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RECENSIONI

DEL COLLE

PAOLO DEL COLLE, STATO DI INSOLVENZA – AMOS, VENEZIA 2022

Le tre sezioni in cui si suddivide Stato di insolvenza, il più recente lavoro di Paolo Del Colle (a cura di Arnaldo Colasanti, con illustrazioni di Giuseppe Salvatori), non rivelano nella loro scansione una reale frattura di forme e contenuti. Lo stile, in Al termine, Irene e Nomi propri, si mantiene infatti costantemente ansioso, affannato, incalzante – pur nella pronuncia sommessa –, nel suo procedere privo di punteggiatura, a versi brevi e caratterizzati da costrutti perlopiù ripetitivi.

L’argomento principale è quello dell’esplorazione dell’io, senza indulgere tuttavia allo scandaglio psicanalitico, e invece con una ossessiva esposizione del proprio male di vivere, perlopiù rassegnato e amareggiato, talvolta quasi risentito nei confronti di sé e del mondo intorno. Il “tu” femminile che appare e scompare, si mimetizza e sdoppia nella sua evanescenza fisica, risulta una presenza-alibi con cui la prima persona singolare mette in scena un incontro-scontro da cui sa di non potersi attendere risposte, pur illudendosi di un ascolto solidale e confortante. Una presenza quasi scorporata, quella della donna, a cui si attribuiscono caratteri fluttuanti e indefiniti, mentre più assoluto e incombente è il profilo dell’anima dell’autore, sola e silenziosa interlocutrice con cui confrontarsi (“mi attendi, anima ansiosa, / nel provvisorio inganno / di non fare in tempo / ad essere ciò che sono / per così rimanere / con me in ascolto / di quel che si dirà di te”).

Soliloquio più che dialogo, testimoniato dalla ricorrenza di termini che indicano labilità, oscurità, inconsistenza, sconfitta: ombra e penombra, vano e svanire, simile e somiglianza, sfuggire e perdere. Se “un livido momento di incertezza” segna “il breve orizzonte” delle giornate uguali, inutili, mute, qualsiasi alterità umana o metafisica non può offrire scampo alla pena, nessuna voce regala sollievo “in questo parziale aldilà che cerca un compimento”. La sofferenza è indubbiamente anche fisica, testimoniata dal racconto di dolenti esperienze ospedaliere, medicazioni, ricette, cure a cui il corpo non ha voglia di rispondere. Ma è principalmente patimento mentale, afflizione dello spirito, “melancholia”. La ricerca di un passato comune da ricostruire con la sorella, il ricordo di un’infanzia terrorizzata dalle “voci alterate” dei genitori (“guardandoci vedevamo / due adolescenti impauriti / le mani sulle orecchie / chiusi nella propria stanza”), l’inventario dei vestiti della madre morta verso cui non si riesce a provare né affetto né gratitudine, la rassegnazione a un destino ingiusto, privo di prospettive future di cambiamento (“e allora tutto resterà / come ieri come un mese fa / come all’inizio”), la scoperta dell’inevitabile incomunicabilità con chi ci è vicino, condannato a rimanere uno sconosciuto (“quando nessuno di noi è ciò che pensa l’altro”): tutto ciò dà alla raccolta di Paolo Del Colle l’impronta amara di un’infelicità priva di desideri e di possibilità di riscatto.

Il titolo stesso sembra indicare una disposizione negativa nei confronti della propria vita e indole, poco accettata, misurata con severo rigore. Giuridicamente, infatti, per stato di insolvenza si intende l’incapacità non solo passata ma anche e soprattutto futura di pagare i debiti, l’impossibilità di soddisfare le obbligazioni: una effettiva dichiarazione di fallimento imprenditoriale, che Del Colle ha voluto dilatare a livello letterario e di analisi introspettiva, sottolineando il disagio esistenziale che ne deriva.

Poeta, romanziere e critico, nato nel 1957, l’autore vive a Roma e ha vinto quattro anni fa il Premio Nazionale Frascati con il volume Nuda proprietà, in cui alternava versi e prose indaganti i temi della mancanza, del lutto e delle diverse modalità dell’essere, inanimato e animale.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2022

 

 

Alida Airaghi

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, IL TRENO – ADELPHI, MILANO 2020

Non è stato solo uno dei massimi giallisti del’900, Georges Simenon (1903-1989): è stato anche un grande romanziere, che proprio dal suo scrivere centinaia di libri noir e polizieschi ha saputo trarre abilità particolari: l’attenzione all’indagine psicologica dei personaggi, l’intelligenza nella costruzione degli ambienti e delle situazioni in cui essi si muovono, la sapienza nel condurre dialoghi credibili, la capacità di creare nel lettore il senso di un’attesa curiosa ma non impaziente dello svolgersi degli avvenimenti. Non ultima, poi, la padronanza di uno stile asciutto ed elegante, senza indulgere alla retorica o a una troppo scaltra condiscendenza verso i gusti del pubblico. Penso che chiunque abbia letto La neve era sporca, Lettera al mio giudice o quel piccolo gioiello di perfidia e dedizione che è Lettera a mia madre possa confermarlo.

Il treno, pubblicato nel 1961, vent’anni dopo lo svolgimento dei fatti che vi sono raccontati, è uno dei libri più noti e ammirati del romanziere belga. Il famoso filosofo e sinologo François Jullien, nel suo intenso volume Sull’intimità, gli dedica addirittura un capitolo intero di ammirato commento.

In centocinquanta pagine Simenon racconta una vicenda sentimentale iscritta all’interno della tragedia dell’invasione tedesca della Francia all’inizio della seconda guerra mondiale. Il protagonista e voce narrante è Marcel Féron, un radiotecnico trentaduenne, sposato con Jeanne, incinta al settimo mese. I due hanno già una bambina, Sophie, e vivono in una casetta con un cortile, un cane, un piccolo pollaio, adiacente al laboratorio in cui l’uomo trascorre con regolarità le sue giornate dedicate al lavoro e alla famiglia. L’avviso diramato per radio dell’avanzare delle truppe del Reich getta l’intero paese di Fumay, sul fiume Mosa, ai confini con il Belgio, nel più totale trambusto: è venerdì 10 maggio, Danimarca, Norvegia e Olanda sono già state occupate.

Marcel, che aveva trascorso l’adolescenza in sanatorio e soffriva di una miopia invalidante, è stato riformato e non teme l’arruolamento, tuttavia accorgendosi che intere famiglie del vicinato si apprestano a lasciare le loro abitazioni, decide di porsi in salvo insieme alla moglie e alla figlia. Affida agli anziani vicini le chiavi di casa e gli animali, riempie due valigie di vestiti e cibo, e con un carretto a mano si precipita alla stazione. Qui una folla di persone di tutte le età, impazienti e smarrite, aspetta l’arrivo del primo treno diretto verso ovest. All’arrivo del convoglio, le infermiere e i gendarmi smistano il gruppo, facendo salire sulle prime carrozze le donne e i bambini, mentre ammassano gli uomini negli ultimi vagoni merci. Quello su cui sale Marcel, dopo aver lasciato i bagagli alla moglie, puzza di stalla, perché adibito in precedenza al trasporto di bestiame: vi si pigiano perlopiù anziani del paese, impauriti e zitti, indifferenti gli uni alla sorte degli altri.  Lui stesso si lascia trascinare dagli eventi, senza opporre resistenza, con rassegnato fatalismo: “Fino al giorno prima ero io a dirigere la mia vita e quella dei miei cari… Ora non più. Non avevo più radici. Non ero più Marcel Féron… ma un uomo fra milioni di altri uomini in balìa di forze superiori”.

