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POESIE

JOSEPH

JOSEPH

 

Otto anni Benedictus

poi gravatus senectute

sofferente di salute

a basite eminenze

in concistoro

flebilmente scandisce

inaudita insospettata

decisionem

dopo fervida preghiera

tormentata riflessione

ribadisce

pervenuto

ad certam cognitionem

supplicando comprensione

declaro renuntiare

io semplice operaio

nella vigna del Signore

coscientia coram Deo

explorata

risolto ad abdicare

se si trova zizzania

più che grano

nel campo della Chiesa

Benedictus iam Joseph

preferisce migrare

spogliato di mitrie

pivali fanoni

sontuose liturgie

si allontana silenzioso

il più antiquus

vegliardo

della storia vaticana

invocando

la schiera dei santi

i saggi timonieri

della barca di Pietro

testimoni

di una croce sostenuta

restaurando

nel solco traditionis

ha scelto

il vicino più spoglio

monastero

dove un gatto

lo attende

e Mozart lo consola

pontifex non summus

ma emerito soltanto

altero curvo bianco

patiendo

et orando

lui teutone severo

così stanco

del mondo.

 

 

© Riproduzione riservata                   «La Poesia e lo Spirito», 31 dicembre 2022

RECENSIONI

TOLENTINO DE MENDONÇA

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA, IL PAPAVERO E IL MONACO – QIQAJON, BOSE 2022

José Tolentino de Mendonça (Machico,1965) teologo e docente universitario, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia, perché di poesia si occupa sia criticamente sia attraverso un’apprezzata produzione personale. Ha trascorso l’infanzia in Angola, dove suo padre faceva il pescatore in alcune città portuali.

Il rapporto con la natura è tra i temi principali delle sue raccolte, insieme alla riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico. Il suo ultimo volume di versi, Il papavero e il monaco, ha tratto ispirazione da un viaggio in Giappone e dalla forma letteraria più tradizionale e nota di quel paese, l’haiku. L’haiku, che ha molti estimatori e seguaci anche in Italia (al punto che ogni anno gli si dedicano numerosi concorsi e convegni, con una vivace partecipazione di appassionati) è, come si sa, una poesia in tre versi privi di rime, che non supera le 17 sillabe, suddivise in 5/7/5 more per verso.

Nelle sue composizioni, Tolentino non si attiene rigidamente a questo schema metrico, ma rimane comunque fedele tanto a una struttura di estrema concisione, quanto alla dimensione spirituale, al richiamo evocativo, alla sensibilità pittorica tipica di tale figurazione poetica: nella premessa, afferma di essere debitore, per le sue composizioni, sia a Kerouac sia a Bashō.

Il silenzio, come intenzione di ascolto e svotamento interiore, è spesso protagonista dei versi: “Il silenzio solo raramente è vuoto / dice qualcosa / dice quel che non è”, “Il silenzio non è una forma / di riposo o sospensione / ma di resistenza”, “Silenzio: / contemplare la neve / fino a confondersi con lei”, “Impara a rinunciare / a tutto / persino al silenzio”, “Il silenzio / non è l’opposto / ma il rovescio”.

La preghiera è disposizione dell’animo, in una misura che non appartiene solo al cristianesimo, ma al sentire religioso universale, la cui espressione primaria è contemplativa, di ringraziamento e meraviglia, e i cui celebranti sono gli antichi pellegrini, i monaci di tutte le fedi: Vuoi sapere che cosa prego quando prego? / tronchi secchi, ramoscelli / recinzioni e creta rossa”, “Felice colui che bacia l’icona / con devozione totale / senza nulla chiedere”, “La vita monastica / è una forma di nudità / che non ha vergogna di sé stessa”, “La vera scienza della santità / è vivere / senza perché”, “L’estate / insegna la stessa preghiera / al papavero e al monaco”, “Il pellegrino / preferisce le scarpe / più volte riparate”.

La natura celebra la bellezza in totale gratuità: “Oggi le nuvole sembrano / monaci che prendono il tè / in silenzio”, “Cose che non lasciano traccia: il lampo nella notte / il volo degli aironi contro la neve”, “La begonia è tornata a fiorire / e la pernice ha ritrovato intatto / il proprio nido”, “Nel ramo del melo cotogno / scopro nuvole / che non avevo visto”, “Tante volte / dico alla rugiada / sono come te”.

Tra i colori di questi acquerelli poetici prevale senz’altro il bianco, nel candore della neve e dei cirri, nel vuoto della pagina che accoglie le scarne sillabe vergate in nero. Ma sono presenti anche il verde dell’erba e dei boschi, l’azzurro del cielo e dei laghi, il giallo e il rosso dei fiori.

Respiriamo qui la tranquilla serenità di chi si sa creatura simile a qualsiasi altro essere vivente, animale e vegetale, riconoscendosi inessenziale al mondo ma comunque amato da Dio; di chi desidera abbandonarsi al fluire del tempo, rinunciando a ciò che appesantisce mente e cuore: il tormento del pensiero, l’imposizione della volontà, l’afflizione della memoria, l’ansia del progetto. “Tutto è effimero: / ieri ascoltavo la tua / voce oggi solo il vento”.

