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MAESTRI

FOLLAIN

CANE CON GLI SCOLARI

Gli scolari per gioco spezzano il ghiaccio

in un sentiero

presso la ferrovia

hanno vestiti pesanti

di vecchia lana scura

e cinture di cuoio consumato

il cane che li segue

non ha una ciotola dove può mangiare

è vecchio

perché ha la loro età.

 

**

SEGNI PER VIAGGIATORI

Viaggiatori dei grandi spazi

quando vedrete una ragazza

che attorce nelle sue mani splendenti

un’immensa chioma nera

e quando inoltre

vedrete

accanto a un oscuro panificio

un cavallo che giace come morto

da questi segni riconoscerete

che state in mezzo agli uomini.

 

Jean Follain (1903-1971)

 

 

RECENSIONI

ELIOT

T.S. ELIOT, QUATTRO QUARTETTI – BOMPIANI, MILANO 2022

Un lavoro eccezionale, quello che la giovane anglista Audrey Taschini, docente all’Università di Bergamo, ha compiuto curando e traducendo i Quattro Quartetti di Thomas Stearns Eliot.  Il volume è diviso in tre parti, l’ultima delle quali riporta l’originale in inglese e la traduzione della curatrice, elegante e puntuale: forse la migliore tra le diverse che ho letto, perché non indugia in ostentazioni ed estrosità personali. Per rendersene conto, basta controllare la resa fedelissima, priva di pedanterie o enfasi, dei famosi primi versi di Burnt Norton: “Il tempo presente e il tempo passato / Sono entrambi forse presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile”. Rispettose persino della disposizione grafica del testo, ci appaiono altre strofe successive: “Ma a che scopo // Disturbando la polvere su una ciotola di foglie di rosa / Io non so. // Altri echi / Abitano il giardino. Li seguiremo?” Rimane intatto il ritmo, il suono fermo e insieme gentile del modello.

Se qualcuno vorrà leggere questo importante omaggio al Premio Nobel anglo-americano, consiglierei di affrontare il libro proprio dalla fine, lasciandosi trasportare dall’equilibrio armonico della versione italiana. Nella Premessa, la curatrice specifica le linee guida del suo lavoro: “La traduzione ambisce a fornire nel testo italiano elementi sufficienti a rappresentare gli echi dell’intertestualità eliotiana e la ricchezza delle valenze semantiche e della suggestività dell’originale”.

Stimolante e nuovo è tutto l’impianto interpretativo della ricerca di Audrey Taschini. Nella prima sezione si prendono in considerazione le molteplici fonti culturali che hanno ispirato l’opera, a partire dalla Bhagavad Gita, attraverso le fondamentali intuizioni scientifiche e filosofiche del Novecento, con riferimenti all’arazzo compositivo della Commedia dantesca, agli assunti teologici nella poesia di John Donne e agli spunti morali del predicatore anglicano Lancelot Andrews. In particolare vengono messi in luce gli interessi che il poeta approfondì durante gli studi ad Harvard: il sanscrito e i Veda, i presocratici con la predilezione per Eraclito, l’attrazione per il pensiero magico in opposizione al razionalismo, la tesi di laurea su Bradley, l’interesse per la nuova fisica soprattutto nella definizione del concetto di tempo, lo studio del simbolismo e dello strutturalismo, l’adesione all’imagismo. La partecipazione a questo movimento letterario portò Eliot a condividere – con Pound, Joyce, Doolittle, Lawrence e altri scrittori –, l’ideale di un linguaggio iconico, secondo cui immagine e parola agiscono sinergicamente evocando direttamente le emozioni, aldilà di ogni concetto o locuzione astratta. Fu proprio Eliot che diede inizio a un nuovo modo di concepire e produrre poesia, pubblicando nel 1920 il saggio The sacred wood, in cui coniava il termine di “correlativo oggettivo”, riferendosi al procedimento poetico che da un fattore esterno (un oggetto, una serie di eventi, una situazione) lascia germinare immediatamente una sensazione e un’esperienza emotiva.

Se lo studio delle fonti rimane senz’altro illuminante e necessario, è tuttavia proprio nel secondo capitolo, dedicato al commento particolareggiato di ogni Quartetto, che maggiormente si dispiega l’intuito critico di Audrey Taschini, con l’attenzione specifica rivolta alla rielaborazione delle teorie imagiste.

Lo scetticismo eliotiano nei confronti del materialismo moderno lo induceva a riscoprire nel complesso linguaggio delle immagini e dei simboli il ruolo cognitivo e spirituale loro attribuito nell’antichità, quando rivestivano la funzione di dialogo e mediazione con l’Essere, mai raggiungibile in maniera puramente logica e razionale. La novità dei Four Quartets, tutta interna alla sfera religiosa, si evince quindi non tanto dai contenuti quanto dall’utilizzo di un linguaggio denso, allusivo e penetrante, capace di ricongiungere il trascendente con la realtà quotidiana, riunendo a un livello simbolico il corpo del mondo al suo spirito universale, nell’unità del tutto, là dove intellect and sensibility are in harmony. Per Eliot la poesia doveva esprimere una perfetta commistione tra senso, emozione e pensiero, trasformandosi in un’esperienza completa del vissuto, e aprendolo contemporaneamente a una verità sovrastante la pura percezione materiale e intellettuale.

Per ogni quartetto Eliot scelse il nome di un luogo dal particolare valore sentimentale o spirituale, con la funzione di correlativo oggettivo, fondamento concreto alle meditazioni filosofiche e teologiche trattate in ciascuno dei poemi: Burnt Norton, East Coker, The Dry Salvages, Litlle Gidding. Il numero quattro nella filosofia pitagorica era il simbolo del cosmo e dell’armonia delle sfere, richiamata anche dalla metafora musicale alla base dei Quartetti. Ma soprattutto il quattro rimanda agli elementi empedoclei – aria acqua terra fuoco –, principi costitutivi dell’universo, trasmutanti uno nell’altro in una trasformazione ciclica, in cui la natura rispecchia l’immobile movimento dell’Eterno (“Still and still moving”), come nel susseguirsi delle stagioni. La resa poetica dei legami tra l’individualità concreta e l’universalità astratta, il contingente e l’Assoluto, il temporale e l’infinito, il visibile e l’invisibile mira a riprodurre la fusione degli opposti in un principio divino unificante. Tale compenetrazione tra umano e sovrumano può essere rappresentato solo attraverso la riflessione sul tempo, inteso come un fluire indiviso di passato, presente e futuro: “Ciò che chiamiamo l’inizio è spesso la fine. / E fare una fine è fare un inizio, / La fine è dove cominciamo”.

