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RECENSIONI

PIJI

PIJI, S’I’ FOSSE WHISKY – MORELLINI, MILANO 2022

S’i’ fosse whisky, pubblicato dall’editore Morellini nella collana “Improvvisazioni”, è una selezione di versi tratti dai quaderni di appunti di Piji, cantautore, giornalista, performer, conduttore radiofonico e organizzatore di eventi. Nato a Roma nel 1978, Piji è attivo da diversi anni sulla scena italiana pop/jazz e canzone d’autore/indie, e di questo substrato musicale e culturale sono nutrite le pagine poetiche qui raccolte. Una “valanga di roba” tirata fuori da “un mucchio di quaderni abbandonati… diari segretissimi” che due editori curiosi hanno voluto dapprima leggere, quindi pubblicare.

Con modestia e sincerità, l’autore confessa nell’introduzione la consapevolezza di aver composto non tanto poesie, quanto “popsìe, jazztacci e canzoni senza musica”: pensieri, emozioni, dediche amorose, riflessioni sociali e politiche scritte di getto, senza rielaborazione, un po’ ubriache perché “parole alcoliche e quasi sempre notturne”, in cui l’whisky ha la carica ispiratrice ed esplosiva del fuoco divino che animava Cecco Angiolieri.

Whisky, appunto, come protagonista di queste popsie, “goccia bruna, densa di bourbon / no, meglio di scotch single malt”. Ma insieme al bicchiere, tanta musica, jazz soprattutto (“Una donna bellissima che parla francese”), e spruzzate di sentimento amoroso (“lei, / dai capelli al cioccolato, / con una fretta pratica costante / e un’esplosione di colore dietro al viso”), ritratti autobiografici (“Per quelli come me, / cialtroni dell’esistere, / la vita è già difficile / com’è. / Per quelli come me, / cicale malinconiche, / precisi con le nuvole, / penosi più vai a scendere…”)), e ancora riflessioni sul mondo in cui viviamo, con l’utopia di cambiarlo: “Buttiamo insieme giù questa parete. / Di un muro mai nessuno può andar fiero. / Qualcosa sta cambiando per davvero. / Se un po’ si aggiusta il mondo, sorridete”).

L’amore rincorso è quello intravisto e sperato, che illude all’inizio e viene combattuto giorno dopo giorno, con caparbietà e rabbia, dedizione e rassegnazione: “cercavo / cercavo / cercavo / l’amore perfetto // … Era lì che sbagliavo, lo ammetto. / Il verbo del cuore è un modo imperfetto”. Ma esiste anche un’altra specie di amore, quello dei profeti di pace, dei generosi che aiutano gli altri immolandosi per un ideale di giustizia, come Gino Strada: “In un mondo così lordo di cattivi, / i buoni sono quelli che non sporcano, / ma i santi sono quelli che puliscono”.

Costante è l’omaggio al lavoro del musicista, alla sua faticosa preparazione professionale, al suo perpetuo girovagare tra città, sale di incisione, concerti, sigarette e caffè, accanto alla consapevolezza della collaborazione non sempre facile con altri artisti, dei sacrifici materiali che comportano tanta solitudine e la rinuncia a una stabilità affettiva, allo scopo di ottenere infine l’applauso del pubblico per l’impegno messo al servizio della propria arte.

Tutti questi molteplici temi che si rincorrono, proponendo ambienti domestici o esotici, incontri originali o deludenti, sensazioni contrastanti, note sincopate e audaci arrangiamenti, costituiscono gli ingredienti di un’unica ricetta compositiva: “7 quintali di musica / 80 chili di libertà / 2 parti di whisky, / 1 attimo di magia”, per arrivare a concludere “Ma quant’è bella la vita”, nelle sue mille sfaccettature, colte al volo in POPSIE improvvisate, “testo pretesto per suonare qualcosa, / bella scusa, / camminare nel bordo del mondo / con in mano soltanto / una rosa”.

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22 novembre 2022

RECENSIONI

TUROLDO

DAVID MARIA TUROLDO, NEL LUCIDO BUIO – RIZZOLI, MILANO 2002

Vent’anni fa l’editore Rizzoli ha dedicato alla figura di Padre David Maria Turoldo un prezioso volumetto, Nel lucido buio, ormai recuperabile solo tra i Remainders o negli outlet di qualche libreria online. Vi sono raccolte brevi prose liriche e i versi scritti dal frate poeta pochi mesi prima della morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio del 1972 per un tumore al pancreas.

Il libro offre un’accurata ricostruzione biografica della non facile esistenza dell’autore, una dettagliata bibliografia delle sue pubblicazioni di poesia, narrativa, teatro e saggistica, e un’interessante antologia dei più acuti commenti di chi si è occupato di lui a partire dal dopoguerra. Tra i religiosi: Ravasi, De Piaz, Fabbretti. Tra i poeti: Ungaretti, Betocchi, Bo, Erba, Clementelli, Finzi, Porta, Ramat, Giudici, Bandini, Luzi, Zanzotto. Proprio di Ungaretti è opportuno trascrivere la perspicace e profetica valutazione, risalente al 1948: “La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza”.

L’approfondita e appassionata prefazione di Giorgio Luzzi non si limita a inquadrare i testi presentati entro i confini della produzione letteraria del poeta, ma ne fa una disamina dal punto di vista formale, ricostruendo le correnti del pensiero estetico del secondo Novecento, propenso a ridimensionarne la novità. Lontano dallo sperimentalismo e da qualsiasi complessità semantica o metrica, Turoldo era più interessato a cosa dire che a come dire, orgoglioso del proprio inattuale differenziarsi dall’ autoreferenzialità del testo poetico allora proclamata ed esibita. Lo ammetteva esplicitamente in uno dei brani riportati nel libro: “Gli altri scrivono di ‘altipiani’, in forme stupende, parlano con tutti… sanno tutte le malizie della mente, le sante malizie, sono dentro il grande fiume delle lettere, del discorso umano: e sono certo che hanno ragione. Ma io non riesco, non riesco, sono un maniaco di Dio. È come se avessi la fronte un chiodo”.

Viveva quindi con diffidenza il predominio dell’estetica sull’etica, quasi fosse un tradimento (ornamentale, mondano e superfluo) al suo mandato di testimone del Vangelo. L’orizzonte dei lettori a cui si rivolgeva era quello del popolo dei credenti, sebbene credenti particolari, in perpetua, inquieta ricerca del senso della vita e dell’oltre-vita. “Dio non è la risposta, è la Domanda; e non tanto se Dio c’è, quanto chi sia, come pensarlo, quali rapporti intessere e sapere delle sue responsabilità circa il male: se è o non è onnipotente”.

Tutta la poesia turoldiana si situa all’interno della riflessione sulla teodicea, avvicinandosi più alla teologia che alla letteratura, più alla preghiera che alla filologia o alla linguistica, nel tentativo di indagare il Mysterium iniquitatis, pur accettando l’inconoscibilità razionale del divino. E ha come mezzo espressivo la fonte biblica, come fine la comunicabilità dell’esperienza religiosa in ansia di conversione. Lo stile, fortemente fondato sull’oralità e su tonalità accese, predicatorie, arcaicamente terragne, è dettato dall’adesione viscerale a un cristianesimo originario, pauperistico, minoritario, forse addirittura ereticale e trasgressivo.