Nella sua ammirata e intensa prefazione, l’italianista Lina Bolzoni così commenta queste pagine: “È un libro fascinoso e perturbante. Ci porta lontano, tra i giunchi e i crisantemi del Giappone e insieme scava nella nostra interiorità, ci provoca con le sue domande, con i suoi rovesciamenti di prospettiva, ci incanta con la magia del verso, con la danza turbinosa dei punti di vista”.

Oltre a essere poeta, José Tolentino de Mendonça è Cardinale della Curia Romana dal 2019.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 23 dicembre 2022

 

 

 

RECENSIONI

FALCI – TONDELLI

GIUSEPPE ALBERTO FALCI – JACOPO TONDELLI, DOPO LA DEMOCRAZIA

ZOLFO, MILANO 2022

 

In sei capitoli, un’introduzione e una conclusione, due giornalisti politici – Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli – raccontano “un decennio vissuto pericolosamente, tra populismo e tecnocrazia”, come recita il sottotitolo del loro volume da poco uscito presso l’editore milanese Zolfo: Dopo la democrazia.

Il periodo di storia italiana preso in esame dagli autori va dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi (novembre 2011) alla nascita del governo Meloni (ottobre 2022), anni in cui a Palazzo Chigi si sono succeduti Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, tutti arrivati al potere senza una reale investitura popolare. Il decennio in questione è stato contraddistinto da una serie di emergenze economiche, sociali e sanitarie a cui non sono state offerte soluzioni significative, impedendo oltretutto la partecipazione democratica nella scelta dei rappresentanti incaricati di reggere il Paese.

Sebbene accolto con freddezza e pregiudizievole timore dai media e dagli intellettuali progressisti per la sua provenienza post-fascista, il governo di Giorgia Meloni risulta quindi il primo, dopo dieci anni di “avvelenamento della democrazia italiana”, ad aver rispettato il volere degli elettori, che hanno scelto di votare la coalizione dei partiti di destra, a cui non ha saputo opporsi una sinistra allo sbando nelle idee, nei programmi e nelle alleanze.

Il volume si apre dunque sulle pagine dedicate all’attuale maggioranza, presieduta da una leader della destra post-missina e nazionalista, fedele tuttavia all’Europa e al patto atlantico, in consonanza con le scelte del predecessore Mario Draghi, soprattutto in difesa dell’Ucraina contro l’aggressione sovietica. Il libro, soffermandosi sugli esordi politici e sulla vita familiare della prima donna italiana capo di governo, ripercorre puntualmente le giornate frenetiche della sua vittoria alle ultime elezioni del 25 settembre: elenca i collaboratori che ne costituiscono l’entourage più fidato, l’entusiasmo dei conservatori europei, il sarcasmo dell’opposizione, le prime schermaglie con gli alleati della Lega e di Forza Italia. Il governo nascente si è caratterizzato da subito come iper-politico, nella volontà di creare un esecutivo di alto profilo, a netta egemonia del partito vincitore, Fratelli d’Italia, che ha imposto a un Parlamento acquiescente sia i Presidenti di Camera e Senato, sia Ministeri più rilevanti.

Retrocedendo nel tempo al novembre 2011, vengono ricostruite le vicende che hanno portato l’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano a incaricare l’economista Mario Monti di guidare un governo tecnico, retto da una vasta maggioranza. Soluzione che era parsa inevitabile, dopo il declino dell’epopea berlusconiana durata 25 anni, e conclusasi tra inchieste giudiziarie e scandali sessuali, nell’aggravarsi di una crisi economica segnata da uno spread insostenibile. Il programma di austerità promosso da Monti, supportato dalle figure carismatiche ma discusse di Elsa Fornero e Corrado Passera, sembrava rappresentare gli interessi di una minoranza stabile e influente, intesa a rassicurare soprattutto i timori dell’alta finanza europea, tenendo contemporaneamente a bada la rabbia sociale incanalata dal Movimento 5 Stelle, che in effetti alle elezioni del febbraio 2013 ottenne il 25,5% dei voti. Davanti al partito creato da Beppe Grillo si apriva però un dilemma gravido di conseguenze: “Tenere duro e negarsi a ogni alleanza e compromesso, costi quel che costi, oppure accettare la fine del proprio mito fondativo e governare, scegliendo l’alleato «migliore»?”

L’imprevedibile ascesa, e il conseguente declino della formazione, merita nelle pagine dei due autori un’analisi attenta e puntuale, esattamente come quella dedicata al loro rappresentante di maggiore rilievo istituzionale, Giuseppe Conte, a capo di due governi (2018-2019 e 2019-2021).

Molta attenzione critica viene riservata anche alla rielezione del Presidente Sergio Mattarella, che con il plebiscito del 29 gennaio 2022, dopo un lungo lavoro diplomatico sotterraneo ha spazzato via tutti gli altri candidabili (Draghi, Casellati, Casini, Belloni, Cartabia, Amato), in nome di un “mero principio di autoconservazione”, per mantenere “l’unico equilibrio possibile”. Mattarella viene definito dagli autori del libro “Moroteo di stile e di contenuto, grisaglia d’inverno e d’estate, silenzioso”, e pari severi giudizi sono riservati anche a un altro vulcanico protagonista di questi anni: Matteo Renzi (il rottamatore, il royal baby), e infine al “mito impossibile di Mario Draghi” (“L’ex direttore del Tesoro è il salvatore della Patria che tutti evocano per qualsiasi ruolo istituzionale”).