Inizia il viaggio, estenuante e gravoso, del convoglio, che spesso è costretto a fermarsi su binari morti, cambiando direzione per l’improvviso intensificarsi dei combattimenti e le incursioni degli aerei tedeschi. Marcel ha la netta sensazione di trovarsi a una svolta importante della sua vita, a un appuntamento con il destino cui non può né vuole sottrarsi: “Non mi dispiaceva affatto, anzi, provavo una sorta di gioia torbida, come quando si distrugge qualcosa che si è pazientemente costruito con le proprie mani”.

La promiscuità all’interno del vagone crea imbarazzo in alcuni, diffidenza e circospezione in altri, sfrontata esibizione delle proprie voglie sessuali e dei bisogni fisiologici nei più disinibiti. Marcel è attratto dalla vista di una giovane donna vestita di nero, che lo osserva con uno sguardo sospeso tra timidezza e pietà. Inevitabile che i loro corpi si avvicinino, si sfiorino, e poi nella notte si accoppino con naturalezza innocente e ingorda insieme, “silenziosi entrambi come due serpenti”. Simenon racconta l’attrazione erotica tra i due profughi con delicata e solidale indulgenza, la stessa con cui descrive la serena e placida bellezza delle campagne attraversate dal treno, mentre dal cielo cadono le bombe e raffiche di mitragliatrice si abbattono su chi incautamente scende dai vagoni.

Con pudore la donna rivela la sua identità: si chiama Anna, ed è un’ebrea di origine cecoslovacca, fuoriuscita da un carcere del nord. Mentre il treno attraversa una Francia irreale, lambendo Reims, Bourges, Nantes, diretto verso Bordeaux, Marcel e Anna approfittano di ogni sosta per fare l’amore, sui prati, sull’argine di un fiume, nascosti agli altri e sempre più coinvolti emotivamente, pur consapevoli che la loro storia non può avere futuro.

“Ma era poi lei che amavo, o la vita? Non so spiegarmi: io ero nella sua vita; avrei voluto rimanerci per ore, non pensare più a nient’altro, diventare come un albero al sole… Si era prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla. Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un’altra dimensione, i cui valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita… Se dovessi descrivere il posto, potrei parlare soltanto delle chiazze di ombra e di sole, del colore rosato di quel giorno, del verde della vigna e dei cespugli di ribes, del mio torpore, una sorta di benessere animalesco, e mi chiedo se quel giorno io non sia arrivato il più vicino possibile alla perfetta felicità”.

Arrivati al centro di accoglienza di La Rochelle (che Simenon descrive con cognizione di causa, essendovisi trasferito nel 1940 per occuparsi dei profughi belgi), i due amanti trascorrono un mese lavorando e fingendo uno scampolo di routine matrimoniale, finché Marcel viene raggiunto dalla notizia che sua moglie Jeanne ha partorito in un ospedale della Vandea. Con Anna si mette fortunosamente in viaggio per ricongiungersi alla sua famiglia, separandosi dall’amata sul portone del reparto di maternità, con consapevole e malinconica ragionevolezza.

Si incontreranno di nuovo anni dopo, per pochi minuti e in un’occasione tragica, quando già Marcel è tornato a Formay: “Ripresi la mia vita dal punto in cui l’avevo lasciata, com’era mio dovere, com’era destino, perché era la sola soluzione possibile e non avevo mai pensato che ce ne potesse essere un’altra…”. Simenon fa concludere il racconto al protagonista con scarne parole: “Non sono mai ritornato a La Rochelle. Non ci tornerò mai. Ho una moglie, tre bambini, un’attività commerciale in rue du Château”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali»      5 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DEEN

MATHIJS DEEN, LA NAVE FARO – IPERBOREA, MILANO 2022

Lammert fa il cuoco di bordo, e di lui si sa poco: che aveva trascorso l’infanzia in Indonesia, dove poi era stato fatto prigioniero dai giapponesi, e che da allora, a cicli ricorrenti, torna ad ammalarsi di malaria. È imbarcato sulla Texel, una nave faro ancorata al largo delle coste olandesi “come una fortezza in mezzo al mare”, destinata a indicare la rotta alle imbarcazioni in transito, dirette soprattutto verso il Mar Baltico, illuminandone il tragitto.  “La nave su cui lavorava non arrivava mai da nessuna parte, né salpava mai”, e la vita del cuoco resta confinata tra cucina, cabina, cambusa e ponte.

I suoi dieci compagni mal tollerano la noia e l’inerzia cui sono costretti, afflitti da un complesso d’inferiorità rispetto ai marinai di lungo corso: “Una nave era fatta per salpare, per navigare e, dopo un lungo viaggio, entrare in un porto carico di promesse. Un uomo di mare girava il mondo, sostenevano, conosceva tanti porti, sapeva come andavano le cose oltreoceano e per questo ne taceva. E aveva una mente aperta”. Invece, “Una nave faro non ha un’elica, non ha un motore, sul ponte di comando non c’è un timone; non può far altro che ondeggiare, un po’ sconsolata, un animale che tira invano una catena”.

Ogni quattro settimane l’equipaggio si dà il cambio con i turni di terra, e appunto in quel giugno afoso e umido, Lammert sbarca, ritirandosi nella vecchia casa dove aveva vissuto con la madre fino alla morte di lei. Proprio ritrovando un ingiallito ricettario materno, si imbatte nella descrizione di un piatto indonesiano, il gule kambing, e ne assapora mentalmente gusto e profumi. Da una contadina del paese si procura un capretto, con l’intenzione di farne uno stufato da preparare ai colleghi una volta tornato a bordo.

L’introduzione clandestina dell’animale sulla nave lo prova emotivamente, ma l’accoglienza incuriosita e affettuosa dei marinai verso il piccolo ospite lo rincuora. In particolare Gerrit Snoek, “trentenne alto e abbronzato che attraversava la vita a capo un po’ chino, come sotto uno stipite troppo basso”, incaricato di fare rilevazioni per il Servizio Meteorologico Nazionale, fa subito del capretto il suo confidente, tenendoselo in braccio a osservare il mare, il porto di Den Helder in lontananza, le luci delle navi che fiancheggiano la Texel. Tonnie Vonk, il mozzo, riceve dal cuoco l’incarico di allattare la bestiola: “Due volte al giorno, un biberon quasi intero, bello caldo, quasi bollente”. Il primo ufficiale Jan de Ruyter, il marinaio più anziano Henk Kaag, la vedetta Niek Boon, il motorista Klaas Boon e persino il Capitano osservano con indulgenza l’intraprendente vivacità dell’animale dalle pupille verticali e dalle corna appena accennate, che scorrazza dal ponte alla sala macchine saltellando e belando infantilmente.

La narrazione procede tranquilla e puntuale fino alla metà del libro, per poi animarsi improvvisamente in un crescendo ansioso e turbato, in cui l’atmosfera nebbiosa e sospesa attorno alla nave acuisce la tensione psicologica che invade i protagonisti del racconto.

Mathijs Deen (1962) è uno scrittore e giornalista olandese, autore di reportage, documentari e programmi radiofonici. Ha pubblicato saggi narrativi e racconti che gli sono valsi importanti riconoscimenti di pubblico e critica. Iperborea ha già pubblicato nel 2020 il suo corposo romanzo Per antiche strade, che combina ricerca storica, diario di viaggio e invenzione.

