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RECENSIONI

CHAVEZ CASTILLO


SUSANA CHÀVEZ CASTILLO – PRIMA TEMPESTA. NON UNA DONNA DI MENO, NON UNA MORTA DI PIÙ – SUR, ROMA 2024

Tre sono le sezioni in cui si suddivide Prima tempesta, il libro della poeta e attivista messicana Susana Chávez Castillo, da poco pubblicato dalle edizioni romane SUR: “Io sono l’imprevisto di Juárez”, “La storia d’amore è la trappola”, “Gli alberi hanno nascosto i loro uccelli”, i cui titoli – tratti dai versi delle composizioni –, bene esemplificano l’intreccio tra privato e politico, passione amorosa e violenza subita, concretezza del reale e favolosa visionarietà che l’hanno nutrito. Davvero Susana è stata un insopportabile imprevisto, uno scandaloso inciampo per Ciudad Juárez, “la città più pericolosa del mondo” in cui è nata nel 1974 ed è stata barbaramente uccisa nel 2011, a soli trentasei anni. Luogo amato e odiato, sul confine tra Messico e Stati Uniti, epicentro del narcotraffico, teatro di femminicidi sistematici e crudeli tra le operaie assunte dalle fabbriche statunitensi delocalizzate, trucidate e sepolte in fosse comuni perché interferivano con le attività criminali e minacciavano l’occupazione della popolazione maschile locale. Ma l’omicidio di Susana, in questo posto desertico e di rude bellezza, fu certamente determinato da altre motivazioni, che riguardavano la sua attività di propaganda politica, il suo vissuto di femminista lesbica, la sua scrittura rabbiosa e indomabile. Un’uccisione programmata, messa in atto secondo un rituale che potremmo tranquillamente definire mafioso, con il corpo denudato, una mano amputata e la testa infilata in un sacco della spazzatura. “Un giorno vorranno portarmi via i sogni / come hanno fatto in passato / ma finché i miei ideali continueranno a vivere / non rinuncerò alla lotta / nel mezzo di un regime fallito”, “Non so perché Dio ci abbia annegati di povertà. / Il mio popolo ha uno stomaco povero, / ha povero il pensiero, / povera la fiducia, / povera l’anima”.

Susana aveva avuto un’infanzia difficile, per l’abbandono e il suicidio della madre alcolizzata: la lettura di poeti sudamericani, l’amore per la musica tradizionale e le leggende popolari, gli studi di psicologia avevano reso più sopportabile l’ambiente claustrofobico in cui viveva, e da cui riusciva ad evadere appigliandosi alla nativa cultura sciamanica, con gli animali totemici e gli spiriti guida, e soprattutto al richiamo potente della scrittura.

Susana scriveva ovunque, sui biglietti degli autobus, sui tovaglioli dei bar, sulla carta igienica, regalando le sue poesie e le sue riflessioni a chiunque le volesse leggere, senza riuscire mai a pubblicare nulla nel corso della sua esistenza. Ma aveva aperto un blog, Primera tormenta, il 12 maggio 2001, firmandosi SuChaCa, ancora attivo e amministrato dalla sua famiglia (www.primeratormenta.blogspot.com), affidando alla parola scritta la sua rabbia, il suo dolore febbrile, ma anche l’incontenibile gioia che le procurava il rapporto con compagne e compagni di lotta, la fede in un futuro di liberazione per il suo paese: “Tesse virtù con il filo della parola / verso il luogo dove il dolore non è tema / perpetuo / avanzando verso l’incontenibile”, “Ogni silenzio ci condurrà alla parola che ci riflette”,  “Che si uniscano alla mia lotta / se davvero vogliono vivere / in una mano la luna / nell’altra l’avvenire”, “Certe parole cercano la tua bocca / e divorano il tuo respiro / sentendole nella carne che prende vita”, “perché non ho regole per scrivere / ma scrivo per riuscire a sentire”.

Sentiva profondamente e appassionatamente, Susana: amicizia e solidarietà per le vittime del potere politico, della violenza maschilista, della corruzione. Sorellanza e cura per le donne maltrattate, abusate, disconosciute. Amore vissuto con vivace sensualità per uomini e donne, e in particolare per la sua compagna Blanca Inés Cruz Champala, a cui dobbiamo la conservazione e il riordino di tutti gli inediti. “La tequila amara / non ha ancora cancellato il tuo volto dalla mia mente, / tra la gente mi rifugio / per credere di essere felice, “Tu riempi il mio spazio, / mi invadi di gioia, / mastichi le mie ansie / e ti perdi nella notte”. Mi stupisco quando mi trasformi in un uccello, / prendendomi all’improvviso / fra i tuoi rami / e mi fai scorrere gocce di sorrisi anche se / porto un cuore di pietra. / Una pietra che al tuo respiro si sfarina”, “Vieni tu nella mia vita / mia amata ragazza, mio povero angelo, / mia migliore puttana. / Vieni, ti lascio la porta aperta”.

Capace anche di leggerezza, sfrontata ironia, grossolanità popolana: “c’è libertà nella mia anima / perché oggi pomeriggio impazzirò / e non me ne importa nulla”, “Io che alcolizzata scrivo / cose che neanche io comprendo / chiedo alla mia stupida penna / perché cazzo non capisco / che la luna è lì fuori / e io me la sto perdendo”, “Uno di questi giorni berrò il tuo sangue / e ti strapperò la pelle / per mangiarla a pezzi / con tortilla e cipolla / e i tuoi capelli, quelli, li metterò in una scatola / il resto lo darò ai cani / che hanno sempre fame”, “Chi ha detto che le donne non possono? / Quante stronze come me esistono e / ce la fanno?… Non me ne frega niente, a me nessuno mi spoglia / con la forza… Fottuta alba che ci fa alzare per i soldi”.

Conchita De Gregorio, che ha curato e tradotto le cinquantasette composizioni raccolte nel volume, nella prefazione afferma che “la poesia di Susana Chávez Castillo è un materiale incandescente: dolorosa, erotica, ironica, domestica, intrecciata al fiume di anime del mondo”, e ricordando che il suo motto “Ni una más” è diventato slogan globale, sottolinea di lei “la militanza indefessa e vitale, così sfrontatamente incurante del pericolo: niente l’avrebbe fermata, niente l’ha fermata”. Hilda Sotelo, amica ed estimatrice della poeta, tracciandone una partecipe biografia, narra della discriminazione patita da parte degli ambienti intellettuali messicani, che preferirono ignorare il suo discorso profetico, la forza della sua voce di protesta: “voce con cui espello tutto ciò che ho dentro”.

Sylvia Aguilar Zéleny, Cristina Rivera Garza Valentina Jager e Mauricio Patrón (team di Canal Press dell’Università di Houston che ha curato la prima pubblicazione di questo volume), nella postfazione scrivono: “Questo libro non è un resoconto della violenza a Ciudad Juárez ma un approccio alla vita di una città di confine – e sul confine si cresce, si impara, si combatte. I versi di Susana sono un vagare per le strade, uno sbirciare nelle case, un circondarsi di chi si ama anche quando non si è amate. In questa edizione chi legge troverà poesie sulla crescita e sull’amore, sulla corsa e sulla morte, sul vivere e sul precipitare a Ciudad Juárez. Susana scrive di essere figlia, amante, cittadina infuriata”.

Prima vittima di femminicidio che aveva avuto il coraggio di urlare: “Ni Una Más, Ni Una Asesinada Más”.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 27 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, L’ORA CHE NON HA PIÙ SORELLE – EINAUDI, TORINO 2024

Il titolo dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, L’ora che non ha più sorelle, è ripreso da un toccante verso di Paul Celan dedicato al tragico momento del distacco dalla vita. Il Professor Borgna, illustre neuropsichiatra, psicoanalista di indirizzo junghiano e saggista di fama, è stato dal 1963 direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, di cui ora è primario emerito: scrive qui non solo con evidente cognizione di causa, ma anche con l’acuta sensibilità che caratterizza ogni sua pubblicazione, del “mistero insondabile” del suicidio, soffermandosi in particolare sulla morte volontaria messa in atto dalle donne.

Borgna individua nella fragilità una delle premesse che possono portare all’atto autodistruttivo (sia pure condizionato da diverse motivazioni esteriori, o da stati depressivi e psicotici), a causa dell’esposizione al pericolo di ferite inferte “da contesti ambientali freddi e indifferenti, che destano con maggiore facilità dolorose risonanze interiori” nell’anima femminile.

Il suicidio maschile, numericamente più esteso a livello mondiale, rivela aspetti differenti, con tratti aggressivi, lucidamente pianificati, talvolta espressamente determinati da una ribellione ideologica o sociale. L’autore cita gli esempi della fine di alcuni scrittori novecenteschi (Pavese, Trakl, Benjamin, Zweig, lo stesso Celan), segnata da una disperazione e da un impeto lacerante lontano dalla rassegnata malinconia che contraddistingue la rinuncia alla vita delle donne.

