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RECENSIONI

HERNANDEZ

MIGUEL HERNANDEZ, LE TRE FERITE – EDIZIONI DELL’ASINO, ROMA 2022

Le romane Edizioni dell’Asino pubblicano, con traduzione e cura di Giovanna Calabrò, Le tre ferite, di Miguel Hernandez (Orihuela 1910-Alicante 1942), voce tra le più rappresentative della lirica spagnola novecentesca, tale da esercitare un’importante influenza sui poeti delle generazioni successive. Figlio di pastori, e pastore egli stesso fin da bambino, fu autodidatta, e riuscì ad affrancarsi da miseria e ignoranza trasferendosi a Madrid, dove si occupò di giornalismo, teatro e critica letteraria. Esordì ventitreenne con una raccolta di liriche di impianto gongoriano, mentre nelle opere successive si avvicinò al surrealismo sotto l’influenza e grazie alla frequentazione di Aleixandre e Neruda. Convinto antifranchista, nel corso della guerra civile militò tra le file repubblicane, combattendo in Andalusia ed Estremadura, e componendo poemi e drammi a sostegno della resistenza. In seguito alla vittoria falangista, nel 1942 fu condannato alla pena capitale, poi commutata in trent’anni di carcere. Nello stesso anno morì di tubercolosi nel carcere di Alicante.

In quest’ultimo volume tra quelli a lui dedicati in Italia (da Mursia, Laterza, Feltrinelli e più recentemente da Passigli, Quodlibet ed Elliot), l’intensa, affettuosa e ammirata prefazione dell’ispanista Giovanna Calabrò delinea accuratamente il suo fiero e tormentato percorso biografico, mettendone in luce gli snodi fondamentali che ne hanno segnato la produzione letteraria. Le poesie antologizzate, con testo spagnolo a fronte, provengono dalle quattro raccolte pubblicate in vita, e da una postuma: sono inoltre presenti versi occasionali, dispersi in varie riviste, o recuperati da manoscritti. La censura franchista aveva bloccato fino agli anni ’80 la produzione dell’opera omnia, in precedenza uscita solo in Argentina.

In versi amaramente autobiografici, così Hernandez definiva se stesso: “Con tre ferite io: / quella della vita, / quella della morte, / quella dell’amore”. Predominante negli argomenti trattati è appunto l’eros, appassionatamente incarnato da tre figure femminili: la moglie Josefina Manresa, madre dei suoi due figli, conosciuta nell’adolescenza; Maruja Mallo, sensuale e anticonformista pittrice madrilena; e l’intellettuale Maria Cegarra, a cui fu legato da profonda amicizia. (“Garofano di campo che richiaman le tue gambe / melagrana con la bocca squarciata di pienezza / cespuglio tremulo di rovi dai dolci denti / dove gettato io vivo // … Ancora mi fa rabbrividire il nostro primo incontro; / quando facemmo a pezzi la luna con i denti, / spingemmo il lenzuolo a un aprile di papaveri, / ci ispirava il mare”). Il sostantivo “amor” ricorre quasi settanta volte nel volume: altri termini sono ribaditi con una frequenza di poco inferiore: vida, muerte, corazón, insieme a sangre, tierra, viento.

Il legame con il paese nativo – Orihuela, nei pressi di Valencia – era da Hernandez vissuto visceralmente, così come quello con le proprie radici contadine, la “vida en el campo”, il lavoro di pastore (“poeta cabrero”, l’aveva definito con disprezzo il Generalissimo Franco), ostentato con ingenuità mista ad astuzia, sia per concentrare su di sé la curiosità degli ambienti intellettuali, sia per l’orgoglio di condividere “il mestiere di divinità pagane e di eroi biblici”, nell’appartenenza alla schiera eletta dei poeti della tradizione bucolica e della lirica amorosa del Siglo de oro: “Mi chiamo fango benché Miguel mi chiami, / fango è il mio mestiere e il mio destino / che macchia con la lingua ciò che lecca”.

I sentimenti di amicizia, come quelli filiali e paterni, sono testimoniati da versi di assoluta tenerezza, di fedele e generosa dipendenza affettiva: “Ridi piccino, / quando ti servirà / ti porterò la luna. /Allodola della mia casa, / sorridi, ridi”. Ma soprattutto la sua vicinanza alla classe degli sfruttati, dei lavoratori, lo fanno “poeta del pueblo”: “Venti del popolo mi portano, venti del popolo mi incalzano, e spargono il mio cuore e gonfiano la mia gola”, “Accostati al mio clamore / popolo del mio seme, / albero che con le radici / mi tieni prigioniero, / che qui sto io per amarti /e sto qui per difenderti / con il sangue e con la bocca / come due fucili fedeli”.

Poeta sentimentale e non cerebrale, a lui (“Miguel terrestre e aereo”), alla sua smaniosa fede politica, alla sua scrittura corposa, vibrante e visionaria, Giovanna Calabrò attribuisce un unico colore: il rosso. “Di sangue in sangue io vengo / come il mare d’onda in onda, / ho l’anima colore del papavero / e papavero sfortunato è il mio destino”.

Chi assistette alla morte di Hernandez raccontò che le sue palpebre non si abbassarono sugli occhi spalancati, quasi volessero rifiutarsi di chiudersi su un mondo che ancora attendeva il compimento della sua opera.

 

© Riproduzione riservata           «L’Indice dei Libri del Mese» n.IX, settembre 2022

 

RECENSIONI

RIFKA

FUAD RIFKA, L’ULTIMA PAROLA SUL PANE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2022

Fuad Rifka, nato nel 1930 in un piccolo villaggio della Siria ed emigrato in gioventù a Beirut, per anni ha insegnato filosofia alla Lebanese American University. Profondo conoscitore della poesia tedesca, ha tradotto in arabo Goethe, Novalis, Hölderlin, Rilke, Trakl. È morto a Beirut nel 2011.