Molto abilmente Deen accompagna il lettore in un climax angoscioso, che vede il cuoco cadere in preda al delirio della malaria proprio quando si appresta a macellare il capretto, l’equipaggio prendere le parti dell’animale cercando di sottrarlo all’uccisione, il mare mugghiare minaccioso mentre le luci del faro solcano sinistramente le onde, le boe di segnalazione accecate dalla foschia e la sirena (“quell’animale lamentoso, quel toro malato”) annunciare lugubre gli incombenti pericoli di collisione con i mercantili, i cargo e le navi da crociera che sfiorano la Texel nel buio.

L’inquietante presagio di un evento drammatico è suggerito dall’autore nella descrizione degli incubi di Lammert, sudato e febbricitante nella sua cabina, confusi tra la prigionia e le torture subite a Giava e l’eco della turbinosa tempesta avvertita oltre l’oblò, mentre Snoek ossessionato dalle allucinazioni teme di riconoscere nell’impaurito capretto uno spirito demoniaco che si è impossessato delle menti dell’equipaggio. Senza svelare la conclusione del racconto, si può forse anticipare che la vittima predestinata al sacrificio sarà l’unica a salvarsi dal male che dilaga sulla nave faro.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali»     29 settembre 2022

RECENSIONI

CREMONTE

WALTER CREMONTE, COSA RESTA – AGUAPLANO, PASSIGNANO 2018

Walter Cremonte (1947), vive a Perugia, dove ha insegnato in un liceo, occupandosi di letteratura e pubblicando diverse raccolte di versi. La sua poesia spazia da temi personali e sentimenti intimi, – raccontati sempre con estrema delicatezza -, a contenuti di maggiore pregnanza. Con il pudore e l’understatement che caratterizza la sua scrittura e la sua intera esistenza, ha scelto di consegnare i propri versi a brevi sillogi distanziate nel tempo. Cosa resta, edito nel 2018, raccoglie componimenti tratti appunto da plaquette uscite tra il 2001 e il 2016, più due testi inediti. Le prime composizioni riferiscono con amarezza fatti di prevaricante violenza sociale: l’emigrazione, le morti sul lavoro, il carcere. Episodi dolorosi che appaiono tuttavia solo sintomi di un disagio esistenziale più profondo ed esteso, in cui l’essere umano è avvertito come vittima di un’ingiustizia universale ingiustificabile e incomprensibile: la labilità e l’inconsistenza del vivere, la condanna a finire nel nulla. Ne è metafora il papavero raccolto nel campo e messo pietosamente in un vaso, pur sapendo che è destinato a sfiorire, curato “come qualcosa che dura”.

Resistenza, potrebbe essere il leitmotiv che caratterizza queste pagine: resistenza al male, all’infelicità, alla superficialità, alla morte. Cremonte lo afferma con convinzione già nella premessa, concordando con l’opinione diffusa che la poesia non serva a niente: “… forse la poesia non serve, ma è. Necessariamente. Forse non serve (non vale) nel grande supermercato del valore di scambio, dove tutto è merce (anche noi), ma serve (vale) per il valore d’uso che ha, o potrebbe avere… Prefigurando così un altro mondo possibile”.

Il dialogo con la poesia attraversa tutta la raccolta, sia nelle dediche esplicite a poeti amici (Scataglini, Ottaviani), sia nelle citazioni di versi di Dante, Leopardi, Penna, Caproni e nelle eleganti traduzioni di classici latini (Orazio, Lucrezio, Virgilio, Catullo, Marziale). Ma soprattutto sfruttando una sensibilità poetica che travalica la stessa effettiva produzione in versi, e si esprime nella contemplazione della bellezza, nei gesti d’amore trattenuti, in un sorriso “che non si lascia prendere”, in una parola che si smorza sulle labbra per pudore.

Nella mappa geografica puntualmente descritta dall’autore, i rifiuti abbandonati Lungo il Tevere non oscurano il verde incanto dell’erba curva sull’acqua, “i monti azzurrini” sullo sfondo del Trasimeno offrono e negano insieme un significato alla percezione dell’infinito, gli operai di un cimitero celebrano “il loro tempo beato” ridendo incuranti del lutto, un bar chiude sulle illusioni degli avventori, un’autostrada indifferente conduce comunque verso una meta. La luna rimane luminosa nonostante tutto: “Cara luna / perché splendi / così bella / sopra i cumuli / dell’immondizia // così alta, pulita: svelandoti del velo / del cielo / mostri una via d’uscita / forse, ma dove / andiamo, dove / mia cara luna”.

Pur nel contrasto continuo tra bellezza e squallore, gioia e dolore, vita e morte, è comunque lo sguardo stupito e grato di chi scrive a offrire una risposta alle domande eterne sul significato dell’esistere: “Perché il senso / è nel cercare il senso / non nell’averlo trovato”.

La voce sommessa, pudica, del poeta non ha bisogno di esibire i suoi affetti, tantomeno la passione: le basta dire una lunga fedeltà, come quella ai propri morti (il padre Lelio, l’amato figlio Nicola), che continuano a vivere in chi li ricorda: “Potrei dire fumo una sigaretta / o vado sul balcone a guardare / è una bella giornata / perché no // solo che loro non lo / possono fare / non è che ho molto altro da dire”.
Il lettore si sarà già reso conto da queste poche citazioni che Walter Cremonte, anche nel trattare emozioni ed argomenti alti o dolorosi, si serve di un linguaggio colloquiale e umile, di parole consuete e addirittura letterariamente abusate, deciso a evitare qualsiasi ampollosità o preziosismo, smorzando i toni, evitando la retorica. Se parla della compagna di una vita intera, Giovanna, utilizza addirittura una velata ironia: “Ce la facciamo amore / il cielo è così azzurro / così cara la vista al nostro cuore / dell’orto del vicino, del convento / con la campana che accompagna il dolce / vento, non più di tramontana. // Qualche volta (basta non far rumore) / gli accadimenti, gli eventi, il nemico / sonnecchiano un poco / e si respira, dài ce la facciamo”; “Questa è una poesia d’amore / e non puoi farci niente / la devi prendere // è come il tempo / quando il tempo è buono / o quando non è buono // è una poesia d’amore / la devi prendere”.

Il rifiuto dell’assoluto e di una trascendenza mistificatrice, affida a una filosofia della quotidianità l’accettazione tranquilla del reale, testimonianza di un’abitudine che rimane cara e unica per chiunque sappia apprezzarla nella sua nuda verità: “Cosa resta / da fare: / scrivere che la vita è male? // E portare avanti le gambe / una poi l’altra / come alla giostra / ecco che cosa / resta”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Cosa-resta-Cremonte26 settembre 2022

 

 

 

RECENSIONI

PALMINI

Giuseppe Palmini, Il personalismo comunitario di Emmanuel Mounier – Nulla Die, Piazza Armerina 2021

Tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, il mio filosofo di riferimento, insieme a Simone Weil e agli esistenzialisti, è stato Emmanuel Mounier. Ho voluto riprendere in considerazione il suo pensiero, per vedere quanto ancora – dopo cinquant’anni – la sua scrittura mi coinvolgesse, intellettualmente ed emotivamente. L’ho fatto seguendo il percorso tracciato da un saggio di Giuseppe Palmini pubblicato lo scorso anno dalle edizioni siciliane Nulla Die. In cinque capitoli, e offrendo una ricca bibliografia, Palmini indaga in che modo la filosofia personalista e comunitaria di Emmanuel Mounier (Grenoble 1905-Parigi 1950) sia suscettibile di attualizzazione, quanto cioè del suo pensiero, sfrondato degli inevitabili arcaismi e dal suo riconosciuto ingenuo volontarismo, possa indicare una via percorribile dalla civiltà occidentale per uscire dalla crisi economica ed etica in cui si dibatte.


