negozi di Milano, concentrati per lo più in tre zone (Navigli e Colonne di San Lorenzo, Brera, Centro Duomo-San Babila). Dopo aver catalogato per sesso, stile e disponibilità economica tre differenti categorie di clienti in cui rispecchiarsi per trovare il negozio più adatto al  proprio carattere  e portafoglio, si elencano non solo negozi di abbigliamento (con indirizzo, orari, telefono, mail, Instagram, genere di articoli e fasce di prezzo), ma anche rivendite, botteghe, magazzini, empori che commerciano vinili e dvd, libri, mobili, occhiali, accessori, tessuti, giocattoli, poster, strumenti musicali, e poi bar, ristoranti, gelaterie, pasticcerie dall’arredamento e dai prodotti d’antan.

Cecilia si prodiga anche in consigli per gli acquisti; misurare bene la taglia, controllare eventuali difetti o macchie, confrontare i prezzi, esaminare le etichette. Inoltre, redigendo un cospicuo indirizzario di negozi vintage online, spiega come pubblicizzare i propri prodotti, come fotografarli, spedirli e contrattare sul prezzo.

Insomma, un vero e proprio invito al riciclaggio di ciò che si possiede, ricordando il memento della giornalista britannica Lucy Siegle: “Fast fashion isn’t free. Someone, somewhere is paying”, perché non è tutto oro quello che luccica, e aldilà delle vetrine più lussuose esistono altre realtà da tenere in considerazione.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 11 dicembre 2022

 

RECENSIONI

DELLA VALLE

MASSIMO DELLA VALLE, IL TEMPO DELLA LUCE – MORELLINI, MILANO 2022

Nella collana Improvvisazioni l’editore milanese Morellini ospita testi liminari alla poesia, poco ortodossi rispetto alla produzione attuale, scritti da autori che pur dedicandosi professionalmente ad altre materie, costeggiano suggestive atmosfere letterarie.

È il caso del recente volume Il tempo della luce, dell’astrofisico Massimo Della Valle (Bari 1957), noto studioso di fenomeni quali le supernovae, i lampi gamma, le onde gravitazionali, che dalla scrittura in versi ha tratto ispirazione per alimentare i dati, di per sé piuttosto aridi, delle sue ricerche, contemporaneamente offrendo agli umanisti spunti di riflessione ricavati dall’indagine scientifica

Cosa lega la poesia alla scienza? Senz’altro la stessa ansia di conoscenza, di porre domande e cercare risposte, di guardare con stupore e curiosità oltre alla realtà visibile, tentando di vincere l’angoscia del sapersi mortale. Se Leopardi fa dire al suo pastore errante “che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?”, anche lo scienziato più scettico si pone gli stessi interrogativi sull’origine e la fine dell’esistenza. Conoscere a fondo i meccanismi che regolano biologia, chimica, fisica, neurologia e astronomia non distrugge il fascino del mistero che ci circonda, semmai ne amplifica la meraviglia: poesia e scienza intersecano i loro percorsi, arricchendosi vicendevolmente.

Massimo Della Valle affronta i concetti basilari dell’astrofisica in undici capitoli che esplorano la storia della luce, affiancando alle pagine teoriche alcuni contributi di chi ha guardato all’universo in termini fantastici, mitologici, filosofici o appunto poetici: Dante, Shakespeare, Celan, Canetti, Derrida, Levi, Pasolini, Blanchot, Proust, Keats.

Hölderlin, osservando “la fioritura del cielo”, forse non era particolarmente interessato ad analizzare lo spettro luminoso, né Dino Campana fantasticava sulla notte in termini scientifici (“Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto”): ma la loro emozione senz’altro può essere comparata a quella degli astronauti rinchiusi in una navicella spaziale lanciata in orbita intorno al nostro pianeta.

Il volume si apre scandendo la storia della luce in quattro epoche distinte. Dalle antiche intuizioni presocratiche alle più approfondite analisi di Aristotele fino all’epoca romana, si passa poi alla scienza islamica che vide negli studi sull’ottica di Alhazen il suo apice. Successivamente vengono indicati i traguardi dell’epoca moderna con le scoperte astronomiche di Copernico e Galilei e il contrasto tra Newton e Huygens sulla natura corpuscolare od ondulatoria della luce, approdando infine all’attuale fisica quantistica e allo studio dell’elettromagnetismo, che oggi si proietta verso la futura tecnologia wireless per trasportare i dati via Light Fidelity, sfruttando le onde luminose emesse da una lampadina LED, anziché le onde radio.

Della Valle spiega in modo chiaro e facilmente accessibile attributi e consistenza della luce, che dall’antichità è stata oggetto di culto per tutte le popolazioni della terra, anche nelle forme ingannevoli di credenze superstiziose, nei riti pagani, negli abbagli dell’astrologia. Ne illustra la velocità, l’energia, le particelle elementari, i colori, spingendosi a descrivere poi le eclissi, le supernovae, i buchi neri, la materia oscura, la gravità. Ci fornisce informazioni di base, che spesso dimentichiamo di possedere nel nostro bagaglio culturale, come queste: “Il Sole dista dalla Terra, in media, 150 milioni di km. Tutti sappiamo che la luce nel vuoto si propaga alla velocità di circa 300.000 km al secondo, quindi se qualcuno ci chiedesse quanto tempo impiega la luce emessa dal Sole a raggiungere la Terra, il conto è presto fatto: 150.000.000/300.000=500 secondi, corrispondenti a circa 8 minuti e 20 secondi. Se il Sole magicamente si spegnesse ora, noi lo vedremmo risplendere in cielo per altri 8 minuti e poco più. Solo successivamente arriverebbe l’oscurità”. Appena più complicato ci può apparire il testo quando si addentra nelle reazioni termonucleari, o nelle collisioni tra fotoni e protoni, ma le simpatiche metafore usate per facilitarne la comprensione, rendono la lettura ancora più stimolante.

Se ogni atomo del nostro corpo proviene da una stella che è esplosa, diceva il vero una vecchia canzone di Alan Sorrenti, definendoci “figli delle stelle”, cioè della luce. Perché, secondo Ralph Waldo Emerson “Da dentro o da dietro una luce brilla attraverso noi sulle cose e ci rende consapevoli che non siamo niente, che la luce è invece tutto.

 

© Riproduzione riservata   «Gli Stati Generali», 7 dicembre 2022