Se di Virginia Woolf e di Amelia Rosselli è riconosciuta scientificamente la disposizione psicotica che le aveva portate a lunghe degenze ospedaliere e a pesanti cure mediche per tutto il corso dell’esistenza, in altre figure di scrittrici e poetesse care all’autore si delineava già dall’adolescenza una propensione al suicidio, non determinata da infermità mentali, ma dalla vulnerabilità della loro condizione ferita dalla solitudine, e dal desiderio disatteso di realtà diverse da quelle sperate, come in Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Simone Weil, Antonia Pozzi.

Forse che in Simone Weil la decisione di non nutrirsi più nell’estate del 1943, poco più che trentenne, devastata dall’angoscia per l’avanzare del nazismo, e da un senso opprimente di estraneità alla storia, non può a ragione venire considerata una precisa volontà di morte, già accarezzata nelle fantasie adolescenziali descritte nei suoi diari? E in Antonia Pozzi, poetessa amatissima da Eugenio Borgna, la malinconia leopardiana che ha accompagnato la sua breve esistenza, non ha accentuato il continuo desiderio di morire, che le sue relazioni, ogni volta franate e incomprese, hanno concorso a realizzare? I versi di Antonia tratti da composizioni adolescenziali (Largo, Novembre, La porta che si chiude, Prati, Grido) facevano già presagire la volontà di concludere la vita a ventisei anni, nel dicembre del 1938, annunciando ai genitori con una lettera agghiacciante e disperata la sua decisione (“voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto…”)

“O lasciate lasciate che io sia / una cosa di nessuno / per queste vecchie strade / in cui la sera affonda // – O lasciate lasciate ch’io mi perda / ombra nell’ombra”, “E poi – se accadrà ch’io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci / – un tenue fiato di bianco”, “io sono stanca, / stanca, logora, scossa, / come il pilastro d’un cancello angusto / al limitare d’un immenso cortile”, “Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / – essere senza ieri essere senza domani / ed acciecarsi nel nulla – / – aiuto”.

Borgna nella sua lunga attività ospedaliera si è imbattuto in pazienti che esprimevano questa stanchezza di vivere, o che avevano tentato di uccidersi: racconta commosso di alcune di loro – Margherita, Emilia, Stefania – e dell’angoscia provata nel timore di non saperle aiutare, convinto che la propria missione di “psichiatra dell’interiorità” dovesse trovare la più alta e umana realizzazione soprattutto nella disponibilità all’ascolto, a una comprensione partecipe, in grado di allontanare ogni intenzione o progetto suicidario delle degenti a lui affidate.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 24 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

NASSIB

SÉLIM NASSIB, L’AMANTE PALESTINESE– E/O, ROMA 2005

Riguardo al romanzo L’amante palestinese di Sélim Nassib, pubblicato in Italia nel 2005 da E/O, Giancarlo De Cataldo si era allora espresso in questi termini entusiastici: “Un canto disperato all’amore folle che travolge le barriere e le differenze, l’amore che, se si potesse vivere sino in fondo, cancellerebbe tutte le guerre”.

L’amore travolgente di cui narra Nassib sarebbe quello, clandestino e osteggiato da tutti, nato tra Golda Mair e Albert Pharaon, lei ebrea lui palestinese, lei militante del movimento sionista e futuro primo ministro di Israele tra il 1969 e il 1974, lui rampollo di una famiglia di banchieri libanesi e proprietario di una scuderia di cavalli da corsa. Entrambi sposati, entrambi genitori di due figli, si incontrano a Gerusalemme nel 1929 e vivono per quattro anni un’intensa relazione affettiva e sessuale, ovviamente stigmatizzata dalle reciproche comunità di appartenenza.

Storia vera, romanzata o del tutto inventata? L’autore afferma di averla conosciuta da sempre, riportata a bassa voce da alcuni suoi amici, parenti stretti di Albert Pharaon. Sélim Nassib, nato e cresciuto a Beirut, è stato inviato nei Territori occupati per conto del quotidiano francese Libération e attualmente vive a Parigi. Ha pubblicato altri quattro romanzi con E/O, di cui gli ultimi due quest’anno: La ribelle di Gaza e Il tumulto.

Il volume di cui parliamo si apre con la descrizione della vita di Golda nel Kibbutz di Merhavia, dopo il trasferimento dagli Stati Uniti con il marito Morris Myerson. Il duro lavoro per bonificare la palude circostante, la mal tollerata promiscuità dell’esistenza collettiva e la severità delle regole imposte, insieme alla claustrofobia dell’esistenza familiare, l’avevano spinta ad assumere impegni politici di rilievo all’interno del nascente partito sionista, e alla frequentazione dei suoi principali esponenti politici: Ben Gurion, Ben Zvi, Katznelson, Levi Eshkol, il fraterno amico David Remez, da cui venne aiutata a evadere verso Tel Aviv, città laica e moderna dove le fu facile trovare un lavoro gratificante, affidando i bambini Menachem e Sarah alla sorella. Parallelamente alle vicende di Golda, Nassib racconta le circostanze biografiche che avevano convinto Albert Pharaon ad allontanarsi dall’ambiente familiare di Beirut (la moglie e i figli poco amati, la futilità dei rapporti sociali nell’alta borghesia libanese, la passione per i cavalli) per trasferirsi ad Haifa, sua città natale, concedendo alla propria inquietudine frequenti valvole di sfogo in ripetuti viaggi in Europa.

Fino a questo punto, la storia narrata risponde a fatti storicamente verificabili, così come la narrazione dei violenti scontri avvenuti in quegli anni tra arabi ed ebrei, e il rancore di entrambi i popoli verso il dominio britannico. Meno assodabile è lo svolgimento e la maturazione del rapporto amoroso tra Golda e Albert, a partire dal loro primo incontro, avvenuto a Gerusalemme durante la festa in onore del compleanno del re Giorgio V, tenutasi alla Government’s House nel giugno del 1929, alla presenza delle personalità più in vista del mondo politico ed economico musulmano ed ebreo.

Golda, accompagnata dal suo amante Zalman Shazar (poeta, storico e futuro presidente di Israele dal 1963 al 1973) partecipa come traduttrice ufficiale per la folta rappresentanza britannica. Viene descritta come decisa e scontrosa, agile pur nella sua robustezza, dai capelli fitti e neri, dallo sguardo indagatorio. Albert, elegante nell’abito di fattura inglese, dai gesti fluidi e dagli occhi tenebrosi, appare come un ibrido tra oriente e occidente, “un miscuglio improbabile di belva e di uccello ferito”. Tra i due scocca, inevitabile, il colpo di fulmine. Si danno appuntamento a casa di lei per la notte successiva, in cui consumano il loro primo focoso amplesso. Faccio fatica a coniugare quest’aspetto disinibito e sensuale della giovane Golda Meir con l’immagine della rigorosa donna di potere – anziana, arcigna, corpulenta, calzante dimessi scarponcini ortopedici -, recuperata dalla memoria dei miei ultimi anni di liceo. Ma Nassib si lascia trascinare in una descrizione che assume i toni eccitati e francamente un po’ ridicoli del feuilleton popolare: “Golda cede, subito, come una diga che si rompe sotto la pressione… I corpi si urtano e si lacerano senza freni… Non hanno abbastanza denti per mordersi, abbastanza braccia per stringersi… Si affrontano con assalti ripetuti, perfino le carezze briciano”. Eccetera.

L’autore in più di un’intervista ha affermato che alla radice dell’esperienza intima del Medio Oriente, c’è “un formidabile desiderio sensuale […] quasi sempre frustrato”.  E proprio su questa sensualità del mondo arabo, non solo nella fisicità dei corpi, ma anche negli odori e colori del paesaggio naturale, torna spesso nel corso della narrazione. Che si snoda lungo i quattro anni successivi del tormentato rapporto tra i due innamorati, sempre più coinvolti nei destini incrociati dei loro popoli. Gli scontri intorno al Muro del Pianto avvenuti subito dopo il loro primo incontro li avevano visti fronteggiarsi astiosamente, e l’incomprensione era cresciuta dopo la strage di Hebron con l’uccisione di 67 ebrei, mentre il protettorato britannico continuava a comportarsi in maniera ambigua, appoggiando prima una poi l’altra delle fazioni contrarie.

«“Tu non conosci la società palestinese” mormora Albert. “È povera, per tre quarti analfabeta. Non capisce nulla di quanto le sta succedendo. Le terre vengono comprate e i contadini, trasformati in fantasmi, infestano le strade di Haifa e di altre regioni. Non sanno nemmeno più con chi lamentarsi né con chi prendersela. Per dieci anni i palestinesi si sono fidati dei propri dirigenti, senza rendersi conto che questi ultimi erano impotenti o complici. E quando l’hanno capito, alcuni sono impazziti e hanno risposto selvaggiamente alla violenza inafferrabile che subivano. È orribile. Ma voi siete in questa terra, tra questa gente. Non avete scelta. Siete obbligati a vivere con noi”.
Golda non ha sentito nulla, è cieca. Ma alle ultime parole di Albert trasalisce come per effetto di una scarica elettrica. Ha voglia di ucciderlo. Albert vede che ha voglia di ucciderlo. Lei grida: “Noi? Chi sono questi noi? Noi siamo venuti qui per non dipendere più da nessuno, capisci? Non ci sono altri all’infuori di noi!”»

