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RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, POETI. VENTINOVE CAVALIERI E UNA DAMA

DI FELICE, MARTINSICURO (TE) 2025

 

“Accendere una lampada e sparire, / questo fanno i poeti. / Ma le scintille che hanno ravvivato, / se vivida è la luce durano come i soli”. Questa limpida e delicata citazione di Emily Dickinson viene posta da Angelo Gaccione a esergo del suo ultimo volume, Poeti. Ventinove cavalieri e una dama, che raccoglie trenta recenti composizioni, ciascuna delle quali trae spunto e ispirazione da uno o più versi di famosi poeti italiani del ‘900, tutti ormai (e ahimè) scomparsi.

“Chissà per quale scopo / vengono al mondo i poeti”, si chiede l’autore postillando l’epigrafe. Gli risponde nella prefazione Vincenzo Guarracino, suggerendo che i poeti qui presentati sono da immaginare come “Spiriti Guida” dell’autore, pretesto e incentivo per una riflessione sulle trasformazioni sociali e ambientali del mondo, e dello stesso modo di fare poesia.

Nella sua approfondita ed empatica introduzione, Alessandra Paganardi scrive di questo libro –rivelatore della missione non soltanto estetica, ma anche pedagogica della grande poesia italiana del Novecento –: “un singolare Bildungsroman poetico, inventato da chi affianca la propria produzione alla gratitudine verso i maestri scomparsi (alcuni dei quali realmente incontrati nel corso della vita) e fa di tale nobile sentimento un’ulteriore materia di ispirazione. Questo Poeti è dunque molto più di una raccolta di poesie: è un’autobiografia, un documentario, un laboratorio di scrittura, un formidabile archivio fotografico, un petrarchesco Secretum”.

I versi di apertura dei trenta poeti menzionati sono scritti in corsivo, quelli successivi di Gaccione in rotondo: il collegamento tra modelli ed epigono non è solamente un debito culturale, la rievocazione di un’atmosfera letteraria o un’eco sentimentale di vicinanza: spesso ricalca anche stilemi e formule linguistiche degli autori omaggiati, che sono appunto ventinove uomini (due dialettali, Loi e Tessa) e un’unica donna, Antonia Pozzi.

Evidente è l’influsso emotivo, ad esempio, della poetica di Pasolini (“Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile… // ma oggi, oggi è un tardo aprile / con le finestre aperte sulla via / e gli operai sulle impalcature”), di Penna (“Forse la giovinezza è solo questo… / Quell’inquietudine /che mi pesava addosso / e mi faceva scontroso / io non sapevo cosa fosse”) e di Rebora (Verrà l’aurora che ti lusinga… / e allungherà la mano verso te. //… Verrà prodiga d’ogni sorta di doni / recando cornucopia d’abbondanza”.

Meno esplicita è la dipendenza formale da altri poeti, ma rimane evidente l’insegnamento etico e civile che Gaccione eredita da questi omaggiati maestri. Il tono ammonitore e indignato di Fortini, il tormento religioso di Testori, la desolazione arrabbiata di Turoldo, la dolente malinconia di Luzi, la rassegnata consapevolezza di Roversi: tutti sembrano aver segnato profondamente l’immaginario creativo di Angelo Gaccione.

Nato a Cosenza ma residente a Milano dagli anni universitari, Gaccione è narratore e drammaturgo, ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, fiabe, aforismi, raccolte poetiche e testi teatrali. Dirige il giornale di cultura “Odissea”, a cui collaborano prestigiose firme della cultura italiana e internazionale, e per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica.

Sia alla sua mai dimenticata terra calabra, sia all’amata città di adozione, cui ha dedicato ben cinque libri, sono rivolte alcune poesie del volume, in cui la memoria di un passato non sempre idilliaco, ma comunque più fraternamente umano e solidale, e di certo più ecologicamente pulito di oggi, viene recuperata per un impietoso confronto con l’attualità.

Milano rimodulata sulla falsariga di Angelo Barile risuona con “stridi di tram e rombi di motori”, mentre per contrasto un verso di Pavese richiama la dolcezza del paese nativo e l’affetto dei genitori: “C’è un giardino chiaro, fra mura basse…/ dove avrei voluto finire i giorni miei / con l’ombra di mia madre alle spalle / i passi di mio padre per le scale”. Allo stesso modo si rincorrono e sovrappongono immagini attuali della città di residenza con le memorie di un folklore paesano mai dimenticato: dal passato riemergono i flagellanti nella processione di Acri, la credenza tarlata della nonna, i carretti dei lattai; nel presente si impongono il volto amato della nipotina Allegra, una passeggiata con il cane attraverso il traffico cittadino, i bambini vocianti al parco.

Ma è soprattutto l’impegno civile di Gaccione che cerca nei poeti di riferimento consonanza e incoraggiamento. Ecco quindi come recupera e rende propria la lezione di Quasimodo, Tessa, Ungaretti, Zanzotto, Giudici.

Quasimodo: “Di te amore m’attrista, mia terra… / calunniata senza colpa alcuna. / Hanno svilito il nome tuo nel mondo / piegati come servi a dire sì”.

Tessa: “In questo mondo infame, pieno di affanni… // Lo inghiottisse pure l’inferno / questo tempo corrotto. // Stringevo i pugni in tasca e stavo in guardia”.

Ungaretti: “Di che reggimento siete, fratelli?… / Abbiamo disertato, fratello”.

Zanzotto: “Siamo ridotti a così maligne ore… / L’epilogo non è mai un bel vedere / ci si rintana come l’elefante / che va a morire lontano dal suo branco”.

Giudici: “Ladri di notti corte… / rubiamo il poco sonno che ci resta. / Tempo breve, fermo, immobile. / Tempo di bilancio in perdita. // … e l’illusione misera di credere / d’essere essenziale al mondo”.

Per finire con Camillo Sbarbaro, a cui Gaccione affida la sua dichiarazione d’amore per la poesia, da sempre e per sempre magistra vitae: “A noi che non abbiamo / altra felicità che di parole…  / sia consentito scrivere versi / fino alla fine dei giorni”.

 

© Riproduzione riservata           «SoloLibri», 3 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

XUN

JIANWEI XUN, IPNOCRAZIA – TLON, ROMA 2025

Un nuovo modo per abitare, disertare, sabotare il territorio confuso, minaccioso ma anche seducente della contemporaneità, mantenendo un margine di coscienza critica nella colonizzazione delle coscienze imposta dal potere mondiale: è quello suggerito da Jianwei Xun nel suo libro d’esordio Ipnocrazia, edito da Tlon.

Jianwei Xun, nato a Hong Kong e laureato in filosofia politica all’Università di Dublino, è un teorico dei media che studia l’impatto delle tecnologie digitali sulla coscienza collettiva e sulla formazione della soggettività contemporanea. Con uno stile accattivante e veloce, e seguendo le indicazioni della retorica classica, oggi riportate in auge da ChatGPT, che suggeriscono di ripetere  e ribadire i concetti per meglio imprimerli nei lettori, Xun afferma un teoria ormai ben nota e condivisa, quando sostiene che il controllo dell’opinione pubblica non viene più attuato con tecniche coercitive, bensì incoraggiando il consumo smodato e acritico di immagini, suggestioni, informazioni, notizie non sempre verificabili, a cui le persone aderiscono abbandonandosi a uno stato di “sogno guidato” incapace di resistenza.  “L’ipnocrazia è il primo regime che opera direttamente sulla coscienza. Non controlla i corpi. Non reprime i pensieri. Induce piuttosto uno stato alterato di coscienza permanente. Un sonno lucido. Una trance funzionale”.