Congedando questa sapiente rilettura dei Four Quartets, mi sembra opportuno riportare alcuni tra i tanti versi ricchi di emozione e significato, che nel periodo oscuro in cui furono scritti, e in quello altrettanto minaccioso che stiamo vivendo, offrono uno spiraglio al chiarore di una nuova alba: “Dissi alla mia anima, stai ferma, e attendi senza speranza / Poiché la speranza sarebbe speranza per la cosa sbagliata; attendi senza amore, / Poiché l’amore sarebbe amore per la cosa sbagliata; ancora c’è la fede, / Ma la fede e l’amore e la speranza sono tutte nell’attesa. / Attendi senza pensiero, poiché non sei pronto per il pensiero: / Così il buio sarà la luce, e la quiete la danza”.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, NÉ TIMO NÉ MAGGIORANA – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

“Le api suggono i fiori di qua e di là, ma poi ne fanno miele. Ed è miele loro in tutto, non più né timo né maggiorana: così l’autore delle cose prese in prestito da altri: le trasformerà e mescolerà per farne una cosa tutta sua, giusta il suo modo di vedere le cose”. Questa frase, tratta dagli Essais di Montaigne, fa da epigrafe al libro di Giovanni Orelli Né timo né maggiorana, sessanta sonetti pubblicati nel 1996 che spaziano dall’eros alla morte, dalla memoria personale alla polemica politica o civile. Sonetti onnivori e onnicomprensivi, pervasi da un’ansia di raccontare e raccontarsi che li rende agli occhi di un lettore di poesia, abituato ormai a un certo ermetismo formale e orfismo criptico nei contenuti, tanto più originali e sconcertanti. Difficile, infatti, trovare antenati o padrini alla poesia di Giovanni Orelli (1928-2016). Giustamente Remo Fasani nell’introduzione parla di “vena narrativa”, che si esplica nella preferenza data ai versi lunghi, e soprattutto in un contenutismo esasperato: voglia di dire tutto, e con una certa eccitata tensione comunicativa. Rimane, della tradizione, l’involucro formale del sonetto: due quartine e due terzine, ma per così dire sbeffeggiato, preso in giro da un’innovazione continua e dissacrante: rime false o strabordanti, enjambement provocatori, metrica strapazzata…

Anche i contenuti della poesia sono vari e fantasmagorici: il Ticino, la Svizzera di Orelli c’entrano di sbieco, in questa raccolta. Qualche profumo e colore, qualche faccia contadina o frase dialettale. Invece protagonista è il mondo intero, con i suoi avvenimenti tra storia e cronaca, con le ideologie e le utopie. In particolare, la danza vorticosa tra eros e thanatos sembra molto interessare il poeta. Un eros libero e gioioso, “vertigine di vento” che si insinua tra occhi e pensieri, subdolo e invincibile, per esplodere poi esaltato ed esaltante: “il Robinson che esplora è la mia mano sola, / giunge a una Sierra Madre penetra un folto / di piume, l’occhio intanto cerca il tuo volto / insegue un guizzo che nell’iride vola, / il sangue che ti trema nella gola, / il tuo ventre che esulta, dalle catene della mente sciolto”.

Ci troviamo davanti a una carambola di occhi, seni, capelli, gambe che costituiscono un vero inno alla vita e alla felicità, chiosato da un verso-viatico-programma esistenziale: “misura per amare è amare, sempre, senza misura”. A questo imperativo fa da contraltare un richiamo ossessivo alla morte, al disfacimento del corpo, temuto eppure aspettato. Gli accenni alla fine sono così ripetuti da sembrare quasi apotropaici: (“Giovanni Orelli è morto? No, per Zeus, ma è giù di forze”, “Morirai, e sarà libero un posto…”, “due volte con le sue ali mi ha sfiorato / nostra sorella morte…”, “Ovunque il guardo giro è, per metastasi, un diffuso odore / di morte…”), ma comunque anch’essi travolti da un incoercibile amor vitae.

Il volume è corredato, in chiusura, da una serie impressionante di note, che rimandano alle letture da cui sono scaturiti i sonetti: letture le più varie, di antropologia, scienza, storia, filosofia o religione, a indicare la molteplicità e la varietà degli interessi dell’autore, oltre che la sua abilità a sfruttare per fini poetici qualsiasi argomento, con un distacco razionale dalla materia egregiamente dominata e asservita.

Giovanni Orelli appare qui un innamorato entusiasta, che nei versi mostra le tenerezze e le improvvise rabbie di tutti gli amanti: “così vi insulto miei versi, veterosonetti / vi chiamo rimbambiti libidinosi antipatici avari / male invecchiati trasandati: sì, ciabatte, / voi versi siete le mie capre malnate / e io il becco che dovrebbero castrare. / C’è un punto, sotto il sole, tutto per voi: voi fate latte”. Un latte nutrito da timo maggiorana e altre sapide erbe, che il vulcanico poeta-narratore-saggista ticinese ha lasciato in eredità ai tanti lettori che tuttora avvertono la sua mancanza.

 

© Riproduzione riservata     

SoloLibri.net › … › Né timo né maggiorana di Giovanni Orelli              22 gennaio 2023

 

 

RECENSIONI

MAYER

HANS MAYER, I DIVERSI – GARZANTI, MILANO 1992

Sarebbe opportuno e auspicabile riproporre oggi, almeno in e-book, il volume di Hans Mayer I diversi, edito da Garzanti nel 1978 e poi ripubblicato nel 1992, perché il tema affrontato rimane, ahimè, tuttora prepotentemente attuale, nonostante gli incessanti ma inascoltati inviti alla comprensione e al rispetto per qualsiasi minoranza, rivolti agli individui e alle società, alla sensibilità dei singoli e alla legislazione ufficiale. Mai come oggi, però, tale puntuale ed enfatica esortazione viene nei fatti disattesa, con una recrudescenza preoccupante di sadismo, intolleranza, violenza fisica e verbale nei riguardi di chi è “altro”.

Hans Mayer (1907-2001), allievo di Adorno e Horkheimer, distintosi in Germani a noto anche in Italia per i suoi studi letterari sforanti nel sociale, suggerendo coinvolgimenti etico-politici (cfr. Letteratura vissuta, Milano 1991), propose negli anni ’70 una lettura totalizzante, quasi enciclopedica, della discriminazione, che attraversando diacronicamente la storia letteraria mondiale, percorreva un filo di pensiero unificante sulla diversità, individuata in tre grandi categorie umane: la donna, l’omosessuale, l’ebreo.