Gli amori clandestini tra arabi ed ebrei non erano infrequenti in Palestina, ma quello tra Golda e Albert si rivela sempre più impossibile proprio per la crescente influenza di lei all’interno del movimento sionista, che sicuramente non poteva in alcun modo approvare il tradimento di una sua dirigente con il nemico. La rottura, prevedibile ma dolorosa per entrambi, arriva nel 1933: le loro esistenze si divaricano, tra nuove avventure sentimentali e differenti approdi ideologici. La vita di Albert sbiadisce con malinconica rassegnazione, quella di Golda si direziona verso un trionfo politico riconosciuto a livello internazionale, in una terra sempre più dilaniata dall’odio e dalla violenza.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 23 novembre 2024

 

 

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TAMMUZ

BENJAMIN TAMMUZ, IL FRUTTETO – E/O, ROMA 2014

Benjamin Tammuz (1919-1989), nato in Russia da famiglia ebrea trasferitasi nel 1924 in Palestina, laureato in legge e scienze economiche all’università di Tel Aviv e, più tardi, in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi, è stato a lungo redattore della pagina letteraria del quotidiano israeliano “Ha’aretz” e per quattro anni attaché culturale dell’ambasciata di Israele a Londra. Autore prolifico di narrativa anche per l’infanzia, ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari internazionali. In Italia sono stati pubblicati dalle edizioni E/O Il minotauro (giustamente celebrato a livello mondiale), Il re dormiva quattro volte al giorno, Londra, Requiem per Naaman, e Il frutteto, edito in patria nel 1972 e tradotto da noi nel 1995, con successive ristampe.

Quest’ultimo romanzo, accolto dalle critiche positive di Domenico Starnone ed Erri De Luca per la sua capacità di narrare decenni di convivenza e di massacri nel Medio Oriente, esibendo rispetto per vinti e vincitori alla ricerca delle ragioni di entrambi, è una parabola sulla rivalità sentimentale ed economica che può scavare baratri sanguinosi tra consanguinei, trasformando l’odio familiare in feroci contrasti ideologici.

Ovadia e Daniel sono due fratellastri, nati dallo stesso padre, facoltoso possidente terriero ebreo, vissuto tra l’Oriente arabo e la Russia, e da due madri diverse: una plebea turca, brutalmente liquidata dopo la nascita del primo figlio illegittimo, e un’aristocratica ebrea russa, condotta orgogliosamente all’altare e poi ossequiata in una lussuosa residenza insieme al secondogenito. Ovadia, da subito ostile sia al padre sia alla matrigna e al fratello minore, si allontana dalla casa paterna trasferendosi in Palestina, ostentando la sua origine araba con il nome di Abdallah, e trovando lavoro come capo giardiniere in un frutteto di proprietà della famiglia di Mehmet Effendi.

“Era un agrumeto sterminato, di aranci e limoni; c’erano persino dei cedri. In mezzo, e ai lati, erano piantate alcune file di fichi e melograni”. Fitto, intricato, invaso alla base da vegetazione secca e pungente, Ovadia si intestardisce a coltivarlo, preservandolo dall’invasione di cavallette che danneggia i possedimenti circostanti, spinto soprattutto dalla passione sensuale che lo lega alla figlia sordomuta dei proprietari, Luna.

Gli anni sono quelli della prima guerra mondiale, critici per l’esportazione dei prodotti agricoli in Europa e per la temuta invasione delle truppe inglesi in Medio Oriente. Quando, a causa dell’improvvisa malattia invalidante di Mehmet Effendi, il frutteto deve essere venduto, arriva via mare al porto di Giaffa il fratellastro Daniel, giovane ventenne “dall’espressione chiara, onesta e determinata, l’espressione di uno che non ha niente da nascondere”, divenuto ricchissimo dopo la morte di entrambi i genitori. Educato nel culto di Israele e della lingua ebraica, il sogno che lo anima è non solo quello di insediarsi nella terra dei suoi avi, ma soprattutto di trovare l’anima gemella, di cui fantastica dall’adolescenza. Avvicinato dall’agronomo-sensale (voce narrante del romanzo) cui è affidata la vendita del frutteto, accoglie con entusiasmo l’idea di acquistarlo, pronto a firmare il contratto davanti al proprietario ormai moribondo. L’incontro con Luna, apparizione incantevole nella sua misteriosa seduzione, si rivela oltremodo sconvolgente per Daniel, che subito si candida ad acquirente della piantagione e della casa, chiedendo in moglie la giovane donna. L’incontro, inaspettato e disorientante, con il fratellastro Ovadia, con cui i rapporti si erano interrotti molti anni prima, segna una cesura nella narrazione fino a questo punto solenne e pacata, e l’andamento del romanzo assume un ritmo più concitato e ansiogeno. Nelle vene di Ovadia scorre sangue arabo, in quelle di Daniel sangue ebreo: in loro due religioni e due culture millenarie si confrontano, scontrandosi fino all’annullamento reciproco. E se il pretesto è sempre esterno (il matrimonio di Daniel con Luna, la nascita di un figlio, la relazione clandestina di Ovadia con la cognata, la resa produttiva del frutteto, i continui pogrom antiebraici, lo scoppio della seconda guerra mondiale), in realtà le motivazioni profonde della loro ineliminabile inimicizia rimangono più radicate e crudeli.

 

© Riproduzione riservata         «SoloLibri», 17 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OATES

JOYCE CAROL OATES, L’INCIDENTE IN BICICLETTA – IL SAGGIATORE, MILANO 2024

Il Saggiatore ospita per la quattordicesima volta un testo di Joyce Carol Oates, L’incidente in bicicletta, racconto originariamente pubblicato sul New Yorker lo scorso anno. Riprende uno dei temi più tipici della scrittrice statunitense, molto critica nei confronti dell’ipocrisia che nella famiglia nucleare borghese americana nasconde l’oppressione e la violenza dei legami più stretti. Nella cittadina di Strykersville, dove tutti si conoscono intrattenendo rapporti di civile ma in realtà distaccata convivenza, vive la famiglia Hansen, composta da due genitori quarantenni e tre figli adolescenti: Evie, Roy e Billy.

Nella villetta a due piani l’esistenza trascorre esteriormente in modo tranquillo e tradizionale, tra il lavoro di commerciante del padre, la dedizione materna all’economia domestica, la scuola dei ragazzi. Poche e nebulose, quasi di contorno, le altre presenze amicali e parentali, fatta eccezione per un caro, maturo e invadente amico di lunga data, l’avvocato Rob Nash, tornato single dopo due divorzi, e morbosamente partecipe, anche con generosi sostegni economici, alle vicende familiari.

Il racconto si apre sui frenetici preparativi che coinvolgono gli Hansen in vista di un party in giardino progettato da settimane per festeggiare il fidanzamento di una nipote. La madre Arlette e la tredicenne Evie sono impegnate in cucina nella progettazione gastronomica: la prima isterica e timorosa di non essere all’altezza delle aspettative degli invitati, la seconda insofferente per le esigenti pretese materne.

Tutto il testo ruota intorno al tormentato e frustrante rapporto esistente tra madre e figlia, che esplode violentemente nella sua evidenza quando, a festa iniziata, arriva la notizia che la ragazza è stata ricoverata al pronto soccorso in gravi condizioni dopo un incidente in bicicletta. Frattura del cranio, gamba e piede destro maciullati, bocca devastata. La prima reazione di Arlette, al di là dello spavento e del dolore, è il disappunto per la disobbedienza filiale: “Come hai potuto sgattaiolare via senza dirmi niente?”. In seguito, nei lunghi mesi di degenza ospedaliera e durante la faticosa riabilitazione, si riavvicina affettuosamente ad Evie, grata di poter rivestire nuovamente il ruolo di premurosa accuditrice avuto quando la sua bambina era piccola. La ragazza reagisce invece alle attenzioni materne con feroce aggressività, chiudendosi in rancorosi silenzi o esplodendo in minacce e risposte scurrili, trovando sollievo solo nell’ideazione e creazione di fumetti, sempre spietatamente caustici nei confronti della cerchia dei parenti. Il disagio della giovane, totalmente incompreso o volutamente ignorato dai genitori, si accresce negli anni del liceo, portandola a sperimentare amicizie pericolose, atteggiamenti provocatori, fughe da casa e infine l’abbandono definitivo degli studi.