Ne
Il personalismo, il filosofo francese affermava: “Di fronte alla crisi, la cui gravità molti si nascondevano, due spiegazioni venivano proposte. I marxisti dicevano: crisi economica classica, crisi di struttura. Intervenite sull’economia, il malato si rimetterà. I moralisti contrapponevano: crisi dell’uomo, crisi dei costumi, crisi dei valori. Cambiate l’uomo e le società guariranno. Noi non eravamo soddisfatti né degli uni né degli altri. Spiritualisti e materialisti ci sembravano partecipi del medesimo errore moderno: quello che, seguendo un discutibile cartesianesimo, separa arbitrariamente il ‘corpo’ dall’ ‘anima’, il pensiero dall’azione, l’homo faber dall’homo sapiens. Da parte nostra affermavamo che la crisi è in pari tempo una crisi economica e una crisi spirituale, una crisi delle strutture e una crisi dell’uomo”.

Dopo una puntuale ricostruzione della biografia e del percorso intellettuale di Mounier (la laurea in filosofia nel 1927 con una tesi su Descartes, lo studio approfondito di Henry Bergson e Charles Péguy, la frequentazione assidua di altri pensatori cattolici come Guitton e Maritain), il volume si sofferma in particolare sulla fondazione nel 1932 della rivista Esprit.

Organo ufficiale delle istanze più innovatrici del movimento cattolico francese, essa propugnava un ritorno allumanesimo cristiano in risposta sia alle tendenze individualistiche del liberalismo borghese sia al totalitarismo comunista, criticando “l’idolatria tirannica delle spiritualità inferiori: esaltazione razzista, passione nazionale, disciplina anonima, devozione allo stato o al leader, salvaguardia di interessi economici”. La rivista auspicava la rinascita di una “comunità di persone”, in opposizione alla società di massa, prospettata sia dall’individualismo liberale sia dal collettivismo: “Ogni regime che, di diritto o di fatto, consideri le persone come oggetti interscambiabili, li irreggimenti o li costringa contro la propria diversificata vocazione, oppure imponga loro questa vocazione, dal di fuori, con la tirannide di un moralismo legale, fonte di conformismo e di ipocrisia, questo regime è da condannare… Tout homme, sans exception, a le droit et le devoir de développer sa personalité”.

Opponendosi sia all’individualismo, che favorisce “il regime dell’anonimato, dell’irresponsabilità e della dispersione, dell’egoismo e della guerra”, sia alla massificazione di una “società senza volto…  spersonalizzata in ognuno dei suoi membri, spersonalizzata come insieme, in cui la massa offre un regime proprio fatto di anarchia mescolato a tirannide, vale a dire la tirannide dell’anonimo che è, fra tutte, la più vessatoria e la meno pietosa”, Mounier caldeggiava l’avvento di una rivoluzione comunitaria, di un nuovo rinascimento: “Rifare il Rinascimento … è doppiamente da rifare se, per essere completo deve essere duplice, e cioè personalista e comunitario”.

La sua analisi dei nascenti totalitarismi fascisti e nazisti negli anni ’30 era lungimirante e impietosa: “Dove nascono i fascismi? Sulle democrazie logore, nel momento in cui la spersonalizzazione e l’anarchia sono tali che ognuno ormai, scoraggiato dal proprio operato quotidiano, aspira al Salvatore che riprenda in mano tutti gli spaventosi problemi irrisolti, tutta la massa decomposta, e compia miracoli”.

In nessun modo velleitaria o disincarnata, la sua proposta di una rinascita sociale si innervava anche su radicali riforme economiche. In Dalla proprietà capitalistica alla proprietà umana (1936) proponeva di recuperare il primato della persona sulle cose, dell’uomo sulla produzione, delle esigenze del lavoratore su quelle del profitto, creando una società autogestita al centro della quale stessero i lavoratori, che assegnasse allo Stato solo una funzione di tutela e di garanzia. A tale profondo rinnovamento erano chiamati soprattutto i credenti: “Per i cristiani in particolare s’impone il dovere della distribuzione dei beni, un dovere di giustizia e di carità che non può essere appagato solo con l’elemosina e la beneficenza”. Queste tesi così estreme procurarono a Esprit l’ostilità delle gerarchie cattoliche e la censura da parte del governo di Vichy. Nel 1942 Mounier fu arrestato per il suo sostegno alla resistenza francese e liberato solo l’anno seguente.

Nelle pubblicazioni posteriori, il filosofo si occupò di pacifismo, anarchismo, esistenzialismo, progresso tecnologico, essenza del cristianesimo, psicologia dei caratteri umani: tutte queste riflessioni confluirono nella stesura del suo libro più noto e importante: Il personalismo, del 1949. Morì di infarto l’anno successivo, minato nella salute sia dalle vicende tormentate che aveva patito, sia dal dolore per l’invalidità cronica di sua figlia Françoise.

Il volume di Giuseppe Palmini articola i capitoli successivi nell’analisi approfondita sia della filosofia del personalismo, che vanta esponenti illustri già dal 1700, sia del progetto morale e sociale davvero avveniristico di Mounier, la cui visione politica indicava come indispensabile garantire a ogni individuo il possesso del “necessario personale”. Convintamente cattolico, innovatore anche nell’interpretazione del messaggio evangelico, riteneva importante armonizzare nella quotidianità l’aspetto carnale con quello spirituale dell’essere umano. Inoltre, rilevando il fondamentale apporto etico e civile dell’arte e della cultura, auspicava lo sviluppo dell’azione didattica nella formazione delle giovani generazioni. La visione acutamente intuitiva e profetica di Emmanuel Mounier nei confronti del mondo e del destino dei singoli, rende la lettura dei suoi scritti dopo tanti anni ancora vitale e coinvolgente.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 22 settembre 2022

 

 

RECENSIONI

CAPODAGLIO

ENRICO CAPODAGLIO, DANTE CREATURALE – GRAFICHE FIORONI 2021

“La Commedia è un sistema artistico e immaginativo in cui tutto si corrisponde e in cui tutti i conti sulle cose dette tornano, sempre restando all’interno del sistema. Intendo che, come nel sistema geometrico o filosofico, una volta accettati i principi, gli assiomi, le definizioni, tutto il resto consegue in modo coerente di necessità”.

Così afferma il Professor Enrico Capodaglio nel volume Dante creaturale, insistendo sulla logica coesione della complessa architettura del poema, nonostante le frequenti ripetizioni e incoerenze narrative in cui incorre il sommo Poeta. Ma aldilà di questa straordinaria e calibrata forma costruttiva delle tre cantiche, per l’autore del volume risulta originale e audace soprattutto la capacità di un uomo del Trecento di confrontarsi con temi e concetti poco usuali, senz’altro eterodossi nel panorama letterario, filosofico e teologico della cultura a lui coeva.