L’autore insiste su questo concetto, variandolo secondo diverse direzioni, negli undici capitoletti della prima parte, intitolata Diagnosi presente, che analizza lo stato di dipendenza attuale degli individui da stimoli che manipolano i loro stati emotivi, rimodellano le percezioni, ne addormentano le coscienze, mentre “gli schermi brillano incessanti nella notte della ragione”. I sistemi di intelligenza artificiale sono diventati generatori di realtà, co-creatori di culture e di narrative multiple in cui il confine tra verità e illusione, autenticità e menzogna non è più rilevabile, poiché si incarna in un’infinita proliferazione di possibilità. In quest’era digitale i poteri politici, economici e tecnologici convergono nella capacità di stimolare, mantenere e modulare stati alterati di coscienza su scala globale, creando un regime di induzione ipnotica, in cui “l’invasione dell’intimo” diventa pratica quotidiana di controllo e di profitto economico. Sacerdoti e nuovi guru di tali paradigmi esistenziali sono le figure emblematiche di Trump e Musk, che svuotando il linguaggio di significato attraverso la ripetizione di formule vuote, e inondando l’immaginazione collettiva di promesse utopiche, riscrivono le aspettative generali, indirizzano i desideri, colonizzano l’inconscio, dirigono i comportamenti, in un contagio che assorbe e neutralizza ogni critica e dissenso. L’Ipnocrazia non ci rende vittime, ma complici e alleati dialoganti con le intelligenze non umane che coabitano i nostri spazi di vita. Sessualità, cultura del cibo, shopping, godimento artistico sono indirizzati non tanto al possesso quanto a un piacere potenziale e a un desiderio continuamente insoddisfatto, che va alimentato attraverso un ideale mai raggiunto di ottimizzazione.

Dopo pochi capitoli introduttivi, l’autore chiede all’AI un parere su quanto ha scritto, ricevendone un esaustivo commento, che in poche righe riassume il contenuto delle venti pagine iniziali. Tutto è riproducibile, quindi, e riformulabile, in un mondo diventato liminale e gassoso, privo di concretezza e di oggettività.

Jianwei Xun (che il curatore del volume Andrea Colamedici definisce, forse con eccessivo entusiasmo, erede di Jan Baudrillard e di Byung-Chul Han) intramezza le sue considerazioni con brani esploranti la genealogia dell’Ipnocrazia e le sue più recenti applicazioni sperimentali, storicizzando così la nebulosità del concetto. Tecniche ipnotiche si ritrovano negli antichi culti mesopotamici come nei misteri eleusini greci, nella verticalità delle architetture gotiche come negli esperimenti ottocenteschi di magnetismo, nella creazione novecentesca dei mass media, della pubblicità e dei diktat psicanalitici, per arrivare al dominio attuale dei social media in grado di monitorare e influenzare la condotta, l’emotività e l’umore di miliardi di individui, intensificando la pervasività e la permanenza di tali metodi di suggestione, illimitati nel tempo e nello spazio.

Se la prima parte del libro di Xun si occupa dell’homo social e delle sue vulnerabilità, nella seconda parte vengono suggerite le tecniche di resistenza da opporre all’assoggettamento universale. Per sottrarci ad esso va sviluppata “una forma di lucidità nella trance, di follia controllata” che permetta di navigare consapevolmente gli stati alterati mantenendo un nucleo di presenza critica. “Sospesi tra consapevolezza e immersione, dobbiamo applicare una forma di resistenza all’Ipnocrazia: non il rifiuto della simulazione ma la sua abitazione consapevole, rendendoci capaci di muoverci fluidamente tra realtà multiple, generandole e abitandole come si abita un sogno, con piena consapevolezza della loro natura costruita…L’Ipnocrazia non può essere sconfitta. Non perché sia invincibile, ma perché è un flusso. La sua forza risiede nella capacità di mutare, di adattarsi, di incorporare tutto ciò che cerca di resisterle”. Qualsiasi ribellione o ipotesi di rivoluzione viene riassorbita, edulcorata, monetizzata, trasformata in performance: dall’attivismo climatico al femminismo, dalle proteste pacifiste a quelle contro il razzismo.

Come attuare allora una resistenza efficace? Non basta opporsi alla disinformazione, smascherandola e cercando verifiche e correzioni (attraverso il fact-checking), perché l’Ipnocrazia continuerà a creare verità contrapposte e molteplici, ugualmente plausibili. Né servirà disconnettersi, ma bisognerà inventare forme di realtà condivise e alternative, anche se temporanee, attraverso la manipolazione mediatica coordinata, che il sistema non possa rilevare e mercificare: Xun cita con ammirazione le beffe mediatiche di Luther Blisset degli anni novanta. Inventare storie, introdurre inciampi nei processi ingannevoli, rivalutare positivamente l’incertezza, l’inefficienza, il disordine, la contraddizione, la gratuità dei sentimenti, la non produttività, la non competizione, il sogno e la fantasia: insomma tutto ciò che evita la tracciabilità e la definizione da parte del potere, e si rivela elemento finalmente liberatorio in un mondo preordinato, come risorsa e strumento di sovversione. Sapendo che alcuni aspetti dell’esistenza umana – il dolore, il silenzio, la gioia – non saranno mai riducibili e quantificabili algoritmicamente, e sperando che attraverso il digitale si possa manifestare un piano alternativo per condurci a nuove forme ontologiche di coscienza, più evolute, e oggi non ancora chiaramente definibili.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 3 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

CENTOFANTI

Fabrizio Centofanti e la poesia

Un religioso e letterato si confronta con la poesia.

 

1 Marzo 2025

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Fabrizio Centofanti, laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino, prima della vocazione sacerdotale è stato collaboratore di Mario Petrucciani nella cattedra di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Numerosi suoi saggi e recensioni sono stati pubblicati in quegli anni su “Letteratura italiana contemporanea”, e su “La Discussione”. Suo un saggio su Leopardi e Rebora inserito nella raccolta di Atti del convegno di Ancona sull’autore di Recanati, dal titolo Leopardi e noi. La vertigine cosmica, Edizioni Studium. Ha partecipato a diversi convegni letterari fino al giorno in cui è entrato in seminario. È sacerdote diocesano a Roma dal 1996, parroco dal 2005. Dal 2014 opera al Santuario della Madonna del Divino Amore, nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura. Studioso dei Vangeli, tiene da molti anni una lectio divina settimanale.
È tra i fondatori della rivista L’Attenzione, e fondatore, insieme con Franz Krauspenhaar, del blog collettivo La poesia e lo spirito(https://www.lapoesiaelospirito.it), dove attualmente scrive.
Omelie e riflessioni sono raccolte nel blog Gesù per atei.

Ha pubblicato:

Italo Calvino. Una trascendenza mancata, Istituto Propaganda Libraria 1993; Il segreto del poeta. Clemente Rebora: la santità che compie il canto, Istituto Propaganda Libraria 1987; Le parole della felicità, Laurus Robuffo 2005; Pret(re) à portér, Effatà 2010; Non superare le dosi consigliate, Effatà 2011. In collaborazione con Sabrina Trane: Salva L’anima e Il Vangelo come non l’avete mai letto, Effatà 2013; Piccolo manuale di spiritualità e Piccolo manuale di santità, Palumbi 2013; La forma della felicità, Effatà 2021; Il cammino per l’uomo e Una nuova visione dell’uomo. Scritti di don Mario Torregrossa. Volume primo e Volume secondo, Youcanprint 2021- 2022Le poesieVoce in moto contrario, Feaci Edizioni 2008; Nomen omen, Photocity 2012. I racconti: Guida pratica all’eternità, Effatà 2008. I romanziEcco l’uomo, Effatà, 2011; Nessuno è più importante di te, Amazon, 2012; nel 2012, E’ la scrittura, bellezza!, Clinamen 2012; Stelle, Effatà 2012; Yehoshua, Clinamen 2013.

 

  • Presso l’editore Einaudi usciva nel 1997 “Il libro delle preghiere” a cura di Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose. In quell’antologia erano presenti, accanto a preghiere delle tre religioni monoteistiche, anche poesie classiche e moderne internazionali. Cosa collega, secondo lei, la preghiera alla poesia?