Oates con sapiente arguzia offre al lettore indizi per intuire quali siano le ragioni vere del rifiuto che Evie oppone alla famiglia, vittima incolpevole di un ménage deciso a non mettersi mai in discussione.  Indizi che rimangono tali e non vengono mai rivelati apertamente, nemmeno alla conclusione del racconto, quando la figlia ormai adulta torna a trovare la madre ricoverata in una casa di riposo, dopo la morte del padre, dell’amico avvocato e l’allontanamento dei fratelli, solamente per trafugarle un assegno, e punirla con uno sfregio crudele di cui Arlette, ormai avviata alla demenza senile, non si rende nemmeno conto, come è sempre avvenuto durante tutto il loro logorante rapporto.

Joyce Carol Oates è nata nello stato di New York nel 1938, e da anni è residente a Princeton, presso la cui università ha insegnato scrittura creativa dal 1977 al 2014. Ha pubblicato nell’arco di sessant’anni oltre cento libri: cinquantasette romanzi, quarantadue raccolte di racconti, una decina di drammi teatrali, sedici volumi di saggi, undici raccolte di poesie, nonché libri per bambini e alcune antologie di articoli apparsi su quotidiani e riviste, sempre riscuotendo grande successo di pubblico e vincendo numerosi premi, tra cui il National Book Award, il Pen Faulkner Award e il Prix Femina Étranger.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 15 novembre 2024

 

 

 

 

INTERVISTE

CIAPPI

Silvio Ciappi e la poesia

Silvio Ciappi, psicologo e criminologo, laureato in Giurisprudenza a Siena e poi in Psicologia a Roma, si è specializzato successivamente in criminologia clinica, psichiatria forense e psicoterapia. È docente di materie criminologiche e psicologiche in diversi atenei italiani e scuole di specializzazione e ha svolto corsi di formazione e seminari per conto del Consiglio Superiore della Magistratura, per il Ministero della Giustizia e in molte università straniere. Si è occupato di reati violenti, di psichiatria e psicopatologia forense, di psicologia clinica e giuridica, di sociologia della devianza e di tematiche legate alla prevenzione dei delitti e alla sicurezza. Ha svolto consulenze forensi per alcuni dei più importanti casi di cronaca giudiziaria italiana. Nel 2021 è stato nominato Consulente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla morte di David Rossi, manager MPS. Ha svolto missioni internazionali in America latina, Africa ed Asia in tema di prevenzione della criminalità, giustizia riparativa, politiche sociali e valutazione dei sistemi giudiziari per conto della Commissione Europea e di altre istituzioni e centri di ricerca italiani e stranieri, occupandosi di narcotraffico, terrorismo internazionale, diritti umani, politica criminale e della giustizia. È stato uno dei primi studiosi a occuparsi di giustizia riparativa in Italia con esperienze di mediazione dei conflitti anche all’estero. È noto soprattutto per l’applicazione del metodo narrativo in ambito psicopatologico e per i suoi contributi centrati sull’analisi dell’approccio narratologico e traumatologico alla spiegazione del crimine. È anche scrittore e autore di romanzi noir (Il Missionario e L’uomo dei lupi).

Tra le sue opere:

Periferie dell’impero. Poteri globali e controllo sociale, Derive&Approdi, Roma 2003 (con contributi di Zygmunt Bauman, Joseph Stiglitz, Luciano Gallino, Alex Zanotelli, Naomi Klein ed altri; Idoli della Tribù. Politiche della sicurezza e controllo sociale, Piero Manni Editore, Lecce 2004; Orrori di provincia. Serial killer, assassini e pedofili dell’Italia profonda, Mondadori, Milano 2005; Il Vuoto dietro. Esercizi di anticriminologia, Rubbettino, Catanzaro 2010; Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2011; Ritratto di una mente assassina. Trauma, attaccamento e dissociazione in un killer seriale, Franco Angeli, Milano 2015; Coca Travel. Viaggio sentimentale di un criminologo lungo le rotte dei narcos, Oltre, Genova 2016; L’uomo che non voleva morire. Storia di un pescatore di anime, Gabrielli, Verona 2017; La Mente Nomade. Metodo narrativo-relazionale e costruzione dell’identità in psicopatologia, Mimesis, Milano 2019; Manuale di Criminologia, Nel Diritto Editore, Molfetta (BA) 2021; Odio. L’altra faccia del dolore, Giunti, Firenze 2023; Predatori. Dahmer, Bilancia e altri serial killer, Giunti, Firenze 2023; Il Branco. Storie di giovani, di violenza e di noia nel mondo orizzontale, Giunti, 2025, in corso di pubblicazione).

 

·       In una formazione giuridica e psicanalitica così severa e impegnativa come la sua, che spazio ha potuto ritagliarsi l’allusività della parola poetica? A quando risale il suo interesse per la letteratura, e come viene incrementato anche oggi?

E’ stata di fondamentale importanza sia la letteratura che la poesia nel mio percorso di studi. Consideri che ho un percorso di studi universitario, purtroppo per pochi esami non fondamentali non terminato, in lettere classiche. Ritengo che la potenza della parola poetica sia fondamentale. In fondo tutta l’attività psicologica non è che una variazione tecnica sul tema della poesia. Devi trovare la parola giusta, quella che permette al paziente una visione più realistica di se stesso. Le parole creano. Guarda un po’ l’etimo. La parola poesia deriva dal verbo greco ‘poieo’ che significa ‘fare’, ‘costruire’. Si, ma in sostanza cosa si ‘costruisce’ con la poesia? Fabbrichiamo parole cariche di senso, le uniche a portarci dritte nel nostro mondo interiore e descrivercelo meglio, diamo un nome ai sentimenti e se le cose hanno un nome acquistano una identità. I versi possono essere il modo di medicare i nostri mali. Esistono anche parole che facciamo fatica a pronunciare. Scopo di una terapia è farle venire fuori anche se spesso hanno un costo improponibile. Oggi più che mai c’è bisogno di parole e l’insegnamento della letteratura e della poesia può essere d’aiuto per le giovani generazioni. Aiutarle a credere che il mondo che li circonda oppure quello che hanno dentro possa essere descritto e che c’è stata gente che riesce a farlo, i poeti, i cantanti, gli scrittori, e che se vogliamo possiamo farlo anche noi. Anche i social potrebbero essere d’aiuto in questo. Non basta sapere come quando e cosa ha fatto Leopardi, quando piuttosto comprendere cosa si agitasse nella testa di quel ventenne quando si immaginava quell’infinito, il suo, il nostro, in cui perdersi.

·       In un volume del 2011, Anime nude, si è occupato di interpretare dieci poeti novecenteschi. Chi di questi ha avuto un riverbero maggiore in lei, culturalmente e sentimentalmente?

Indubbiamente Anna Achmatova e la grande poesia russa hanno avuto una grande influenza su di me. Nel libro mi sono immaginato quell’incontro unico tra la grande poetessa russa e Amedeo Modigliani, quel loro amore, benché lei fosse lì in viaggio di nozze e lui uno spiantato pittore italiano alla ricerca di fortuna. Mi sono immaginato quell’amore che era fin dall’inizio un amore impossibile, ma si sa solo gli amori possibili sono quelli che restano. Parlo dell’amore perché è il corrispettivo dell’odio, l’altra faccia nella quale possiamo relazionarci con l’altro. E il tema della relazione è fondamentale. Abbiamo bisogno di un altro che ci riconosca, solo tramite il riconoscimento dell’altro riusciamo a sviluppare una identità: tu mi guardi, tu mi parli, io mi riconosco. Siamo al tempo stesso attori e spettatori della vicenda umana.

 

·       Nella sua vastissima esperienza di scandaglio della psiche e dell’animo umano, ritiene che la poesia possa rivestire un ruolo non solo di scavo e consapevolezza interiore, ma anche di recupero di sensazioni positive rimosse, riparatrici del dolore, ancoraggio esistenziale?

La poesia è un potente antidolorifico, se mi permette la battuta. Lenisce il dolore nel momento in cui riesce a dare voce al borbottio interiore. Come ha scritto un autore che a me piace molto, siamo dieci per cento biologia e novanta mormorio notturno. E in quel mormorio notturno ci stanno immagini, sensazioni, parole. Prendi il dolore. Il dolore per essere in qualche modo contenuto deve essere narrato. Il dolore che non può essere narrato diviene annullamento, frammentazione, svuotamento interiore e rischia di diventare solo una perdita senza sofferenza, che può essere colmata anche attraverso la vendetta, la rabbia, lo scontro rivolto contro se stessi o contro l’altro. Il dolore è più sopportabile se invece lo inseriamo all’interno di una storia. Ma al tempo stesso non possiamo vedere la nostra storia, le orme che abbiamo lasciato sui sentieri, abbiamo bisogno di un’altra prospettiva e in questo può essere d’aiuto lo psicologo-narratore: noi siamo anche il racconto che altre persone fanno di noi. Un po’ come Edipo, come Ulisse, sono gli altri a raccontarci chi siamo. Accade anche che le parole del dolore a volte siano impronunciabili. La parola poetica ci permette questo. E’ uno sguardo obliquo sul mondo. Come diceva un grande filologo russo, Viktor Sklovskij, ci permette di ‘spacchettare’ il mondo e di dargli un senso diverso, inusuale. Mi verrebbe da dire: ‘hai mai pensato tu lettore a cosa accadrebbe se iniziassi a vedere il mondo, le persone che ti circondano secondo un altro angolo visuale? Provaci’. Le parole servono anche a ricucire, sono le parole-riparatrici che ci permettono una riscrittura interiore e che ci aiutano a saper stare al mondo nel disordine del vivere, affinché la vita non sia montalianamente che solo uno scialo di triti fatti.