I primi due saggi sono dedicati infatti alla rappresentazione della figura femminile nella Commedia, il terzo e quarto al francescanesimo dantesco. Che immagine si ricava del ruolo, della sensibilità, del fascino muliebre attraverso le parole di Dante? “Nell’opera poetica tutto ciò che è ‘animico’, spirituale, interiore tende sempre a convertirsi del resto in fisico e in visibile”. Disincarnate eppure pienamente donne sono Francesca, nel V Canto dell’Inferno, e Beatrice nel Paradiso. Esistono ovviamente tante altre figure femminili nel poema: bibliche e mitologiche, caste e lussuriose, fedeli e spergiure, umili e regali, sante e peccatrici.

Tutte incarnano “il conflitto tra amore passionale e cristiano, tra ragione e sentimenti, tra voglia di felicità e necessità di una disciplina ascetica, tra regole matrimoniali, religiose, sociali, e innamoramento, tra libertà poetica e dogma, tra pietà e giustizia divina”. Ma Francesca e Beatrice si stagliano più di ogni altra nella loro nobiltà d’animo, generosità e profondità di sentimenti: appassionata la prima, celestiale la seconda, incastonate in endecasillabi indimenticabili: “questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante”, “dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso”.

Enrico Capodaglio si dice convinto che lo spirito di Dante sia più francescano che tomistico, più legato alla vita concreta che a quella intellettuale, vicino al dolore e alla povertà sperimentate nell’esilio piuttosto che alla speculazione teologica. Nel poeta “si manifesta una più ampia coscienza del creato, della rivelazione di Dio nella natura, in ogni sua forma, così come della rilevanza della condotta morale pratica e corporale” rispetto a un’esistenza puramente intellettiva. La vicinanza emotiva di Dante al Santo di Assisi si svela soprattutto nell’interesse verso l’umanità comune, per il mondo delle piante e degli animali (un capitolo del libro è proprio dedicato alla presenza degli animali nella Commedia). Nel canto XI del Paradiso si trova il famoso elogio di Francesco pronunciato da Tommaso, che di lui loda “lo slancio mistico e irrazionale”, la terrestre solidarietà con gli ultimi, i miti, gli indifesi: “ Ma perch’io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti /prendi oramai nel mio parlar diffuso. / La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e meraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi”. Il dolce sguardo e i pensieri santi di Francesco sono rivolti alle creature più piccole come alla bellezza del cosmo: uguale è in Dante l’amore e l’attenzione verso ciò che è minimo e ciò che è sublime.

Il volume di Enrico Capodaglio è corredato da due incisioni originali di Laura Martellini e Agostino Cartuccia.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Dante-creaturale-Capodaglio21 settembre 2022

RECENSIONI

BARICCO

ALESSANDRO BARICCO, LA VIA DELLA NARRAZIONE, FELTRINELLI, MILANO 2022

Il saggio che Alessandro Baricco ha recentemente pubblicato da Feltrinelli, La Via della Narrazione, consiste nella trascrizione, opportunamente rielaborata, di una lezione tenuta alla Scuola Holden nel novembre del 2021, per l’inaugurazione di un seminario dedicato all’arte dell’insegnamento. Di arte, infatti si deve parlare, per ciò che riguarda la funzione maieutica dell’educare, cioè di sviluppare e trasmettere competenze e facoltà intellettuali e culturali, guidando e “tirando fuori” (dal latino e-ducere, estrarre) le potenzialità di un allievo.

Come fondatore nel 1994 della Scuola Holden, deputata appunto a insegnare storytelling e creative writing, Baricco in questo pamphlet si assume il compito di sostenere e difendere obiettivi e programmi, ormai diffusi a livello mondiale, mirati a indirizzare e addestrare i giovani aspiranti scrittori alla tecnica narrativa. Lo fa, nei primi tredici icastici capitoletti iniziali, suggerendo al lettore cosa siano “le storie”, quelle che meritano di essere condivise e raccontate, “tessere del reale… campi di energia” che vibrano “di intensità particolare, anomala”, muovendosi intorno a un’illuminazione iniziale, a uno choc di partenza. Le storie fondamentali della letteratura mondiale ruotano tutte su quattro perni fondamentali: il mistero, la riparazione, il gorgo, la diserzione. Creano, in chi legge o ascolta, interesse, emozione, turbamento, partecipazione. Il magnetismo da cui prendono avvio è più importante dei personaggi in cui successivamente si articolano, traduzione antropomorfa della corrente che le anima.

La storia, per arrivare al lettore, deve essere raccontata, trasformandosi da sfera a linea, da spazio a sequenza temporale: “C’è dunque una riduzione da fare”, che si ottiene attraverso l’espediente tecnico dell’invenzione di una trama. La trama si dispone non solo come successione di eventi, ma anche come rappresentazione di ambienti complessi.

Si può insegnare a narrare? Numerosi affermati romanzieri e poeti insorgono di fronte a quest’ipotesi considerata utopistica se non addirittura truffaldina. Baricco afferma invece, con consapevolezza priva di presunzione: “Sappiamo esattamente dove possiamo intervenire e dove no. Possiamo insegnare a costruire una trama, perché sia mappa completa e geroglifico leggibile. Non possiamo insegnare lo stile, ma possiamo rassicurarlo, difenderlo, farlo crescere. E se non possiamo insegnare ad avere una voce, possiamo insegnare a cantare a quelli che ce l’hanno”.

Tre elementi sono indispensabili alla costruzione di un racconto: storia, trama e stile, per non scadere in una narrazione di puro intrattenimento (senza stile), o in un’esibizione narcisistica (senza trama), o ancora nella saggistica (senza storia). Illusorio aderire alla teoria ingenua e riduttiva esposta dallo sceneggiatore americano Christopher Vogler nel famoso manuale di scrittura Il viaggio dell’eroe del 1992, in cui si indicavano regole e schemi precisi da seguire per ottenere un sicuro successo nel mercato editoriale. “Chi racconta diventa. Non si limita a organizzare il passato ma suscita il futuro”, e scrivendo trasforma la propria esistenza insieme a quella degli altri.

Una scuola di scrittura avvia in maniera professionale alla prassi di un mestiere, ma non solo. “Chi insegna a narrare è chiamato a condividere una clandestinità e a difendere un’insubordinazione, rigenerando quote di libertà, rimuovendo blocchi e paure”, disvelando insomma zone d’ombra della realtà e di sé stesso. Il saggio di Alessandro Baricco si intitola “La Via della Narrazione” echeggiando altri percorsi di conoscenza dell’io, praticati nella maggior parte delle filosofie analitiche e di meditazione trascendentale: “La cura della tecnica, l’attenzione per i dettagli, la fatica della correzione sarebbero allora quel protocollo di cura che è presente in tutte le Vie, dove il più alto traguardo spirituale passa sempre attraverso la riuscita di un gesto della mano, dell’occhio, del corpo”.

Come ci si educa a essere migliori, si può essere educati a scrivere bene, imparando con pazienza, umiltà e costante applicazione le strategie che rendono un testo più efficace.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 19 settembre 2022

 

RACCONTI

IL VELO

Sabato, 29 ottobre

Da alcuni anni cedo a una tentazione. Non so se sia realmente un peccato, o solo una debolezza. Non ne ho mai parlato a Don Vittorino in confessione, e non ne ho fatto cenno alle mie consorelle. Di questa mia colpa veniale è al corrente unicamente il Padre, oltre a me: “In ogni luogo sono gli occhi del Signore”, “non v’è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui”. Spero nella sua indulgenza, poiché lui sa, comprende e perdona.