Servendosi di strumenti scientifici e approcci specialistici eterogenei, confezionò con I diversi un volume ambizioso da utilizzare come manuale e compendio antologico, più che come testo critico vero e proprio. I diversi si propone infatti come libro a tesi, pamphlet politico, già a partire dalla lapidaria affermazione iniziale: “L’illuminismo borghese è fallito… l’uguaglianza formale davanti alla legge… non ha comportato una conseguente uguaglianza materiale delle prospettive di vita”. Considerazione quasi scontata, condivisibile pressoché universalmente, soprattutto per ciò che riguarda i tre gruppi presi in considerazione da Mayer: donne, omossessuali, ebrei pagano ancora a caro prezzo la contraddizione irrisolta di essere altro dalla maggioranza dominante in cui tuttavia sono inseriti. Difficile però parlare coma fa Mayer di tre gruppi omogenei, per cui nei secoli e alle latitudini più diverse siano valse lo stesso tipo di discriminazioni culturali. Cosa unisce Giovanna d’Arco a Klaus Mann, Jean Genet allo Shylock shakespeariano, Giuditta a Edoardo II, Rimbaud ai personaggi ebrei di Dickens e di George Eliot? Basta il tratto unificante della differenza a collegare tra loro esperienze intellettuali e sociali così lontane e ambivalenti? Con quale rigore scientifico si può, oggi, dopo decenni di studi approfonditi della cultura femminista, parlare della donna come “minoranza diversa” in tutta la storia della letteratura dalla Bibbia in poi?

Altrettanto difficile da condividere appare la scelta di Mayer di eludere temi e nomi essenziali all’interno delle tre categorie prese in considerazione, tacendo di autori che hanno dibattuto a lungo, e pagato sulla propria pelle, la diversità: Christa Wolf, Elie Wiesel, Pierpaolo Pasolini, per indicare personaggi notissimi anche al dibattito culturale tedesco, nemmeno citati nel repertorio delle note.

Un volume quindi, quello di Mayer, di notevole interesse documentario, senz’altro pungolante e animato da vis polemica, ma ideologicamente ibrido e formalmente appesantito da uno stile assertivo e perentorio, nella sua monotona paratassi; teutonicamente rigoroso nel negare a noi lettori l’addolcimento di qualche metafora, la pausa diluente di qualche subordinata.

 

© Riproduzione riservata     

SoloLibri.net › Recensioni di libri › I diversi di Hans Mayer              18 dicembre 2023

RECENSIONI

SCHLINK

BERNHARD SCHLINK, IL LETTORE – NERI POZZA, MILANO 2018

Pubblicato da Garzanti nel 1996 con il titolo A voce alta, riedito nel 2010 come The reader, e nel 2018 da Neri Pozza come Il lettore, da questo avvincente libro di Bernhard Schlink è stato tratto nel 2008 un film interpretato da Ralph Fiennes e Kate Winslet, per l’occasione premiata con l’Oscar. Si tratta di uno dei romanzi fondamentali della narrativa tedesca contemporanea, “stilisticamente perfetto, inquietante e moralmente devastante”, secondo la definizione del Los Angeles Times, tradotto in più di venti lingue, premiatissimo e a lungo ai vertici delle classifiche di vendita nel mondo intero. La sua fama deriva dall’aver saputo dosare in giusta misura vicende private e storia collettiva, tenerezza personale e sdegno civile, attraverso una prosa asciutta, incalzante, priva sia di retorica sia di morbosità.

Protagonista maschile è Michael Berg, un quindicenne che vive a Heidelberg negli anni del secondo dopoguerra. Colto da malore sulla strada di casa viene soccorso da una vicina, bionda e solida quarantenne dai modi spicci e sicuri. L’avvenenza tranquilla e senza artifici della donna colpiscono profondamente il ragazzo, il quale, non appena riavutosi da una debilitante e lunga malattia, inizia a frequentare la casa di lei animato da un turbamento che pian piano si trasforma in passione. Hanna Schmitz lo accoglie con naturalezza compiaciuta, iniziando con il “ragazzino” – come lo chiama – una relazione sempre più coinvolgente.

Il rapporto tra i due, tenuto segreto a tutti con una complicità che è vergogna degli altri ma anche reciproco imbarazzo, si approfondisce nel tempo non solo da un punto di vista sessuale, ma anche affettivamente e culturalmente. Perché la donna, semplice bigliettaia su una linea tranviaria molto frequentata, e Michael, liceale figlio di un professore universitario, sembrano avere inclinazioni letterarie comuni, e lei pretende che il giovane le legga a ogni incontro pagine e pagine di classici, da Omero a Tolstoj, “a voce alta”. La loro relazione va avanti per quasi un anno, arricchendosi di stimoli nuovi (un viaggio di alcuni giorni in bicicletta attraverso il paesaggio del Baden-Württemberg; concerti, cinema, teatro), finché tra loro si apre qualche incrinatura, poiché Hanna sembra voler custodire con gelosia inconfessabili segreti, e Michael le tace la propria attrazione per una compagna di scuola.

Improvvisamente, la bigliettaia sparisce senza lasciare traccia di sé, e il ragazzino vive questo abbandono come un tradimento, si indurisce nei riguardi del prossimo, chiudendosi in una corazza di indifferenza e superficialità: si concede molte storielle facili, pratica svogliatamente un po’ di sport, studia senza interesse fino all’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Qui la sua strada si intreccia nuovamente con quella di Hanna, accusata di aver redatto un elenco di donne ebree da deportare ad Auschwitz e processata come ex-sorvegliante in un lager nazista. Michael assiste a tutte le udienze in tribunale, senza perdere una seduta, senza scambiare nemmeno una parola con l’imputata, pur sentendosi legato a lei da un filo tenace di comprensione, di condivisione anche del non detto, del molto taciuto. E finalmente arriva a intuire il motivo reale dell’abbandono dell’antica amante, i tanti sotterfugi cui ricorreva, gli appuntamenti mancati, le lettere rimaste senza risposta, la continua richiesta di fare di lui un lettore privilegiato. Pur di non rivelargli il suo analfabetismo, Hanna aveva deciso di troncare il loro rapporto, e in seguito preferisce passare per criminale piuttosto che umiliarsi confessando pubblicamente di non saper né leggere né scrivere: ammette quindi le proprie responsabilità politiche, pur con qualche esitazione, e viene condannata a diciotto anni di carcere.