            

·       Avendo frequentato carceri minorili e penitenziari, ha avuto occasione di rilevare se i reclusi abbiano confidenza con la poesia, come lettori o addirittura come produttori di versi, più o meno estemporanei?

Sì, a volte accade. Paradossalmente il tempo lento della reclusione fa sì che ci si possa addentrare, fuori dal tumulto della quotidianità, a fare i conti con se stessi. Siamo spesso troppo impegnati in letture ‘alte’ di noi quando invece sarebbe meglio conoscere l’inesauribile superficie delle cose prima di spingersi a cercare ciò che sta sotto. I luoghi della segregazione possono paradossalmente permetterci di fissare lo sguardo verso piccoli particolari, dettagli dell’esistenza, impressioni sensoriali che in altre circostanze ignoriamo. Il mestiere di vivere diviene un viaggio attraverso le piccole cose del nostro mondo, un viaggio nomade alla ricerca di quelle sillabe nascoste che ci hanno rappresentato e che ci invitano a vivere. La poesia è un dar voce alle nostre esperienze sensoriali, è cammino interiore che può riparare il nostro cielo di sentimenti.

 

·       La visione romantica del poeta come déraciné, asociale, dissidente, risponde a realtà, in questi nostri tempi di premi salottieri, festival, competizioni ed esposizioni mediatiche? La poesia rimane voce indocile, estranea e indifferente alle lusinghe del potere?

Deve a mio modo di vedere starsene lontana dalle sirene del potere la poesia, ma anche le scienze dell’anima. La poesia è un modo umile di approcciare il mondo. Intendo dire non si prefigge una costruzione moralistica, non ha da insegnare o mostrare niente se non invitarci a raccontarci, a prenderci dieci minuti ogni dieci giorni, ma quei dieci minuti ci vogliono, nei quali facciamo i conti con noi stessi. Certo ci vorrebbe un altro che ci aiutasse a recuperare questo momento di quiete, di abbandono del quotidiano, che ci possa far recuperare un certo senso di tranquillità, ma se non c’è l’Altro può divenire una immagine di noi interiorizzata, l’Altro-poetico con il quale dialogare. Le parole-simbolo della poesia possono guidarci in questo movimento interiore, sono parole-stimolo che possono aiutarci a vederci in una duplice funzione: quella del vedere e dell’essere visto, quella del parlare e dell’ascoltare, del chiedere e del dare. Siamo un colloquio, un mormorio, con l’Altro che ci abita a metà strada tra l’essere e l’apparire. Tutto questo non ha niente a che fare con l’esibizionistica e moralistica voglia di apparire. Nel mondo della società-spettacolo come ha ben evidenziato Richard Sennett nel suo ultimo libro, anche la cultura e la poesia rischiano di spettacolizzarsi. Le discipline che frequento di più, la psicologia e la criminologia, lo stanno già facendo da tempo e i risultati sono noti a tutti: volgarizzazione dei contenuti, scienze ridotte a mere istruzioni per l’uso, riduzione della complessità per un linguaggio social o televisivo che sia diretto, efficace in modo che possa essere divulgabile e masticabile da una socialità ridotta spesso a branco, fisico o digitale che sia.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 8 novembre 2024

 

RECENSIONI

APRILE

GUGLIELMO APRILE, APPUNTI EOLIANI – FARA, RIMINI 2024

Scandita in sette sezioni, la raccolta Appunti eoliani di Guglielmo Aprile (Napoli 1978) si offre al lettore in una scabra e severa verità, assunta dalla durezza dell’argomento affrontato, e dalla sua originale consistenza. Quanto di più duro e durevole, infatti, della roccia? Della sua costante stabilità, e persistente indifferenza? Al mondo minerale sono dedicati i versi del poeta, che a esso si adeguano

in ponderata classicità, scalpellati in un lessico privo di stratagemmi o virtuosismi sperimentali, e in una metrica sostanzialmente tradizionale che però affida alla spietatezza dei continui enjambements il suo ritmo accanito.

Guglielmo Aprile si confronta con l’immutabilità dei sassi, degli scogli, con l’eternità di cielo e mare nel paesaggio solenne ed essenziale delle isole Eolie, e ne assimila l’austera segretezza. Delle rocce intuisce vibrazioni nascoste, vita palpabile che le rende simili alle creature animate, e in primo luogo a se stesso, al suo corpo “che si fa alga o pomice”, alla sua memoria, al suo interrogarsi sul destino umano e non umano: “io levo con lo sguardo un muto appello / e ad uno ad uno i vostri volti interrogo: / chi siete e chi sono io, qual è l’essenza / del vento, della pioggia, come nacquero / le lune, le montagne, i boschi; e a tratti / ho l’illusione che nei blocchi inerti / quasi un sussulto, un fremito si agiti / e che, dentro la pietra, delle bocche / si disegnino, a poco a poco: bocche / che stiano per parlarmi, che potrebbero / sciogliere un qualche oracolo, concedere / solo a me una risposta, rinnegando / il silenzio, il divieto che le tiene / da millenni nel sonno imprigionate”.

La personalizzazione del mondo minerale inizia già dal titolo della prima sezione, “Ha un’anima la pietra”, in cui sassi rocce scogli vengono osservati con stupefatta tensione, riconoscendo nelle loro grinze, negli squarci, negli ammassi i lineamenti di facce familiari: bocche si animano, occhi si spalancano con l’intenzione di comunicare qualcosa di essenziale, un segreto o forse un’ammonizione, l’avvertimento di un pericolo che sovrasta l’inconsapevole regno animale, l’innocente regno vegetale. Le pietre hanno anime e volti, “volti” citati ben diciassette volte nella raccolta, “sfigurati… esangui, stremati”, nati dal moto ondoso e subito costretti in forme immobili, “convertiti / in capricciose sculture che ostentano / fiere posture michelangiolesche”, “statue di calcare…immobili erme mute”. Rocce nate dal movimento del mare, affiorate da vortici di sabbia, che dai loro profili scolpiti in millenni di vento, pioggia, salsedine, fanno emergere sagome di titani, musi equini, erinni scomposte, opliti precipitati da alte rupi, danzatrici sacre, forzati rinchiusi nelle stive di una galea che sta per affondare. Migliaia di corpi vivi in un passato lontano sono rimasti bloccati in pose immutabili per chissà quale ingiusta sentenza, diventando fossili, pareti o dirupi incapaci di urlare la loro rabbia, la loro sofferenza: “Macigni condannati – è in voi che tutto / il dolore del mondo si è rappreso:/ nei vostri volti di tufo si è fatto / universale archetipo e ci parla”.  L’idea di una crudele violazione patita dai minerali inerti, viene ribadita in maniera ossessiva in moltissime poesie ad amplificarne la valenza emotiva, con il rischio tuttavia di renderla meno drammatica e pregnante, pur nella sua innegabile seduzione.

La terminologia a cui ricorre Aprile nella descrizione dell’arcipelago eoliano è consapevolmente puntuale (falesia calanchi frane calcare tufo magma granito basalto silice pomice megaliti obelischi bastioni) anche quando si apre a scenari meno materiali e concreti, più legati alla meteorologia, alla cosmologia e alla paesaggistica, o si infiamma in visioni mitologiche e leggendarie, in ricostruzioni storiche. Il poeta si fa archeologo, cartografo, esploratore e insieme veggente, illusionista. Affascinato dalle architetture naturali degli scogli, vede in esse draghi ed eserciti, asceti e divinità zoomorfe, re barbari e vestali, testimoni di un passato irrecuperabile, da cui sono stati strappati con cieca e ingiusta violenza. In attesa di venire di nuovo distrutte da qualche rovinosa forza naturale (un’eruzione, un diluvio o un sisma che le ridurrà a polvere, sprofondandole nel mare), le pietre appaiono fisse in espressioni corrucciate o furenti, desiderose di riscatto e di vendetta. Chi le osserva, scheggiate e percosse da marosi e turbini di vento, le paragona a mostruose figure di vegliardi sofferenti: “Sono mani di vecchi, certi scogli: / butterate da lividi e da nodi, / serrate a pugno, in atto di colpire, / rattrappite in posture innaturali / dall’artrosi, ustionate dalla lava / o corrose da un acido; monconi / deformati, dalle falangi rigide / come tese in un urlo o in uno spasmo, / dalle nocche che sporgono, rigonfie, / dalle palme spellate”.