Nel volume L’ultima parola sul pane, pubblicato recentemente dalle edizioni pugliesi AnimaMundi, viene suggerita con levità e dolcezza la necessità di camminare con il mondo e insieme oltre il mondo, lontano da ogni brama di possesso e di successo, nella contemplazione serenamente meditativa dell’essere. Sempre in attesa di una rivelazione che porti pace e salvezza, di un respiro capace di promettere, anche solo per un attimo, sospensione e sollievo da angoscia e paura (“Arriva all’improvviso, / quest’ospite divino e / poi va via dietro una curva ignota”), Rifka fa riferimento a un aldilà sovrasensibile che non sa e non può essere detto, ma solo intuito nella sua ineffabilità.

Ciò su cui insistono nei loro commenti il prefatore Tomaso Tiddia, i postfatori Paolo Ruffilli, Rossana Abis che l’ha incontrato e Ottavio Rossani che l’ha intervistato nel 2008, è l’intensità del suo sguardo contemplativo, l’assoluta trasparenza della sua scrittura, “depurata da ogni ideologia e cultura”: invito a dimenticare e a dimenticarsi, in un oblio del bene e del male che riesca a sanare qualsiasi ferita. Diario: “Che tu veda il giorno, o no, / comunque lo rimpiangerai. / Che tu ti faccia grande, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu conosca l’amore, oppure no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu possa invecchiare, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu giunga a morire, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu rimpianga, o no, comunque lo rimpiangerai”.

Questa “poesia di raffinata povertà” ci avvicina alle dottrine spirituali dell’Oriente, non solo arabe, proprie della meditazione sufista fino a Rumi, ma anche dei maestri zen cinesi e giapponesi. Ritroviamo l’annullamento dell’io indicato da Li Po (“Sediamo insieme, la montagna e io, finché solo la montagna rimane”) nella descrizione fatta in La Capanna del Sufi: “Sta seduto immobile, / in un posto coperto tutto di muschio. / Mai stanco di stare lì seduto / resta in silenzio. // Due pietre: lui e la roccia”. La rinuncia, come strada maestra verso l’essenzialità e la purificazione, era già stata predicata da Plotino (Aphele panta, elimina tutto), poi da Marco Aurelio, dai mistici renani, dal monachesimo cristiano, fino a Nietzsche (“Divina è l’arte del dimenticare”). Niente permane, tutto finisce ed è destinato a sparire; persino la poesia (soffio di vento, ombra) non ha e non deve avere una vita duratura: solo l’eternità merita se stessa, nel silenzio. Il poeta, sacerdote dell’invisibile, diventa tale quando “i suoi occhi vedono la luce … dimenticando la poesia”, anch’essa serva della parola scritta ed enunciata, pertanto deperibile.

Fuad Rifka divide la vita dell’uomo in tre fasi: la fanciullezza, che è sogno, ingenuità, abbandono fiducioso all’accadere; la maturità, con le sue ansie di conoscenza, amore, avventura; la vecchiaia, nel rassegnato ripiegamento interiore, in attesa della fine liberatrice (Percorso: “Nella nostra infanzia / apriamo la porta e dormiamo / come riposa la preghiera / tra le foglie di Dio. // A mezzogiorno / chiudiamo la porta e poi partiamo / nei venti rossi di sabbia, dentro la bufera, / dietro alle tracce del diluvio e del miraggio. // La sera infine / l’ombra si accorcia e si cancella / come un giorno d’estate nel cuore dell’inverno”). Nella materialità delle giornate quotidiane, ci ritroviamo “le mani piene / di fumo e di paura, / e i visi spenti”, perché siamo “una ferita, / e siamo dei torrenti / senza letto e foce, / siamo campane al transito del tempo”. Rassegnati alla nostra finitezza fisica “Finiremo così, naturalmente, / come un fiore di campo, / come un fiore che dice: / “È già tempo di neve, amico mio, / e le stagioni prossime a finire”.

La parola poetica, semplice e sacra come il pane, nonostante la sua fragilità può agire come una liturgia rituale e profetica, lontana da qualsiasi confessionalismo, trasformando il nostro vissuto concreto in aspirazione all’assoluto, connettendoci con l’infinito, senza la presunzione di comprendere il mistero che ci fa esistere.

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 31 agosto 2022

 

 

RECENSIONI

GRASS

GÜNTER GRASS, IL MIO SECOLO – EINAUDI, TORINO 1999

Günter Grass (Danzica, 1927-Lubecca, 2015) premio Nobel per la letteratura nel 1991 – meritato riconoscimento alla sua lunga attività di narratore, drammaturgo, poeta e saggista -, si è sempre confrontato in maniera critica con la tormentata storia della Germania. Ne Il mio secolo, apparso nel 1999, ha riunito cento brevi racconti che ricostruiscono anno per anno la storia del ’900. Il volume, oggi difficilmente recuperabile, si spera possa venire ristampato e messo in commercio da qualche encomiabile piccolo editore. Ne varrebbe la pena, perché le vicende narrate sono godibili, oltreché interessanti, ed espresse con una concisione e leggerezza che le rende più abbordabili rispetto alla gravità dei corposi romanzi (Il tamburo di latta, Anni di cani, Il rombo, È una lunga storia).