Michael potrebbe parlare, salvandola così dalla prigione, ma non lo fa per rispettare la sua riservatezza. Sceglie una monotona professione in ambito legale, si sposa e divorzia, passando con indifferenza attraverso altre relazioni, ma è sempre ad Hanna che pensa, e ricorda con uno struggimento misto a sensi di colpa e a rimpianto. Decide infine di farsi vivo con lei nell’unico modo che gli è concesso, e registra decine di cassette leggendo e inviando alla detenuta tutto quello che gli capita, oltre a quello che man mano va componendo lui stesso come scrittore. Solo dopo alcuni anni, la donna gli risponde con grafia incerta: “Ragazzino, l’ultima storia era molto bella. Grazie”.

Così i due continuano a comunicare, lui attraverso le registrazioni, lei con bigliettini scritti via via con maggiore sicurezza, fino a quando, sessantenne, termina di scontare la pena.

Il romanzo non si conclude qui, ma chi volesse conoscerne il finale, di certo non consolatorio, farebbe bene a non accontentarsi di questa recensione, e a leggerlo per intero, non solo per soddisfare la  curiosità, ma anche per godere di uno stile elegante di scrittura, come si addice a un appassionato “reader”.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ISA MARI

ISA MARI, NELLA CITTÀ L’INFERNO – READERFORBLIND, LADISPOLI 2023

Nella letteratura italiana del ’900, un posto di rilievo è stato occupato da Goliarda Sapienza, scrittrice di importanti romanzi, tra cui L’università di Rebibbia, in cui descriveva la sua reclusione in carcere per il furto di gioielli compiuto in casa di un’amica. Un’altra prigionia, durata otto mesi nella sezione femminile di Regina Coeli per motivi politici, è stata raccontata da Isa Mari, nel volume Roma, via delle Mantellate (Casa Editrice Libraria Corso, 1953). Isa Mari (1910-1992), pseudonimo di Luisa Rodriguez, era figlia dell’attore e regista Febo Mari e dell’attrice Piera Vestri. Fu attrice cinematografica e teatrale come i genitori, e inoltre sceneggiatrice e autrice di un secondo libro di successo oltre a quello citato: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, del 1972. Dai suoi romanzi sono stati tratti due film altrettanto famosi. Il primo, Nella città l’inferno, diretto da Renato Castellani nel 1959, aveva come protagoniste Anna Magnani e Giulietta Masina. Nel secondo, spesso riproposto dalle nostre emittenti televisive, un magistrale Alberto Sordi era affiancato da Claudia Cardinale per la regia di Luigi Zampa.

Il romanzo di Isa Mari, che le edizioni RFB ripropongono ora con il titolo del film di Castellani, Nella città l’inferno, si apre con la numerazione delle detenute in attesa di salire sul camioncino cellulare che le condurrà alle Mantellate: “Una… due… tre… quattro… cinque… La carne è caricata. Si parte”. La narratrice, compresa nel gruppo, elenca i vari stadi dell’ingresso in carcere, le reazioni delle arrestate e la crudele impassibilità delle guardie: consegna del denaro e degli oggetti preziosi, richiesta dei dati anagrafici, prelievo delle impronte digitali, perquisizione fisica, attraversamento del cortile. “Alzo la testa: finestre, finestre, finestre, piccole, una vicina all’altra, protette da sbarre… E visi fra i riquadri delle sbarre e bocche spalancate e capelli scompigliati di teste ammonticchiate una sull’altra dietro i ferri e mani che scuotono i ferri e voci rauche e frizzi osceni e risate grasse”.

Il racconto procede con la sinteticità di appunti diaristici, sia nella descrizione del susseguirsi degli avvenimenti, sia nel commento delle caratteristiche fisiche e morali dei personaggi che li animano. Dialoghi serrati, spesso in romanesco, in pagine che mantengono la struttura di un copione cinematografico neorealista.

Le donne che costituiscono il popolo di Regina Coeli hanno età diverse, sono poco più che adolescenti, madri di famiglia mature, vecchie avvizzite e malate: assassine, ladre, matricide, truffatrici, prostitute, strozzine, oppositrici politiche. Tra loro convivono malate psichiatriche, ragazze gravide, drogate in astinenza. Isa Mari le presenta senza retorica e senza falsi pietismi, con un’oggettività che non indulge né a toni accusatori o recriminatori, né a volontà di redenzione o consolazione, limitandosi a constatare che nella “tomba dei vivi” si respira un’aria di perpetua agonia, di miseria e violenza, di ignoranza e sporcizia diffusa: “qua dentro tutto sa di morte”. Le giornate si avvicendano tutte uguali, dal caffè sbobba col pane duro della mattina, all’ora d’aria in cortile, con pasti scarsi e insipidi, notti passate a rigirarsi su lettini di ferro, turpiloquio continuo. “Corpi bolsi, visi giallastri, fiato pesante. Anche le più giovani… Un’aria disfatta. Sempre spettinate, con quelle camicie corte che tagliano male le gambe, i piedi nudi… senza far nulla dalla mattina alla sera. Qualche passo su e giù per la cella e poi sdraiate, gambe all’aria, sigaretta in bocca. Quattro per cella, vicende diverse ma ugualmente trucide e infelici. L’autrice, passata presto all’ambito incarico di bibliotecaria, ricostruisce la storia familiare e il percorso giudiziario delle sue compagne di sventura, partendo dal loro apprendistato al crimine: l’ambiente sordido e violento che le ha viste nascere e crescere è di per sé causa e giustificazione del loro delinquere, e non necessita di alcuno scavo psicologico da parte di chi lo descrive. Donne marchiate per sempre, che non troveranno pace nemmeno una volta uscite di prigione.

Ma in quell’aria “putrida di ogni colpa” succede anche che una detenuta partorisca il suo primo figlio, accompagnata nelle doglie e poi nello sgravarsi dall’emozione di tutto le recluse: “Le donne, tutte, di tutte le celle, di tutte le sezioni, balzarono dal letto e si attaccarono alle sbarre delle porte, delle finestre, volgendo il capo in alto, su, dove la robusta contadina della campagna romana, aveva dato alla luce il suo primo nato… E da un’ala all’altra del fabbricato, da una finestra all’al tra, più argentine di un suono festoso di campane, cento, duecento, trecento voci, a due, a tre, a cinque squillarono: È un maschio!”.

Con il suo venire al mondo in un luogo di pena e sofferenza, il neonato reclama il diritto alla vita di ogni creatura, per quanto colpevole possa essere o sembrare, come commenta una delle condannate: “Che? Siam fatti Dio, noi, per giudicare?”