I commenti che Falci e Tondelli riservano a big, comprimari e comparse del Parlamento risultano quasi imbarazzanti, nel sottolineare volubilità e volatilità di proposte e idee, nell’elenco vorticoso di manovre oscure, riciclaggi e ripescamenti di figuranti inattendibili, nell’ostentato culto dell’immagine praticato su tutti i media, intrecciandosi prima e svincolandosi subito dopo in caroselli ideologici

Agli attori principali di questa recita nazionale (farsa, commedia o tragedia) sono dedicate esplorazioni e riflessioni che non riguardano solo alleanze, tradimenti espliciti, sgambetti imprevisti, ma anche gli interventi di amici-nemici-fidanzati, di intellettuali-industriali-giornalisti-magistrati,  riportando alla memoria dei lettori episodi e figuranti dimenticati della scena politica più o meno  recente, come evidenzia il lunghissimo elenco dei nomi citati a fine volume, giustamente inghiottiti nelle sabbie mobili dell’oblio.

A conclusione di tale sconfortante e impietoso ritratto, gli autori tentano un bilancio dei problemi strutturali del nostro Paese. Problemi ereditati da un passato certo non edificante, che minacciano di incacrenirsi nel futuro: l’irrilevanza politica sullo scacchiere internazionale, la perdita progressiva di prospettiva industriale e di investimento nel tessuto produttivo, l’incapacità di attrarre capitali economici dall’estero, la criminalità organizzata, il consolidarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali, il degrado delle periferie urbane, il costante calo demografico, l’immigrazione clandestina, le scarse risorse destinate alla sanità e all’istruzione…

Sono solo una parte delle questioni irrisolte a cui la classe politica attuale non sembra poter o voler rimediare.

 

© Riproduzione riservata          19 dicembre 2022

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RECENSIONI

ORECCHIO

DAVIDE ORECCHIO, QUALCOSA SULLA TERRA – INDUSTRIA&LETTERATURA, MASSA 2022

Davide Orecchio (Roma, 1969), autore di racconti, romanzi e di un libro per l’infanzia, redattore del blog Nazione Indiana, ha pubblicato con le edizioni Industria&Letteratura una storia che racconta persone, ambienti, fatti collocati ai margini della “Storia”, troppo politicamente ed economicamente irrilevanti perché il mondo politico ed economico se ne occupi. E tanto tracimanti dolore e sofferenza da creare disagio, senso di colpa e impotenza in chi scrive e in chi legge.

Il titolo del suo breve romanzo, Qualcosa sulla terra, è tratto da una poesia di Paul Celan, i cui versi fungono da epigrafe al libro: “Fare qualcosa, / Qualcosa / fare nell’alto, nel / basso.  Qualcosa, sulla terra”.

L’incipit è concisamente drammatico, foriero di un messaggio allarmante: “Vivevo in una città che s’incendia, pazza per l’odore del fuoco. Alcuni odiavano la città e le davano fuoco. Altri, assediati dal fuoco, pure la odiavano, ora che non sapevano più comprendersi se non come vittime”. Il fuoco è il reale protagonista della narrazione, nella sua cieca violenza di elemento naturale, ingovernabile nella propria incosciente ferocia, ma orientato verso la distruzione dall’incuria, dal tornaconto o dalla malvagità umana.

Chi narra in prima persona assiste impotente e rabbioso all’imbarbarimento della sua città, ricca di storia e priva di speranza nel futuro, “città dell’arsura e dal destino desertico” assediata dalle anime nere di spettri incendiari, piromani astuti e viziosi. Svegliandosi all’alba per l’acre odore di fumo che invade l’appartamento, immagina che a bruciare siano i cumuli di rifiuti abbandonati per strada, nauseante testimonianza di degrado urbano. Scopre invece, turbato, che a venire distrutta dalle fiamme è stata l’abitazione di una donna anziana e sola, “che non apparteneva ai pensieri del mondo”, arsa nel letto mentre dormiva, in una stanza illuminata da candele perché priva di elettricità. Avvicinandosi all’edificio affumicato, incontra un vecchio in lacrime, che gli narra la triste vicenda esistenziale della vittima, da lui conosciuta all’ospedale dove erano entrambi ricoverati per Covid. Bianca, si chiamava la donna, e il suo commosso ultimo amico Gilberto.

La seconda parte del romanzo si occupa quindi di ricostruire la vita dei due pensionati condannati all’emarginazione, all’irrilevanza sociale. Altri decessi importanti erano avvenuti in quello stesso anno: una grande poeta, una grande attrice, un grande narratore, che morendo avevano un po’ ucciso anche il mondo intorno, da cui erano amati e celebrati. Ma della morte di Bianca non si sarebbe occupato nessuno: ingiustizia patita nel corso e alla fine di tutti gli anni vissuti.