Provocatorio, sarcastico com’è nelle sue corde, ma anche lieve e intenerito in alcune descrizioni di interni ambientali e privati, Grass riesce qui a comporre un mosaico di avvenimenti storici in cui si compenetrano tragedie collettive con esperienze e memorie personali, collegando eventi lontani ad altri più recenti, laddove violenza, sfruttamento, ingiustizia presentano sempre lo stesso profilo sopraffattore. L’io narrante confonde quindi la sua voce con quella corale o individuale di protagonisti e testimoni della cronaca ufficiale, in un vivace caleidoscopio di atmosfere, linguaggi, personalità differenti.

Il volume si apre sulla rivolta dei Boxer in Cina, espressione paradigmatica del volto aggressivo del colonialismo di ogni epoca: tutte le potenze europee alleate nello sterminio efferato degli asiatici ostili al nascente capitalismo occidentale. La prima guerra mondiale è poi presentata originalmente attraverso l’ottica inconciliabile di due scrittori tedeschi che l’avevano combattuta in prima persona, il “pacifista irriducibile” Eric Maria Remarque e l’interventista anarchico Ernst Jünger, di cui si ipotizza un incontro postumo avvenuto in territorio neutrale, a Zurigo. Quindi la terribile inflazione del primo dopoguerra, seguita dall’ascesa di Hitler nel 1933 raccontata dalla voce di un gallerista ebreo che mette al sicuro alcuni quadri di arte “degenerata”; l’istituzione dei campi di lavoro, la guerra civile spagnola, la notte dei cristalli del 1938.

Diversi cammei sono dedicati a partite di calcio o a gare ciclistiche, all’inaugurazione di gallerie ferroviarie, alla stampa di francobolli celebrativi, all’incisione dei primi dischi (“con il grammofono il mondo si reinventa da capo”), all’invenzione della radio a galena, alla trasvolata atlantica dello Zeppelin 126: avvenimenti che annunciavano trionfalmente il progresso, osservati attraverso gli occhi di donne e uomini comuni, di coloro insomma che “si ritirano volentieri nelle retrovie”.

Il punto di vista di questo osservatorio politico è soprattutto, ma non solo, tedesco: mai di parte, tuttavia, e critico nei riguardi della volontà suprematista della Germania. In particolare dal 1927, anno di nascita di Grass, coincidente con la pubblicazione del capolavoro di Heidegger Essere e tempo, la voce dell’autore si fa sentire più spesso in prima persona, a commentare con giudizi taglienti sia le vicende più tragiche del suo paese, sia costumi sociali, scelte politiche, tendenze ideologiche poco condivisibili. Dalle atrocità del secondo conflitto mondiale, con il conseguente senso di colpa che ha tormentato la popolazione tedesca per decenni, alla divisione tra Germania Est e Ovest, fino alla caduta del muro di Berlino (“ho gridato ‘pazzesco!’, per la gioia e lo spavento, ‘ma è pazzesco!’”), e poi alla riunificazione, considerata artificiosa e ingannevole nella sua pretesa democraticità egualitaria. La cultura non viene ignorata, nello scandire del tempo che si rincorre anno per anno. Si citano in modo irriverente gli emuli dell’oscurantismo linguistico di Heidegger, il gigantesco Mann, il nebuloso Celan, l’impegno di Bertolt Brecht e Gottfried Benn.

Günter Grass si mette poi direttamente in gioco quando ricorda il rapporto con la prima moglie Anna (“avevamo sempre meno da dirci”), con le figlie, e nell’ultima pagina del 1999, nella commossa rievocazione della madre morta di cancro dopo un’esistenza tormentata da miseria, guerre e persecuzioni etniche, e ora tornata viva nella memoria de figlio: “Il ragazzaccio ha superato i settanta e si è fatto un nome già da un pezzo. Ma non riesce a smetterla, con le sue storie…”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 27 agosto 2022

RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, RACCONTI ROMANI – BOMPIANI, MILANO 2001, p. 408

 Tra le tante ingiustizie di cui si macchia il mondo letterario ed editoriale italiano nei riguardi dei suoi protagonisti, una delle più eclatanti è secondo me la sottovalutazione e il conseguente oblio dell’opera di Alberto Moravia, la cui narrativa viene ormai riproposta solo in ebook, decretandone così la sostanziale irrilevanza. Invece, a chi volesse riscoprirne originalità, intelligenza e maestria di scrittura, basterebbe rileggere la prima produzione, a partire da quella di impianto neorealista, e in particolare dai Racconti romani.

Pubblicata nel 1954, la raccolta di settanta novelle – uscite negli anni precedenti sul Corriere della Sera -, narrano le vicende di singoli individui e di famiglie romane, appartenenti a diversi ceti sociali, ma per lo più alla piccola borghesia, al proletariato e al sottoproletariato della capitale. In un linguaggio colloquiale, dimesso e reso più immediato da frequenti dialettalismi, Moravia offriva ai lettori un quadro disincantato delle vicissitudini occorse ai vari personaggi, nel periodo di storia che segnava il trapasso tra la fine del secondo conflitto mondiale e la ricostruzione del paese, quindi tra depressione, umiliazione, senso di sconfitta da un lato e speranza, volontà di ripresa, ottimismo dall’altro.

Il palcoscenico su cui si recita questa commedia umana è sia la Roma delle periferie, delle baracche e delle campagne, sia quella del centro trafficato e vivace, dei monumenti famosi, delle abitazioni e dei negozi dal decoro dignitoso, benché privo di sfarzo. Le voci narranti appartengono nella quasi totalità a giovani uomini, scapoli o maritati con prole, travolti da difficoltà economiche, malattie, tragedie o dissidi tra parenti, desiderosi di riscatto sociale ma contemporaneamente rassegnati al loro fallimento lavorativo ed esistenziale: affidano sé stessi alla sorte, sperando in improbabili colpi di fortuna in grado di mutare in meglio il loro destino.