 

© Riproduzione riservata   

SoloLibri.net › Recensioni di libri › Nella città l’inferno di Isa Mari    14 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ANDREOLI

VITTORINO ANDREOLI, LETTERA A UN VECCHIO – SOLFERINO, MILANO 2023

Lo scorso anno Papa Francesco ha raccolto nel volume La vita lunga diciotto catechesi dedicate al senso e al valore della vecchiaia, da considerare non tanto un peso quanto “una benedizione per la società”. Anche Enzo Bianchi nel 2018 aveva pubblicato sullo stesso tema La vita e i giorni, seguendo le tracce di una lunga tradizione culturale, che dal De Senectute ciceroniano alle esortazioni di Schopenhauer, mette in luce gli aspetti positivi dell’anzianità.

Nello stesso solco di rivalutazione dell’età avanzata si situa l’ultimo volume dello psichiatra Vittorino Andreoli, Lettera a un vecchio, che utilizza il collaudato espediente letterario della comunicazione epistolare aprendo il testo con un “Carissimo”, e concludendolo con “Un abbraccio commosso”, nella volontà di sottolineare non solo una solidale partecipazione nei riguardi dei suoi coetanei (già dal sottotitolo “Da parte di un vecchio”), ma pure il diritto di affrontare l’argomento con cognizione di causa, dal di dentro, nella condivisione delle stesse ansie, malinconie e speranze di chi si trova a percorrere il viale del tramonto.

In disaccordo con la cruda animosità delle tesi espresse dal filosofo Jean Améry in Rivolta e rassegnazione sull’avvilimento del declino senile, nel prologo Andreoli afferma orgogliosamente e ottimisticamente: “Sono un vecchio, contento di esserlo, e con la speranza di continuare a esserlo ancora per un lungo tempo”, convinto che invecchiare sia di per sé un grande privilegio, rispetto al concludere prematuramente l’esistenza, e che la durata della vita dipenda anche, sebbene non solo, dalla voglia di vivere, dal desiderio di affrontare ogni giornata con positività, dinamismo e apertura al nuovo.

Chi è vissuto a lungo ha avuto l’opportunità di sperimentare una storia personale e collettiva composita, ricca, talvolta problematica e sofferta, comunque piena di avvenimenti, incontri, insegnamenti offerti e ricevuti, da poter rivisitare e ripensare con soddisfazione: “Se non devi correre nelle strade del mondo, va’ in pellegrinaggio sui sentieri tracciati nel tuo passato”. È opportuno recuperare memorie di cui essere fieri, mettendole a disposizione dei più giovani, per arricchirne l’esperienza, piantando alberi per chi verrà, come suggeriva Schopenhauer quando scriveva “il polline raccolto va condensato in miele”.

Andreoli ammette di aver vissuto giovinezza e maturità “di corsa, freneticamente”, ma ora, superata la soglia degli ottant’anni, è grato di poter dedicare più tempo a sé stesso e alla riflessione, senza l’impellente esigenza di produrre risultati in termini di successo intellettuale ed economico, avendo allentato il controllo sul mondo e sulle cose, con “un minore condizionamento dei «doveri» sociali” e con il distacco dall’ossessione del denaro.

Invecchiare è un’arte, e da medico prima ancora che da psichiatra, l’autore offre indicazioni basilari su come avanzare nell’età in maniera sana ed efficace: controllando l’alimentazione, facendo movimento, nutrendo interessi culturali, esercitando la memoria, mantenendo rapporti affettivi e amicali anche transgenerazionali. Se si evita l’imperativo giovanilista di rincorrere, in maniera spesso ridicola, atteggiamenti da teenagers (capelli tinti, lifting, abbigliamento vistoso e seduttivo, ore di palestra sfiancanti, viagra a gogo) si può godere con saggezza e tranquillità di relazioni valorizzanti, di una sessualità più intenerita e meno aggressiva, di relazioni fondate sulla reciproca e gratuita cordialità.

Il pensionamento senz’altro per molte persone rimane un trauma, intensifica il senso di inadeguatezza e abbandono, ma alla deprivazione e depressione ci si deve opporre conservando acceso il desiderio di emozioni e sentimenti vitali. Accettare la propria fragilità fisica, le proprie debolezze caratteriali e intellettive, non indica rassegnazione o sfiducia, ma il riconoscimento della inevitabile trasformazione del proprio esser-ci. Se gli anziani spesso dimenticano nomi, oggetti, azioni compiute nel quotidiano, godono tuttavia dell’importante prerogativa di ricordare e rivalutare il vissuto, a cui danno un significato emotivo più profondo. In loro cambia soprattutto la percezione del tempo, essendosi radicalmente modificato lo spazio del futuro a disposizione rispetto al passato trascorso. Si trascorre più tempo in solitudine, ma questo offre la possibilità di non disperdersi nella nevrosi di rapporti imposti, illusori o poco sinceri, e di approfondire argomenti trascurati, come il rapporto con la fede, la politica, la scienza, le grandi questioni sociali. In tal senso, è utile approfittare il più possibile delle incredibili opportunità fornite da internet, evitando involuzioni del pensiero come l’egoismo, il sospetto, l’irrigidimento e l’indifferenza.

Alla fine della sua indagine, Vittorino Andreoli affronta il problema del rapporto tra la vecchiaia e la morte, avvenimento ineludibile della condizione umana, da accettare indipendentemente da qualsiasi credenza nell’immortalità o nella reincarnazione.

Il problema non è di eliminare la morte, ma di spostarla nel tempo, attivando tutte le risorse residue per continuare a stare nel mondo, con una sensazione di bene-essere, e accettando poi di finire come finisce qualsiasi cosa, lasciando che la vita si perpetui in altri e altro da noi.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 12 gennaio 2023

 

 

INTERVISTE

READERFORBLIND

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione
La nostra collaboratrice Alida Airaghiha intervistato la redazione della giovane casa editrice romana Readerforblind, nata inizialmente come rivista online nel 2015 e specializzata nella narrativa breve. I fondatori del progetto sono Dario AntimiAdria Bonanno e il giornalista e scrittore Valerio Valentini. Ma dietro il nome di readerforblind si nasconde anche un intero team di persone preparate e appassionate: Margherita Macrì, in redazione; Roberta De Marchis, all’ufficio stampa e comunicazione; Emilio Fabio Torsello, alla gestione e ai contenuti Social; Valentina Russo che si occupa della grafica.

Ecco come nasce la casa editrice “readerforblind”: sapete che il nome si ispira a un famoso racconto di Raymond Carver? Il perché ce lo svela la redazione nell’intervista che segue.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità?