L’ottantenne Gilberto, che divideva le sue due stanze con il gatto Alberto, narrando della subdola infezione che nell’anno trascorso gli aveva tolto il respiro, descrive all’autore del romanzo il suo ricovero e le cure, quando nella città deserta e spaventata si sentivano ululare solo le sirene delle ambulanze, e le famiglie e i condomini rimanevano asserragliati nel proprio egoismo e nella paura.

Qui la narrazione di Davide Orecchio assume contorni fiabeschi, perché protagonisti diventano gli animali, il gatto di Gilberto, la gatta Lisa di Bianca, che entrambi disperati rincorrono l’ambulanza dove sono stati caricati i loro padroni, colpiti dallo stesso morbo e ricoverati nello stesso ospedale. I due gatti, fino ad allora estranei l’uno all’altro, si perdono insieme nel gelo di viali e piazze spettrali, vengono attaccati e feriti da uno stormo di gabbiani feroci, e poi salvati dall’intervento di un cane randagio che li conduce verso il nosocomio a cercare Bianca e Gilberto.

La scrittura si fa ansiosa, ritmica, smozzicata, replicante l’oralità delle frasi pronunciate balbettando, come temesse il suo stesso procedere verso una tragedia annunciata.

I gatti rivedranno i loro padroni, intubati in due letti vicini, e li saluteranno attraverso il vetro della terapia intensiva: metafora di quattro esseri innocenti che tutti insieme patiscono il male del mondo.

Il racconto di Davide Orecchio si conclude con un accenno solidale al percorso umano di Bianca, una pensionata dall’esistenza mansueta comune a tanti anziani, che “per distrazione o penuria” non pagava le bollette della luce, e aveva affidato il suo sonno a delle candele.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

COTTAFAVI

CECILIA COTTAFAVI, A QUALCUNO PIACE IL VINTAGE  – BOOKABOOK, MILANO 2021

Cecilia Cottafavi è una venticinquenne di Milano con la passione del vintage, che ha saputo trasformare questo suo interesse in un’attività lavorativa (creando un team con un proprio blog “www.maertensmilano.com”), e in un libro: A qualcuno piace il vintage, edito da Bookabook lo scorso   anno.

Dal primo approccio adolescenziale alla moda anni ’70, vissuto con un esitante desiderio di trasgressione e di non omologazione, Cecilia dopo il liceo ha sviluppato una consapevolezza ideologica che l’ha portata ad approfondire la storia del vintage anche dal punto di vista del mercato finanziario, della sostenibilità ambientale e dello sfruttamento dei lavoratori tessili nel Terzo Mondo. Se il suo libro è pensato soprattutto per un pubblico milanese, nel blog offre alcune mappe e percorsi di negozi in altre città italiane ed europee, dato che proprio nei paesi nordici è nata, si è sviluppata e diffusa capillarmente la tendenza di vendere ed acquistare l’usato.

Nel volume illustrato, la dettagliata introduzione si sofferma sulla definizione di vintage, che va riferita a capi di vestiario o a oggetti creati almeno una ventina di anni fa, mentre per second hand si considerano gli articoli acquistati e rivenduti nell’arco di poco tempo, dopo un evidente utilizzo o consumo. Viene spiegata la differenza tra charity shop, thrift store e vintage shop, dove il primo termine indica un’attività di raccolta e vendita a scopo benefico, senza fini di lucro, il secondo si riferisce a “esercizi commerciali delle occasioni/degli affari” con fascia di prezzo bassa, e il terzo al negozio che vende articoli realmente vintage. Si approfondiscono poi i significati di terminologie affini a questo tipo di attività: customizzare un capo significa apportargli delle modifiche, personalizzarlo tramite disegni, tagli, ornamenti vari; il “conto vendita” è il metodo piuttosto diffuso con cui i privati possono portare il proprio usato al negozio, ottenendo il 50% del prezzo di vendita; il vintage washing è la deprecabile pratica attraverso cui alcuni marchi fast fashion imitano i prodotti vintage servendosi di materiale più scadente; fare decluttering è la sana e consigliabile abitudine di creare spazio, eliminando ciò che non serve più attraverso donazioni, scambi, regali.

La parte che risulta più interessante agli acquirenti del vintage, è la guida vera e propria ai numerosi negozi di Milano, concentrati per lo più in tre zone (Navigli e Colonne di San Lorenzo, Brera, Centro Duomo-San Babila). Dopo aver catalogato per sesso, stile e disponibilità economica tre differenti categorie di clienti in cui rispecchiarsi per trovare il negozio più adatto al  proprio carattere  e portafoglio, si elencano non solo negozi di abbigliamento (con indirizzo, orari, telefono, mail, Instagram, genere di articoli e fasce di prezzo), ma anche rivendite, botteghe, magazzini, empori che commerciano vinili e dvd, libri, mobili, occhiali, accessori, tessuti, giocattoli, poster, strumenti musicali, e poi bar, ristoranti, gelaterie, pasticcerie dall’arredamento e dai prodotti d’antan.