Anche stamattina, terminate le letture e le Lodi, sono uscita nell’orto, e di lì mi sono diretta nel fitto di alberi adiacente, compreso nella recinzione della nostra proprietà.  C’è una radura, chiara nel bosco, come scrive una delle maestre del mio pensiero.  La raggiungo, libera di me e del mondo, vuota nel vuoto.  Il sole tiepido mi aiuta a ripetere l’atto della spoliazione.  Seduta sull’erba, ho tolto il velo dal capo, poggiandolo per terra.

Sono rimasta, per alcuni minuti, a gambe incrociate nella posizione del loto, in omaggio a una tradizione secolare di illuminazione, distacco e rinascita che non appartiene alla mia religione, ma si manifesta comunque come insegnamento dello spirito. Raccolta in me stessa, nutrita dalle linfe del suolo da cui tutti nasciamo. Poi mi sono distesa, aderendo con l’intero corpo alla superficie erbosa. Senza la cuffia che mi copre le orecchie, senza il panno nero promessa nuziale al mio Sposo, i miei corti e radi capelli bianchi sono rimasti umilmente indifesi, offrendo la nudità della testa all’aria.

Perché nascondere che questo gesto, celato a chiunque, assume per me un significato di libertà, di affrancamento da qualsiasi vincolo, mettendomi in contatto con la mia fisicità di creatura, similmente a tutto ciò che vive e mi respira intorno: insetti, uccelli, lombrichi, foglie, fiori, terreno? Respiro a fondo, guardando il cielo che si apre sul mio guscio mortale, lontano in un’altezza irraggiungibile, eppure così vicino e avvolgente da possedermi come nell’unico amplesso che mi posso permettere.

“Ascolta, figlia”, sono le prime parole della regola di San Benedetto, a cui ho promesso obbedienza. “Apri docilmente il tuo cuore”. Mansueta, sottomessa a una volontà che non è la mia, sciolgo i lacci che mi stringono, e mi pongo in attesa, prestando attenzione al silenzio. “Shemà Israel”. L’ascolto si fa offerta di me, si fa accoglienza. Mi sento estranea al dubbio, all’opinione, al giudizio: indifferente all’accadere. Sdraiata, aspetto la rivelazione dell’Agnello, nel mio nulla, resa al nulla.

Difficile, dopo, recuperarmi al tempo, rientrando nel tempo. Trascorsa un’ora (o più, o meno: non so dire), mi sono alzata, rivestita del velo sul capo, incamminata verso la casa. Non ho pregato. Forse sono stata pregata da qualcuno.

Avvicinandomi al monastero, ho avvertito la pesantezza della chiusura. Clausura, da clausus. Salda nelle mura che mi difendono, custodita entro argini incrollabili, protetta dal male, tornavo a vivere come Suor Adele, madre superiora. Alzando gli occhi verso il primo piano, ho visto un’ombra scostarsi dietro l’inferriata del corridoio centrale. Maria mi aveva cercata? Temeva per me? Ho salito i gradini di fretta, sapendo quanto temesse lo stare da sola nelle stanze mute del convento.

Il portone, serrandosi dietro i miei passi, tornava a ripararmi da un esterno sconosciuto e minaccioso: “mia potente salvezza e baluardo”, dice il Salmo.

 

Da Il velo, Tau editrice, 2022

 

RECENSIONI

ZANNINI

ANDREA ZANNINI, L’ALTRO PASOLINI – MARSILIO, VENEZIA 2022

Un Pier Paolo Pasolini ventitreenne scriveva versi semplici e commossi dedicati a suo fratello Guido, ucciso a Cividale del Friuli il 12 febbraio del 1945 per mano di gappisti italiani e jugoslavi durante l’eccidio di Porzûs: «La libertà, l’Italia / e chissà Dio quale destino disperato / ti voleva / dopo aver vissuto e patito / in questo silenzio. / Quando i traditori nelle Baite / bagnavano di sangue generoso la neve, / “Scappa – ti hanno detto – non tornare lassù” / Ti potevi salvare, / ma tu / non hai lasciato soli / i tuoi compagni a morire / “Scappa torna indietro” / Ti potevi salvare, / ma tu / sei tornato lassù, / camminando. / Tua madre, tuo padre, tuo fratello / lontano / con tutto il tuo passato e la tua vita infinita, / in quel giorno non sapevano / che qualcosa più grande di loro / ti chiamava / col tuo cuore innocente» (Corus in morte di Guido, 1945).

Guidalberto Pasolini, detto Guido, era nato a Belluno il 4 ottobre 1925, tre anni dopo Pier Paolo: terminato il liceo scientifico a Pordenone, appena diciottenne si affiliò alla Brigata Osoppo operativa in Carnia con il nome di Ermes, scelto in ricordo del più caro amico del fratello, morto durante la campagna di Russia. La tragica vicenda di Guido viene raccontata nel libro di Andrea Zannini L’altro Pasolini, pubblicato da Marsilio, con prefazione di Walter Veltroni. La narrazione prende avvio presentando il nucleo familiare dei Pasolini: il padre Carlo Alberto, militare di carriera e fascista convinto, la madre Susanna, maestra friulana, e i due figli, legatissimi tra loro ma profondamente diversi nel carattere e nelle progettualità di vita. “Guido era l’opposto di Pier Paolo: vitalista, esuberante, temerario”, deciso a combattere non solo contro gli invasori nazisti, ma anche contro la slavizzazione della sua regione e l’infiltrazione dell’ideologia comunista, in una visione convintamente patriottica di difesa dell’autonomia italiana. Iscritto al Partito d’Azione, appena diciottenne si impegnò in azioni di propaganda e di sabotaggio nei paesi circostanti Casarsa, dove la sua famiglia risiedeva dal ’43 nella casa dei nonni materni. Più volte fermato dalla guardia civica fascista per insubordinazione, nel maggio del ’44 prese la decisione di darsi alla macchia, aderendo alla Brigata Osoppo. “Rimanere a casa, sotto la sorveglianza ‘continua ed esasperante’ di tedeschi e carabinieri significava mettere a repentaglio la sicurezza non solo sua, ma di tutti coloro che gli stavano vicino”.

Fu accompagnato alla stazione da Pier Paolo, che, più meditativo e troppo attaccato alla madre per abbandonarla, aveva scelto di rimanere al paese, dedicandosi allo studio, alla poesia e all’insegnamento privato: “Non sanno come io sono infinito in me; com’è differente il mio mondo; come a me non importi altro praticamente che la mia poesia e teoricamente il mio infinito”, scriveva in un diario. Guido comunicava con i familiari attraverso sporadiche lettere firmate “Amelia”, fingendo di essere una ragazza a servizio in una famiglia di Gorizia. “Il mio pensiero ritorna per una strana fissazione a Pier Paolo… cosa fa? Perché non mi scrive mai? … Alle volte mi ossessiona l’idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco”. Solamente in una missiva datata 27 novembre 1944 scrive direttamente al fratello, confessandogli preoccupato il progressivo deterioramento dei rapporti tra i partigiani delle formazioni Osoppo e Garibaldi: “I comunisti garibaldini hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell’Italia!!!» In queste parole si trova probabilmente la motivazione dell’eccidio del febbraio 1945 nel Friuli orientale in cui Guido trovò la morte: il fatto di sangue più increscioso avvenuto in Italia durante la guerra partigiana.

