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RECENSIONI

GUENON

RENÉ GUÉNON, LA METAFISICA ORIENTALE – ADELPHI, MILANO 2022

Il filosofo ed esoterista francese René Guénon (1886-1951) conosciuto anche come Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya dopo la sua conversione all’Islam, scrisse ventisette libri e numerosi interventi su rivista, esplorando con un linguaggio accessibile il concetto di metafisica così come si presenta in tutte le forme tradizionali della spiritualità e delle religioni mondiali, dal paganesimo al sufismo al cristianesimo, attraverso le loro specifiche ritualità e credenze. Ammirato e contestato, considerato un rigoroso storico delle tradizioni religiose oppure un superficiale adattatore di teorie personali, Guénon è stato tradotto in moltissime lingue, e ancora oggi ispira la ricerca di alcune comunità musulmane esistenti sul nostro territorio.

Il breve saggio pubblicato da Adelphi, La metafisica orientale, trascrizione di una conferenza tenuta alla Sorbona il 17 dicembre 1925, chiarisce già alle prime battute che la metafisica è – aldilà di ogni contingenza storica e geografica –, universale, poiché la verità che aspira a raggiungere è una, e solo le forme esteriori di cui si riveste per esigenze espositive possono essere orientali od occidentali. Tuttavia, mentre nell’Occidente moderno (che non ritiene indagabile ciò che esula dall’ambito scientifico e razionale) essa è trascurata, banalizzata, addirittura sepolta, in Oriente rimane “oggetto di una conoscenza effettiva… vera, assoluta, infinita e suprema”.

Avendo sostituito alla conoscenza una “teoria della conoscenza”, la filosofia occidentale ha ammesso la sua impotenza, e si è riconosciuta in grado di definire solo in via teorica l’essere in quanto tale, secondo metodi razionali, discorsivi, riflessi, sensibili, capaci di cogliere esclusivamente il mondo del mutamento e del divenire, cioè la natura, o piuttosto un’infima parte della natura. In Oriente invece, interpretando correttamente il significato etimologico del termine “metafisica” come studio di ciò che è aldilà e al di sopra della natura, definisce il “soprannaturale” come ciò che supera l’essere e le sue forme: è l’infinito, l’indefinibile, l’incomunicabile, a cui si può accedere solo attraverso uno sforzo strettamente personale, in maniera intuitiva e immediata, ma superando la propria individualità umana per cogliere i principi universali, eterni e immutabili, della conoscenza.

Quali sono, dunque, le tappe principali della realizzazione metafisica secondo gli insegnamenti comuni a tutte le dottrine orientali? L’essere umano, se utilizza i mezzi adatti alla sua condizione di creatura finita come punti di appoggio per arrivarvi (parole, segni simbolici, riti, procedure preparatorie, conoscenza teorica), deve servirsene come supporti puramente accidentali: quello che davvero gli è necessario per elevarsi alla conoscenza è la concentrazione, abitudine “assolutamente estranea, persino contraria, alle abitudini mentali dell’Occidente moderno, dove tutto tende alla dispersione e al cambiamento incessante”.

Primo stadio da cui partire è la modalità corporea, la padronanza e il controllo della propria fisicità per poi estendersi oltre l’ambito sensibile in altre direzioni, attuando lo “stato primordiale” dell’autenticità, affrancato dal tempo e dalla limitante successione degli accadimenti, per arrivare a una considerazione simultanea delle cose e degli eventi, fuori dalla temporalità, in un non-tempo che conduca al senso dell’eternità. In una seconda fase, si supera l’appartenenza al mondo delle forme e delle condizioni individuali: si arriva così alla negazione dei limiti che definiscono ogni esistenza nella sua relatività, ottenendo la Liberazione e l’Unione con il Principio Supremo. Solo allora l’essere “liberato” è veramente in possesso di tutte le sue potenzialità, essendosi svincolato da ogni costrizione negativa e da ogni illusione. Il risultato raggiunto sarà un’acquisizione permanente, perché basata sulla conoscenza che è perenne, a differenza dell’azione che è una modificazione momentanea dell’essere. Il dominio metafisico è del tutto al di fuori del mondo fenomenico, non riguarda la psicologia, non produce poteri speciali, non assicura nessuna evoluzione esteriore. È invece un’illuminazione interiore, che non si occupa di successi contingenti. L’Occidente, fondando le sue religioni su formule tradizionali ed esteriori, ha sviluppato la propria civiltà in senso puramente materiale, destinandosi a un declino spirituale che lo condannerà a perdersi.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-metafisica-orientale-Guenon        13 aprile 2022