La vita intera di David Maria Turoldo fu testimonianza della militanza dalla parte dei vinti, degli oppressi, con un imperioso richiamo all’uguaglianza e alla giustizia sociale, anche contro ogni ragionevole prudenza politica, contro ogni acquiescenza e connivenza delle gerarchie ecclesiastiche.

Nato nel 1916, ultimo di nove figli di una poverissima famiglia di contadini friulani, nel 1940 fu ordinato sacerdote, entrando nel convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano. Qui sperimentò subito la difficoltà di rapportarsi con il carattere rigido e conformistico dell’istituzione, soprattutto quando l’impegno politico lo portò ad affiancare la Resistenza insieme a un gruppo di studenti e intellettuali, riuniti intorno al foglio L’Uomo, organo dell’antifascismo cattolico milanese. Dopo essersi laureato in filosofia, iniziò a predicare in Duomo, raccogliendo intorno alla sua carismatica figura l’interesse della borghesia milanese e il sospetto delle autorità, acuito dalla sua partecipazione al progetto della Città di Nomadelfia con Don Zeno Saltini. Nel 1948 pubblicò da Bompiani il primo libro di poesie, Io non ho mani: ne seguirono molti altri, fino a quello postumo di cui ci stiamo occupando. Nel 1951 fondava il centro culturale la Corsia dei Servi. Invitato a lasciare l’Italia, si rifugiò in Svizzera, trasferendosi in seguito a Firenze, dove condivise le esperienze toscane del cattolicesimo progressista. Un nuovo esilio lo portò poi a Londra, in Canada e in Sudafrica. Nel 1960 si spostò presso la comunità dei Servi di Udine, dove scrisse la sceneggiatura del film Gli ultimi, ambientato nel Friuli della sua infanzia. Dal 1963 alla morte si stabilì nel paese natale di Papa Giovanni, a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, creando un centro di studi ecumenici aperto alla collaborazione di teologi e credenti internazionali, e continuando la sua intensa attività di conferenziere, saggista, coordinatore spirituale.

I testi raccolti in Nel lucido buio (il cui titolo ossimorico sembra alludere sia all’oscurità dei mistici illuminata dalla fede, sia all’attesa della fine imminente, affrontata con consapevole rassegnazione)

precedono di pochi mesi la morte dell’autore, e sono caratterizzati da un più accentuato intimismo rispetto alla produzione precedente. Il lettore vi avverte il senso umanissimo di solitudine e abbandono di chi si appresta a lasciare persone e luoghi amati:

“E nel lucido buio, uguale / a un luminoso vuoto, pensare, / ma non sai a che cosa: poi / la dolcezza del dormire: // sarà così la sua venuta? … E celare il bisogno di compassione / desiderare presenze amiche / voglia di solitudine e sentirsi / triste fino al pianto / perché nessuno è venuto: / così giorno dopo giorno / sempre in attesa…”, “Anch’io in questi lunghi giorni e lunghissime notti ho sentito il taedium vitae…Non pensare, fingere di non pensare, di non sentire. Ad esempio, non è che mi sia assente la paura di impazzire”.

Tuttavia, ancora più dolorose e assillanti dei versi sulla propria sofferenza fisica e mentale, sono le riflessioni sui grandi temi dell’essere: la presenza del Male, l’abisso del Nulla, il silenzio di Dio, tutte modulate ricorrendo all’incandescente linguaggio delle Scritture, e in particolare dei Salmi.

Il Deus absconditus di Isaia torna qui a tormentare il credente, che lo supplica di rivelarsi: “mi prende paura di notti più oscure, / le nostre notti, o mio Signore! / Nel mentre tu crei e ti riveli / ecco che appari come un Dio notturno”, “Ma il mistero perdura, / fino a dire qualcuno: / ‘neppure il suo Dio lo salva!’ // Perché, Signore? // Mio Dio della notte e del giorno…”, “Navighiamo nel mare del Nulla / senza raggiungere mai / le tue sponde, Signore”, “Fino a quanto continuerà / a ingoiarmi la Notte? / E tu a nasconderti: perché?”, “Ognuno vive con il suo roditore / notturno: che tu non esista… // male è quel tuo tombale silenzio / che urla sulla tua assenza”.

Il dubbio sull’esistenza stessa di Dio, il timore di non venire ascoltato, si fa a volte grido disperato di ribellione, volontà di disobbedienza. E tornano alla mente gli interrogativi di Meister Eckhart, di Silesius, di San Juan de la Cruz, le invocazioni di Angela da Foligno e Caterina da Siena, la rivolta eterodossa di Ferdinando Tartaglia.

“Male sono le molte cose che ti denunciamo / quando pare che Tu non intervenga / e il giusto è divorato come un tozzo di pane. // O Dio dei privi di Dio, / segreto tormento del disperato”, “abbi pietà anche dell’empio, Signore”, “La tua ira ti rende forse un guadagno? / Forse aumenti in grandezza nel tuo furore?”, “Il pentimento di averci creato / fu il segno certo che sei più infelice di noi”, “Da quando creasti, fosti tu mai, Signore, felice? // …il serpente, creato da te, e sapevi!… // – E allora, crearlo, perché? E a non crearlo / saresti creduto un Dio onnipotente? / ma se onnipotente, è in te anche il Male?”

Sono le domande, terribili e destinate a non ricevere risposta, che si pone il Turoldo teologo portavoce di una teologia negativa che si è votata all’afasia, alla non definizione della trascendenza. Ma il David Maria Turoldo “maniaco di Dio”, così risponde al sé stesso incredulo, dubbioso, deluso: “più l’anima è deserta / più tu m’invadi”, “Tu sei sempre vicino, / tu incombi e ci avvolgi, / ma sono io che sono lontano”.

© Riproduzione riservata         «La Poesia e lo Spirito», 17 novembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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HEMINGWAY

ERNEST HEMINGWAY, NEL NOSTRO TEMPO – XEDIZIONI, CAGLIARI 2022

Ernest Hemingway (1899-1961) pubblicò la sua prima raccolta di racconti nel 1924, col titolo originale “in our time” (tutto minuscolo come nella preghiera anglicana a cui fa riferimento). Il volume, uscito in piccola tiratura per la “Three mountain Press”, fu messo poi in vendita nella famosa libreria parigina “Shakespeare & Company”, che all’epoca il venticinquenne autore frequentava con assiduità, insieme al gruppo di artisti riuniti intorno alla carismatica figura di Gertrude Stein.

La piccola casa editrice cagliaritana Xedizioni ripropone ora quest’opera d’esordio poco nota in Italia, servendosi della traduzione del Consorzio Zero37, blog collettivo di lettere e cultura con la passione della tipografia elettronica. Dal libro è stato tratto un film nel 1961, Adventures of a Young Man, con la regia di Martin Ritt.