Nelle sue estati siciliane, Guglielmo Aprile raggiunge le isole perlustrando in solitudine, lontano dal chiassoso consesso dei mortali, spiagge e anfratti (“vado in cerca / di luoghi ignorati dall’uomo, vergini:/ a piedi o a nuoto, a rischio di smarrirmi”, “cerco un angolo in cui sparire al mondo”, “Quasi un’ebbrezza, immergermi in queste acque: / non mi importa più di tornare a riva, / non ho più nessun vincolo con gli uomini”), in una segreta fratellanza con gli elementi naturali. Attratto dalla natura selvaggia e misteriosa di Stromboli e Vulcano, avverte nel frequentarle un silenzioso ammonimento a non offendere la loro scontrosa riservatezza, superando la soglia minacciosa di una potenza infera che potrebbe risucchiarlo e trasformarlo in materia sconosciuta.

L’animismo di cui il poeta riveste i minerali, i vegetali, il paesaggio terrestre e cosmico, rimanda filosoficamente alla teoria delle corrispondenze universali, “in cui credevano Swedenborg e gli alchimisti rinascimentali”, secondo quanto da lui stesso dichiarato. “Hanno, al pari degli uomini, pensieri / anche la pietra e il vento, anche l’olivo / e la ginestra, ha ogni cosa un’anima / e la esprime in un codice segreto”.

Al regno minerale che nasconde nel profondo un cuore pulsante, nel testo finale esprime un ringraziamento e una preghiera, insieme al vivo sentimento di sacralità e meraviglia per il gratuito regalo della benevolenza divina: “Pietre guerriere, insegnatemi voi / a resistere ai venti e al loro oltraggio, / voi più longeve del mio breve sangue; / e che mi sia il vostro orgoglio da esempio, / infondete anche in me un po’ del coraggio / con cui sf idano i vostri corpi il tempo”.

Rispetto alla nostra produzione poetica attuale, così spesso angusta nelle sue narcisistiche e tormentanti ambasce, e nelle tanto applaudite pubblicazioni in cui un ecologismo di maniera si risolve in filastrocche cantilenanti, il libro di Guglielmo Aprile indica un percorso originale di pensiero e illuminazione, proponendo una visionarietà immaginosa, intensa, sapiente.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 4 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARTINI

GIULIA MARTINI, TRESOR – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2024

Il volume di versi Tresor di Giulia Martini (Pistoia 1993) si suddivide in quattro capitoli (Tabù, Corrente calmo, Corsa sul posto, Tresor), ed è aperto da un’estesa, approfondita, coltissima introduzione di Giulia Depoli, che rischia di mettere in imbarazzo qualsiasi volonteroso recensore, costretto per forza di cose ad attingere non solo alla dovizia di informazioni fornite sul testo, ma soprattutto all’appassionato e sapiente scavo interpretativo della prefatrice.

Seconda prova della poeta, dopo Coppie minime del 2018 (edito sempre da Interno Poesia), in cui già lavorava su concetti linguistici quali i fonemi, in questo volume è di nuovo il linguaggio il terreno operativo prediletto, attraverso l’utilizzo frenetico ed esasperato di citazioni, varianti lessicali, allotropie, distorsioni sintattiche, rimaneggiamenti diacronici, e soprattutto di prelievi da materiali letterari precedenti.

Il titolo stesso, Tresor, (con le varianti Tesoro, Tresoro, Teisoiro, e con l’anagramma Resort) è un evidente richiamo all’enciclopedia in volgare di Brunetto Latini, ampiamente saccheggiata nei testi medievali e nei loro commenti critici, documentanti il passaggio dal latino all’italiano – iscrizioni murali e funerarie, documenti notarili, atti di vendita, bilanci contabili. Altrettanto sfruttato è l’apporto della Divina Commedia, soprattutto a partire dal Canto XV dell’Inferno, i cui rimandi lessicali sono disseminati in tutto il volume, insieme a echi e recuperi di tutta la grande tradizione della nostra letteratura otto-novecentesca.

“Un libro fatto con le parole degli altri”, secondo la calzante enunciazione della prefatrice, nel quale emerge però – oltre all’assidua ricerca formale – una altrettanto fondamentale ricerca interiore, tramite l’imperiosa volontà di definizione dell’io, come si rileva già dai primi versi della sezione iniziale Tabù: “Io sono quella che bene non aio”, “Et eu so kosì davanti a vui”.

Il rapporto io/altro da me (io/natura, io/istituzioni, io/amanti, io/famiglia, io/luoghi) viene mimetizzato, calmierato e quasi neutralizzato attraverso lo schermo (giocoso a volte, più spesso violentemente polemico) dello sperimentalismo linguistico. Tuttavia affiora sempre, soprattutto laddove si intuisce una ferita che la poeta non ha potuto o voluto rimarginare. Con le varie città abitate, con il patrimonio familiare, con la legge, con l’amore, con il cibo, con la madre. Madre che non è unicamente quella che l’ha partorita, ma anche un’altra che l’ha adottata e amata, e una terza che l’ha nutrita: forse proprio la lingua, obbligandola a un’alimentazione imposta e canonica, maldeglutita, rifiutata: “La fame è un gesto naturale. E intanto / adocchiata da tutta la famiglia / finisci il piatto li riguardi e pensi / dove nascono la lingua e la madre”; “Mi chiami e la madre diventa un problema / che devo risolvere io, durante i pasti / i fieri pasti, gli splendenti pasti, / che non mi lasci di mangiarli in pace. // Mi dici che la madre ha l’oro in bocca, / ma che non parla mai, non le si vede”; “Ma vada terra una alla madre mia carnale. / Una alla nostra comune madre. / Un’altra a quell’altra madre mia”; “Seduta al buio, in cucina, la santa / la madre si riversa in fiumi d’oro”.

Nella sezione centrale del libro, Corrente calmo, l’io si camuffa nelle vesti di un notaio, che utilizzando termini tecnici traslati da antichi documenti del volgare italiano, assume il ruolo legiferante e oppressivo di chi imbroglia e raggira utilizzando la copertura dell’ufficialità legale, coprendo abusi di usurai,  ecclesiastici e potentati vari: “Questo vaso sono io dicente / e più che dicente, contraddicente”, “Devi soltanto donare tutti i tuoi beni all’abbazia, cedere fino all’ultima sostanza, sapendo bene che non riceverai niente in cambio”. Le inserzioni prosastiche, spesso conclusive di singole composizioni, e rivolte a un lettore generalizzato e comune, rivestono la funzione – come nel caso qui riportato – di conferire autorità al testo, sottolineando in modo perentorio qualcosa di non contestabile.

Tresor è anche un canzoniere amoroso, e la relazione con la donna amata, intessuta di conflitti, passione erotica, dissidi economici, dedizione affettiva, attraversa l’intera raccolta: “Com’era bello quando rimanevi / e non sapevo più dove mi fossero / gli occhi, per guardarti. E le mani”. Fino alla sezione conclusiva che dà il titolo al volume, ed è un esplicito invito a lasciarsi coinvolgere nel rapporto con chi si ama, in un legame capace di oltrepassare l’individualità: “Datemi tutto, senza niente in cambio, / non perché lo chiedo, per entusiasmo”.  Attraverso l’altro/altra Giulia Martini recupera la totalità dell’io, in un augurio programmatico coinvolgente il futuro: “Non puoi fallire, se segui la tua stella, / mancare l’appuntamento con te stessa”.

L’intera operazione messa in atto da Tresor, nella sua sovrabbondanza di segni e significati, ha la finalità di stimolare in chi legge un attivo interesse verso la comunicazione letteraria così come si è stratificata nei secoli, in un coinvolgimento nuovo, non scontato, con i testi e le loro sovrastrutture-sottostrutture.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese» n. XI, novembre 2024

 

RECENSIONI

CIAPPI

SILVIO CIAPPI, ODIO. L’ALTRA FACCIA DEL DOLORE – GIUNTI, FIRENZE 2023

Silvio Ciappi (Siena 1965) è uno dei più noti e stimati criminologi e psicoanalisti italiani. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, che spaziano dai manuali giuridici al romanzo noir, dal saggio spirituale all’inchiesta sociologica fino alla cronaca giudiziaria.

Il suo ultimo volume, Odio (tra qualche mese uscirà sempre da Giunti un reportage sulla delinquenza giovanile metropolitana) indaga le matrici psicologiche dell’odio mediante l’esposizione, in chiave narrativa, di casi clinici e forensi attinti dall’esperienza umana e professionale vissuta per decenni a stretto contatto con chi delinque.