Operai inquieti e rabbiosi (La rovina dell’umanità), figli e padri insofferenti degli impegni parentali (Scherzi del caldo), negozianti afflitti dai capricci delle mogli (Sciupone), ragazze desiderose di sfondare nel mondo del cinema (Il provino), piccoli truffatori che tentano di arricchirsi con ingenui sotterfugi (Impataccato), sposi in miseria ridotti a rubare oggetti sacri (Ladri in chiesa), ex commilitoni affamati pronti a spolparsi a vicenda (Romolo e Remo). Un piccolo capolavoro, formalmente calibrato in un crescendo irresistibile di comicità e irritazione, risulta essere il monologo di Non approfondire, in cui un marito devotissimo ma assillante e prevaricatore nei confronti della moglie, si tormenta chiedendosi il motivo dell’abbandono di lei.

Moravia descrive le situazioni mortificanti patite dai suoi personaggi con uno sguardo lucido, privo di qualsiasi retorica o falso pietismo, e semmai con amara ironia, rimanendo essenziale e oggettivo nell’illustrare le cause degli avvenimenti, e gli effetti fallimentari e controproducenti delle azioni messe in campo.

Il critico Emilio Cecchi diede di questi racconti un giudizio memorabile: “Una quantità di personaggi che se ne stanno chiusi e saldati in una elementare, inarticolata realtà; in una sfera, in una categoria premorale, che crocianamente si direbbe la categoria dell’utile, dell’economico, della nuda e cruda vitalità”. Anche il nostro cinema seppe abilmente sfruttare gli spunti offerti dalla penna moraviana, attraverso le pellicole di Monicelli, Bolognini, Blasetti, Franciolini.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 agosto 2022

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO-UDINE 2022

In un volumetto pubblicato da Mimesis, il Professor Antonio Prete ha raccolto prose, versi, riflessioni, appunti critici sul fascino misterioso Del silenzio, indagato da poeti, filosofi, pittori e musicisti già a partire dagli albori della cultura occidentale. Antonio Prete – saggista, poeta, narratore, traduttore di classici -, ha insegnato Letterature comparate all’Università di Siena: oggi continua a esercitare la sua competenza di insigne studioso in articoli e recensioni su blog e riviste letterarie.

Le prime pagine del saggio sono dedicate alle varie definizioni attribuite al silenzio, percepito sia ai margini di ciò che cade sotto i sensi, sia nel raccoglimento interiore: “Il silenzio è il legame profondo che unisce in uno stesso respiro l’essere e l’apparire, la forma e la natura”, nel primo incontro con la parola modulata dal carezzevole linguaggio materno, e poi con il suono avvertito attraverso i rumori dell’habitat circostante.

Il silenzio che zittisce le voci disorientanti del proprio tempo diventa esplorazione di sé, meditazione, ascolto: assomiglia al Silentium raccomandato dal monachesimo nel raccoglimento della preghiera e dell’ascesi.

Prete distingue fa tra i due verbi latini tacere e silere, dove il primo sembra alludere a una zona d’ombra, forse al nascondimento di un segreto o a una mancanza di coraggio, mentre il secondo si propone come “un’attitudine interiore, un abito mentale, o anche una ricerca”. È il silenzio luminoso, “non come assenza di parola, ma come esperienza di un’attenzione al visibile, e all’invisibile, che passa dall’ascolto, e non dalla pronuncia, dalla contemplazione e non dalla descrizione, dalla cura interiore dell’immagine e non dalla sua rappresentazione esteriore”.

Pochi pittori sono riusciti, nelle loro tele, a dipingere il silenzio, facendo emergere gli oggetti da una presenza priva di tempo, sulla soglia in cui si manifestano ancora prima del loro apparire concreto: “Cézanne, Morandi: le loro nature morte fanno del silenzio la materia della forma, la linea e il colore e lo spazio della forma. Il rosso delle mele di Cézanne, le linee delle bottiglie di Morandi sono figurazioni silenziose perché non danno presenza al reale ma alla sua enigmatica ombra, non raccontano il visibile ma il suo sfondamento verso l’invisibile”.

La concentrazione mentale e spirituale favorita dalla sospensione della parola vana, del brusio ininterrotto, della comunicazione superficiale, aiuta a riscoprire ciò che rimane nell’al di qua della lingua umana, oltre la corruzione che si attua tra il pensiero e la sua espressione: la quale resta intatta, invece, nella magia della produzione poetica. Al silenzio i poeti hanno infatti dedicato versi memorabili, da Virgilio a Dante, da Foscolo a Leopardi, fino a Hölderlin, Mallarmé, Rilke, Valéry, Jabès.

Quando Hölderlin – il poeta impazzito prigioniero nella torre – scriveva: “Capisco i silenzi dei cieli, / non capisco la parola degli uomini”, indicava la sua scelta della verticalità, di uno sguardo contemplativo verso l’alto. Lo stesso che ha nutrito i versi di Leopardi e Baudelaire, indagati dall’autore negli ultimi due capitoli del libro. Del recanatese si mettono in luce composizioni celebri, che hanno alimentato l’immaginario di generazioni di italiani (L’infinito, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Il canto notturno), insieme ad alcune Operette morali. “L’idillio leopardiano L’infinito è silenzio che muove verso la parola e che dalla parola si ritrae quando il pensiero che ha tentato l’estrema sfida – voler dire l’infinito – incontra sé stesso, cioè il suo proprio limite: l’impossibilità di rappresentare l’infinito”. Di Charles Baudelaire si sottolineano i momenti in cui dal silenzio scaturisce il respiro poetico: l’elevazione verso un altrove, il ricordo dell’infanzia, l’immersione nel buio notturno, la visione rapita della figura femminile.