Si tratta di quindici racconti, ciascuno dei quali è preceduto da una breve prosa avulsa dal testo che lo segue immediatamente, ma collegata ad esso perché riferita allo stesso protagonista: Nick Adams, un ragazzo del Nord Ovest degli States, figlio di un medico che presta la sua opera in una riserva indiana. Nei brani più estesi possiamo ritrovare tutti i temi della produzione maggiore di Hemingway: dalle scene di guerra combattute in Europa nel primo conflitto mondiale alle sbronze tra amici, dal tifo del pubblico nelle corride in Spagna alle schermaglie amorose di coppie dell’alta borghesia americana.

Si riconoscono quindi i tratti biografici della vicenda umana dell’autore, e soprattutto la sua sensibilità nei riguardi della sofferenza di tutto ciò che esiste, compiendo e patendo violenza: uomini, donne, bambini, ma anche gli animali nella foresta, i pesci nei fiumi, gli alberi abbattuti, i tori infilzati nell’arena.

Nick adolescente assiste il padre che pratica un parto cesareo a una giovane squaw, mentre il marito terrorizzato si taglia la gola col rasoio. Nick ragazzo tronca brutalmente i rapporti con la fidanzatina per timore di rimanere incastrato dalla fagocitante famiglia di lei. Nick quasi adulto fa a botte con un ubriacone deforme e scappa di notte lungo i binari della ferrovia, senza una vera meta da raggiungere. Nick soldato difende una fortificazione alleata sparando contro i tedeschi con la stessa indifferenza con cui osserva la propria ferita alla schiena. Nick reduce torna in patria senza nessuna voglia di riprendere il suo posto nella vita civile. E poi le discese con gli sci tra le montagne in Svizzera, le discussioni intellettuali sui romanzieri inglesi, le corse dei cavalli negli ippodromi italiani e francesi, la pesca solitaria delle trote nelle acque limpide trai boschi.

È comunque lo stile di questi racconti, frammentari e talvolta solo abbozzati, che fa già riconoscere la magistrale perizia dell’Hemingway maturo: conciso, privo di retorica o sbavature descrittive, scevro di qualsiasi psicologismo fasullo, rapido come nelle cronache del giornalismo sportivo: puramente denotativo, mai carico di introspezione retroattiva. Una modalità di scrittura che ha segnato un discrimine nella letteratura occidentale, tra la sontuosità ottocentesca e la scialba futilità della narrativa contemporanea. Perché elegante e sorvegliata senza pesantezza, imitata da tutti gli scrittori americani del dopoguerra, e poi esportata ed emulata anche in Europa.

Dice il proverbio che il buongiorno si vede dal mattino, e il mattino del giovane Ernest è stato da subito molto luminoso.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › … › Nel nostro tempo di Ernest Hemingway

17 novembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BACIGALUPO

MASSIMO BACIGALUPO, EZRA POUND – ARES, MILANO 2022

Massimo Bacigalupo (Rapallo 1947), uno dei maggiori anglisti italiani, ha dedicato un corposo ed esaustivo volume a Ezra Pound (da lui amato, studiato e tradotto sin dalla giovinezza), in occasione dei cinquant’anni dalla morte del poeta americano, avvenuta l’1 novembre 1972. L’universo poetico poundiano viene esaminato dall’autore con l’intenzione dichiarata di “essere una guida alla lettura, mostrare Come leggere Pound”, facendolo apprezzare nel suo “mondo accidentato ed esilarante”, nella sua scrittura esoterica, allusiva, autoreferenziale, giocosa, magmatica, poliglotta.

Bacigalupo conobbe Pound nel 1962, accompagnando la nonna che ne era stata il medico personale a Sant’Ambrogio di Zoagli, e rimanendo folgorato alla vista del “poeta accigliato alle prese coi suoi demoni”.

Delle quattrocento pagine del libro edito da Ares, più di 50 sono riservate a una documentata cronologia biografica, con un ricco repertorio di note ai tredici capitoli nei quali viene ripercorsa tutta la tormentata vicenda esistenziale e letteraria dello scrittore statunitense.

Nato a Hailey, Idaho, nel 1885, da una famiglia di tradizioni quacchere e puritane, crebbe a Filadelfia e studiò all’Università di Pennsylvania. Trasferitosi in Europa, pubblicò a Venezia la prima raccolta di poesie, A lume spento, nel 1908. Stabilitosi a Londra l’anno successivo, si impegnò in un’intensa e proficua attività di scrittura, collaborando a riviste di critica letteraria, artistica e musicale, intessendo rapporti con scrittori e artisti affermati (Yeats, Eliot, Ford, Joyce, Wyndham Lewis) ed esordienti, e soprattutto traducendo poesia di tutte le epoche, dagli antichi anglosassoni ai provenzali, dai classici latini ai cinesi e ai nō giapponesi. Iniziò a pubblicare diverse raccolte di versi, e fondamentale fu tra il 1912 e il 1913 il suo apporto (insieme agli amici Richard Aldington e Hilda Doolittle) alla nascita dell’Imagismo, che inaugurava uno stile poetico innovativo, teso a cogliere l’immagine in una pronuncia breve e oggettiva, antimetafisica, capace di esprimere una rivelazione istantanea ed evocativa, sulla base di un ritmo musicale richiamante la concisione espressiva degli haiku orientali. Famoso il distico tratto da In a Station of the Metro, manifesto canonico dell’Imagismo: “The apparition of these faces in the crowd; / Petals on a wet, black bough”.

Bacigalupo commenta minuziosamente tutta la produzione letteraria di Pound, citandone versi, brani saggistici, lettere, esplorando i rapporti interpersonali con amici e avversari anche attraverso l’evoluzione/involuzione del pensiero politico, analizzandone severamente pregi e difetti caratteriali: “insieme sfuggente, indefinito, e narcisistico, accentratore”, “timido e sventato, gaffeur ed elegante, ottuso e ipersensibile. Innamorato eterno delle proprie idee, le più trepide e le più grossolane, apparentemente del tutto acritico. Una forza di natura”.

Negli anni precedenti e subito successivi al primo conflitto mondiale, Pound sviluppò un tenace sodalizio con Thomas Stearn Eliot, che produsse importanti effetti sia sulla pubblicazione dei primi volumi eliotiani, e in particolare di The Waste Land, sia sulla svolta ironica compiuta da lui stesso nelle opere fondamentali del decennio successivo. Iniziò quindi a dar forma ai Cantos, poema epico capolavoro la cui stesura occupò l’intero arco della sua vita.