Cecilia si prodiga anche in consigli per gli acquisti; misurare bene la taglia, controllare eventuali difetti o macchie, confrontare i prezzi, esaminare le etichette. Inoltre, redigendo un cospicuo indirizzario di negozi vintage online, spiega come pubblicizzare i propri prodotti, come fotografarli, spedirli e contrattare sul prezzo.

Insomma, un vero e proprio invito al riciclaggio di ciò che si possiede, ricordando il memento della giornalista britannica Lucy Siegle: “Fast fashion isn’t free. Someone, somewhere is paying”, perché non è tutto oro quello che luccica, e aldilà delle vetrine più lussuose esistono altre realtà da tenere in considerazione.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 11 dicembre 2022

 

RECENSIONI

DELLA VALLE

MASSIMO DELLA VALLE, IL TEMPO DELLA LUCE – MORELLINI, MILANO 2022

Nella collana Improvvisazioni l’editore milanese Morellini ospita testi liminari alla poesia, poco ortodossi rispetto alla produzione attuale, scritti da autori che pur dedicandosi professionalmente ad altre materie, costeggiano suggestive atmosfere letterarie.

È il caso del recente volume Il tempo della luce, dell’astrofisico Massimo Della Valle (Bari 1957), noto studioso di fenomeni quali le supernovae, i lampi gamma, le onde gravitazionali, che dalla scrittura in versi ha tratto ispirazione per alimentare i dati, di per sé piuttosto aridi, delle sue ricerche, contemporaneamente offrendo agli umanisti spunti di riflessione ricavati dall’indagine scientifica

Cosa lega la poesia alla scienza? Senz’altro la stessa ansia di conoscenza, di porre domande e cercare risposte, di guardare con stupore e curiosità oltre alla realtà visibile, tentando di vincere l’angoscia del sapersi mortale. Se Leopardi fa dire al suo pastore errante “che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?”, anche lo scienziato più scettico si pone gli stessi interrogativi sull’origine e la fine dell’esistenza. Conoscere a fondo i meccanismi che regolano biologia, chimica, fisica, neurologia e astronomia non distrugge il fascino del mistero che ci circonda, semmai ne amplifica la meraviglia: poesia e scienza intersecano i loro percorsi, arricchendosi vicendevolmente.

Massimo Della Valle affronta i concetti basilari dell’astrofisica in undici capitoli che esplorano la storia della luce, affiancando alle pagine teoriche alcuni contributi di chi ha guardato all’universo in termini fantastici, mitologici, filosofici o appunto poetici: Dante, Shakespeare, Celan, Canetti, Derrida, Levi, Pasolini, Blanchot, Proust, Keats.

Hölderlin, osservando “la fioritura del cielo”, forse non era particolarmente interessato ad analizzare lo spettro luminoso, né Dino Campana fantasticava sulla notte in termini scientifici (“Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto”): ma la loro emozione senz’altro può essere comparata a quella degli astronauti rinchiusi in una navicella spaziale lanciata in orbita intorno al nostro pianeta.

Il volume si apre scandendo la storia della luce in quattro epoche distinte. Dalle antiche intuizioni presocratiche alle più approfondite analisi di Aristotele fino all’epoca romana, si passa poi alla scienza islamica che vide negli studi sull’ottica di Alhazen il suo apice. Successivamente vengono indicati i traguardi dell’epoca moderna con le scoperte astronomiche di Copernico e Galilei e il contrasto tra Newton e Huygens sulla natura corpuscolare od ondulatoria della luce, approdando infine all’attuale fisica quantistica e allo studio dell’elettromagnetismo, che oggi si proietta verso la futura tecnologia wireless per trasportare i dati via Light Fidelity, sfruttando le onde luminose emesse da una lampadina LED, anziché le onde radio.

Della Valle spiega in modo chiaro e facilmente accessibile attributi e consistenza della luce, che dall’antichità è stata oggetto di culto per tutte le popolazioni della terra, anche nelle forme ingannevoli di credenze superstiziose, nei riti pagani, negli abbagli dell’astrologia. Ne illustra la velocità, l’energia, le particelle elementari, i colori, spingendosi a descrivere poi le eclissi, le supernovae, i buchi neri, la materia oscura, la gravità. Ci fornisce informazioni di base, che spesso dimentichiamo di possedere nel nostro bagaglio culturale, come queste: “Il Sole dista dalla Terra, in media, 150 milioni di km. Tutti sappiamo che la luce nel vuoto si propaga alla velocità di circa 300.000 km al secondo, quindi se qualcuno ci chiedesse quanto tempo impiega la luce emessa dal Sole a raggiungere la Terra, il conto è presto fatto: 150.000.000/300.000=500 secondi, corrispondenti a circa 8 minuti e 20 secondi. Se il Sole magicamente si spegnesse ora, noi lo vedremmo risplendere in cielo per altri 8 minuti e poco più. Solo successivamente arriverebbe l’oscurità”. Appena più complicato ci può apparire il testo quando si addentra nelle reazioni termonucleari, o nelle collisioni tra fotoni e protoni, ma le simpatiche metafore usate per facilitarne la comprensione, rendono la lettura ancora più stimolante.