Lo stesso Antonio Prete riconosce nel silenzio la capacità di rendere la sua anima e il suo pensiero più aderenti alla verità, nel momento in cui si incarnano nel ritmo dei versi, o delle prose liriche qui riportate: “amo le forme che non sono, / la loro trasognata trasparenza”. La poesia, infatti, “è lingua abitata dal silenzio. Sopra quel silenzio le vocali e le consonanti sono le acrobate del senso e del suono, della loro congiunzione: la poesia è lingua che non definisce le cose ma mostra, delle cose, il loro respiro, la loro necessità, viventi in un universo che è vivente”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 12 agosto 2022

 

 

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VAGLIO

LUCA VAGLIO, COSMOLOGIE – MARCO SAYA, MILANO 2022

Luca Vaglio (1973), giornalista, narratore e poeta, vive a Milano occupandosi di cultura letteraria e di viaggi. In questo suo ultimo libro, Cosmologie, affronta temi diversi con tonalità diverse, ma sempre con lo stesso pacato respiro emozionale, e una costante profondità meditativa.

Nella colta e penetrante prefazione, Lorenzo Cardilli giustamente sottolinea la capacità del poeta di affrontare un percorso di esplorazione interiore, con il relativo inabissamento nell’inconscio, riuscendo poi ad affiorare lucidamente in superficie attraverso l’osservazione puntuale dell’esterno collettivo. “Si articola così un continuo negoziato tra slancio uranico e schiacciamento sulla contingenza, le due istanze si scontrano, flirtano e mercanteggiano, seguendo le oscillazioni dell’io, i suoi sbalzi. Un io tanto disperatamente attratto dal qui e ora quanto pronto a disfarsene, come di una prigione”.

La dialettica instaurata da Vaglio tra dentro e fuori, vive la stessa antinomia, lo steso contrasto ideologico e filosofico registrato tra realtà e utopia, razionalità e irrazionalità, soggetto e oggetto, luce e buio, discorso e silenzio, grande e piccolo, bene e male, cielo e inferi. “L’anima bipolare / di ogni materia, il bianco e il nero, / il pensiero, il logos che siamo, / la forma-parola che, forse, ci crea”.

Tale dicotomica contrapposizione di possibilità differenti nell’agire quotidiano e nel porsi intellettuale, si riflette anche nelle scelte stilistiche adottate dal poeta, che vanno dalla narratività riflessiva all’esposizione dettagliata, dall’argomentazione scientifica alla confessione introspettiva.

Il viaggio è scoperta e liberazione, ma nello stesso tempo fuga e tradimento. I mille taxi, i treni, gli aerei che portano in Francia, in Portogallo, in Irlanda non riescono tuttavia ad allontanare il poeta da se stesso: “fuori c’è solo un mondo senza vita / e nessun tempo da abitare, tutto è / qui e altrove; non so se ho mai voluto lasciare questa stanza, / se mi ha sfiorato il desiderio / di stare bene da un’altra parte”. Infatti, “Milano esplosa e abbandonata” ritorna sempre, nei suoi bar vivaci (l’Hemingway, il Jamaica, il Caffè Luna), nella “Brera pulita, levigata, artificiale e irreale”, negli incontri casuali con coppie giovani e mature, mamme e bambini, studiate e commentate con attenta volontà di comprensione e classificazione. La realtà quotidiana, il cappuccino con croissant da consumare tra altri avventori, la partita di calcio guardata con simulato interesse in un locale pubblico, sono punti di avvio verso un altrove cosmico, o un riflusso nelle memorie personali: “una sorta di teletrasporto / chimico e improvviso della coscienza, / e forse un’eco psichica, un flashback / che rimandi all’infanzia più profonda”.

Gli interessi culturali di Luca Vaglio vengono esplicitati in assidui riferimenti agli autori più amati (scrittori come Pessoa, filosofi dai presocratici a Wittgenstein, epistemologi come Ernst Mach), in richiami sia alla fisica contemporanea sia alla cosmogonia dell’antico Egitto, con escursioni verso la tradizione astrologica e le festività religiose romane, nel desiderio di scrutare la realtà da prospettive differenti. Sempre con la consapevolezza dei limiti in cui è iscritta ogni particolare vicenda umana: “Riconoscere / che idea e materia, e quindi soggetto e oggetto, / particolare e generale e, se si vuole osare di più, / mente ed esperienza sono parti uguali del tutto, / schegge indivise dello stesso lembo del mondo”, “il senso / del cosmo deve essere cercato fuori / dal mondo”, “ci chiediamo perché le cose accadano, / il punto da dove cadono gli eventi, / se si tratti di un caso, di un moto / di atomi lungo il vuoto della materia…”.

L’indagine poetica di Luca Vaglio si definisce appunto in questo interrogarsi sul proprio destino creaturale, sul destino dell’umanità, su cause e finalità dell’esistenza, cercando uno spazio e una giustificazione al proprio esibirsi come scrittura, meditativa ma priva di qualsiasi assertività o boria, piuttosto umile e cauto intendimento di scrutare l’ignoto aldilà di ogni futile apparenza.

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 24 luglio 2022

 

 

RECENSIONI

GHENO

VERA GHENO, CHIAMAMI COSÌ. NORMALITÀ, DIVERSITÀ E TUTTE LE PAROLE NEL MEZZO

IL MARGINE, TRENTO 2022

 

Vera Gheno (1975) è un’accademica, sociolinguista e traduttrice italo-ungherese. Si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, e nei suoi numerosi interventi sulla stampa e nei seguitissimi social sostiene l’inclusività del linguaggio scritto e orale, contro ogni discriminazione di genere o etnia. In quest’ultima pubblicazione, Chiamami così (che riporta come esplicativo sottotitolo Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo), muove dalla considerazione che “Una realtà in trasformazione richiede pensieri e parole mutevoli, che si aggiornino in base alle esigenze delle varie componenti della società”: assodato quindi che il mondo in cui agiamo si sta trasformando continuamente e velocemente, soprattutto per impulso della globalizzazione e dell’avvento dei nuovi media, ne deriva che anche il nostro modo di esprimerci debba adeguarsi alla sua evoluzione.