La casa editrice nasce ufficialmente nel dicembre del 2020 e nel marzo del 2021 esce la nostra prima pubblicazione, I superflui di Dante Arfelli. Abbiamo passato l’intero lockdown del 2020 a studiare e pensare il progetto. Nasciamo a Ladispoli; abbiamo pensato all’eventualità di spostarci a Roma, ma alla fine abbiamo deciso di restare in provincia. Amiamo il nostro territorio e qui una casa editrice neanche c’era. Quindi abbiamo pensato: “Perché no?”. Non ci siamo pentiti, in qualche modo è stato un atto d’amore.
Prima di allora, readerforblind era una rivista online di narrativa breve, insomma, avevamo un sito e pubblicavamo racconti. Lo facevamo dal 2015, ma con il passare degli anni sentivamo di volere di più. Quello della casa editrice è sempre stato un sogno; alla fine è arrivata la giusta motivazione per realizzarlo.

  • Avete scelto un nome originale per le vostre edizioni: potete spiegarcene origine e motivazione?

Readerforblind ce lo portiamo dietro dall’inizio, da quando il progetto era una rivista. È un omaggio a Raymond Carver; nel racconto Cattedrale c’è questo annuncio sul giornale: “Cercasi lettore per cieco” – Readerforblind. Viene da lì. Portare avanti per cinque anni una rivista di racconti significa che il racconto lo ami, e parte del nostro amore verso questa forma narrativa deriva proprio da Carver. Quando il progetto è mutato e da rivista è diventato casa editrice, abbiamo deciso di mantenere invariato il nome, un po’ anche per ricordarci da dove – e da cosa – veniamo.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione e in quante collane si suddivide la vostra produzione?

In redazione siamo circa una decina, e saltuariamente ci avvaliamo delle competenze di collaboratori esterni. La nostra produzione si suddivide attualmente in tre collane: le polverii superflui e le polveri black edition.
Le polveri è la nostra prima collana. Qui trattiamo titoli di narrativa pubblicati nel corso del Novecento e non più ristampati da allora. Nei Superflui ci concentriamo su nuove voci contemporanee e nelle Polveri black edition trattiamo invece opere di grandi autori e grandi traduttori della letteratura.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti e secondo voi per quali motivi? Quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra i titoli che hanno ottenuto più riconoscimenti troviamo sicuramente I superflui di Dante Arfelli e Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato.
Arfelli è stata in parte una sorpresa, innanzitutto perché era il primo titolo e non ci aspettavamo una tale risposta da parte del pubblico e della critica. Abbiamo pubblicato I superflui, per un caso totalmente fortuito, nel centenario della nascita dell’autore; probabilmente c’era grande attesa circa il ritorno di Arfelli nelle librerie, quantomeno da parte di una nicchia affezionata di lettori.
Per quanto riguarda Pietro Di Donato, invece, il discorso è diverso: anche in questo caso c’era probabilmente una certa attesa, ma crediamo che il successo di Cristo fra i muratori sia dovuto al tema che il libro tratta: la storia è d’ispirazione autobiografica ed è raccontata da Paolo (personaggio appunto riconducibile a Pietro Di Donato), che all’età di dodici anni perde il padre per un incidente sul lavoro. Quello delle morti sul lavoroè un tema molto sentito nel nostro paese, ed è vergognoso che oggi come allora si muoia in tali circostanze. Dall’inizio dell’anno ci sono già state sette “morti bianche”. In soli tre giorni, e siamo all’11 di gennaio.

Nel nostro piccolo, pensiamo sia importante partire dalla sensibilizzazione per creare una sorta di consapevolezza generale, e crediamo che negli ultimi anni questo stia accadendo: sempre più persone non sono disposte ad accettare condizioni di lavoro che non garantiscono sicurezza e sempre più persone si stanno battendo per un cambiamento, perché morire di lavoro non è accettabile.
Circa i prossimi tre titoli che abbiamo in cantiere possiamo dirvi che il 27 gennaio uscirà Nella città l’inferno di Isa Mari per la collana Le polveri. A febbraio, nella collana I superflui, pubblicheremo Il corpo della medusa di Luca Martini, già autore, fra gli altri, di Manuale di sopravvivenza per bambini invisibili (Pequod, 2018) e Mio padre era comunista (Morellini Editore, 2019). Per il terzo titolo ci concentreremo nuovamente su Le polveri, ed è previsto per marzo. Su questa pubblicazione non possiamo dirvi di più, ma ne sentirete parlare presto!

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Fin da subito abbiamo improntato la comunicazione e la distribuzione su tutti i canali possibili, non trascurando nessuno e cercando di essere presenti tanto nel “reale” (con un rapporto diretto con le librerie indipendenti, con un rapporto diretto con la promozione e con un aggiornamento costante con i buyer delle centralizzate) quanto nel digitale, attraverso lo shop sul nostro sito, la presenza su tutte le piattaforme digitali e una gestione dei social dinamica, ma allo stesso tempo istituzionale. Tutto ciò ci ha permesso di interfacciarci con un pubblico composto da lettori giovani e meno giovani e da lettori occasionali e grandi lettori. Il mercato delle riscoperte, sulla carta, era focalizzato sul grande lettore che ricercava da anni libri oramai giudicati introvabili, ma grazie a questo mix di comunicazione reale e digitale abbiamo constatato che siamo riusciti ad arrivare a una fetta di lettori più giovani (anche anagraficamente) e, appunto, più occasionali; lettori che hanno dedicato ore di lettura a libri di cui magari non sarebbero mai venuti a conoscenza. Questo grazie al lavoro dei librai indipendenti ma anche di catena, che hanno sposato da subito le nostre scelte editoriali.
Questo è anche un po’ quello a cui aspiriamo con il nostro lavoro: far conoscere a più gente possibile grandi autori ingiustamente dimenticati nel tempo e nuove voci contemporanee valide che troppo spesso passano in sordina.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Ogni mezzo di comunicazione è a sé, e sono diversi. Che in Italia si legga poco purtroppo è una realtà, ma chi non legge non lo fa perché Netflix gli propina un numero indefinito di serie tv tutte insieme – probabilmente queste stesse persone non avrebbero letto o non leggevano nemmeno vent’anni fa. Crediamo che l’intrattenimento non sia solo intrattenimento fine a sé stesso – molte attività provengono da forme artistiche; c’è un tempo per tutto, ed è giusto sia così. In quanti nelle ultime settimane hanno chiuso un cerchio guardando l’ultima stagione di The Walking Dead? È difficile che questo abbia impedito alle persone di leggersi un libro se questo era ciò che volevano fare. Insomma, una cosa non esclude l’altra. Tra l’altro, durante il lockdown del 2020, ci fu una lieve inversione di tendenza. Durante quelle settimane molta gente aveva a disposizione diverse ore di tempo libero e questo tempo proveniva dal non lavorare o dal lavorare da casa, non dalla mancanza di altre forme di intrattenimento.
Anche l’utilizzo dei social, da questo punto di vista, non ci preoccupa più di tanto; nonostante il tempo speso sui social sia sempre maggiore, difficilmente immaginiamo che le persone smettano di seguire le proprie passioni per questo. Se usati bene, inoltre, possono essere un ottimo strumento per seguire case editrici e progetti editoriali validi, in un modo così diretto e interconnesso che è sorprendente, e di certo non auspicabile fino a qualche anno fa.