Se ogni atomo del nostro corpo proviene da una stella che è esplosa, diceva il vero una vecchia canzone di Alan Sorrenti, definendoci “figli delle stelle”, cioè della luce. Perché, secondo Ralph Waldo Emerson “Da dentro o da dietro una luce brilla attraverso noi sulle cose e ci rende consapevoli che non siamo niente, che la luce è invece tutto.

 

© Riproduzione riservata   «Gli Stati Generali», 7 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JANKÉLÉVITCH

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, L’IPSEITÀ E IL QUASI NIENTE 

SOLFANELLI, CHIETI 2017

 

I due importanti testi di Vladimir Jankélévitch. L’ipseità e Il «quasi-niente», pubblicati per la prima volta in italiano dall’editore Solfanelli nel 2017, sono stati scritti rispettivamente nel 1939 e nel 1954.

Jankélévitch (1903-1985), nato da una famiglia di ebrei russi immigrati in Francia, è stato filosofo, musicologo e pianista. Professore alla Sorbona e autore di numerosi volumi di estetica e morale, ha indagato la dimensione etica della sofferenza, della perdita, del perdono, soffermandosi in particolare sul senso dell’ineffabile come sentimento, intuito soprattutto dalla musica, che travalica i concetti tradizionali della riflessione contemporanea. Nella prefazione, Gianluca Valle così lo definisce: “è un pensatore sfuggente e difficilmente inquadrabile nelle correnti filosofiche del tempo (la fenomenologia, la psicoanalisi, l’esistenzialismo e il marxismo); un chirurgo della parola che viene svuotata del suo potere rappresentativo e definitorio e impiegata nella sua forza evocativa e metaforica, attingendo con un intento antimoderno al greco e al latino, e costringendo il lettore a compiere vorticose scorribande concettuali”.

Servendosi degli strumenti dell’intuizione e dello humour, aggirando i colossi teorici della filosofia occidentale Marx e Freud, e raccogliendo invece l’eredità bergsoniana, Jankélevitch in questi due brevi saggi offre un’esemplare manifestazione della sua abilità di scompaginare le certezze consolidate, utilizzando la categoria della negazione, per definire non tanto il “cosa è”, quanto il “cosa non è” di un concetto, di un fatto, di un’azione.

Ipseità quindi si determina come negazione della molteplicità, e il quasi-niente come irriducibilità allo scorrere ordinario del tempo. L’ipseità è inalienabile, inviolabile, impossedibile, incomparabile, pura esistenza che qualifica l’individuo come unicità pur nel suo essere comune con gli altri, ma al di là di ogni fare e avere particolare. Il quasi-niente è invece un evento imprevisto, una sorpresa, una novità che si situa tra l’essere e il nulla, la rivelazione di un istante che ha una valenza ontologica o metafisica, non puramente pratica, e prospetta un divenire inconosciuto.

L’ipseità indica l’umanità e la dignità al grado zero dell’essere umano, non quantificabile perché unica e irripetibile, fondata su sé stessa indipendentemente dalle scelte individuali messe in atto. Non corrisponde a un’idea astratta dell’“essere uomo”, ma si riferisce alla specificità propria dell’individuo, insieme immanente e trascendente. Se questo concetto si può avvicinare ad altri simili, espressi da filosofi antichi e moderni (tra gli altri, Heidegger con il suo “Dasein”, che tuttavia Jankélévitch non nomina mai, ritenendolo colpevolmente implicato nel nazismo), più originale risulta la riflessione sul “quasi-niente”, inteso come evento ultra-empirico che irrompe nella continuità del tempo, o come l’intuizione di una mutazione istantanea, impercepibile transizione tra la vita e la morte, tra il bene e il male, che può essere espressa e resa comprensibile specificamente nell’ascolto dell’ineffabile intuito e suggerito dalla musica, per esempio nei “pianissimi” di Debussy o di Albeniz, quando il suono smorzato si avvicina alla soglia del silenzio, e del mistero. Il “quasi-niente”, come un lampo o una scintilla, si situa aldilà del tempo e dello spazio, accade nell’istante, nell’attimo che appare scomparendo e scompare apparendo, privo di passato e di futuro, trasformazione dell’essere che travalica qualsiasi spiegazione intellettuale.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 5 dicembre 2022

RECENSIONI

BONNEFOY

YVES BONNEFOY, INSIEME ANCORA – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

Con testo francese a fronte, cura e note di Fabio Scotto – massimo conoscitore e traduttore dell’opera di Yves Bonnefoy in Italia –, Il Saggiatore pubblica l’ultimo libro di versi del grande poeta francese (1923-2016), scritto poco prima di morire: Insieme ancora. Un libro composito, in cui le diverse sezioni si susseguono alternando temi e stili differenti, sebbene nella costante di un unico sentimento di fondo, che potremmo definire di affettuosa malinconia, nella consapevolezza della prossima fine e nella volontà di lasciare una testimonianza di fede non tanto religiosa, quanto etica ed estetica. Se, come scrive Scotto nella prefazione, il pensiero poetico di Bonnefoy è stato sempre caratterizzato da una “parola aperta, transitiva, desiderosa di costruire il dialogo, l’incontro, la relazione”, pur nella complessità concettuale espressa, tanto più il suo ultimo lavoro documenta l’esigenza di un confronto da protrarre oltre la morte.