La preghiera è una comunicazione rivolta a Dio. Come tale, è in qualche modo ispirata, se è forma autentica di relazione con l’Altro. L’orante implora: Kyrie eleison. Chiede a Dio l’elemosina non solo di una risposta, ma anche di una domanda adeguata, che si ponga sulla lunghezza d’onda del Destinatario. La preghiera è bellezza, perché il contatto con Dio trasforma. Mosè aveva il volto illuminato da questa relazione “faccia a faccia”. La preghiera, come la poesia, attinge alle profondità dell’umano. È celeberrimo l’incontro di Elia con Dio, che si rende presente in una “qol demamah daqqah”, una voce di silenzio sottile. Durante una messa una bambina, dall’ambone, se ne uscì così: “dal libro del poeta Isaia”. Tutti scoppiarono a ridere, ma io la difesi: Isaia è noto come il Dante ebraico, come non definirlo poeta? Non bisogna dimenticare che il testo biblico è disseminato di inni, ossia di preghiere-poesie.

 

  •  Nell’Antico Testamento leggiamo toccanti espressioni poetiche, dai Salmi al Qohelet, fino ai libri profetici e sapienziali. Un patrimonio lirico che sembra disseccarsi nel Nuovo Testamento, se si fa eccezione per alcune parti dell’Apocalisse. Forse per una maggiore esigenza di razionalità e di proselitismo, o per quali altre motivazioni?

 

 

Il Nuovo Testamento, come accennavo, è anch’esso ricco di testi innici, a cominciare dal Magnificat di Maria. La conversione folgorante  di Paul Claudel avvenne mentre ascoltava quest’inno, cantato dai bambini nella cattedrale di Notre-Dame, a Parigi. Soprattutto le lettere di san Paolo sono attraversate da brani innici, ereditati dalla prassi liturgica delle prime comunità. Che dire, poi, del prologo del Vangelo di Giovanni? È uno dei capolavori della letteratura mondiale.

Diventare se stessi. Cosa ho capito della vita

  •    Nel suo blog La Poesia e lo Spirito, dedica molte rubriche alla diffusione della parola poetica. Quali sono quelle più seguite dai lettori, e a quali redattori o collaboratori vengono affidate?

Qui il discorso si fa serrato, perché nel tempo si sono succedute molte rubriche capaci di suscitare un vasto interesse tra i lettori, a cominciare dalla “Scuola di poesia” di Massimo Sannelli, i cui interventi sono confluiti in un prezioso volumetto. Tra le rubriche poetiche più recenti vorrei ricordare “La poesia vista dalla luna. Trenta righe di Alberto Bertoni”, “Parole, Poesia” di Paolo Valesio, “La Spagna in lettere” di Annelisa Addolorato, “Venti righe per niente facili” di Pasquale Vitagliano, “Postille sulla poesia” di Maurizio Soldini, “La poesia prima della fine del (o di un) mondo” di Rita Pacilio, “Rendez vous. Poeti che si parlano” in collaborazione con Luca Pizzolitto, “Tre fisse (domande semplici e concrete” di Patrizia Baglione, fino alle interviste della rubrica “La parola ai poeti” (che verranno raccolte in volume) e a quelle della rubrica parallela “Lo stato dell’arte”, sul destino della poesia ai tempi dell’intelligenza artificiale. Ma non bisogna dimenticare la costellazione legata alla narrativa e alla scrittura, a cominciare da “Narratori del nuovo millennio” di Monica Mazzitelli, “L’arte dello scrivere” di Gualberto Alvino, “La scuola di Serena Bedini”, fino alle incursioni nella filosofia, nella spiritualità, nella scuola, nel cinema (“Filosofia delle narrazioni contemporanee”, di Edoardo Sant’Elia, “Lucerne nella luce”, di Lucio Brandodoro, “Vivalascuola”, di Giorgio Morale, “Frammenti di cinema” di Pasquale Vitagliano, la rubrica sulla musica di Guido Michelone). Con Antonio Sparzani, Monica Mazzitelli, Pasquale Vitagliano, cerchiamo di tenere unita una compagine variegata di redattori, per fare del blog un luogo d’incontro aperto a sempre nuove esperienze.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», I marzo 2025

 

 

RECENSIONI

INFANTINO

ANTONIO INFANTINO, I DENTI CARIATI E LA PATRIA E ALTRE POESIE

ERETICA, BUCCINO 2024

 

Nel 1967 Feltrinelli pubblicò un libretto di Antonio Infantino, che ora viene ripreso dalle edizioni Eretica con la stessa storica introduzione di Fernanda Pivano, e con il titolo leggermente modificato in I denti cariati e la patria e altre poesie. Questo libro venne all’epoca considerato uno dei primi esempi italiani di poesia beat, e come tale l’autore fu invitato a tenere delle letture insieme ad Allen Ginsberg.

Infantino (Sabaudia 1944.Firenze 2018), architetto, pittore, docente universitario, musicista, poeta, è stato tra i maggiori esponenti della musica etnica meridionale. Artista poliedrico e originalissimo, nel 1975 aveva fondato i “Tarantolati di Tricarico”, reinventando il repertorio tradizionale della Basilicata, coniugando il folklore a messaggi di impegno sociale e politico, basati su ritmi ossessivi suonati con strumenti poveri in uso nella storia locale. A questa esperienza dirompente affiancò altre espressioni artistiche, come la creazione di colonne sonore, la collaborazione con musicisti jazz e classici d’avanguardia, performance teatrali di poesia visiva, esibizioni dal vivo sia in cabaret sia al Premio Tenco a Sanremo e partecipazioni a manifestazioni artistiche internazionali.

Fernanda Pivano, nel presentare il libro di Infantino dal titolo così provocatorio e irriverente, lo definiva “una critica alla civiltà del consumo” ottenuta accostando, con il metodo della composizione “a catena aperta”, temi di vita quotidiana con simboli più criptici e allusivi ad ambienti elitari, ma sarcasticamente contestabili. L’autore veniva da lei riconosciuto come “un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori della cultura e dello spettacolo di questi ultimi quarant’anni”. Sfogliando le pagine de I denti cariati e la patria, ci troviamo immersi in un’atmosfera di impianto letterario e artistico sperimentale, che accompagna ai testi fotografie, disegni e bozzetti improntati sempre all’irrisione o al desiderio di sfrontata ilarità.

Gli scritti alternano pagine di diario a descrizioni di sogni e ricordi infantili, fino a esperimenti di composizione automatica, attuati attraverso l’uso di calembour e battute canzonatorie, spaziature irregolari e riproduzioni (in corsivo, in tondo e in stampatello, in grassetto e in dimensioni alterate) di segni alfabetici e numerici. Tale tecnica di composizione-scomposizione grafica, ereditata dai movimenti del primo Novecento del Futurismo e del Dadà, aveva in Infantino senz’altro una finalità ludica, coniugata però a un’esigenza di denuncia delle ingiustizie sociali passate e contemporanee nei riguardi delle classi subalterne.

Dal punto di vista contenutistico, l’autore tendeva a produrre nel lettore un effetto di straniamento giustapponendo concetti diversi: dalla ripetizione ribadita e impositiva di slogan (DEVE ESSERE COSÍ; VENERATE I PADRI DELLA PATRIA; Chissà perché; ma cosa fai ??!! ma dove vai ??!!; Morso dalla Tarantola), alla parodia di testi sacri (il discorso evangelico delle Beatitudini, il francescano Cantico delle creature) o letterari (Shakespeare, Foscolo, Leopardi, Manzoni), e alla contraffazione pungente di slogan pubblicitari coevi.