Nel 1920 lasciò l’Inghilterra per trasferirsi a Parigi, quindi a Rapallo, dove risiedette quasi stabilmente dal 1925 al 1945, celebrandone con ammirato stupore lo splendido scenario. Negli anni ’30 iniziò una nuova fase della sua riflessione teorica, finalizzata alla costruzione della seconda parte dei Cantos, e dominata dal desiderio di dare una risposta agli interrogativi sociali ed economici più pressanti posti dalla crisi finanziaria e dall’affacciarsi dei regimi autoritari: i Cantos 31-41, pubblicati nel 1934, si aprono infatti citando Jefferson e si chiudono con Mussolini, i Cantos 42-51, usciti nel 1937, partecipano dell’euforia suscitata dalla guerra italo-abissina. Si andava radicalizzando nel poeta l’interesse per il fattore economico come motore dello sviluppo della storia umana, a cui si affiancò un’esasperata riflessione sull’usura, espressione di un risentimento antisemita che lo spinse su posizioni sempre più reazionarie. Bacigalupo esplora sia i rapporti di Pound con i movimenti letterari e la stampa vicina a Mussolini, sia la sua amicizia e collaborazione con il fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, di cui condivideva il dinamismo belligerante e antidemocratico.

Negli anni ’40 il poeta tenne a Radio Roma una serie di discorsi in lingua inglese fortemente segnati da antiebraismo e avversi alla politica di Roosevelt, nel segno progettuale di un mondo libero da interessi illeciti, restituito a un sentimento popolare vicino alle componenti rurali del fascismo.

Accusato di tradimento, nel 1945 venne fatto prigioniero dagli americani e internato in un campo vicino Pisa, dove scrisse The Pisan Cantos, pubblicati nel 1948. Trasferito negli Stati Uniti per essere processato, fu dichiarato infermo di mente e rinchiuso per dodici anni nel manicomio criminale di Saint Elizabeth a Washington. Qui compose altre sezioni dei Cantos, continuando a tradurre i classici. Liberato nel 1958, si stabilì nuovamente in Italia, dove visse fino alla morte, scrivendo l’ultima parte del suo poema.

Massimo Bacigalupo ci guida attraverso la selva intricata, ipnotica e spesso oscura dei versi di Pound, nel viaggio fantasmagorico che il poeta affronta nello spazio e nel tempo alla scoperta del mondo e di sé, sulle tracce di Ulisse e di Dante. L’autobiografismo si alterna con la lucida osservazione e il severo giudizio sulla società contemporanea, l’omaggio alla tradizione con l’utopia di un futuro riscattante dalla palude storica di un presente aborrito, da trasformare bellicosamente.

Il percorso ancipite dal baratro all’eden oscilla fra differenti stati compositivi, passando da una tranquilla e saggia contemplazione alla furia e al caos incombenti, sempre esibendo “la potenza della voce poundiana, e anche un suo manierismo, che è la ripetizione di parole per creare sonorità e ridondanza. In Pound ha molta importanza il senso della voce che trascina, che impone la sua visione con una forza ipnotica, con un’energia che regge tutto, anche le parti apparentemente più fiacche. Siamo continuamente respinti dalla violenza della comunicazione poundiana, dalla sua illogicità, ma poi anche sedotti…”.

I Cantos sono un caleidoscopio di paesaggi incantati e agghiaccianti, di personaggi storici e mitologici santi e malvagi, di immagini e termini scurrili grotteschi blasfemi o al contrario ricercati suggestivi ammalianti, di testi stratificati e citazioni erudite, di impenetrabile tenebra e luce accecante. La proposta editoriale di Ares offre al lettore lunghi passi del poema in inglese, con traduzione e puntuale commento, poi brani di epistolari amorosi, informazioni sugli amici letterati italiani, e una galleria fotografica di ritratti e ambienti che hanno Ezra Pound come soggetto-oggetto esplicito o allusivo, con la sua straordinaria faccia su cui la storia ha segnato graffiti, e la poesia ha modellato l’impronta di una apocalittica genialità.

Massimo Bacigalupo, oltre a questo volume realizzato con passione e rara competenza, ha curato anche edizioni di Emily Dickinson, Herman Melville, F. Scott Fitzgerald, Wallace Stevens, Seamus Heaney e Louise Glück. Già professore ordinario di letteratura angloamericana nell’Università di Genova, è vicepresidente dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, e collabora a Il Secolo XIXIl manifestoParagone e Poesia.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 31 ottobre 2022

 

 

 

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AU

JESSICA AU, TEMPO DI NEVE – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

Con Tempo di neve (Il Saggiatore, 2022, traduzione di Federica Merati), suo romanzo d’esordio, la scrittrice australiana Jessica Au ha vinto il Novel Prize e riscosso un notevole successo di critica e di pubblico.
Tradotto in una quindicina di lingue, più racconto lungo che romanzo vero e proprio, il testo indaga il rapporto non facile che lega una figlia a sua madre, separate da tempo perché residenti in paesi diversi.

Nel tentativo di riscoprire quanto ancora le unisce, e quanto invece le divide irriducibilmente, la figlia invita la madre a compiere insieme una vacanza in Giappone, rivitalizzando così l’antica e affettuosa complicità di anni lontani.
La descrizione diaristica del viaggio scorre fluida e lieve, priva di scansioni in capitoli e di discorsi diretti, minuziosa nella descrizione dei luoghi percorsi, delle persone incontrate, delle impressioni ricavate.
Il primo incontro tra le due donne (l’una nata e vissuta in un villaggio nei pressi di Hong Kong, l’altra trasferitasi in Australia dopo il matrimonio) avviene in aeroporto, subito all’insegna di una sofferta estraneità: “Assomigliava a una donna ben vestita in un film di venti o trent’anni fa, datata ma elegante”.

La giovane, forte di una precedente esperienza a Tokyo con il marito Laurie, ha programmato meticolosamente ogni percorso da seguire, e l’anziana si abbandona alla sua guida esperta con docilità e timore: “Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l’una all’altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora”.

Ben presto la donna si mostra, però, stanca e disinteressata nei riguardi di tutto ciò che la circonda: esce dai musei e dalle gallerie d’arte prima di concluderne la visita, forse vergognandosi della propria scarsa cultura, non si sofferma davanti alle vetrine, assaggia appena e senza curiosità i piatti tipici nei ristoranti, si mette in posa con rassegnata pazienza davanti alla Nikon di sua figlia. La pioggia leggera di un ottobre nebbioso intanto accompagna le due donne, quasi volesse stendere un velo sull’incomunicabilità difficile da scalfire che si intensifica tra loro di ora in ora. Parlando con la sorella rimasta a Hong Kong, la figlia confida il suo imbarazzo: “Non riuscivo a capire se nostra madre era lì perché lo voleva, o se lo stava facendo solo per me”.

La voce narrante si rifugia quindi nei ricordi comuni a entrambe, ricostruendo episodi dell’infanzia, tratteggiando le figure di parenti defunti o non più rivisti, tentando di suscitare qualche emozione nella mente della mamma: “Forse, pensai, io e mia sorella eravamo cresciute in un modo che doveva sembrare altrettanto estraneo a mia madre. Forse, col passare del tempo, le era diventato sempre più difficile evocare il passato, soprattutto non avendo nessuno con cui ricordarlo”.