 

 

RECENSIONI

PETRUZZELLI

PINO PETRUZZELLI, L’ULTIMA NOTTE DI DIETRICH BONHOEFFER – ARES, MILANO 2022

 Il pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) trascorre l’ultima notte della sua breve esistenza nel lager di Flossenbürg, in attesa di venire giustiziato per aver partecipato al fallito attentato contro Hitler, nell’operazione Walchiria. A raccontare le tragiche ore che lo separano dall’esecuzione è Pino Petruzzelli (Brindisi,1962), drammaturgo, regista e attore, fondatore – insieme a Paola Piacentini – del Centro Teatro Ipotesi di Genova; lo fa recuperando elementi biografici, itinerari ideologici e percorsi di fede del protagonista, con la volontà di renderne un ritratto psicologico e morale, sullo sfondo delle emozioni vissute nei drammatici momenti che precedono la sua impiccagione.

Si tratta di un monologo in cui Dietrich parla a se stesso e a Dio, lasciando che la paura, lo sconforto, la tentazione di una resa, affiorino alla sua mente e alle sua labbra insieme alla supplica. L’impianto della narrazione è volutamente teatrale, quasi che l’autore abbia progettato una futura rappresentazione sulla scena: si svolge infatti per quadri, scanditi in sei ore, dall’una di notte del 9 aprile 1945 fino all’alba, quando i carcerieri verranno a prelevare il prigioniero per condurlo al patibolo. E ogni atto, privo di azione e voci diverse, rievoca un passaggio dell’esistenza di Dietrich, intervallando le illuminazioni della memoria con brani evangelici, preghiere, poesie.

La prima, fondamentale e affettuosa ricostruzione, è quella dell’ambiente familiare, con la numerosa famiglia nell’elegante villa di Bratislava, il padre illustre psichiatra, la madre premurosa e attenta educatrice degli otto figli, l’amorevole ma austera formazione culturale e cristiana impartita ai ragazzi: musica, libri, rispetto per la natura, e soprattutto un costante impegno a vivere con dignità il proprio ruolo di cittadini democratici. I ricordi del fratello Walter ucciso da una bomba sul fronte durante la prima guerra mondiale, degli appassionati studi di teologia, dei seminari di qualificazione in Europa e in America, e quindi del servizio pastorale rivolto a soccorrere la sofferenza dei più poveri, lottando contro le ingiustizie sociali e contro il razzismo verso neri ed ebrei, si susseguono limpidi e nostalgici. Bonhoeffer ripercorre, in un puntuale esame di coscienza, i momenti che l’hanno portato ad assumersi la responsabilità convinta e decisa di opposizione al nazismo: gli articoli giornalistici, le trasmissioni radiofoniche, le omelie dal pulpito, i rapporti sempre più stretti con la resistenza europea. Gli scrupoli di coscienza che lo avevano tormentato negli ultimi anni riguardavano ovviamente la possibilità di conciliare la propria fede in Cristo con la decisione di eliminare Hitler, partecipando a un complotto pianificato per rovesciare la dittatura, all’interno dei servizi segreti dell’Abwehr. Messo di fronte al silenzio complice del luteranesimo tedesco se ne era allontanato con disgusto, aderendo alla Chiesa Confessante e scegliendo la lotta clandestina e lo spionaggio. L’arresto avvenuto nel 1943, l’internamento dapprima nel carcere di Tegel, quindi nel lager di Flossenbürg, avevano segnato il momento di più profonda depressione, non solo per la nostalgia di casa, della fidanzata diciannovenne Maria, e per la consapevolezza dell’inevitabile condanna, ma soprattutto per l’impossibilità di continuare a combattere, impedito com’era ad agire, chiuso in una cella buia di sette piedi per tre.