Le Brigate Osoppo-Friuli erano formazioni partigiane autonome fondate a Udine a fine ’43 da volontari di ispirazione laicasocialista e cattolica, collegati alle formazioni garibaldine comuniste: loro scopo era combattere le forze occupanti tedesche, che avevano sottratto l’intero territorio friulano e giuliano alla Repubblica Sociale Italiana, instaurando un regime di repressione e spoliazione, con la partecipazione di reparti di SS etniche, di cosacchi e di forze repubblicane fasciste.. La situazione politico-militare della zona, al centro di opposti nazionalismi e di secolari rivalità etnico-territoriali, era molto complessa, e i rapporti tra le varie formazioni partigiane sloveno-jugoslave e garibaldine particolarmente conflittuali. Le brigate Osoppo vennero coinvolte nel tragico episodio di Porzûs, dove aveva sede il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione Osoppo, comandato dal capitano degli alpini Francesco De Gregori, detto “Bolla” (zio trentaquattrenne del noto cantautore romano). Gli osovani, con le loro continue proteste contro le mire nazionalistiche jugoslave e contro la politica di collaborazione garibaldina, suscitarono la reazione delle componenti comuniste del Comitato, che attivarono i gappisti operanti nella zona, incaricandoli di attaccare la sede del comando della Brigata Osoppo. Sul posto vennero quindi inviati un centinaio di gappisti, guidati da Mario Toffanin “Giacca” (uomo fidato di Tito nelle forze comuniste italiane, fortemente ideologizzato ed estremista), che catturò con un trucco “Bolla” ed altri comandanti della Osoppo, e li fucilò subito, sottraendo loro carteggio, armi e provviste. Gli altri partigiani presenti, tra i quali Guido, vennero uccisi successivamente. L’eccidio ebbe rilevanti seguiti giudiziari con un lungo processo, che si concluse con pesanti pene.

Gli ultimi giorni di vita di Guido conobbero momenti avventurosi e drammatici. Fatto prigioniero dai GAP vicino al confine jugoslavo, venne incarcerato ma, sottrattosi alla sorveglianza riuscì a scappare. Raggiunto dagli inseguitori, fu ferito da raffiche di mitra alla spalla e al braccio destro. Sfuggito ancora alla cattura, cercò di dirigersi verso Udine, medicato e rifocillato da contadini della zona; scoperto da due combattenti del Battaglione Ardito, fu fatto sdraiare in una fossa e finito con un colpo di pistola alla testa.

La famiglia Pasolini venne a conoscenza della sua morte solo il 2 maggio; il 20 giugno si svolsero a Udine le esequie pubbliche dei caduti di Porzûs, e il giorno dopo Guido fu tumulato nel cimitero del paese: «Torna tra i suoi portando intatte le sue certe illusioni, la sua bandiera», recitava il necrologio.  Pier Paolo, certo ormai che l’esecuzione del fratello fosse stata ordinata ed eseguita da partigiani jugoslavi e da alleati italiani che intendevano annettere il Friuli alla Jugoslavia (“Gentaglia certo senza chiarezza interiore, senza patria, mossi a combattere dal puro egoismo. Ben differente da te!”, scrisse in una lettera idealmente dedicata a Guido) maturò lentamente, anche sulla scorta delle prime letture di Marx, la sua adesione al Partito Comunista, iniziando a collaborare con la stampa di sinistra. Walter Veltroni così commenta nella prefazione al testo di Zannini: “Il tema che percorre il libro è anche quello del rapporto tra Pasolini e il Pci che proprio attorno agli eventi tragici e violenti di Porzûs e agli anni che immediatamente li seguirono diventa un legame di appartenenza a cui Pier Paolo non mancò mai di restare fedele”. Nell’ottobre del 1949, con atto della Federazione comunista di Pordenone, venne espulso dal PCI “per indegnità morale e politica” in seguito alla scoperta della sua omosessualità. “Malgrado voi, resto e resterò sempre comunista, nel senso più autentico di questa parola”, scrisse a un dirigente comunista friulano. Non fu mai riabilitato dal partito. Trasferitosi con la madre a Roma per sfuggire allo scandalo e alla persecuzione sociale e politica che ne era conseguita, iniziò così la sua prestigiosa carriera letteraria e cinematografica.

In Comizio, una delle poesie de Le ceneri di Gramsci (1954), ancora ricordava con commossa ammirazione Guido: “mio fratello mi sorride,  /   mi è vicino. Ha dolorosa e accesa, // nel sorriso, la luce con cui vide, / oscuro partigiano, non ventenne   /   ancora, come era da decidere // con vera dignità, con furia indenne / d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra / in quei poveri occhi, umiliante e solenne… // Egli chiede pietà, con quel suo modesto, / tremendo sguardo, non per il suo destino, / ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto, // il troppo puro, che deve andare a capo chino? / Mendicare un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?”

Il volume di Andrea Zannini si conclude con un appassionato commento a un dramma storico in lingua friulana che, ritrovato tra le carte pasoliniane in triplice dattiloscritto datato 1944 e pubblicato solamente nel 1976, sembra una profetica rivisitazione dei fatti di Porzûs, nel suo sovrapporre i due piani del racconto storico e della tragedia familiare. I Turcs tal Friùl racconta la brutale scorreria dei Turchi che nel 1499 assediarono la comunità di Casarsa, trovandosi di fronte alla strenua resistenza del paese, al cui interno la famiglia Colùs vedeva fronteggiarsi nella lotta contro gli invasori due fratelli, il contemplativo Pauli e il ribelle Meni, destinato a soccombere tragicamente. I riferimenti culturali e personali alla storia che aveva dolorosamente coinvolto Pier Paolo e Guido, insieme a tutta la collettività friulana nel conflitto contro i fascisti, gli invasori tedeschi e gli slavi, hanno suscitato in Zannini il sospetto che Pasolini abbia volutamente retrodatare al ’44 la data della composizione del testo teatrale, troppo esplicitamente segnato dalla disperazione vissuta nel maggio del 1945. Solo con un difficile percorso psichico, intellettuale e politico Pier Paolo riuscì a separare la vicenda della morte ingiusta e crudele di Guido dalle ragioni della storia della Resistenza e dalle responsabilità del Partito Comunista cui lui stesso aderiva.  Come scrisse poi nei versi de Le ceneri di Gramsci: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere; / del mio paterno stato traditore / – nel pensiero, in un’ombra di azione – / mi so ad esso attaccato nel calore / degli istinti, dell’estetica passione”.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 13 settembre 2022

 

RECENSIONI

MAHLER

ALMA MAHLER, GUSTAV MAHLER. RICORDI E LETTERE – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

“Ho scritto questo libro molti anni or sono e l’ho fatto per una sola ragione: perché nessuno ha conosciuto Mahler meglio di me e non volevo che il ritmo incalzante della nostra esistenza mi facesse dimenticare esperienze vissute in comune e pensieri di rilievo espressi da Mahler”. Così Alma Mahler in apertura del libro di Ricordi e lettere dedicato al marito Gustav, in una nota del 1939 che ricordava la lunga gestazione del testo, pubblicato solo a fine anni ’50, ma in seguito più volte ristampato perché miniera di informazioni sulla vita del geniale musicista austroungarico. Già nella prefazione, quindi, l’autrice sottolinea l’intento di rendere giustizia alla memoria del suo primo illustre sposo, boicottato in Austria per tutta la vita, ignorato e denigrato come compositore dalla cultura internazionale, sottoposto a censure e ostracismi per motivi ideologici, razziali e politici. Come ebbe a dire lui stesso: “Sono tre volte straniero: come boemo in Austria, come austriaco in Germania, e come ebreo in tutto il mondo. Dappertutto un intruso – in nessun luogo il benvenuto”. Il suo carattere ombroso e suscettibile, la sua maniacale puntigliosità nel lavoro, certo non gli avevano reso facili i rapporti con amici e familiari, colleghi e orchestrali, pubblico e accademia. Anna (Vienna 1879-New York 1964), più giovane di lui di diciannove anni, gli rimase vicina dal 1901 al 1911, anno della morte.