“L’etimologia della parola ‘odio’ si può ricondurre a una radice indoeuropea che significa ‘colpire, ferire, espellere, spingere, respingere’, in cui ricorre il senso del rifiuto, della repulsione e della ferita. Un’altra ipotesi plausibile, invece, sembra ricondurre la parola ‘odio’ al verbo ‘mangiare’, per cui l’odio sarebbe da intendersi come un rodimento intimo. Entrambe le interpretazioni etimologiche mettono in luce l’estrema negatività di questo sentimento, nel primo caso evidenziandone la forza distruttiva verso l’esterno mentre, nel secondo caso, quella autodistruttiva”.

Si odiano gli altri come si odia sé stessi, afferma Ciappi, che nel libro parla della crudeltà associata al piacere di fare del male, e di come la violenza sia il frutto di un condizionamento originario, oltreché di circostanze esistenziali che si sommano e si accumulano sulla ferita primigenia. I sentimenti più feroci (rabbia, rancore, sete di vendetta, disprezzo) sono per lo più “un disperato tentativo di non contattare il proprio dolore, sono il volto dimenticato del dolore” nato da diverse motivazioni (l’abbandono, il tradimento, la colpa, lo svilimento, l’umiliazione), che spetta allo psicologo sviscerare, con uno scavo quasi archeologico nel passato, e al criminologo analizzare scientificamente.

Consapevole che nessuna persona può considerarsi immune dal gesto violento, e che non tutti gli assassini sono malvagi di animo (così come non tutti i malvagi diventano assassini), Silvio Ciappi è altrettanto convinto che ciascuno si possa sempre salvare, uscendo da situazioni che appaiono senza scampo. Questo ha appreso dai suoi approfonditi studi di giurisprudenza, psicologia e letteratura, ma anche della propria vicenda personale, a partire dalle inquietudini e ribellioni adolescenziali fino al lavoro quotidiano nei penitenziari del nostro paese, e nelle consulenze internazionali sul narcotraffico, il terrorismo, la mafia. Compito dello psicanalista è quello di “mettere insieme compassione e morale, condanna e comprensione, autore e vittima” per cercare di capire cosa, nella vita di chi si rende colpevole di gravi reati, non ha funzionato, inducendolo a compiere gesti gravidi di conseguenze umane e legali.

Chiamato a supervisioni cliniche presso carceri minorili o comunità di recupero, Ciappi per prima cosa cerca di sintonizzarsi sul piano emozionale con le ferite dei minori, spesso aggressivi nei confronti di compagni ed educatori. Il disagio giovanile, che si può esprimere in molti modi (disturbi dell’alimentazione, ansia da prestazione, azioni pantoclastiche o antisociali) indica un profondo senso di smarrimento originato da storie di vita inenarrabili, da perdita degli affetti, da trascuratezza familiare, sociale e ambientale in contesti degradati e di marginalità, e acuito dal confronto con modelli disfunzionali, dal mito del successo facile e del guadagno repentino. Silvio Ciappi racconta con empatia e commozione – sempre indignandosi, sempre interrogandosi (“Cosa avrei fatto io al loro posto?”) – vicende terribili di giovani immigrate costrette a prostituirsi, ladri, violentatori, psicopatici sessuali, talvolta circuiti da carabinieri corrotti e preti truffatori: un caleidoscopio di esistenze a colori truci, che sputano collera e risentimento, terrore e voglia di vendetta, e solo raramente ansia di redenzione o desiderio di tenerezza.

Nel volume si sofferma a lungo sull’esperienza vissuta accanto al serial killer Donato Bilancia, che nel 1997 in pochi mesi aveva ucciso in maniera efferata diciassette persone. La vita dell’assassino viene minuziosamente ripercorsa dalle origini, durante lunghe conversazioni nella prigione di Padova, nel tentativo di spiegare le motivazioni dei suoi gesti omicidi. Cosa l’aveva portato ad agire in maniera tanto crudele, e a quello che lui stesso definiva “il salto nel vuoto” del crimine? Il puro godimento sadico e afinalistico di uccidere, per cui sceglieva a caso le sue vittime, vendicando così la sua infanzia lacerata da genitori dispotici e maneschi, o forse il dolore per un fratello suicidatosi con il nipotino sotto un treno? Secondo Melanie Klein il disamore patito nei primissimi mesi di vita nel rapporto con la madre o altre figure di accudimento, insegue e segna alcuni individui per tutta la vita, inducendoli a reazioni esasperate nei confronti di coloro da cui si sentono rifiutati. Le sensazioni pericolose, angoscianti e cattive vissute da bambini ritornano nella genesi dell’odio, ed esplodono innescate a volte da futili e imprevedibili motivi. “In psicoanalisi l’atto di uccidere può essere considerato l’atto finale di un livello di aggressività che l’uomo si porta dentro. L’essere umano difficilmente tollera l’idea di non essere stato sufficientemente amato, per cui la mente mette in azione due meccanismi per allontanare il dolore, la scissione e la proiezione, attraverso i quali, ci dice Freud, sputare fuori (Ausstoßung) nel mondo esterno il male, sentendolo come estraneo e nemico”.

Oggi il delitto di sangue ha perso le connotazioni leggendarie del passato, e sembra piuttosto evidenziare le debolezze, le vorticose incapacità di relazionarsi con gli altri di chi lo compie: “Si uccide per un bacio non dato, per un cane che abbaia, per vigliaccheria”, esibendo reazioni smodate e incontrollate a situazioni di quotidiana normalità. Freud scriveva che “discendiamo da una serie lunghissima di generazioni di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere”.

Tra i sentimenti analizzati dall’autore come scatenanti odio, un ruolo di primo piano riveste l’invidia – nella coppia, parentale, comunitaria, sociale –, che ha come obiettivo di sminuire l’altro, cancellandone la malintesa superiorità con voracità distruttiva, al fine di riconquistare un primato messo in discussione dalla presenza dell’avversario (ad-versum, che sta di fronte). Altro impulso che spinge ad annullare le differenze è il conformismo, sfruttato politicamente da ogni potere antidemocratico quando invita all’obbedienza cieca in nome di imperativi categorici superiori, o quello espresso attraverso il branco, inteso come estensione dell’io, che raggiunge picchi di feroce frenesia.

Le fantasie ossessive e i comportamenti devianti analizzati da Ciappi nel suo lavoro di psicanalista riguardano persone di età, cultura e provenienza sociale differente: si tratta di feticisti, seduttori, traditori, pedofili, masochisti, necrofili, sadici, pornografi, autolesionisti, ricattatori, narcisisti, isterici, che presentano sintomi di assenza o eccesso di emotività, e chiedono di essere in primo luogo ascoltati e poi aiutati a superare i loro traumi, per venire accettati da se stessi e dalla società che li ospita, dove tutto (lavoro, casa, famiglia, emozioni) viene regolato e tenuto sotto controllo secondo parametri funzionali al mantenimento dello status quo.

Silvio Ciappi racconta con sincerità e modestia anche le proprie ferite, gli inciampi professionali, le difficoltà familiari, i problemi di salute, ma afferma di sentirsi comunque soddisfatto e realizzato quando nel suo delicato e difficile lavoro quotidiano riesce a “evitare il male con piccole dosi di bene praticabile”. Cosa che dovremmo fare tutti, mettendo in discussione noi stessi, le nostre fragilità, sapendo che la tentazione di odiare è presente in chiunque abbia sofferto. Tuttavia dalla sofferenza non nascono solamente sentimenti negativi, poiché attraversando il dolore possono manifestarsi occasioni e doti socialmente fruttuose e individualmente gratificanti: creatività, amore per la bellezza, voglia di riscatto, altruismo.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

IOVINO

SERENELLA IOVINO, GLI ANIMALI DI CALVINO, STORIE DALL’ANTROPOCENE TRECCANI, TORINO 202

Serenella Iovino (Torre Annunziata, 1971), saggista e studiosa di cultura ecologica, è professore ordinario alla University of North Carolina. I suoi libri Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2004) ed Ecologia letteraria (Ed. Ambiente, 2006), più volte ristampati, hanno contribuito alla diffusione delle scienze umane ambientali in Italia. Con Ecocriticism and Italy: Ecology, Resistance, and Liberation (Bloomsbury, 2016), ha vinto il Book Prize dell’American Association for Italian Studies. Collabora a La Repubblica. Lo scorso anno ha pubblicato con le edizioni Treccani Gli animali di Calvino (uscito in inglese già nel 2021), un saggio che prende in esame il bestiario di cui Italo Calvino ha popolato i suoi romanzi, in particolare soffermandosi su cinque esemplari che, indagati nelle loro peculiarità, raccontano di sé e del problematico rapporto intrattenuto con la specie umana: formiche, gatti, un coniglio, una gallina, un gorilla.

In realtà, tutti i romanzi di Calvino sono popolati da animali, dai primi due (Il sentiero dei nidi di ragno,1947, e Ultimo viene il corvo, 1949) a Marcovaldo fino a Palomar, con un’attenzione che è interesse cognitivo ed emotivo all’ universo senziente e non parlante, vittima dell’incuria e dell’egoismo di noi bipedi. Già ventitreenne, in un articolo sull’Unità, scriveva: “Noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano”.