Frequente nei vari testi è la chiamata in causa dei lettori a esprimere un giudizio (“io chiedo a voi / se / credete che / c’è la libertà // io chiedo a voi se credete che la minigonna / è una rivoluzione sociale / oppure no”; NON SEI CHE UN NUMERO / anonimo cittadino del ventesimo secolo / PSICANTROPO / come va la vita”). Il perseguimento di un divertimento funambolico è poi evidente nell’utilizzo canzonatorio di onomatopee e palilalie: “ta tatatintan tatita // siccome sono innamorato ho bisogno di un gran / gelato ed anche nel caffè ho messo il sale /// tataita tataita tataita tataita”; “titinc titanc tichitichitanc / che c’è nei denti cariati che non ti va / tutto va // ah sì”.

La quarta di copertina riporta un lusinghiero giudizio di Vinicio Capossela, che fu amico e sodale di Infantino in molte collaborazioni, definendolo “Un filosofo, un profeta, uno sciamano e soprattutto uno che insegnava il modo di unire le cose. Quando c’erano i suoi concerti, lui era il tramite, il tramite per far accadere delle cose. Attraverso di lui la gente si univa e sprigionava delle energie. Era un tramite per far circolare le energie”.

 

© Riproduzione riservata     «SoloLibri», 25 febbraio 2025

RECENSIONI

AAVV – PIAZZA FONTANA

AAVV, PIAZZA FONTANA. LA STRAGE E PINELLI: LA POESIA NON DIMENTICA

INTERLINEA, N0VARA 2023

Angelo Gaccione, curatore dell’antologia Piazza Fontana. La strage e Pinelli, nella prefazione al volume afferma che se esiste una sterminata mole di documenti giudiziari, scritti giornalistici, inchieste televisive, saggi, documentari e film,  romanzi e rappresentazioni teatrali, canzoni e ballate  “su quello che a tutti gli effetti possiamo considerare l’evento più empio e grave della storia del dopoguerra nel nostro Paese”, risulta “marginale, o forse meno nota, la produzione di testi poetici” relativi alla strage avvenuta il 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano. Partendo da questa considerazione, il volume edito da Interlinea ha voluto assemblare testi poetici che su quel drammatico eccidio hanno espresso una testimonianza animata da consapevolezza civile e da indignazione umana e morale.

Il primo di questi interventi è in realtà un vibrante testo in prosa, scritto dal magistrato Guido Salvini, all’epoca studente del Liceo Classico Manzoni, che ricorda la propria partecipazione ai funerali di Giuseppe Pinelli nella zona popolare di via Preneste: “La scena era impressionante. C’era silenzio e tutte queste persone, vecchi e giovani anarchici, le bandiere rosse e nere. Tutti in un atteggiamento molto composto, non come ai funerali di oggi in cui si applaude”. Il suo è un ricordo commosso e rispettoso del ferroviere anarchico, di fronte al quale la giustizia italiana ha rivelato un doloroso volto di cecità e di iniqua scorrettezza.

Salvini rievoca alcuni nomi di personaggi coinvolti nella morte di Pinelli: il questore Marcello Guida, i funzionari statali Antonino Allegra e Federico Umberto D’Amato, tutti concordi nel calunniarlo, come denunciarono allora i versi di Giovanni Raboni (“L’assassino s’è affrettato a sparlare del morto. / S’era sentito un assassino compatire il morto. / S’era visto un assassino baciare la fronte di un morto. / Vedi che gli assassini non trascurano i morti”). A colui che Salvini definisce un martire “non dimenticato e non dimenticabile”, Milano ha dedicato due targhe, proprio nei giardini davanti alla Banca della strage: una con lo stemma del Comune della città, che recita “Innocente morto tragicamente nei locali della Questura”, l’altra – ripetutamente vandalizzata e rimossa – che più esplicitamente afferma “A Giuseppe Pinelli ferroviere anarchico ucciso innocente nei locali della Questura di Milano il 16-12-1969. Gli studenti e i democratici milanesi”. La vicenda tormentata di queste due lapidi si è trascinata, tra polemiche e distruzioni e ricollocazioni, dal 1977 al 2020, e viene raccontata particolareggiatamente da Angelo Gaccione nel capitolo finale del volume, accompagnata dai suoi versi: “Due lapidi per un solo ammonimento, / due lapidi per un solo uomo. / Deve pesare molto sulla coscienza / una morte come questa”.

Appunto alla morte di Pinelli è riservata la maggior parte dei testi presenti nell’antologia, quasi che l’ingiusta e mai definitivamente chiarita fine dell’anarchico abbia colpito l’immaginario dei poeti più dello stesso eccidio di Piazza Fontana. Molte di queste poesie sono inedite, altre sono state pubblicate da compagni anarchici sulla stampa clandestina, altre sulle pagine Facebook degli autori: non letterati di professione, quindi, ma amici, lavoratori, militanti, che rievocano la brutalità dell’interrogatorio in Questura, il volo dalla finestra del quarto piano di quell’edificio, le reticenze e le bugie della politica e della stampa, il dolore della moglie Licia e delle figlie Claudia e Silvia (anche loro presenti nell’antologia con due affettuosi scritti), l’impegno a mantenerne viva la memoria.

Si possono citare alcuni dei loro versi, tra i più incisivi. Santo Catanuto: “Volo notturno / conciso concluso / nel tonfo sull’erba / gelata di un’aiuola / di caserma di stato / senza fiori né prato”, Laura Cantelmo: “Una finestra rimase accesa nella Questura / sotto il torpore delle anime nere / marchiate di sventura. // I giusti conservano intatta l’innocenza, / sudditanza non è prevista nel loro destino /, né schiena curva al Potere / e all’arroganza”, Tania Di Malta: “Dissero che fu stress o sigarette / all’inventario le scarpe sono tre / chi può spiegare il salto verticale?”, Alberto Figliolia: “«Un malore attivo», fu scritto infine. / Ti hanno ucciso infinite volte, Pino, / nei giorni dopo la morte: con l’infamia, / con l’ignominia, con la menzogna, / con il mercimonio delle parole, / con l’inganno alla pubblica opinione”, Olmo Losca: “Amico che hai volato / che hai subito le ali / ancora vieni usato / da un sistema marcio /come una comparsa da teatro”, Giuseppe Gozzini. “Ma voi compagni non disperate: / a volte si vince dopo morti”.

Anche “i poeti laureati”, come li chiamerebbe Montale, hanno espresso indignazione e commozione commentando l’imperdonabile ingiustizia patita da Pinelli. Ecco la feroce ironia di Giuseppe Langella: “Han detto che ha tentato un bungee jumping / senza legarsi alle sbarre del potere. / Gelò la notte un thumping. / Non era l’Uomo Ragno, Pinelli il ferroviere; / cadere a corpo morto fu tutto il suo guadagno. / E se invece fosse stata una mossa da wrestling? / C’è chi pratica, in questura, / le arti marziali e ti spezza le ossa”. Gli fanno eco Giancarlo Consonni: “È silenzio nel cortile. / Il sangue scorre senza fare rumore. / Da quel 15 dicembre / non smette di scorrere”, Umberto Fiori: “qualche ministro, un paio di generali, / due o tre faccendieri, quattro spergiuri, / sono riusciti a cancellare il mondo”, il regista e poeta statunitense Julian Beck: “Il corpo di Giuseppe Pinelli / sta cadendo è caduto ed ancora cadrà”, la domanda assillante che Pietro Valpreda si poneva dal carcere: “Perché è morto? // … Nessuno saprà / nessuno dirà / perché è morto”.

Ad apertura di volume, è la strage avvenuta nella Banca a catalizzare le emozioni di altri celebri poeti: già il giorno dopo con parole concitate Pasolini nel poemetto Patmos, accompagnato dai versetti dell’Apocalisse di Giovanni, così scriveva: “i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta / la mia età fra pochi anni // … la porta della storia è una Porta Stretta / infilarsi dentro costa una spaventosa fatica”, e Roberto Sanesi nel testo più colto e complesso del volume, fa riferimento alle violenze raccontate nella letteratura, nell’arte e nelle cronache universali, rendendo omaggio ai morti di Piazza Fontana equiparati a tutti gli innocenti caduti per la brutalità di poteri assassini: “le vittime ancora / con orti vigneti negli occhi, cambiali scadute, /  le morde una morte / contadina”.