La prima sezione del volume, il cui titolo volutamente programmatico indica negli avverbi insieme e ancora il duplice desiderio di una continuità temporale da condividere con gli altri, è un poemetto diviso in tre parti, dove chi scrive prende congedo da sé stesso, dall’ambiente in cui è vissuto e da chi ha amato. Lo fa usando un tono sommesso e intenerito: “È strano, non vi riconosco. / Fa così buio che più non vedo il vostro volto /… Capisco che voi tutti non siete altro / Accanto a me che un’unica presenza, / A chi porgere la coppa, non so / Né voglio, la poso, per un istante. Scorgendo le vostre mani, / Le sfioro con le mie, è sufficiente”. Il senso stringente di comunità, quasi di cenacolo mistico, si esprime sia nell’uso dell’io che in quello del noi (io con voi, tu e io, noi tutti accanto…).

Fabio Scotto traduce il verbo francese léguer, coniugato alla prima persona singolare “je vous lègue” (lasciare, tramandare, consegnare in eredità, con un riferimento al lascito testamentario latino, il “legatum”), utilizzando il termine “legare”, forse proprio per sottolineare l’idea di vincolo, di rapporto inscindibile, di promessa da mantenere: “Miei cari, vi lego / L’inquieta certezza nella quale ho vissuto, / Quest’acqua scura trafitta dai riflessi di un oro / …Amici miei, amate mie, / Vi lego i doni che mi faceste, / Questa terra vicina al cielo, ad esso avvinta / Da queste innumerevoli mani, l’orizzonte.  / Vi lego il fuoco che guardavamo / Ardere nel fumo delle foglie secche… //… Vi lego lo squarcio delle tende, / Le finestre che sbattono, / L’uccello che restò imprigionato nella casa chiusa”. Nomina gli alberi, le bestie, i muri, i fiumi, gli ammassi di stelle, i libri dei filosofi amati (Plotino, Kierkegaard…), alcuni stimati insegnanti, e in particolare rende omaggio a sua moglie Lucy, con la quale ha costruito un prezioso rifugio domestico e ha avuto una figlia: “Mi chino, sei tu, / Il sorriso di tanti anni in questa notte”,  “O tu, e tu, Vita nata dalla nostra vita”, “E, nella casa vuota, il nostro bene / Che con noi resta, adesso, nell’attesa / Di averne bisogno l’ultimo giorno”.

Non si tratta di compitare un inventario del bene e del male esperiti, restituendo con gratitudine ciò che si è ricevuto, né di voler recuperare nella memoria (“La memoria è questo pozzo”) gli avvenimenti fondamentali del passato, per quanto la reiterata formula “Je me souviens” indichi l’importanza affettiva del ricordo. Il poeta avverte imprescindibile il desiderio di trasmettere a chi rimarrà il senso della bellezza e della grandezza dell’esserci, e dell’essere stato: “Credo, quasi so / Che la bellezza esiste e significa”, “È il mio bisogno di continuare a credere / Che abbia senso essere”, anche in una visione laica della realtà, che non si illuda di alcuna sopravvivenza ultraterrena. Una volta raggiunta “La frontiera laggiù tra tutto e nulla”, alla fine trova un senso “sia l’Uno che il molteplice”, se si riesce a conservare “La parola insensata della poesia”, che nella sua fragile gratuità racconta l’incanto di ciò che è vivo.

Assolutamente diverse nella forma e nei temi sono le successive sezioni che compongono il volume, (L’orsa maggiore, Il piede nudo, Insieme la musica e il ricordo, Poesie per Truphémus, Briefewege, Perambulans in noctem), in cui Yves Bonnefoy utilizza brani in prosa, dialoghi di impianto teatrale, sentenze aforistiche, appunti di cronaca, illustrando motivi, argomenti, materie da lui affrontate con passione per tutta la vita: filosofia, astronomia, musica, arte, mitologia, fotografia, traduzione poetica, sempre alla ricerca del significato ultimo del reale, e della luce spirituale che permea l’esistenza.

Nei due poemetti L’orsa maggiore e Il piede nudo, lo stile adottato dal poeta risulta del tutto nuovo. In dialoghi a più voci, si rincorrono ipotesi sull’oltrevita, sui suoni e silenzi che animano gli spazi siderali attorno al nostro piccolo pianeta. O ancora reminiscenze bibliche, brandelli di sogni, sfocati fotogrammi di ambienti popolari: frasi brevi, spesso ripetitive e percussive, mimano il linguaggio drammatico, il gergo infantile e le conversazioni telefoniche, sottolineando lo spaesamento stupito dell’autore di fronte alla complessità dell’esistente, mentre personaggi disincarnati tentano di dare una risposta surreale ai propri esitanti interrogativi.