I frequenti flashback offrono lo spunto alla narratrice di introdurre temi di riflessione più radicali: il valore della maternità, la fugacità del tempo, l’inconsistenza di alcuni rapporti parentali imposti, la finzione di un ruolo che tutte le persone si trovano a ricoprire. Questi sprazzi di memoria permettono alla protagonista di ricostruire vicende importanti della giovinezza, che descrive dilungandosi dettagliatamente: le prime esperienze sentimentali, lo sport, le lezioni universitarie di letteratura, l’incontro con una straordinaria docente di studi classici, l’insofferenza per l’ambiente familiare inadeguato, l’amore e l’affiatamento con il marito e i parenti di lui. Ma quando ritorna ai momenti cruciali trascorsi con la madre, deve affrontare la dura realtà di un’insormontabile reciproca indifferenza che le tiene lontane.

Gli splendidi parchi attraversati, i cimiteri esotici, i bagni pubblici, treni e stazioni, Kyoto e altre città visitate: nulla riscuote l’anziana dal suo torpore, e quello che doveva essere un riavvicinamento tra madre e figlia finisce per concludersi con un definitivo e malinconico addio.

© Riproduzione riservata       21 ottobre 2022

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RECENSIONI

AIRA

CÉSAR AIRA, IL MARMO – SUR, ROMA 2014

Dovremmo sempre affidarci e fidarci dei consigli di amici più colti di noi, riguardo a letture da fare, musica da ascoltare, film da vedere. Un amico coltissimo, a me che lamentavo la banalità formale e contenutistica di troppi romanzi presenti sul mercato, ha suggerito di indagare tra i narratori argentini, citando in particolare César Aira. Aira è uno dei più famosi, originali e prolifici scrittori sudamericani, nato nel 1949 in provincia di Buenos Aires. Pubblica dai due ai cinque volumi all’anno, perlopiù racconti e romanzi brevi, ma anche commenti critici e traduzioni da diverse lingue. In un’intervista ha dichiarato di essere fedele da tre decenni allo stesso sistematico metodo di lavoro. La mattina scrive una sola cartella, seduto al tavolino del bar sotto casa, poi assembla i fogli e li consegna al suo piccolo editore senza rielaborarli. Ha uno stile particolarissimo, sperimentale e visionario nei contenuti, conciso e lineare nella forma, che utilizza sia il gergo sub-letterario delle soap opere televisive, dei fumetti, del pulp, sia la reinvenzione dei classici e la fantascienza, creando situazioni spesso illogiche e prive di una conclusione razionale, in un flusso di scrittura continuo ed esorbitante, eccitato, inventivo.

Il marmo, scritto nel 2009 e pubblicato in Italia da Sur nel 2014, ben esemplifica il carattere della produzione di questo narratore “estrovertito… debordante… conturbante”, come lo definisce nella prefazione Giuseppe Genna, giustamente intuendo nella costruzione del plot romanzesco un parallelo con la paradossalità kafkiana.

Il personaggio voce narrante è un sessantenne argentino corpulento, di salute cagionevole, disoccupato o in prepensionamento, sposato con un’attivissima e sfibrata psicologa che lo mantiene. Complessato dalla propria inattività lavorativa e inefficienza sociale, frustrato per la dipendenza economica dalla moglie, si rifugia in un mondo onirico, meditativo e auto-riflessivo, in cui le persone vive hanno lo stesso rilievo e importanza degli oggetti, delle immagini, della fantasia.

Il volume si apre sulla descrizione del protagonista che osserva se stesso seduto su un blocco di marmo, con i pantaloni abbassati, mentre si guarda cosce polpacci e genitali, traendone una sensazione di ilare conforto, quasi di felicità, nel constatare la materialità del proprio corpo: “in me era sempre vivo l’elemento animale, il dato biologico, la rappresentazione individuale della specie, un promemoria di potenza d’azione, una promessa di tempo e movimento… Basta così poco per sollevarci al di sopra del lavoro triviale e assillante di negoziare il giorno-per-giorno”. Nella volontà di ricordare il motivo per cui si trovava seduto sul blocco di marmo con i calzoni calati, e perché ne abbia derivato una tale sensazione di serenità, l’uomo cerca di ricostruire nella memoria attraverso quali azioni fosse arrivato a vivere quell’ inspiegabile circostanza. Ricorda quindi che il giorno prima, delegato dalla consorte a occuparsi della spesa settimanale, si era recato nel supermercato cinese del quartiere, e si era trovato a pagare il conto con due banconote.

L’uomo alla cassa, non avendo da dargli il resto, l’aveva invitato a servirsi di piccole cianfrusaglie tenute a disposizione dei clienti per saldare il credito. A caso, aveva scelto allora una serie di “mercanzie lillipuziane” assolutamente inutili: una confezione di pile AAA, un occhio di gomma che a schiacciarlo sprigionava una luce rossa, una tabella delle proteine, una forcina dorata, un cucchiaio-lente di ingrandimento, un anellino di plastica, una macchina fotografica grande quanto un dado e infine una manciata di globuli di marmo. Tutti questi oggettini, e in particolare le minuscole palline marmoree, avranno nel corso della narrazione un’importanza strategica, trasformandosi in chiavi per aprire le porte del mondo reale ed entrare nell’iperreale, in un continuo alternarsi di spazi temporali e di incontri con personaggi misteriosi. In particolare con un adolescente cinese di nome Jonathan che conduce il protagonista in una serie di imprese travalicanti il mondo terrestre per approdare tra gli alieni. Concorsi televisivi, compravendite di negozi, baratri che si aprono minacciosi sotto le case, luci e suoni allucinogeni si rincorrono in una mappa infinita e insensata di luoghi e contesti stranianti, di universi paralleli che i personaggi tentano vanamente di ricomporre, ma in cui vengono trascinati per poi perdersi. Fino alla conquista finale dell’unica realtà possibile: quella del recupero concreto del proprio corpo, da realizzare magari abbassando i pantaloni, e controllando che tutto sia a posto.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 25 ottobre 2022

 

RECENSIONI

NUCCI

MATTEO NUCCI, ACHILLE E ODISSEO – EINAUDI, TORINO 2022

Achille e Odisseo, saggio narrativo di Matteo Nucci (Roma, 1970), non parla solo di due eroi che hanno combattuto a Troia. C’è molto altro, nelle tre sezioni in cui si divide il volume: altri importanti protagonisti, e tutto il pensiero che dall’antica Grecia ha nutrito la letteratura e la filosofia mondiale. C’è soprattutto un’approfondita indagine psicologica che mette a fuoco l’opposizione caratteriale dei due personaggi omerici, a partire dalla frase iniziale: “Uno era leone. L’altro era polpo”. Da un lato audacia, istinto, vigore fisico, irruenza, voracità; dall’altro prudenza, riflessività, agilità nervosa, calma, sobrietà. Entrambi avevano madri molto amate e un figlio lontano. Li accomunava anche la conoscenza di una stessa donna, che era riuscita a sondarne con acume e sensibilità le anime: Elena di Sparta, moglie di Menelao, amata da Paride. Così Elena, parlando a Priamo, definisce Achille e Odisseo: “Sono due uomini complessi come solo noi greci sappiamo essere. Quella è la loro forza. Del resto, sono opposti per ogni altro aspetto. Per quel che se ne diceva una volta, non avrebbero mai spartito il banchetto”.