Chiudono il volume due testimonianze di Roberto Cenati, Presidente Anpi Provinciale di Milano e di Federico Sinicato, Presidente del Comitato dei familiari delle vittime di piazza Fontana, che rievocando i tragici avvenimenti del dicembre 1969, auspicano che la nostra democrazia non debba incorrere in nuove pericolose derive autoritarie, e nella ferocia di un terrorismo con la connivenza di alcuni poteri dello Stato. Siano perciò di monito i versi amari di Giovanni Raboni, che subito dopo la strage richiamavano gli italiani a una più coraggiosa partecipazione civile e politica: “Parlo per me ma forse anche per voi. / Amici, diciamo la verità: / di sentirci oppressi ci sentiamo felici; / ci importa adesso esser vittime, non esser liberi poi”.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 25 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CENDRARS

BLAISE CENDRARS, RESURREZIONI A NEW YORK – IGNAZIO PAPPALARDO, ROMA 2025

L’editore Ignazio Pappalardo pubblica il poemetto di Blaise Cendrars Resurrezioni a New York, con testo francese a fronte e prefazione del Cardinale Gianfranco Ravasi. Tradotto per la prima volta in italiano nell’elegante versione di Ottavia Pojaghi Bettoni, e arricchito dalle otto storiche tavole originali del pioniere del Graphic Novel Frans Masereel, il testo racconta un Venerdì Santo vissuto dal poeta francese nei quartieri della Grande Mela, tra vagabondi e ladruncoli, suonatori ambulanti e prostitute, personaggi tormentati dall’ansia di una ricerca interiore, oppure disperatamente rassegnati a una deriva.

Cendrars – nato a La Chaux-de-Fonds nel 1887 e morto a Parigi nel 1961 dopo una vita errabonda e avventurosa votata all’arte e ai viaggi – fu narratore, poeta, giornalista, combattente nella Prima Guerra Mondiale dove perse una mano, reclutato poi come reporter nella Legione Straniera. Aderì fin dagli inizî ai movimenti di avanguardia letteraria, con un’attenzione particolare al disagio sociale e all’insubordinazione politica.

Les Pâques à New York uscì una prima volta in rivista nel 1912, ed ebbe in seguito diverse riedizioni in Francia: il poeta lo aveva dedicato alla giovane Agnès (nome allusivamente riferito all’agnus pasquale) che aveva conosciuto a Neuchâtel, cui dedicò anche altri scritti, rimanendone a lungo innamorato, nonostante fosse divenuta moglie di suo fratello Georges. Il poemetto, scandito in distici, con dominanza del verso lungo alessandrino e l’uso frequente di rime e assonanze, fece conoscere e apprezzare il giovane artista svizzero nel vivace ambiente letterario parigino del primo ’900, mettendone in luce la sensibilità venata di inquietudine, intellettuale e religiosa, e il senso di inappartenenza rispetto alle convenzioni collettive.

Blaise Cendrars, pseudonimo di Frédéric Louis Sauser, si era imbarcato per New York nel novembre del 1911, e vi si era soffermato fino all’estate successiva, vivendo in squallide stanze di alberghi, peregrinando per le strade della metropoli, affamato e privo di amicizie. Leggenda vuole che il Venerdì Santo abbia ascoltato La Création di Haydn in una chiesa presbiteriana, e tornato nella sua stanza, abbia iniziato a comporre di getto Les Pâques, revisionato successivamente al rientro in patria. Il testo si apre con la riflessione sofferta degli episodi della Passione, riletti in un “vecchio libro”, e si rivolge direttamente a Cristo: “Non ho mai pregato quando ero un bambino, // Eppure stasera penso a Voi con timore”. Da laico, da miscredente, il poeta avverte la presenza divina dietro la porta della sua camera, e ne rimane turbato: “Siete Voi, è Dio, sono io, – è l’Eterno”.

Per incontrare Cristo crocefisso, deriso e insanguinato, scende nei bassifondi della città, “La schiena inarcata, il cuore increspato, lo spirito febbrile”. Ripercorre col pensiero le chiese e i conventi visitati in Europa, i quadri e gli affreschi religiosi che più l’hanno coinvolto emotivamente, e chiede a Dio di essere sollevato dall’angoscia, come fece Gesù nel Getsemani: “Fate, Signore, che il mio viso appoggiato tra le mie mani / Lasci cadere la maschera d’angoscia che mi attanaglia. // Sono triste e ammalato; forse a causa Vostra, / Forse a causa di un altro. Forse a causa Vostra”.

La sua infelicità rispecchia quella dei poveri che affollano i marciapiedi di New York, gli immigrati sulle banchine del porto, la folla “parcheggiata, stipata, come bestiame, negli ospizi”, i “popoli addolorati”, tra cui i fuggitivi ebrei che brulicano nei ghetti, le prostitute che “inzuppano il loro vizio indurito” nel rhum, i musicisti di strada, i cinesi nei bar dai gradini lerci. Per tutti loro –vagabondi, ladri, ubriaconi – Cendrars implora la pietà e il soccorso del Signore, ma senza celare la sua indignazione verso gli sfruttatori contemporanei: “Coloro che scacciaste dal tempio con la Vostra frusta, / Flagellano i passanti con una manciata di misfatti. // … Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte, / Dove si è coagulato il Sangue della Vostra morte”.

Nella metropoli emblema di modernità e ricchezza mondiale, nessuno ricorda la Pasqua di Resurrezione: non suonano le campane, dai portoni delle chiese non escono canti e preghiere, le ombre si fanno minacciose. Allo spuntare dell’alba, il poeta torna immalinconito e stanco nella stanza d’albergo “nuda come un sepolcro”, mentre “Una folla sudata per la febbre dell’oro / Si spinge e si precipita in lunghe gallerie. / / Torbido, nel groviglio ovattato dei tetti, / Il sole, è il Vostro Volto sporco di sputi”. La sua amarezza esplode in una sferzante denuncia: “Signore, niente è cambiato da quando non siete più Re. / Il Male si è fatto una stampella della Vostra Croce”.
Nella prefazione, il Cardinale Ravasi sottolinea come la Pasqua dei giorni nostri abbia perso ancora più significato di quella descritta da Blaise Cendrars, ridotta a riti superficiali nelle famiglie, o ad altri pretesti per viaggi di puro stordimento ed evasione.

Un plauso sincero va attribuito alla giovane casa editrice Ignazio Pappalardo, che è riuscita, con questo e con i precedenti volumi pubblicati, a confezionare un prodotto raffinato e curatissimo, ricco di note e approfondimenti, completato da icastiche illustrazioni a colori e dal testo in lingua a fronte.

 

© Riproduzione riservata        «SoloLibri», 21 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, OPERA – IL CONVIVIO, TIVOLI 2025, p. 222

Non ancora quarantenne, il poeta-narratore-editore pugliese Paolo Castronuovo pubblica con le edizioni de Il Convivio “Opera. 2004-2024”, che nella premessa definisce “prematura opera omnia in versi”, progettata e pervicacemente voluta per rispondere alla “necessità biologica” di chiudere un cerchio. Mettere un punto fermo, quindi, in una produzione che si è coerentemente sviluppata lungo i binari della ricerca letteraria e dello scavo psicologico interiore, arricchendosi via via di nuove tattiche formali e di finalità ideologicamente strutturate. Un suo verso recita infatti “nutrirsi di dettagli / amplifica la profondità”, e senz’altro la varietà di immagini e atmosfere attraversate dalla parola poetica ha contribuito a potenziare lo spessore espressivo della sua scrittura.

Cinque sono le sillogi qui riunite, che comprendono la produzione di un decennio, dal 2013 a oggi: Labiali, L’insonnia dei corpi, La croce versa, Bugiardino e l’inedita La giostra d’inverno, segnate da una crescita di consapevolezza che, muovendosi dall’acerbità risentita dei primi anni, affonda in una penetrazione assillante nella materia, per placarsi infine in tonalità più arrendevolmente mature.