In cinque brevi e stimolanti capitoli, Vera Gheno sottolinea la necessità non procrastinabile di riflettere, soprattutto nell’ambito della formazione – scolastica e non –, sulla rappresentatività sociale e linguistica, relativizzando punti di vista a lungo considerati come universali e riconsiderando in particolare i concetti di diversità e normalità. Quali e quante sono le caratteristiche peculiari che riteniamo ci differenzino all’interno di una comunità? Tra le altre, senz’altro il sesso biologico e l’orientamento sessuale, l’etnia e la provenienza geografica, la religione, l’istruzione, la disabilità, la neuro- diversità, l’età, il corpo, l’indole, le abitudini culturali, le possibilità economiche. Da ognuna di queste nasce una possibile discriminazione, classificabile con un nome: misoginia, omofobia, body-shaming, ageismo, xenofobia, ecc.

“Discriminare significa, letteralmente, operare una distinzione: va da sé che essa può avere un valore neutro, oppure produrre una differenza che va a discapito di una categoria, sancendo chi è «dentro» e chi è «fuori» da una norma”. Se consideriamo la diversità come uno scarto dalla normalità, e non nel senso più appropriato di varietà arricchente, finiamo per imporre artificialmente la nostra identità maggioritaria come modello assoluto a tutte le minoranze, rifiutando loro il diritto di autorappresentarsi. Viviamo infatti in una società normocentrica, che impone i suoi modelli canonici di bellezza fisica e prestigio economico-sociale, da raggiungere a tutti i costi per poter rientrare nell’agognata cerchia dei cosiddetti “normali”. Viviamo inoltre in una società androcentrica, in cui ogni tipo di potere è stato per millenni gestito da maschi, costringendo le donne a ruoli subalterni e ghettizzanti, continuamente ribaditi dalle parole che si utilizzano per abitudine, pigrizia, superficialità (“Ho sempre detto così!”).

Per cambiare questo stato di cose, per trasformare la mentalità pigramente imperante, dobbiamo agire in primo luogo mutando le nostre ossidate abitudini linguistiche. La maggior parte delle persone, tradizionalmente ostile alle novità, si trova in imbarazzo o manifesta fastidio verso i nomi femminili professionali: dire avvocata, sindaca, direttora, ministra, questora, crea disagio, mentre non provoca nessuno sconcerto dire infermiera, maestra, cuoca. Forse perché alcuni ruoli apicali sono appannaggio quasi esclusivamente maschile? Per favorire e incoraggiare la presenza sociale della donna in ogni campo lavorativo, si dovrebbe evitare di usare il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista: se cambia la composizione della società, la lingua si deve evolvere di conseguenza. La linguistica, come l’architettura, la medicina e altre arti e discipline sono costruite secondo un’ottica assolutamente patriarcale, che mira a tenere divise e in stato di conflittualità tra loro le minoranze, in modo da poterle manovrare con maggiore facilità.

Quali strategie attuare per gestire correttamente le differenze? Parlare di inclusività è fuorviante perché indica un movimento non reciproco e sbilanciato tra chi include e chi viene incluso: meglio sarebbe agire con l’obiettivo di una convivenza delle differenze. “La diversità non deve essere ignorata ma celebrata, e nominata bene. Nominare in maniera corretta delle compagini della società che sono state fino a tempi recenti sottorappresentate linguisticamente fa sì che quelle minoranze acquisiscano una maggiore concretezza e diventino abituali agli occhi degli altri individui, ma anche ai propri stessi occhi…  Noi siamo tutti diversi, non tutti uguali, ed è giusto lasciare che la complessità della realtà modifichi la lingua”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 luglio 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VALERIO

ADRIANA VALERIO, ERETICHE. DONNE CHE RIFLETTONO, OSANO, RESISTONO

IL MULINO, BOLOGNA 2022

 

Adriana Valerio (Sperone, 1952), storica e  teologa, da sempre è impegnata a reperire fonti e testimonianze per la ricostruzione della memoria delle donne nella spiritualità occidentale. Tra le prime teologhe ad occuparsi di esegesi femminile, ha insegnato Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, avviando progetti internazionali per la ricostruzione dell’identità storica e religiosa delle donne, in particolare indagando il loro rapporto con i testi biblici.

Nel suo ultimo volume, Eretiche, pubblicato da Il Mulino, ricompone le vicende delle molte donne coraggiose e indipendenti che, giudicate non in linea con le direttive dell’ortodossia cattolica, hanno osato fronteggiare i tribunali ecclesiastici, venendo per tale ragione oppresse, scomunicate, imprigionate, uccise. Già nell’introduzione ne presenta stringatamente alcune: “Il primo giugno 1310 venne bruciata una giovane filosofa, la beghina di Valenciennes Margherita Porete; nel 1524 la mistica Isabel de la Cruz fu processata e successivamente condannata all’ergastolo dall’Inquisizione di Toledo; a metà del Seicento furono deportate le colte suore gianseniste di Port-Royal dall’arcivescovo di Parigi; nel 1912 fu considerato pericoloso e messo all’Indice dei libri proibiti l’opera della teologhessa inquieta Antonietta Giacomelli che voleva sollecitare una riforma liturgica nella Chiesa”.