I due infatti si erano fronteggiati in una terribile lite, di cui però Omero non narra nulla, quasi fosse stata talmente nota a tutti da risultarne scontato il resoconto. Ne fa cenno, provocando la profonda commozione di Odisseo (così dobbiamo chiamarlo, essendo il nome di Ulisse una latinizzazione posteriore, divulgata soprattutto da Dante) il cantore Demodoco, durante il banchetto offerto allo sconosciuto ospite dal re dei Feaci: “una volta contesero in un lauto banchetto di dèi / con parole violente”. La loro disputa fu probabilmente dettata dalla fondamentale e ineludibile diversità di indole, che li rese talmente differenti da farli diventare paradigmi di scelte e di esistenze contrapposte nell’intendere il senso della guerra, della vita e della morte: “Combatterono sempre in nome della stessa vittoria. Uno pensando alla distruzione. L’altro all’accerchiamento”.

Se Odisseo è presentato nel proemio del suo poema come  polytropos, (“dai molti modi”), in grado di adattarsi a una realtà in continua trasformazione, e da sempre è stato indicato come persona scaltra, ingannevole, che usa la parola in maniera abbindolatrice, convincente e seduttiva (non aveva mentito in molte occasioni, con il Ciclope, con Neottolemo, e al suo ritorno a Itaca?), anche la rude schiettezza di Achille mostra qualche punto debole che la vulgata tardiva individua nel tallone: nell’essere terragno, indomito e prorompente rivela la propria vulnerabilità di giovane ostinato e collerico, che non sa piegarsi alle circostanze.

Secondo quanto suggerisce Platone nell’Ippia minore, una questione fondamentale contrappone i due guerrieri: il modo in cui intendono il tempo, il modo in cui lo vivono. “Achille è sempre gettato nel presente. Odisseo è sempre proiettato nel futuro. Achille pensa e dice solo cose che hanno a che fare con il momento che sta vivendo. Odisseo guarda perennemente oltre. Per questo Achille è schietto, spontaneo e impul sivo. Mentre Odisseo è prudente, attento, cauto e ingannevole”. Achille vive nel presente perché sa di non avere futuro, Odisseo è costantemente rivolto, con pensiero e azioni, al ritorno a Itaca.

Matteo Nucci (che nel suo commento esegetico usa il carattere tipografico tondo, mentre utilizza il corsivo nelle pagine d’invenzione) più volte torna sul concetto della fragilità degli eroi, convinto che non sia mai esistito nessuno che non abbia dovuto misurarsi con insicurezze, paure, difetti. Perché il vero eroismo significa “vivere fino in fondo la propria condizione mortale, combatterla tutta la vita, immergersi in un corpo a corpo costante con la propria finitezza”, essendo la brevità dell’esistenza indicativa della sua irripetibilità e singolarità, che la rendono superiore alla celeste immortalità degli dei.

In alcuni comportamenti erano stati simili, Achille e Odisseo. A quanto ci raccontano i miti post-omerici, nessuno dei due desiderava partecipare alla spedizione contro Troia organizzata da Agamennone: entrambi “cercarono scappatoie, astuzie, inganni pur di non lasciare la casa”. Odisseo si era coperto di stracci fingendosi un contadino intento ad arare i campi. Achille si era travestito da ragazza, confondendosi tra le figlie del re Licomede che lo aveva ospitato. Furono smascherati con espedienti più scaltri dei loro, unendosi in seguito all’impresa achea con subitaneo ardore: il più anziano scattante e nervoso, il più giovane imponente nei muscoli scolpiti.

Achille e Odisseo si comportano in maniera analoga anche all’inizio e alla fine dei due poemi omerici. Nei versi introduttivi piangono di infelicità, rabbia, rancore osservando la vastità del mare: il primo reclama Briseide che gli è stata sottratta da Agamennone, il secondo vuole tornare dalla moglie lasciando Calipso che lo tiene prigioniero da otto anni. Alla conclusione di Iliade e Odissea, tutti e due si confrontano con un’anziana figura maschile, Ulisse con l’irriconoscibile padre Laerte, Achille con Priamo di cui ha appena ucciso l’adorato figlio Ettore. “La specularità fra i due poemi si realizza all’insegna delle lacrime”.

Le lacrime, il canto, il cibo, la sensualità, la convivialità tra amici, il gioco, il combattimento, la ferocia sanguinaria, sono elementi che uniscono e insieme differenziano i caratteri e gli atteggiamenti dei due straordinari protagonisti omerici, in un unico sentimento che tutti li comprende: l’amore per la vita, l’odio per la morte.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 16 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DEL COLLE

PAOLO DEL COLLE, STATO DI INSOLVENZA – AMOS, VENEZIA 2022

Le tre sezioni in cui si suddivide Stato di insolvenza, il più recente lavoro di Paolo Del Colle (a cura di Arnaldo Colasanti, con illustrazioni di Giuseppe Salvatori), non rivelano nella loro scansione una reale frattura di forme e contenuti. Lo stile, in Al termine, Irene e Nomi propri, si mantiene infatti costantemente ansioso, affannato, incalzante – pur nella pronuncia sommessa –, nel suo procedere privo di punteggiatura, a versi brevi e caratterizzati da costrutti perlopiù ripetitivi.

L’argomento principale è quello dell’esplorazione dell’io, senza indulgere tuttavia allo scandaglio psicanalitico, e invece con una ossessiva esposizione del proprio male di vivere, perlopiù rassegnato e amareggiato, talvolta quasi risentito nei confronti di sé e del mondo intorno. Il “tu” femminile che appare e scompare, si mimetizza e sdoppia nella sua evanescenza fisica, risulta una presenza-alibi con cui la prima persona singolare mette in scena un incontro-scontro da cui sa di non potersi attendere risposte, pur illudendosi di un ascolto solidale e confortante. Una presenza quasi scorporata, quella della donna, a cui si attribuiscono caratteri fluttuanti e indefiniti, mentre più assoluto e incombente è il profilo dell’anima dell’autore, sola e silenziosa interlocutrice con cui confrontarsi (“mi attendi, anima ansiosa, / nel provvisorio inganno / di non fare in tempo / ad essere ciò che sono / per così rimanere / con me in ascolto / di quel che si dirà di te”).