Concludiamo con un altro spunto di riflessione: alcuni lettori hanno il brutto vizio di giudicare malamente chi legge meno, e questo è il miglior modo per allontanare le persone dalla lettura, anziché avvicinarle.

 

SoloLibri.net › Intervista-redazione-Readerforblind       12 gennaio 2023

 

RECENSIONI

CANETTI

ELIAS CANETTI, AFORISMI PER MARIA LOUISE – ADELPHI, MILANO 2015

Del piccolo volume pubblicato da Adelphi nel 2015, Aforismi per Maria Louise di Elias Canetti, più della metà è occupato dalla splendida postfazione di Jeremy Adler, che ne illustra le vicende di composizione e ritrovamento, inserendolo all’interno della produzione letteraria e filosofica dell’autore austriaco. Elias Canetti scrisse gli aforismi dedicati alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky tra il 1941 e il 1942, probabilmente facendogliene dono il giorno del suo trentaseiesimo compleanno, il 24 ottobre 1942. Il manoscritto, ritrovato tra le carte della destinataria dopo la sua morte, era vergato con inchiostro blu scuro, con titolo e dedica in giallo, e presentava le pagine forate in due punti all’estremità superiore, legate da un cordoncino dorato che gli conferiva l’aspetto di omaggio solenne e gratificante.

Per stessa ammissione dell’autore, questi 129 appunti (così preferiva definirli, anziché aforismi, massime, bozzetti o riflessioni), erano stati composti come “valvola di sfogo” durante l’onerosa e opprimente stesura del suo capolavoro, Massa e potere, durata quarant’anni e conclusasi con la pubblicazione nel 1960. Non rappresentano comunque un’opera secondaria, bensì si definiscono come un concentrato della sapienza, cultura, sapidità che ha caratterizzato l’opera omnia dell’autore, ponendolo nella scia di produzione di massime e frammenti che da Karl Kraus risale a Nietzsche, La Rochefoucauld, Montaigne, Pascal, fino ai presocratici. “L’appunto, in Canetti, va inteso come scrittura aperta, una scrittura che si muove liberamente fra l’immediatezza del diario e il rigore della riflessione. È in questa tensione che si dispiega la forma breve”, puntualizza Adler nel suo commento.

Elias Canetti, nato in Bulgaria nel 1905 da famiglia ebrea colta e benestante, ebbe come lingua materna il ladino, ma in seguito imparò il tedesco, che utilizzò per scrivere tutte le sue opere, quindi il bulgaro, l’inglese, il francese, lo spagnolo: acquisizioni rese necessarie dalle frequenti peregrinazioni in tutt’Europa. Visse infatti a Manchester, Vienna, Francoforte, Berlino, Parigi, Londra, Zurigo, dove morì nel 1994 e dove è sepolto, accanto alla tomba di James Joyce. Si laureò in chimica, materia in cui conseguì anche un dottorato, senza mai praticarla a livello professionale. Sposò nel 1934 la scrittrice sefardita Veza Taubner-Calderòn, donna affascinante con cui ebbe un sodalizio affettivo e culturale profondo e tormentato, conclusosi con il suicidio di lei nel 1963. Conobbe e frequentò gli intellettuali più importanti della sua epoca: Brecht, Babel’, Grosz, Musil, Berg, Alma Mahler. Fu traduttore, autore teatrale (Nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza), romanziere (Autodafé), saggista (oltre al già citato Massa e potere, anche Le voci di Marrakech). Naturalizzato cittadino britannico, nel 1971 Canetti sposò in seconde nozze la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’unica figlia Johanna. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”. Forse il suo lavoro più rappresentativo rimane l’autobiografia divisa in tre parti (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi), pubblicata fra il 1977 e il 1985.

Destinataria del testo di cui trattiamo era la pittrice Marie-Louise von Motesiczky (1906-1996), come lui ebrea, ma discendente da un casato facoltoso e aristocratico, frequentatrice della Vienna più illustre. Si erano conosciuti a Londra, entrambi esiliati dall’Austria nazista, e rimasero uniti per tutta la vita in una relazione amorosa e intellettuale, tollerata da entrambe le mogli di lui. Bellissima, alta, elegante, emotivamente fragile, Marie-Louise condivideva con Elias lo stesso spirito curioso, la stessa indipendenza culturale da fedi religiose o appartenenze politiche, e interessi coltivati sia in un’assidua frequentazione personale (nella casa di lei rimase sempre a disposizione di Canetti un’intera stanza con annessa biblioteca) sia un vivace epistolario, arricchito da fotografie e ritratti, alcuni dei quali riprodotti nel libro adelphiano. “Tutto si può uccidere: una persona, un’opera, un nome e persino un dio, ma non un amore vero”, recita uno degli aforismi dedicatele dall’amante.

La maggior parte degli appunti (scritti in uno stile veemente e appassionato, utilizzando toni spesso caustici e grotteschi) ruota intorno ai tre temi fondamentali su cui si è sostanzialmente basata l’intera riflessione teorica di Elias Canetti: Dio, la morte, la guerra.

La divinità cui si ispirano non ha tratti specificamente ebraici, cristiani, buddisti: piuttosto assume un’identità oppressiva, ingiusta o tuttalpiù indifferente rispetto alle sorti del genere umano, che d’altra parte non risulta meritevole di grande considerazione da parte di alcun essere supremo. “Guardati in particolare da tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio. In questi casi si tratta sempre di una riduzione della vita; del suo impoverimento e della sua meccanizzazione; di una sorta di tirannide divina; il dio può anche essere un apprendista”, “Il Dio della Bibbia è interessante, non è mai esistita una creatura tanto assetata di potere: punisce solo il traditore, premia solo il servo fedele; ed entra in scena con la pretesa di possedere tutto, perché tutto lui ha creato”, “Gli amici di Dio sono irrimediabilmente disperati per la sua grandezza”, “Dio è morto perché il suo nome è stato profanato, adesso lo invochino pure quanto vogliono”.