Labiali è segnata da un autobiografismo grintoso, capace di esibire rabbie e sofferenze, imputandole sia al proprio ego sia a un tu femminile ombroso e sfuggente. Qui “il dolore è / una posizione scomoda”, ma va esibito con fierezza sdegnosa (“io sono per la distruzione, per lo sfacelo delle cose”), anche nell’intento programmatico della creazione letteraria: “Il mio verso è cambiato / abbandona l’avanguardia / e accoglie il surrealismo”. E retaggio surrealista è evidente nell’intenzione sovversiva del lessico, con l’ostentazione di un vocabolario violento in cui si rincorrono ossessioni, esplosioni, deliri, crepe, fuochi, slavine, strumenti da taglio. Anche il corpo della donna appare scomposto e respingente, nella presentazione di seni come bussole smagnetizzate, rossetto sbavato, ombelico calamaio, capelli aste, ventre piatto, pori irti, odori lasciati su una sdraio.

Continua in L’insonnia dei corpi la rappresentazione negativa di una fisicità corrotta, in cui però è la malattia reale, soprattutto psichica, ad assumere contorni disturbanti, penosi. Il tormento dell’insonnia “che plana nella gola e provoca apnea / in un corpo fiacco / di letture, pornografia e televisione” riduce l’uomo a ombra, a zombie intento a soddisfare bisogni fisiologici primari, mentre il sangue rallenta il ritmo, le unghie incarniscono, gli occhi si socchiudono. Vittima di incubi e paure, il poeta è consapevole della propria atonia, e incapace di uscirne implora: “Mi servirebbe una seduta di fisioterapia dell’anima”, “cambiami il corpo con le mani / non ha più iniziativa / ha solo fame di altri corpi”, “Devo occuparmi del mio male / addomesticarlo nella gabbia del mio corpo”.

Se anche l’esterno si confina in un grigiore di pioggia, l’incubo dilaga in allucinazioni metamorfiche: “io ero arrotolato in una bottiglia alla deriva / una capodoglio incastrato nel buco dell’ozono”. Eppure, in questo sfascio di sensazioni mortifere la poesia può trovare un ritmo pacato ed elegante, e pur narrando la disperazione si aggrappa a gesti vitali di resistenza: “confido le mie giornate al cuscino / mentre il manto buio mi sferza colpi caldi”.

La terza sezione è la più corposa, costruita assemblando numerose sillogi e aperta a un confronto costruttivo con l’alterità, anche nella polemica indignata nei riguardi di un mondo sempre più contaminato. Gli strali di Castronuovo colpiscono la politica verbosa e inconcludente, le imposizioni di un falso cristianesimo, lo sfruttamento dei migranti, il razzismo, l’inquinamento, rasserenandosi solo nell’osservazione di cielo e mare, e nel desiderio di recuperare un rapporto paritario con la donna desiderata, in un abbandono reciproco al piacere sessuale. La croce versa rivela ancora un patimento psicologico (“il gran ritorno degli attacchi / di panico che rimontano come una carovana d’elefanti”), ma rimane comunque il capitolo più distesamente rischiarato del libro.

Prima di passare al commento di Bugiardino (2020-2023), che l’autore definisce “la miglior cosa scritta in vent’anni”, è opportuno segnalare la delicatezza dei versi inediti conclusivi de La giostra d’inverno, dedicati all’osservazione di un campo nomade (richiamato dalla bella foto di copertina), che nello squallore di strade fangose, roulotte scassate, donne e bambini infreddoliti, uomini intenti all’allestimento di un circo, riportano alla luce sensazioni infantili rimosse perché avvilenti.

Il bugiardino che accompagna ogni confezione di medicinali offrendo indicazioni sull’uso, è metafora dei segnali forniti al lettore per introdurlo alla non facile decifrazione della parola poetica. Ma “i libri sono sbarre di un carcere / che non apre a nessun universo”, e “la presunzione di capire l’astratto / di spiegarne il senso se non di darne definizione / certa / è un piedistallo fallimentare / spruzzato di elogi da copertina”. Sembra la capitolazione di ogni impegno intellettuale, e della funzione stessa del poeta. Tuttavia è necessario “lasciare che la purezza / si faccia fiume tra le sillabe / che converta lo sporco delle virgole”, e Castronuovo infine non abdica al suo ruolo, deciso a “riabilitarsi alla scrittura” producendo versi nuovi, estranei a tradizioni collaudate in cui “la rima / baciata è uno stupro”, e invece vada abolita l’illusione del messaggio: “Sto eliminando il tu dal verbo / per dare spazio a nuove immagini / ma nulla resterà che rifugiarsi nella propria voce”.

Se ciò che resta è un soliloquio privo di interlocutori, che almeno la visione sia danza, vibrazione di luci e suoni, percezione di una lacerazione traumatica da cui possa erompere una rinnovata energia, capace di guarire le ferite della mente e di un linguaggio convenzionale e abusato.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 20 febbraio 2025

 

 

 

RECENSIONI

IELMINI

RICCARDO IELMINI, SPETTRI DIAVOLI CRISTI NOI – NEO EDIZIONI, CASTEL DI SANGRO 2025

Le tre parti in cui si suddivide il romanzo di Riccardo Ielmini appena pubblicato da NEO, sono  denominati con garbata civiltà La Confraternita, Diaspora, Ritorno della Confraternita, stridendo sia con l’aggressiva sfrontatezza del titolo (Spettri diavoli cristi noi), sia con l’allusività dei sottotitoli di alcuni capitoli interni (L’Uomo Dei Boschi e il Diavolo, Brucia Solidarność, Talithà kumi reloaded, Recitativo della Matta, Como merda). Riccardo Ielmini è nato a Varese nel 1973, vive a Laveno e attualmente lavora come Dirigente Scolastico. Già autore di un volume di racconti (Belle speranze, 2011), di un romanzo (Storia della mia circoncisione, 2019) e di due eleganti raccolte di poesia, si è fatto apprezzare per l’originalità dei temi trattati, sospesi tra cronachismo locale e metafisica, e per la densità della sua scrittura singolarmente eccentrica.

La narrazione si apre con un lungo periodo privo di punti fermi, che occupa più di una pagina, offrendo subito al lettore un’anticipazione non solo dello stile immaginoso e fertile che l’autore sfrutta con originale perizia, ma anche un assaggio dell’atmosfera cupa di superstizione, timore, pregiudizi e malvagità che si respira tra le pagine fino alla conclusione, solo apparentemente liberatoria. “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn, l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla, e quindi sta’ lontano dal Diavolo, e bestemmialo, Satana, tienilo a mente, tienilo a cuore, che se il principio è buono il resto è buono, dicevano le vecchie nella veglia e nel sonno, e noi nottetempo o splendigiorno non volevamo crederci…”

Spettri diavoli cristi noi” è un romanzo di formazione, come di solito si definisce un testo che accompagni la crescita di una o più giovinezze: ed è un romanzo corale, ambientato in uno spazio circoscritto (quello originario dell’autore, cioè la pianura lombarda tra Varese e Como, con i suoi laghi, il paesaggio prealpino, il confine con la Svizzera). Romanzo di memorie ritrovate e reinventate, di nostalgie e rabbia, di inquietudini e noia. Qui vivono, tra parrocchia, scuole medie e ansie materne, alcuni ragazzi perennemente in fuga dal paese, cercando nel selvoso territorio circostante (da loro pomposamente chiamato La Contea), popolato da tossici, ladruncoli, contrabbandieri, puttane e “poveri cristi sperduti”, una fuga “dall’angolo buio della loro fragile fortezza”. In sella alle bmx, ubbidienti agli ordini di Fredy, il capo della ghenga, vanno a caccia di spettri nei sentieri tortuosi dei boschi, provvisti di torce e voglia di avventura. Una sera la banda si imbatte davvero nell’ombra del Demonio, quando sul sagrato di una chiesetta abbandonata scopre cinque figuri incappucciati che celebrano un rito satanico, abusando di due adolescenti intorpiditi o drogati. Lo scandalo che ne deriva, con le indagini dei carabinieri e quattro oscuri delitti maturati tra i malavitosi della zona, sono per i giovani la prima e terrorizzante scoperta della reale esistenza del Male. “Avevamo appreso meglio di ogni catechismo che la Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo altra carne, carne debole, innocua”.