Soliloquio più che dialogo, testimoniato dalla ricorrenza di termini che indicano labilità, oscurità, inconsistenza, sconfitta: ombra e penombra, vano e svanire, simile e somiglianza, sfuggire e perdere. Se “un livido momento di incertezza” segna “il breve orizzonte” delle giornate uguali, inutili, mute, qualsiasi alterità umana o metafisica non può offrire scampo alla pena, nessuna voce regala sollievo “in questo parziale aldilà che cerca un compimento”. La sofferenza è indubbiamente anche fisica, testimoniata dal racconto di dolenti esperienze ospedaliere, medicazioni, ricette, cure a cui il corpo non ha voglia di rispondere. Ma è principalmente patimento mentale, afflizione dello spirito, “melancholia”. La ricerca di un passato comune da ricostruire con la sorella, il ricordo di un’infanzia terrorizzata dalle “voci alterate” dei genitori (“guardandoci vedevamo / due adolescenti impauriti / le mani sulle orecchie / chiusi nella propria stanza”), l’inventario dei vestiti della madre morta verso cui non si riesce a provare né affetto né gratitudine, la rassegnazione a un destino ingiusto, privo di prospettive future di cambiamento (“e allora tutto resterà / come ieri come un mese fa / come all’inizio”), la scoperta dell’inevitabile incomunicabilità con chi ci è vicino, condannato a rimanere uno sconosciuto (“quando nessuno di noi è ciò che pensa l’altro”): tutto ciò dà alla raccolta di Paolo Del Colle l’impronta amara di un’infelicità priva di desideri e di possibilità di riscatto.

Il titolo stesso sembra indicare una disposizione negativa nei confronti della propria vita e indole, poco accettata, misurata con severo rigore. Giuridicamente, infatti, per stato di insolvenza si intende l’incapacità non solo passata ma anche e soprattutto futura di pagare i debiti, l’impossibilità di soddisfare le obbligazioni: una effettiva dichiarazione di fallimento imprenditoriale, che Del Colle ha voluto dilatare a livello letterario e di analisi introspettiva, sottolineando il disagio esistenziale che ne deriva.

Poeta, romanziere e critico, nato nel 1957, l’autore vive a Roma e ha vinto quattro anni fa il Premio Nazionale Frascati con il volume Nuda proprietà, in cui alternava versi e prose indaganti i temi della mancanza, del lutto e delle diverse modalità dell’essere, inanimato e animale.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2022

 

 

Alida Airaghi

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, IL TRENO – ADELPHI, MILANO 2020

Non è stato solo uno dei massimi giallisti del’900, Georges Simenon (1903-1989): è stato anche un grande romanziere, che proprio dal suo scrivere centinaia di libri noir e polizieschi ha saputo trarre abilità particolari: l’attenzione all’indagine psicologica dei personaggi, l’intelligenza nella costruzione degli ambienti e delle situazioni in cui essi si muovono, la sapienza nel condurre dialoghi credibili, la capacità di creare nel lettore il senso di un’attesa curiosa ma non impaziente dello svolgersi degli avvenimenti. Non ultima, poi, la padronanza di uno stile asciutto ed elegante, senza indulgere alla retorica o a una troppo scaltra condiscendenza verso i gusti del pubblico. Penso che chiunque abbia letto La neve era sporca, Lettera al mio giudice o quel piccolo gioiello di perfidia e dedizione che è Lettera a mia madre possa confermarlo.

Il treno, pubblicato nel 1961, vent’anni dopo lo svolgimento dei fatti che vi sono raccontati, è uno dei libri più noti e ammirati del romanziere belga. Il famoso filosofo e sinologo François Jullien, nel suo intenso volume Sull’intimità, gli dedica addirittura un capitolo intero di ammirato commento.

In centocinquanta pagine Simenon racconta una vicenda sentimentale iscritta all’interno della tragedia dell’invasione tedesca della Francia all’inizio della seconda guerra mondiale. Il protagonista e voce narrante è Marcel Féron, un radiotecnico trentaduenne, sposato con Jeanne, incinta al settimo mese. I due hanno già una bambina, Sophie, e vivono in una casetta con un cortile, un cane, un piccolo pollaio, adiacente al laboratorio in cui l’uomo trascorre con regolarità le sue giornate dedicate al lavoro e alla famiglia. L’avviso diramato per radio dell’avanzare delle truppe del Reich getta l’intero paese di Fumay, sul fiume Mosa, ai confini con il Belgio, nel più totale trambusto: è venerdì 10 maggio, Danimarca, Norvegia e Olanda sono già state occupate.

Marcel, che aveva trascorso l’adolescenza in sanatorio e soffriva di una miopia invalidante, è stato riformato e non teme l’arruolamento, tuttavia accorgendosi che intere famiglie del vicinato si apprestano a lasciare le loro abitazioni, decide di porsi in salvo insieme alla moglie e alla figlia. Affida agli anziani vicini le chiavi di casa e gli animali, riempie due valigie di vestiti e cibo, e con un carretto a mano si precipita alla stazione. Qui una folla di persone di tutte le età, impazienti e smarrite, aspetta l’arrivo del primo treno diretto verso ovest. All’arrivo del convoglio, le infermiere e i gendarmi smistano il gruppo, facendo salire sulle prime carrozze le donne e i bambini, mentre ammassano gli uomini negli ultimi vagoni merci. Quello su cui sale Marcel, dopo aver lasciato i bagagli alla moglie, puzza di stalla, perché adibito in precedenza al trasporto di bestiame: vi si pigiano perlopiù anziani del paese, impauriti e zitti, indifferenti gli uni alla sorte degli altri.  Lui stesso si lascia trascinare dagli eventi, senza opporre resistenza, con rassegnato fatalismo: “Fino al giorno prima ero io a dirigere la mia vita e quella dei miei cari… Ora non più. Non avevo più radici. Non ero più Marcel Féron… ma un uomo fra milioni di altri uomini in balìa di forze superiori”.

Inizia il viaggio, estenuante e gravoso, del convoglio, che spesso è costretto a fermarsi su binari morti, cambiando direzione per l’improvviso intensificarsi dei combattimenti e le incursioni degli aerei tedeschi. Marcel ha la netta sensazione di trovarsi a una svolta importante della sua vita, a un appuntamento con il destino cui non può né vuole sottrarsi: “Non mi dispiaceva affatto, anzi, provavo una sorta di gioia torbida, come quando si distrugge qualcosa che si è pazientemente costruito con le proprie mani”.

La promiscuità all’interno del vagone crea imbarazzo in alcuni, diffidenza e circospezione in altri, sfrontata esibizione delle proprie voglie sessuali e dei bisogni fisiologici nei più disinibiti. Marcel è attratto dalla vista di una giovane donna vestita di nero, che lo osserva con uno sguardo sospeso tra timidezza e pietà. Inevitabile che i loro corpi si avvicinino, si sfiorino, e poi nella notte si accoppino con naturalezza innocente e ingorda insieme, “silenziosi entrambi come due serpenti”. Simenon racconta l’attrazione erotica tra i due profughi con delicata e solidale indulgenza, la stessa con cui descrive la serena e placida bellezza delle campagne attraversate dal treno, mentre dal cielo cadono le bombe e raffiche di mitragliatrice si abbattono su chi incautamente scende dai vagoni.