La morte ispira a Canetti un odio e un rancore inestinguibile, poiché avvertita come una condanna iniqua, stupida, ingiustificabile, ed espressione massima della sopraffazione materiale e metafisica. Quasi istericamente, non ne accetta l’inevitabilità: “Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei”.

Altrettanto feroce è il suo disprezzo verso la guerra, manifestazione di brutalità, idiozia, primitivismo bestiale. Quando questi aforismi venivano scritti, infuriava il secondo conflitto mondiale, Londra veniva bombardata quotidianamente, si inaspriva la persecuzione contro gli ebrei, l’assedio di Stalingrado sembrava non avere fine. Canetti ne parla mettendone in luce gli aspetti più truci e sanguinari. “Combattono fra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue”, «Mi ha rubato l’orecchio sinistro. Gli ho preso l’occhio destro. Mi ha fatto cadere quattordici denti. Gli ho cucito le labbra. Mi ha bollito il didietro. Gli ho rivoltato il cuore. Ha mangiato il mio fegato. Ho bevuto il suo sangue. – Guerra”, “Ha salvato dalla guerra il mignolo del figlio minore”, “Chiunque riderà a guerra finita, sia messo a morte per averla dimenticata con tanta leggerezza”, “Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere”, “Durante l’ultima guerra i tedeschi portavano ancora i guanti; a maglie di ferro, a dire il vero, e con quelli ti colpivano in faccia; ma li chiamavano pur sempre guanti”.

Disgusto, rabbia, amarezza, condensati nel più feroce e amaro di questi appunti: “L’uomo è la misura di tutti gli animali”, che modifica ironicamente la celebre tesi di Protagora.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 3 gennaio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, MUSE NASCOSTE – GALAAD, ROMA 2021

“Se la poesia è espressione dell’indicibile, celato oltre le pieghe dell’esistenza, se è indagine del reale per oltrepassarne traumi e sofferenze, esprimendo ideale e bellezza, se è tensione verso un linguaggio che non si lascia addomesticare, se – in una parola – la poesia è una rivolta contro le imposizioni e le costrizioni dell’esistente per ambire a un sogno di libertà e di assoluto, allora il presente volume costituisce lo strumento per porsi in ascolto di quell’indicibile, attraverso la vita e la voce di ventiquattro poetesse, molte di loro ancora ignote al vasto pubblico, figure esemplari di un assalto ai limiti dell’esistenza individuale e sociale, ai segreti inesplicabili del mondo fisico e metafisico, alla resistenza della parola e del suo mistero”. Così Luigi Beneduci nella prefazione al bel libro di Nicola Vacca, Muse nascoste.

Le poete presenti in questa antologia occupano un raggio cronologico e geografico molto vasto: dall’America dell’800 alla pianura Padana di fine ’900, dalla Russia bolscevica all’Argentina degli anni ’70. Nicola Vacca (Gioia del Colle, 1963) – scrittore, critico letterario, opinionista – offre ai lettori un quadro sintetico ma incisivo delle loro personalità, introdotto da una breve nota biografica, e illustrato criticamente nell’aspetto formale, quindi attraverso la citazione sia dei versi più noti ed esemplificativi, sia di stringati giudizi di alcuni esegeti internazionali.

Volendo tentare una classificazione, per quanto arbitraria, che inquadri le autrici, potremmo suggerire di suddividerla in quattro ambiti di espressione: tra chi privilegia la riflessione spirituale e la ricerca metafisica, e chi affronta invece la complessità storica con le sue ingiustizie e persecuzioni, tra chi indaga la propria interiorità ferita, e chi invece è più interessata a sovvertire la tradizione linguistica. Ovviamente, nessuna delle poete antologizzate si limita a un unico settore di indagine; comune a tutte è, comunque e sempre, un forte disagio sociale, la drammatica disarmonia con il mondo in cui vivono, e una sofferenza che sembra immedicabile, particolarmente evidente nelle otto di loro che hanno scelto la morte volontaria (Cvetaeva, Pozzi, Rosselli, Pizarnik, Sexton, Plath, Campana, Ruggeri).

Icastiche, concise ma penetranti sono le definizioni con cui Nicola Vacca sintetizza le doti caratteriali e stilistiche delle varie autrici: “l’oscillazione continua tra l’abituale e l’eterno” di Emily Dickinson, “la voce deflagrante ed estrema” di Jolanda Insana, “il mondo senza speranza né redenzione” di Ágota Kristóf, la “straordinaria voce eretica che non ha mai rinunciato alla perfezione e alla bellezza” di Cristina Campo, “la rigorosa intransigenza di precisi principi morali” di Simone Weil, “il terribile deflagrare di una sensibilità acuta, lancinante e tragica” di Sylvia Plath.

Altrettanto coinvolgente ed empatica è la scelta dei versi che vengono proposti al lettore. Il classicismo composto di Lalla Romano ben si evince leggendo: “Non pensare se cerco parole / che voglia nutrirmi di vento / un dono di giuste parole / incorruttibile come la musica / dolce come la casa / triste come l’infanzia / paziente come il tempo”. L’amarezza del sentirsi ingiustamente esclusa risulta palese da quanto scrive Fernanda Romagnoli: “Io qui non mi trovo, io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato”. La preghiera tormentata e controcorrente di Margherita Guidacci ne rivela l’inevitabile isolamento intellettuale e religioso: “Mio Dio salvami dalla parola condotta in parata come un vitello / nel giorno di fiera; … meglio scrivere un libro importante nel deserto / che diventare celebre per un equivoco”.

In questa galleria di ritratti femminili, “la voce possente e polifonica, straziante e al tempo stesso appartata” di Nadia Campana, il suo “esercizio di dolore che ha trovato lo schianto” nel gettarsi, appena trentunenne, da un ponte della tangenziale est di Milano, appaiono emblematici dell’angoscia che ha relegato la quasi totalità delle poete qui rappresentate all’emarginazione, a un rifiuto o a un’ingiusta sottovalutazione. La fragilità, la rabbia e la disperazione intuibili nelle loro tormentate biografie, ha cercato e trovato una possibile via di comunicazione, di resistenza e riscatto proprio nel dono gratuito della poesia, che, come ammoniva Simone Weil “deve ambire a esprimere qualcosa, e contemporaneamente nulla – il nulla che si manifesta dall’alto”.

 

© Riproduzione riservata        «L’indice dei Libri del Mese» n. I,  gennaio 2023