Sulla falsariga di questa prima esperienza, si dipanano tutte gli eventi successivi, sospesi tra realtà e fantasticherie, incubi e rivelazioni: “tutto ci sembrava pronto ad aggredire la nostra innocenza, sembrava aggiungere terrore a terrore”. Il vecchio che vaga tra gli alberi masturbandosi, pazzo di dolore per la figlia stuprata e uccisa; i drogati persi tra fumo e siringhe; un’anziana coppia suicida con il gas dell’auto; un reduce della grande guerra assetato di vendetta; la Matta dagli occhi di brace vogliosa di sesso; un professore in pensione alcolizzato; badanti polacche e misteriosi immigrati albanesi; un rom ermafrodita campione di calcio; attricette porno e altri incredibili personaggi emersi da memorie letterarie.

Il Male incombe anche senza travestirsi delle sembianze del Diavolo, e li fa maturare, i ragazzi della ghenga: “Eravamo corpo-anima dentro corazze di educazione che non ci contenevano più, ecco cosa stava succedendo. Le giunture dell’armatura non reggevano all’urto del mondo di fuori, che premeva sui confini della Contea, né alla spinta di noi, da dentro”. Ciascuno cresce a suo modo, chi vince e chi fallisce, chi emigra per sempre, e chi invece poi ritorna deluso. E chi muore, per una trasgressione fatale e imperdonabile. Ielmini ripercorre passato e presente, suoi e degli altri, intercalandoli nel narrato e nel vissuto: “Io sono rimasto qui, nel mio qui di slanci tiepidi, meraviglie intermittenti e malinconie sanguinanti… infervorato dal desiderio che fossimo se non tutti, almeno io, a un tiro di schioppo da un fatidico punto di perfezione”. Gli adolescenti raccontati da Ielmini, in preda a ossessioni inculcate dal più trito cattolicesimo, tra desiderio fanatico di purezza e assillanti tentazioni carnali di cui sgravarsi nel buio di un confessionale, potrebbero forse vantare un precedente narrativo nell’indimenticabile capolavoro di Meneghello, Libera nos a Malo, ma rimangono lontani dalla sorniona ironia e dalla franca comicità dello scrittore vicentino, e ancorati invece a un senso tragico dell’esistenza. La Contea in cui si muovono è terra su cui la Storia “ha soffiato l’alfabeto intero del dolore”, senza possibilità di riscatto.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 12 febbraio 2025

 

INTERVISTE

TESTA

Annamaria Testa e la poesia

 

 

15 Febbraio 2025

Annamaria Testa (Milano 1953), pubblicitaria, giornalista e saggista, inizia la sua carriera come redattrice pubblicitarianel 1974. Tra il 1983 e il 1996 è presidente e direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria TPR, poi Bozell TPR, da lei fondata. Giornalista pubblicista dal 1988, collabora con diverse testate giornalistiche e con la RAI (Rai 3 sotto la gestione di Angelo Guglielmi), e si occupa di comunicazione politica. Dal 2012 ha una rubrica fissa sull’edizione online di Internazionale. Dal 1996, come consulente, realizza interventi di carattere strategico e progetti di comunicazione per imprese e istituzioni. Nel marzo del 2005 fonda a Milano la società Progetti Nuovi, che si occupa di progetti integrati di comunicazione. Nel 2008 ha messo online Nuovo e Utile, un sito non a scopo di lucro dedicato alla diffusione di teorie e pratiche della creatività. Tra il 2010 e il 2011 ha fatto parte della Giuria dei Letterati del premio Campiello. Nel 2012 è entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, prima donna pubblicitaria negli oltre 25 anni di vita del club. Dal 1989 al 1997 è stata docente al master dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha insegnato “Teorie e tecniche della comunicazione creativa” in varie università: tra il 1994 e il 1995 all’Università La Sapienza di Roma (facoltà di sociologia); dal 1998 al 2006 all’università IULM di Milano (facoltà di scienze della comunicazione); tra il 2001 e il 2002 all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi di Torino; tra il 2007 e il 2016 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, continuando ad essere consulente di diverse grandi aziende. Nel febbraio 2015 si è fatta promotrice dell’iniziativa #dilloinitaliano che mira a ridurre l’uso frequente e arbitrario di termini inglesi, il cosiddetto itanglese, in particolare nel linguaggio dell’amministrazione, aziendale e pubblicitario.

Tra le sue opere: Leggere e amare. 21 racconti, 1993 – Feltrinelli; Farsi capire. Comunicare con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita, 2000 – Rizzoli; La pubblicità, 2003, Il Mulino; Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole, 2004/ 2021 – Garzanti; La creatività a più voci, 2005 – Laterza; La trama lucente – Che cos’è la creatività, perché ci appartiene, come funziona, 2010/2023 – Garzanti; Minuti scritti – 12 esercizi di pensiero e scrittura, 2013 – Rizzoli; Il coltellino svizzero – Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia, 2020 – Garzanti – La parola immaginata (Nuova edizione, il Saggiatore 2024).

La figura del pubblicitario, tra quelle che operano all’interno del mondo produttivo, mantiene un’aura di creatività, fantasia e libertà da schemi preconcetti che lo avvicina al ruolo dell’artista. Ma mentre a quest’ultimo si demandano la critica e l’opposizione, chi opera nel marketing viene ritenuto di supporto acritico alla produzione consumistica. Ritiene sia realmente così?

Poesia e pubblicità hanno tratti in comune nell’uso del linguaggio? L’utilizzo degli stessi artifici retorici (metrica, rime, assonanze, ripetizioni, filastrocche) accomuna entrambe? Ci può fare un esempio di qualche sua “invenzione” linguistica che si sia servita dei dispositivi specifici della scrittura in versi?

In realtà le filastrocche, le assonanze, le rime si sono usate in pubblicità soprattutto nel periodo tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, direi fin quasi al termine degli anni Sessanta. Da allora in poi, la caratteristica emergente e la tipicità del linguaggio pubblicitario è consistita nella capacità della parola di integrarsi perfettamente con l’immagine che la accompagna (non a caso il primo libro che ho scritto, nel 1988, si intitola La parola immaginata. Parla di pubblicità, spiega proprio questa integrazione, è diventato un piccolo classico adottato nelle scuole e nelle università ed è stato ripubblicato infinite volte – l’ultima edizione, riveduta e aggiornata, è del 2024). Credo di aver usato i versi per qualche jingle pubblicitario (scelta per molti aspetti obbligata quando si scrive un testo che deve essere musicato). Credo di aver usato solo una volta rime e versi in un testo scritto: ma si trattava di un limerick (anzi, di una serie di limerick) intesi a promuovere in modo scherzoso un altrimenti noiosissimo software per la gestione di paghe e contributi. Oggi non riesco a recuperare i testi originali, ma si trattava di cose come C’era un ragioniere di Forlì/che a far conti penava ogni dì… Sto invece sempre, e molto, attenta al ritmo e al suono di quanto scrivo in prosa. Lo faccio anche quando non si tratta di un testo pubblicitario ma, invece, di un articolo o di un saggio.

Che rilievo hanno il registro comico, parodistico, o addirittura sarcastico, da sempre utilizzato anche in poesia, nel suo lavoro? Capita che la pubblicità prenda in giro se stessa?