I sette sonetti che compongono Insieme la musica e il ricordo descrivono l’abbandono di due amanti nell’ascolto di un’opera lirica, che travolgendoli nell’anima e nei sensi, li unisce in un’estasi mai prima provata (“Due corpi che scivolano nel tempo che non è più”), mentre in Poesie per Truphémus è l’arte ad avere ampio spazio di riflessione e ispirazione, esprimendo una delle grandi passioni di Bonnefoy, magistrale interprete di pittori (da Goya a Poussin, da Signac a Hopper), che qui ha agio di celebrare la fusione vitalizzante dei colori: “Entra con questo rosso vinaccia, questo giallo ocra, /  Questo blu d’altri tempi, / Fa’ che afferrino la mano della luce, / Che la guidino!” Briefwege è una breve sezione che raccoglie ricordi di visite in tre luoghi diversi, tra cui anche un carcere minorile campano. Ma è in Perambulans in noctem che la voce poetica di Bonnefoy ritrova il suo particolarissimo timbro espressivo, pur nella specificità formale del poema in prosa. Qui dodici brani di narrativa lirica affrontano temi culturali, come l’impossibilità del tradurre un qualsiasi testo senza ricrearlo, tradendolo necessariamente (“E s’immerge ancora, s’immerge più in là, più in basso, s’immerge ancora sempre più in basso, il traduttore”), oppure il miracolo di un dipinto che tenta di far rivivere la natura sulla tela, e memorie personali, erranze, visioni, introspezioni, indagini etimologiche, sempre nella tonalità evocativa che “tenta di portare  la parola al grado d’infinito del cielo stellato”.

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 novembre 2022

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AAVV – IL MARADAGAL

AAVV, IL MARADAGÀL. RIVISTA DI PENSIERO LETTERE ARTI, anno IV, n. 8

MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2022

 

L’ottavo numero della rivista Il Maradagàl, edita da Marco Saya e diretta da Sara Calderoni, esce con il titolo Giovani e vecchi. La guerra dei mondi.

La contrapposizione delle diverse generazioni esiste dagli albori della civiltà, il baratro che divide le età ha motivazioni fisiche, economiche, psicologiche che paiono ineliminabili. Per dirlo con tre versi del poeta Giovanni Giudici “Ma essere / Nell’attesa di vivere o in quella di finire / È una capitale differenza”.

Nell’editoriale Calderoni sottolinea lo smarrimento di una “giovinezza errante” (definizione coniata dal filosofo Alain Badiou), priva di confini certi, disorientata nel relazionarsi con il polo più anziano della società, attratto oggi da forme di giovanilismo che non sembrano avere come obiettivo fondamentale la trasmissione della saggezza, della conoscenza, dell’esperienza.

L’area critica della rivista (affidata agli interventi di Roberto Barbolini, Fabrizio Elefante, Giuseppe Lupo, Fabrizio Ottaviani, Antonino Bondi) si interroga su quanto sia realizzabile l’ipotesi di un dialogo intergenerazionale tra chi si dedica più agli spazi virtuali del Metaverso, al web e alle piattaforme streaming, e chi invece si affida ancora a un apparato mediatico tradizionale: televisione, giornali, conferenze. Se è vero che “i giovani pensano e agiscono sotto il segno dell’identità e della dinamica del collettivo, i vecchi sotto quello della differenza e di solitudini affacciate sul vuoto”. La barriera che divide i due gruppi è in primo luogo linguistica, dato che i primi si dichiarano fiduciosi nell’univocità di significato dei termini, mentre i secondi percepiscono maggiormente la contraddizione, la duplicità di concetti ed espressioni. Da una parte assistiamo all’abbandono acritico, dall’altra a un distacco scettico e più controllato. I Millennians utilizzano un gergo comune, ricco di abbreviazioni e anglicismi, mediato dall’utilizzo dei social, i Boomers rimangono ancorati a una comunicazione più tradizionale e nostalgica, e spesso i loro tentativi di modernizzazione risultano patetici: lo scarto semantico è tragicamente palese.

I due anni di pandemia, ancora non debellata, hanno acuito un sospetto e un rancore reciproco, poiché i ragazzi si sono sentiti limitati nei loro spostamenti e defraudati nella giusta aspirazione alla libertà, mentre gli anziani li hanno spesso ritenuti pericolosi veicoli di contagio.

Come ricostruire ponti, collegamenti, interconnessioni tra due mondi che sembrano allontanarsi sempre più velocemente? Enrico Fink e Silvia Tomasi affidano alla musica e all’arte il compito di coniugare la legittima ricerca del nuovo con il recupero e la reinvenzione dell’antico, scongiurando sia conformismi e retoriche passatiste, sia le rincorse eccitate al successo economico.

La sezione dedicata alle scritture propone due stimolanti racconti di Edgardo Franzosini e Guido Conti, i ricordi inanellati di Piero Lotito, le poesie del moldavo Alexandru Vakulovski, le pagine inziali del poema di Franz Krauspenhaar, un ricordo di Bonaventura Tecchi tratteggiato da Domenico Calcaterra e un’interessante conversazione con il designer Armando Milani, che si sofferma nuovamente sul tema del non facile rapporto tra le generazioni, invitando i giovani a una curiosità più entusiasta e disinteressata nell’approcciarsi al lavoro artistico.

Questo numero del Maradagàl è illustrato dalle vivaci immagini di Coari, Francini, Gaeta, Lotito, Milani, Sottile, Chen Zhou.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 23 novembre 2022