Serenella Iovino intreccia la sua voce a quella dello scrittore ligure con l’intenzione di far parlare i cinque protagonisti presi ad esempio, spostando il focus dal modo in cui noi li vediamo al modo in cui loro vivono, e insieme fornendo al lettore una ricca documentazione biologica, storica, ecologica delle loro caratteristiche, origini e diffusione nell’ambiente che occupiamo come fosse nostro dominio esclusivo. Donne e uomini dell’Antropocene, ci riconosciamo scissi tra un delirio di onnipotenza che vorrebbe asservire l’intero pianeta ai nostri bisogni, spesso indotti e superflui, e il consapevole e giustificato senso di colpa per come le nostre scriteriate attività hanno provocato dannosi e duraturi effetti sul clima, sui cicli biologici, chimico-fisici e geologici delle terre e dei mari, causando il collasso di molti ecosistemi.

Primo romanzo breve di Calvino a venire preso in considerazione dall’autrice è La formica argentina, del 1952, ambientato nella Riviera ligure di Ponente, dove una giovane coppia di operai, appena trasferitasi in cerca di una vita più salubre, trova inaspettatamente la casa invasa da una colonia di formiche resistenti a qualsiasi insetticida e a ogni severo decreto legge che ne imponga l’eliminazione. Calvino aveva definito questo racconto come il suo più realistico, e forse anche il più autobiografico, perché in effetti la Liguria tra gli anni 20 e 30 del secolo scorso era stata sommersa dall’occupazione degli artropodi sudamericani, che non aveva risparmiato neppure la sua casa di famiglia a Sanremo, insinuando nello scrittore il sospetto che proprio il padre, noto coltivatore e studioso botanico, potesse essere stato l’inconsapevole artefice dell’importazione di questi temibili clandestini, avendo trasferito nella regione esemplari di piante esotiche da Cuba, dove si era fermato a lavorare per alcuni anni e dove lo stesso Italo era nato. La Linepithema humile, nota per essere una delle cento specie aliene invasive più temibili al mondo, originaria della regione del Paraná, nell’arco di un secolo aveva fatto il giro dei continenti, modificandone il suolo attraverso l’azione di immense colonie coese tra loro da una particolare “eusocialità”, ovvero capacità di sviluppare un elevato grado di organizzazione comunitaria. L’espansione delle formiche sul nostro pianeta è cominciata oltre cento milioni di anni fa: la loro origine precede addirittura quella delle piante. Essendo insetti immuni all’azione dei pesticidi e capaci di adattarsi a veleni sempre più letali, hanno agito estesamente e in profondità sugli ecosistemi e lungo tutti gli anelli della catena biologica, al punto che viene da chiedersi chi siano stati i veri “invasori biologici” sulla terra, se gli insetti eusociali o gli esseri umani.

Marcovaldo (1963) è forse il libro più letto nelle nostre scuole, ma sarebbe errato considerarlo un libro “facile”, perché in realtà deve essere interpretato e discusso come una grande metafora dell’estromissione sociale. Il protagonista fa il manovale in una fabbrica di una livida città industriale del nord, e non rassegnato allo squallore urbano va alla ricerca di angoli di poesia nascosti nel grigiore, con la speranza di scoprire qua e là pezzi di natura incontaminata, mentre si imbatte in un paesaggio desolatamente sporco, inquinato, crudele con gli uomini e gli animali. Iovino si interessa a un capitolo specifico di questo volume, Il giardino dei gatti ostinati, in cui una colonia di gatti inselvatichiti, “affamati di cibo e di spazio”, competono con gli umani per accaparrarsi elementari metodi di sopravvivenza. Nessuna alleanza è possibile tra loro e il mondo civilizzato, come non lo è per Marcovaldo: felini e protagonista risultano entrambi emarginati, esclusi, resi sospetti dalla loro inaffidabilità. Per secoli questa diffidenza ha accompagnato il destino dei gatti, ci spiega l’autrice, comparsi circa diecimila anni fa in Medioriente e subito utilizzati nei villaggi neolitici per la caccia ai roditori. Questo legame basato sulla vicinanza e sull’opportunismo reciproco ha favorito il processo di domesticazione dei gatti, che tuttavia continuano a mantenere un certo grado di indipendenza dal mondo degli umani. Nonostante oggi si siano conquistati il ruolo affettivo di animali da compagnia, la loro proliferazione in colonie nocive li rende tuttora oggetto di tecniche di rimozione progressiva (abbandono, castrazione, uccisione). Calvino consegna alla nostra riflessione una domanda sull’ecologia politica delle città moderne, che non lasciano spazio né alla natura né alla biodiversità sociale.

Se nei primi due capitoli formiche e gatti venivano presentati collettivamente, nelle successive tre sezioni vengono introdotti nella loro singolarità un coniglio da laboratorio ospedaliero, una gallina in un’officina meccanica e un gorilla albino nel giardino zoologico di Barcellona, in tre luoghi assurti a simbolo di oppressione e strutture di dominio (il laboratorio, lo zoo e la fabbrica) che hanno soggiogato specie diverse dalla nostra a partire dall’inizio dell’età industriale. Nell’epoca dell’Antropocene in cui viviamo, il destino degli animali finisce per convergere “con quello delle persone marginali e subalterne, vittime di un potere che dispone di loro in maniera capillare e totale”.

Il coniglio velenoso è un racconto compreso in Marcovaldo, intrecciato fisicamente ed emotivamente con la vita del protagonista: uomo e animale condividono la stessa esperienza in un reparto ospedaliero, in balia della medesima violenta reclusione e di una sperimentazione medica passivamente subita. Il manovale trafuga la bestiola dalla gabbia in cui è rinchiusa con l’intenzione di portarla a casa e di cibarsene con la famiglia. Messo in allarme dai medici per la pericolosità del coniglio cui era stato somministrato un virus letale, finisce nuovamente in clinica insieme all’animale, di nuovo entrambi prede di crudeli test scientifici.

Nel volume I racconti del 1958 troviamo La gallina di reparto, “combinazione di commedia agrodolce e apologo morale”, tentativo di conciliare narrativa di invenzione e realismo sociale su sfondo marxista. Adalberto, guardia giurata, porta in fabbrica una gallinella lasciandola libera di andarsene in giro a caccia di vermi, tra bulloni e viti arrugginite. Socievole e innocua, lei fa l’uovo regolarmente, illudendo il guardiano sulla possibile creazione di un intero pollaio. Presto la presenza della pennuta innesca però una competizione tra gli operai e provoca l’irritazione dei dirigenti, per cui alla fine si decide di sgozzarla, mettendo fine all’utopia di far coesistere fabbrica e campagna, in nome del nuovo ordine industriale capitalista. Ancora una volta, Calvino mette in scena il dissidio tra natura e cultura, tradizione e progresso, reso concreto nel rapporto tra l’ingenua spontaneità animale e le spietate esigenze produttive degli uomini.

Appartiene a Palomar (1983), suo ultimo romanzo, il racconto Il gorilla albino in cui il protagonista (alter ego dell’autore), visitando lo zoo di Barcellona, si sofferma a osservare, al di là di una vetrata assediata dai visitatori, l’attrazione principale: un grosso scimmione dal pelo bianco e dal “lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia”, abbracciato a un copertone di pneumatico d’auto, quasi fosse un giocattolo consolatorio per placare l’angoscia e aggrapparsi a un aiuto concreto, in una realtà da lui patita come spaesante e costrittiva. Serenella Iovino ricostruisce la vicenda del gorilla bianco dalla sua nascita in Guinea Equatoriale, fino alla sua cattura e deportazione in Spagna e alla reclusione in uno zoo che lo esibisce come un fenomeno della natura e un trofeo conquistato in una campagna coloniale, unico esemplare al mondo con un patrimonio genetico da conservare. Con le scimmie antropomorfe gli esseri umani hanno in comune il 98% del DNA, e su questa affinità e differenza si gioca il ruolo di dominio e sopraffazione che da millenni ha creato abissi “tra esseri che hanno la stessa radice evolutiva e a cui, fatalmente, è impedito di riconoscersi come soggetti fraterni”. Italo Calvino utilizzava la letteratura come chiave di lettura di una contemporaneità sempre più complessa, eleggendo gli animali a interpreti, precursori e vittime dei cambiamenti che avrebbero investito il nostro pianeta, accelerandone l’estinzione in atto nell’Antropocene. Gli effetti oggi ben visibili dall’esplosione delle attività industriali su atmosfera, litosfera, biosfera e sociosfera, oggi minacciano sia l’esistenza umana sia quella non umana: Serenella Iovino rilegge sapientemente le storie degli animali calviniani attraverso gli strumenti dell’ecologia, della biologia, della semiotica, della psicanalisi, convinta che calarsi nel loro mondo ci possa aiutare a capire di più il nostro, che non è l’unico meritevole di attenzione.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 27 ottobre 2024