Donne: aristocratiche, plebee, vergini, maritate, suore, dichiarate pubblicamente eretiche. La parola greca eresia (αἵρεσις) significa “scelta”, e indica la possibilità di seguire un’opinione o una dottrina tra diverse opzioni. Questo termine originariamente non possedeva alcuna caratterizzazione denigratoria. Fu con le Lettere del Nuovo Testamento che assunse connotati dispregiativi, suggerendo separazione, divisione, devianza. “Le esperienze difformi furono giudicate disgregatrici e fuorvianti da un punto di vista dottrinale, morale e disciplinare e per questo allontanate, perseguitate, distrutte”, soprattutto a partire dal II e III secolo, con i trattati di Giustino, Ireneo, Tertulliano, Ippolito.

Gli autori di testi canonici, i detentori dell’ortodossia all’interno del cristianesimo erano ovviamente di sesso maschile, mentre alle donne veniva destinato un ruolo accessorio sia nell’elaborazione teorica sia nella pratica sociale. Eppure, spunti di critica ideologica, audaci contestazioni dei ruoli di potere, esperienze di fede non tradizionali furono elaborate da menti femminili, e regolarmente, severamente occultate o addirittura derise: “donne messe al bando o condannate come deviate, eretiche, streghe, sovversive, isteriche e altro, a seconda di come sono state stigmatizzate nelle varie epoche storiche”.

Adriana Valerio analizza appunto le vicende tormentate e dolorose che hanno caratterizzato i rapporti tra l’universo femminile e il cristianesimo, già a partire dai suoi albori: se il messaggio di Gesù si definì da subito come rivoluzionario e liberante, la misoginia era già evidente in molti testi del Nuovo Testamento: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia (1 Tim 2, 11-15)”.

Istituzionalizzandosi, il cristianesimo accentuò la rappresentazione filosofica di una trascendenza legata al potere, in cui ogni elemento di pluralità e ogni aspetto di femminilità veniva marginalizzato, con un Dio definito come sovrano assoluto, intollerante ed esclusivo. Protagoniste di una proposta intellettuale e spirituale divergente da quella egemone, le “eretiche” mettevano in discussione soprattutto quattro principi ritenuti inamovibili dalla gerarchia ecclesiastica: il principio di autorità, il ruolo profetico, l’esperienza mistica e il rapporto tra legge e libertà, proponendo nuove alternative rispetto alle scarse opportunità offerte dalla vita ecclesiale.

Già dall’epoca romana la persecuzione nei confronti del pensiero teologico femminile fu costante, inibitoria e crudele: ne furono vittime le profetesse frigie Massimilla, Priscilla e Quintilla (definite femminette e donnicciole). Il cristianesimo, riconosciuto come religione dell’impero nell’editto di Tessalonica del 380, avviò poi un rigoroso processo identificativo e di opposizione nei confronti del paganesimo, della cultura greco-giudaica e delle correnti eterodosse: di tale irrigidimento teorico fecero le spese la matematica e astronoma egiziana Ipazia, e altre filosofe e teologhe infamate con accuse di adulterio e lussuria per tacitarne il dissenso ideologico.

Dalla Francia e dal Belgio si diffuse il movimento delle beghine, che aspiravano a vivere secondo il modello evangelico nelle forme della povertà, della carità e dell’apostolato, riflettendo sulle pagine bibliche in gruppi autonomi di preghiera: anch’esse perseguitate, vennero poi ricompattate nel grembo della obbedienza romana. Tra di loro, la vittima più illustre fu Margherita Porete, bruciata nel 1310 insieme al suo libro Lo specchio delle anime semplici.

Stessa persecuzione fu destinata alle donne valdesi, alle catare, le cui comunità patirono violenze e massacri.

Molte le personalità femminili di cui Adriana Valerio esalta il coraggio, la determinazione e l’intelligente anticonformismo: Margherita Boninsegna da Trento, Guglielma di Milano, Maifreda da Pirovano, e la figura più rappresentativa e famosa, Giovanna d’Arco, morta sul rogo 1431, a diciannove anni. Tra il 1550 e il 1600, i tribunali ecclesiastici dell’Inquisizione (spagnola, portoghese e romana), istituiti a difesa della fede cattolica, accusarono centinaia di donne di stregoneria, possessione diabolica, perversioni sessuali, sacrilegi e malefici. Prese di mira furono anche le intellettuali e le aristocratiche, come Giulia Gonzaga, Renata di Francia e la poetessa Vittoria Colonna. colpevoli di aspirare a una spiritualità più interiore e libera da costrizioni dogmatiche.

Il sospetto investiva, in epoca rinascimentale e più tarda, anche le più ardenti e carismatiche esperienze di misticismo, quali quelle di Orsola Benincasa, Giulia Di Marco, Isabella Berinzaga, Madame Jeanne Guyon, Marta Fiascaris, Lucia Roveri, Maria Antonia Colle, e delle seguaci del quietismo e del giansenismo, perché irrazionali e difficilmente incasellabili nelle consuete e più innocue manifestazioni di devozione.

Oltre all’intenso e documentato capitolo dedicato alla “caccia alle streghe”, il volume si sofferma sull’ostilità espressa dalla gerarchia ecclesiastica negli ultimi due secoli contro le studiose e teologhe culturalmente più progredite. Filosofe e letterate (Marianna Bacinetti Florenzi Waddington, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Antonietta Giacomelli, Elisa Salerno, Valeria Paola Pignetti per arrivare alla famosa pedagogista Maria Montessori) dovettero sopportare gli interventi censori dell’Inquisizione romana per aver criticato il potere temporale dei papi, sollecitando una maggiore democratizzazione della Chiesa e un cambiamento culturale che ponesse fine alla loro emarginazione sociale e religiosa. In molti casi queste intellettuali furono scomunicate, escluse dall’eucarestia, ostracizzate al punto da venire indotte ad abbandonare la pratica religiosa, o ad abbracciare nuovi culti. Più spesso la gerarchia ecclesiastica preferiva opporre alle loro richieste “la strategia del silenzio, non dando risonanza alle posizioni della teologia femminista della liberazione, che mettono in discussione l’impostazione patriarcale e androcentrica dell’interpretazione biblica, della teologia e della tradizione, e soffocando qualunque istanza di partecipazione ecclesiale che apra all’ordine sacro”.