Con pudore la donna rivela la sua identità: si chiama Anna, ed è un’ebrea di origine cecoslovacca, fuoriuscita da un carcere del nord. Mentre il treno attraversa una Francia irreale, lambendo Reims, Bourges, Nantes, diretto verso Bordeaux, Marcel e Anna approfittano di ogni sosta per fare l’amore, sui prati, sull’argine di un fiume, nascosti agli altri e sempre più coinvolti emotivamente, pur consapevoli che la loro storia non può avere futuro.

“Ma era poi lei che amavo, o la vita? Non so spiegarmi: io ero nella sua vita; avrei voluto rimanerci per ore, non pensare più a nient’altro, diventare come un albero al sole… Si era prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla. Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un’altra dimensione, i cui valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita… Se dovessi descrivere il posto, potrei parlare soltanto delle chiazze di ombra e di sole, del colore rosato di quel giorno, del verde della vigna e dei cespugli di ribes, del mio torpore, una sorta di benessere animalesco, e mi chiedo se quel giorno io non sia arrivato il più vicino possibile alla perfetta felicità”.

Arrivati al centro di accoglienza di La Rochelle (che Simenon descrive con cognizione di causa, essendovisi trasferito nel 1940 per occuparsi dei profughi belgi), i due amanti trascorrono un mese lavorando e fingendo uno scampolo di routine matrimoniale, finché Marcel viene raggiunto dalla notizia che sua moglie Jeanne ha partorito in un ospedale della Vandea. Con Anna si mette fortunosamente in viaggio per ricongiungersi alla sua famiglia, separandosi dall’amata sul portone del reparto di maternità, con consapevole e malinconica ragionevolezza.

Si incontreranno di nuovo anni dopo, per pochi minuti e in un’occasione tragica, quando già Marcel è tornato a Formay: “Ripresi la mia vita dal punto in cui l’avevo lasciata, com’era mio dovere, com’era destino, perché era la sola soluzione possibile e non avevo mai pensato che ce ne potesse essere un’altra…”. Simenon fa concludere il racconto al protagonista con scarne parole: “Non sono mai ritornato a La Rochelle. Non ci tornerò mai. Ho una moglie, tre bambini, un’attività commerciale in rue du Château”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali»      5 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DEEN

MATHIJS DEEN, LA NAVE FARO – IPERBOREA, MILANO 2022

Lammert fa il cuoco di bordo, e di lui si sa poco: che aveva trascorso l’infanzia in Indonesia, dove poi era stato fatto prigioniero dai giapponesi, e che da allora, a cicli ricorrenti, torna ad ammalarsi di malaria. È imbarcato sulla Texel, una nave faro ancorata al largo delle coste olandesi “come una fortezza in mezzo al mare”, destinata a indicare la rotta alle imbarcazioni in transito, dirette soprattutto verso il Mar Baltico, illuminandone il tragitto.  “La nave su cui lavorava non arrivava mai da nessuna parte, né salpava mai”, e la vita del cuoco resta confinata tra cucina, cabina, cambusa e ponte.

I suoi dieci compagni mal tollerano la noia e l’inerzia cui sono costretti, afflitti da un complesso d’inferiorità rispetto ai marinai di lungo corso: “Una nave era fatta per salpare, per navigare e, dopo un lungo viaggio, entrare in un porto carico di promesse. Un uomo di mare girava il mondo, sostenevano, conosceva tanti porti, sapeva come andavano le cose oltreoceano e per questo ne taceva. E aveva una mente aperta”. Invece, “Una nave faro non ha un’elica, non ha un motore, sul ponte di comando non c’è un timone; non può far altro che ondeggiare, un po’ sconsolata, un animale che tira invano una catena”.

Ogni quattro settimane l’equipaggio si dà il cambio con i turni di terra, e appunto in quel giugno afoso e umido, Lammert sbarca, ritirandosi nella vecchia casa dove aveva vissuto con la madre fino alla morte di lei. Proprio ritrovando un ingiallito ricettario materno, si imbatte nella descrizione di un piatto indonesiano, il gule kambing, e ne assapora mentalmente gusto e profumi. Da una contadina del paese si procura un capretto, con l’intenzione di farne uno stufato da preparare ai colleghi una volta tornato a bordo.

L’introduzione clandestina dell’animale sulla nave lo prova emotivamente, ma l’accoglienza incuriosita e affettuosa dei marinai verso il piccolo ospite lo rincuora. In particolare Gerrit Snoek, “trentenne alto e abbronzato che attraversava la vita a capo un po’ chino, come sotto uno stipite troppo basso”, incaricato di fare rilevazioni per il Servizio Meteorologico Nazionale, fa subito del capretto il suo confidente, tenendoselo in braccio a osservare il mare, il porto di Den Helder in lontananza, le luci delle navi che fiancheggiano la Texel. Tonnie Vonk, il mozzo, riceve dal cuoco l’incarico di allattare la bestiola: “Due volte al giorno, un biberon quasi intero, bello caldo, quasi bollente”. Il primo ufficiale Jan de Ruyter, il marinaio più anziano Henk Kaag, la vedetta Niek Boon, il motorista Klaas Boon e persino il Capitano osservano con indulgenza l’intraprendente vivacità dell’animale dalle pupille verticali e dalle corna appena accennate, che scorrazza dal ponte alla sala macchine saltellando e belando infantilmente.

La narrazione procede tranquilla e puntuale fino alla metà del libro, per poi animarsi improvvisamente in un crescendo ansioso e turbato, in cui l’atmosfera nebbiosa e sospesa attorno alla nave acuisce la tensione psicologica che invade i protagonisti del racconto.

Mathijs Deen (1962) è uno scrittore e giornalista olandese, autore di reportage, documentari e programmi radiofonici. Ha pubblicato saggi narrativi e racconti che gli sono valsi importanti riconoscimenti di pubblico e critica. Iperborea ha già pubblicato nel 2020 il suo corposo romanzo Per antiche strade, che combina ricerca storica, diario di viaggio e invenzione.

Molto abilmente Deen accompagna il lettore in un climax angoscioso, che vede il cuoco cadere in preda al delirio della malaria proprio quando si appresta a macellare il capretto, l’equipaggio prendere le parti dell’animale cercando di sottrarlo all’uccisione, il mare mugghiare minaccioso mentre le luci del faro solcano sinistramente le onde, le boe di segnalazione accecate dalla foschia e la sirena (“quell’animale lamentoso, quel toro malato”) annunciare lugubre gli incombenti pericoli di collisione con i mercantili, i cargo e le navi da crociera che sfiorano la Texel nel buio.

L’inquietante presagio di un evento drammatico è suggerito dall’autore nella descrizione degli incubi di Lammert, sudato e febbricitante nella sua cabina, confusi tra la prigionia e le torture subite a Giava e l’eco della turbinosa tempesta avvertita oltre l’oblò, mentre Snoek ossessionato dalle allucinazioni teme di riconoscere nell’impaurito capretto uno spirito demoniaco che si è impossessato delle menti dell’equipaggio. Senza svelare la conclusione del racconto, si può forse anticipare che la vittima predestinata al sacrificio sarà l’unica a salvarsi dal male che dilaga sulla nave faro.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali»     29 settembre 2022