Figlia del pittore E.J. Schindler, Alma era una discreta musicista, allieva di A. von Zemlinsky, legata ai circoli dell’avanguardia artistica austriaca. Dopo la scomparsa di Gustav, sposò prima l’architetto Walter Gropius, fondatore del Bauhaus, e poi lo scrittore Franz Werfel, ma ispirò anche altri illustri personaggi del mondo dell’arte come Oskar Kokoschka, Gerhart Hauptmann, Alban Berg (che le dedicò il Wozzeck), Richard Strauss, Bruno Walter. Fu una figura di donna affascinante, attivamente partecipe alla vita culturale e artistica mitteleuropea, in un’epoca ricca di inquietudini e trasformazioni, di svelamenti e utopie.

Il suo diario inizia nel novembre del 1901, quando Alma e Gustav si incontrarono durante una cena offerta da amici comuni. “La più bella ragazza di Vienna”, vivace, intelligente, promettente studentessa di composizione al Conservatorio, al cospetto del celebre e temuto direttore d’orchestra, piccolo di statura, goffo nel vestire, rude e sprezzante, così reagiva: “Giovane e noncurante com’ero, né lustro né posizione mi impressionavano e la sola cosa che mi avrebbe resa umile, la sua interiore grandezza, di ciò allora sapevo ancora ben poco. Pure una specie di rispetto, misterioso e mai prima provato, di fronte alla personalità superiore tentava di sovrapporsi alla mia gaia spensieratezza”. Poche settimane di corteggiamento intenso, e subito la personalità dominatrice di lui prevalse sull’ammirata soggezione della giovane donna, al punto da convincerla ad accettare l’ingiusta ed egoistica imposizione di abbandonare gli studi musicali per dedicarsi esclusivamente al futuro marito. “Ho mantenuto la promessa… Ho sepolto allora il mio sogno. Forse è stato meglio così. Mi è stato concesso di rivivere in altre menti più vaste quelle doti creative che possedevo. Però in fondo ha continuato a bruciare in me una ferita che non si è mai completamente rimarginata”.

Con affetto e comprensione Alma ricostruisce l’infanzia e la giovinezza di Mahler, cresciuto in un ambiente modesto economicamente e culturalmente, colpito da numerosi lutti familiari, costretto a studiare lontano da casa, in una Vienna gelida e prevenuta nei riguardi del ragazzo ebreo. L’ostilità della città continuò a manifestarsi verso la coppia in maniera addirittura persecutoria, e Alma nel suo racconto ha modo di vendicarsi contro alcune figure di primo piano della cultura asburgica contemporanea: Richard Strauss, Max Klinger, Hans Pfitzner, Alfredo di Montenuovo.

Duro con la servitù, cui imponeva il riserbo e il silenzio più assoluto, con la moglie e le due bambine, che costringeva a estenuanti passeggiate in montagna e a nuotate nelle acque fredde dei laghi alpini, ossessivo nei rituali quotidiani del risveglio, dei pranzi, dello studio, Mahler si lasciava andare sovente a scoppi di ira, a pianti inconsolabili, a mutismi impenetrabili: “Alle povere bambine non era nemmeno permesso di ridere forte o strillare. Eravamo tutti schiavi del suo lavoro, ma era giusto e lo rifarei”. Egocentrico, nevrotico, o al contrario appassionatamente possessivo e generoso, viveva e costringeva a vivere chi gli stava vicino in una continua e spossante instabilità emotiva. La giovane moglie ne subiva il fascino e la sudditanza, confessando malinconicamente la sua perpetua umiliazione: “Già da ragazza ero timida e poco padrona di me, ma la timidezza era aumentata a fianco di Mahler al punto che, quando mi si rivolgeva la parola, davo le risposte più sciocche e senza senso, perché mi consideravo sempre e dappertutto solo una piccola appendice di Mahler… Assunse la parte del maestro spietatamente rigido e ingiusto. Mi toglieva ogni velleità di godere del mondo, anzi me lo mostrava ripugnante! Cioè, tentava: Denaro – futilità! Vestiti – futilità! Viaggi – futilità! Solo lo spirito! Capisco oggi che aveva paura della mia giovinezza e che voleva rendermi inoffensiva, togliendomi semplicemente tutto ciò che era vivo e di cui non sapeva che farsene. Io ero la ragazzina che si era desiderata e che ora si educava… Di questa mia rinuncia a una vita personale non si accorgeva…Avevo annullato completamente me stessa, il mio essere e la mia volontà…Durante i mesi estivi la sua vita era del tutto spoglia di qualsiasi scoria terrena, quasi disumanamente pura. Nessun desiderio di fama o di grandezza esteriore lo sfiorava mai”.

Una gelosia reciproca e contrapposta angustiava i due sposi: del passato di lui, dell’avvenire di lei. Eppure, con Alma vicina, che lo seguiva nelle prove e nei concerti, suggerendogli anche alcune correzioni agli spartiti, Mahler compose capolavori: sei sinfonie, i “Rückertlieder“, i “Kindertotenlieder“, e “Das Lied von der Erde“, ottenendo allori e contestazioni, trionfi e invidie feroci.

Il resoconto che Alma traccia del loro matrimonio, con tutte le rimozioni, mezze verità e artifici che si possono immaginare, rimane comunque una testimonianza impareggiabile dell’esistenza tormentata, e senz’altro fuori dalla norma, di questa coppia eccezionale. Dalle nozze semi-segrete, alla nascita delle due bambine e alla sofferta morte della primogenita Maria, dalla cronistoria della carriera di direttore d’orchestra e compositore alla “Splendid Isolation” degli anni di più fruttuosa creatività del marito, fino alla malattia cardiaca di lui, al trasferimento in America, alla crisi coniugale del 1910. E infine alla morte, avvenuta il 18 maggio 1911: sembra che l’ultima parola pronunciata da Gustav sia stata “Mozart”, indicativa della passione sovrana che aveva dominato tutta la sua vita.

Il volume tuttavia non si conclude sulle commoventi pagine dell’agonia del musicista, e dello strazio della moglie. La seconda corposa sezione riporta un ricco epistolario, che comprende molte lettere inviate al maestro dalle più importanti personalità dell’epoca (Schönberg, Busoni, Thomas Mann, Cosima Wagner… ), e soprattutto le missive spedite da lui ad Alma, il cui contenuto appassionato, devoto, fedele, supplicante fino al ricatto affettivo, si intuisce già dalle struggenti intestazioni: Carissima, Lux, Adorata, Dilettissima, Mia unica, Respiro della mia vita, Cuor mio carissimo, Amata bambina, Alma, Almschi, Almscherl, Almschilitzilitzilitzili… In uno degli ultimi biglietti scriveva: “Amor mio, mio canto, vieni, esorcizza gli spiriti delle tenebre, mi attanagliano, mi scaraventano a terra. Resta con me, mio sostegno, vieni presto oggi a portarmi sollievo”.

Libro da leggere, magari riascoltando il tema di Alma della Sesta Sinfonia.

 

© Riproduzione riservata                       «Gli Stati Generali», 7 settembre 2022