Alla domanda di conferire il sacerdozio alle donne, ancora oggi si oppone il diniego feroce e quasi isterico da parte di tutta l’ufficialità cattolica.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 13 luglio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LA CAPRIA

RAFFAELE LA CAPRIA, INTRODUZIONE A ME STESSO – ELLIOT, ROMA 2014

Raffaele La Capria (Napoli 1922-Roma 2022) in settant’anni e più di attività letteraria, oltre a decine di romanzi, racconti, raccolte di articoli e recensioni, diari e interviste, si è spesso ritratto in brevi memorial e autobiografie, sempre all’insegna dell’ironia  e della leggerezza, senza rimpianti, paternalismi, intenti didascalici. Questo libriccino pubblicato nel 2014, sono raccolti quattro brevi interventi introdotti da un’affettuosa prefazione di Raffaele Manica, il quale parla, a proposito di questi capitoletti, di “auto-maieutica” di uno scrittore che “da alcuni decenni… è diventato esploratore delle proprie intenzioni”. Che sono soprattutto intenzioni riguardanti il processo dello scrivere, il prima-durante-dopo dell’attività produttiva. A partire quindi, dall’elaborazione di un punto di vista sulle cose del mondo, non tanto nella sua realtà effettiva, quanto nella consapevolezza che ne abbiamo come protagonisti o semplici comparse. Uno sguardo attento e perplesso, come quello che da giovane rivolgeva non solo allo splendido ambiente naturale in cui era nato e cresciuto, ma anche alla borghesia partenopea “digerente” (più che dirigente), futile e incapace di progettare e riprogettarsi, nella cui affettuosa e talvolta soffocante cornice era stato allevato. Alla decisione presa in gioventù di diventare scrittore, privilegiando – rispetto al racconto autobiografico- la via impersonale e polifonica, convinto che “il contesto era più importante dell’assolo”, seguì la consapevolezza dello stile letterario cui rimanere fedele per tutta la vita. Chiarezza e semplicità, addirittura trasparenza di scrittura, che non facesse pesare sul lettore la fatica della composizione, ma mantenesse una sua naturalezza luminosa, pur consapevole della rivoluzione formale della narrativa novecentesca, ben assimilata nel capolavoro del 1962, “Ferito a morte”. Inevitabile a questo punto l’accenno ai due topoi della scrittura lacapriana: la difesa del “senso comune” contro l’arroganza ideologica, la mistificazione intellettuale e “il dilagare delle astrazioni”, e l’invito a saper godere di ogni “bella giornata” che ci riserva il destino, l’attesa e la speranza della felicità con cui dovremmo svegliarci ogni mattina, “lo stupore in cui è la vera conoscenza, la meraviglia di stare al mondo, il senso del divino che questa meraviglia ci comunica”.

© Riproduzione riservata    4 luglio 2022     SoloLibri.net › Introduzione-a-me-stesso-La-Capria

 

 

RECENSIONI

CAVALLI

PATRIZIA CAVALLI, LA PATRIA – NOTTETEMPO, ROMA 2011-2014

Nel 2011 le edizioni romane Nottetempo avevano pubblicato un libriccino (riproposto in e-book nel 2014) della poeta umbra Patrizia Cavalli, venuta a mancare l’altro giorno, e ricordata con rimpianto e stima da numerosi organi di stampa italiani e stranieri. Sotto il titolo La Patria erano riuniti due poemetti ironici e risentiti, acuti e intelligenti, amari e appassionati. Il secondo, “L’angelo labiale”, era una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore (l’insulto, la sopraffazione) alla discrezione e alla gentilezza del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Ma più particolare ancora, più spavaldamente dissacrante e pungente era la prima composizione (letta in anteprima a Piazza del Popolo dal palco della manifestazione di Se non ora quando del 13 febbraio 2011), un omaggio in versi all’idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di “patria”. “Ostile e spersa / stranita… braccata. ..  tentata. ..  sbattuta. .. / eccomi qui obbligata a pensare alla patria”. Come si può, con quali abusate metafore, cantare la propria nazione, di cui magari ci si vergogna un poco, che si vorrebbe diversa, più nobile e orgogliosa di sé? Forse con le immagini femminili di cui si servivano i poeti antichi, imponente matrona bardata di pepli e corone?

Patrizia Cavalli elencava invece una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole in controcanto: la madre “calma e abbondante”, “la stanca vedova in affanno” che vizia una prole stupida e egoista, la “donna giovane, ma austera” – casta e asessuata -, la cortigiana “scostumata”, la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Nemmeno queste sembravano le rappresentazioni più convincenti a Patrizia Cavalli. “Beh, io alla fine di questa tiritera… / volenterosa mi ritrovo priva / di una qualunque intera, definita / figura della patria”. Meglio cercare tra le cose quotidiane, affidarsi ai sensi, agli impulsi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati, alla vista di lavori artigianali o di sfaccendati “assistenti del niente” ciondolanti davanti ai bar. Meglio cercare la propria patria nell’aria, nei “giorni santi, stupefatti”, nella luce di un “trasparente cielo fino di batista”.

“Io allora / basta così, ringrazio”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 23 giugno 2022