Come dicevo prima, humor e ironia (e anche autoironia) sono stati ampiamente usati in passato. Oggi si vede in giro solo qualche raro esempio e, mi creda, è una vera boccata d’aria fresca. Il sarcasmo, no. Perfino in una campagna sociale, che ha ambiti di libertà espressiva molti più ampi di quelli propri di una campagna commerciale, il sarcasmo rischia di essere controproducente: la pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva, e la persuasione è di per sé stessa delicata, articolata e seduttiva (altrimenti parliamo di propaganda, che è tutt’altra cosa: brutale, semplificata, imperativa).

Anche la poesia moderna, a partire dai Calligrammi di Apollinaire fino alle sperimentazioni di Lamberto Pignotti, accosta l’elemento visivo a quello verbale, utilizzando il segno grafico e l’immagine per accompagnare il testo. In quale sua campagna pubblicitaria tale abbinamento ha ottenuto più successo?

L’uso della pausa, del silenzio, di termini settoriali (tratti dalla scienza, dalla musica, dalla medicina) e il plurilinguismo hanno avuto una funzione importante nelle sue creazioni?

Mah, la peculiarità del lavoro pubblicitario consiste soprattutto nell’invenzione di titoli brevi o brevissimi, scanditi dalla punteggiatura, adeguatamente impaginati e accostati a un’immagine. Quindi, la scrittura finisce subito… certo, nei rari casi di titoli più lunghi, gli a capo diventano importantissimi.  Pause: ci sto attenta quando scrivo testi lunghi (per esempio un saggio, o un articolo). Termini settoriali: il meno possibile, e solo quelli davvero indispensabili. Precisione del linguaggio: sì, ci sto attenta. Plurilinguismo: mi è anche capitato di scrivere qualche buon titolo in inglese, ma di norma cerco di scrivere in decoroso e piacevole italiano.

Tra i poeti contemporanei, ci sono voci che ritiene più vicine alla sensibilità giocosa e ironica del suo lavoro, o preferisce invece stili più impegnati, tradizionali o addirittura classici?

Non sono una gran lettrice di poesia, ma adoro Wislawa Szymborska. Ricordo come se fosse oggi la prima volta che mi sono imbattuta in una sua composizione: era un lungo testo riprodotto sul muro bianco di una mostra fotografica, alla Triennale di Milano. Credo che fosse Amore a prima vista. È stato tanti anni fa, e Google non c’era ancora. Mi sono scritta su un kleenex il nome dell’autrice stando bene attenta a non sbagliare con quell’accrocco di consonanti esotiche. E sono andata a cercarmi i libri: una scoperta folgorante.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 15 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DAUMAL

RENÉ DAUMAL, IL ROVESCIO DELLA TESTA – ADELPHI, MILANO 2025

Nato nel 1908 nelle Ardenne, René Daumal nel 1925 si trasferì a Parigi, dove studiò filosofia, soprattutto nei suoi fondamenti teologici e orientali. Nella sua breve vita fondò la rivista Le Grand Jeu, in polemica con i surrealisti; pubblicò poesie, racconti, traduzioni e il romanzo-saggio Il Monte Analogo, rimasto incompiuto. Morì di una malattia polmonare nel 1944. In Italia, tutte le sue opere sono pubblicate dalla casa editrice Adelphi, a cura di Claudio Rugafiori.

L’ultimo volume uscito nella collana “Piccola Biblioteca” si intitola Il rovescio della testa, e raccoglie dodici brevi scritti eterogenei: parabole, racconti, schizzi, interventi critici, tutti accomunati da uno stile giocoso, talvolta sarcastico e provocatorio, spesso aforistico, nell’affrontare lo stesso tema di base, cioè il rapporto che l’essere umano instaura con la verità.

A partire dal brano di apertura, in cui tre personaggi simbolici (L’Assetato, l’Innamorato e l’Ottico) si interrogano su cosa produca nell’uomo l’idea di meraviglia, individuandone il contrassegno nella figura della Portatrice d’acqua, di cui ciascuno di loro offre una interpretazione particolare: l’acqua, la donna, la brocca sono ugualmente fonti inesauribili di stupore e necessario appagamento. L’acqua perché estingue la sete, la donna perché è la metà dell’uomo, la brocca perché contiene le immagini del mondo. Nessuno può dire niente sulla verità, perché ognuno è molteplice e “governato talvolta dal cervello, talvolta dallo stomaco, talvolta dal cuore”, quindi mai univoco nelle sue espressioni.

Sparsi nel volume sono altri apologhi divertenti, come quello del signor Curato che nell’ora di catechismo interroga la classe su cosa sia Dio. Alle risposte tradizional dei ragazzini (è Padre, è puro Spirito, è il Creatore ecc.) reagisce con sfuriate e punizioni, premiando invece il più somaro di loro che incredibilmente afferma “Dio è una sberla”. C’è poi un grande mago in grado di eseguire straordinari prodigi per guidare l’umanità (“ah! se avesse voluto!”), che per non opporsi ai voleri della Provvidenza muore povero e abbandonato, senza rivelare a nessuno –nemmeno a se stesso –, il proprio potere divinatorio.

Chi dice la verità, e cos’è la verità? Lo chiedeva Pilato a Cristo, nella domanda che Nietzsche definì l’unica ad avere valore nella storia umana. Sulla relatività del vero e di ciò che si definisce reale, Daumal insiste con verve polemica. Né la filosofia, né la teologia, né la politica possono dare risposte certe. Solo lo scavo interiore, e la raggiunta conoscenza di sé, possono illuminare nella ricerca del vero: “L’uomo che pensa è il violento nemico di ogni fede imposta, di ogni dogma, di ogni tirannia. È per essenza Rivoluzionario. Tu parli di Verità. Ma chi parla in te? Cerca dunque te stesso prima di tutto: ma ecco! il sentiero si allunga all’infinito, non smetti mai di cercarti. E cercarsi è la stessa cosa che cercare la Verità… Si può essere solo nella misura in cui si rinuncia a ciò che si crede di essere”.

Bisognerebbe inventare una “macchina per decervellare”, capace di svuotare la testa da tanto ciarpame inutile, e rendere il pensiero di nuovo pulito, originario, sincero. “Cosa impedisce all’uomo di restare semplicemente al centro di se stesso e di vivere misurandosi con il mondo esterno attraverso il mondo interno di cui è re?” Sono le varie ideologie, i falsi miti, le madri Chiese, la cultura occidentale che, separando la razionalità dalla fisicità, hanno distrutto ciò che negli esseri umani era semplicemente naturale: “Ciò che vi è di più morto nella testa opprime e sfrutta ciò che vi è di più vivo nei piedi… Il problema è riconciliare la testa con il resto dell’uomo”. La testa infatti è fatta dalla faccia, che guarda all’esterno e non è capace di osservarsi dentro, e dal cranio, situato in una posizione posteriore e cieca, che pretende di capire senza vedere: forse è il caso di rovesciare la testa, e cambiare atteggiamento.

Non l’intellettuale, non il religioso, non lo scienziato, non il condottiero potranno mai attingere alla verità, perché presumono di poter circoscrivere l’esistenza al sapere, rifiutando il dubbio, l’errore, il pressappoco. In tal modo non arriveranno mai a conoscere se stessi. Solo il Poeta può farlo, perché “è sommamente chiaro che la sua parola, sotto il senso unico, offre una pluralità, o meglio una totalità, di significati”. E sulla Poesia, come unica possibilità di attingere al vero, Daumal afferma con severità che essa non può definirsi solamente ispirazione, o improvvisazione e spontaneità. Deve rispettare regole, canoni precisi, tradizione, dominando l’elemento personale (l’invenzione e l’espressione) e   acquisendo uno stile non solo estetico, ma anche etico: “lo stile è l’aspetto non personale della bellezza”.  Attraverso lo scavo nel silenzio e il recupero della parola poetica “dalle infinite risonanze” l’umanità potrà sconfiggere le menzogne che hanno corrotto la sua natura più limpida e pura.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 5 febbraio 2025