Nell’attesa della morte, l’uomo di Dio si appella alla fede, con i versi toccanti delle poesie che verranno pubblicate postume nel suo libro più famoso, Resistenza e resa: “Signore, povero tu fosti / e come me prigioniero e abbandonato, / degli uomini conosci ogni patimento, / ti sento accanto in questa solitudine. / Non mi dimentichi, mi cerchi, / ti riconosco e a te mi rivolgo, / donami la fede / che dalla disperazione salva”, “Quando un profondo silenzio ci avvolge, / facci udire il suono pieno del mondo”, “Non le sopporto più queste prigioni buie. / Sono malato come un uccello in gabbia. / Ho fame di colori, di fiori, di canti d’uccelli. / Ho sete di parole buone, di compagnia / e sono anche stanco e vuoto nel pregare. / Sono solo pronto a prendere congedo da tutto”. Il congedo dal mondo avvenne per Dietrich Bonhoeffer nelle prime ore del mattino del 9 aprile 1945: secondo le testimonianze raccolte, fu affrontato con dignità, coraggio e fiduciosa speranza nella risurrezione promessa dal Vangelo.

© Riproduzione riservata              11 aprile 2022

RECENSIONI

PETRIGNANI

SANDRA PETRIGNANI, LE SIGNORE DELLA SCRITTURA – LA TARTARUGA, MILANO 1984-2022

Il volume Le signore della scrittura, che restituisce la voce ad autrici fondamentali del nostro Novecento letterario, mettendo in luce non solo il loro alto spessore intellettuale, ma anche la loro personalità, è giustamente dedicato dall’autrice a Laura Lepetit, coraggiosa fondatrice delle edizioni La Tartaruga, che lo aveva pubblicato nel 1984 e, prima di venire a mancare lo scorso anno, ne ha voluto la ristampa.

Rileggere, dopo quarant’anni, le interviste che Sandra Petrignani fece a undici grandi scrittrici italiane per il quotidiano Il Messaggero, ci riporta a metodi di lavoro, ad atmosfere culturali, a stili di vita pubblici e privati di altro livello rispetto a quelli odierni, e decisamente da rimpiangere.

Le signore che qui si raccontavano – alcune con aperta cordialità, altre con scontroso ritegno, altre ancora con pungente ironia –, avevano in comune l’età avanzata (dai settant’anni in su), lo stesso giudizio amaramente severo sulla loro contemporaneità, e una giustificabile acredine verso “l’assenza di vero prestigio… l’imperdonabile mancanza di autentico riconoscimento” da parte dei critici, degli editori e dei lettori italiani, prevenuti riguardo al loro essere donne.

In realtà, almeno quattro di loro (Morante, Ginzburg, Ortese, Romano) sono oggi considerate appartenere a ragione al nostro Olimpo letterario, e anche delle altre sette si riconosce unanimemente il valore. Anna Banti, Maria Bellonci, Laudomia Bonanni, Fausta Cialente, Alba de Céspedes, Livia De Stefani, Paola Masino godono attualmente di grande stima e interesse, vengono antologizzate, studiate, addirittura imitate. Probabilmente quarant’anni fa non era così, se Petrignani asseriva nell’introduzione all’edizione del 1984: “Ciò che raccontano di sé disegna nell’insieme una comune condizione di isolamento, delle donne fra gli uomini, ma anche delle donne fra le donne. Sono quasi tutte isolate sulla roccia dei libri che hanno scritto, nel silenzio che le circonda o di cui hanno voluto circondarsi”.

Pressoché tutte le intervistate hanno iniziato a scrivere molto precocemente, dall’adolescenza se non persino dall’infanzia, trovando però grandi difficoltà nel farsi pubblicare e nell’avere successo. Erano state lettrici onnivore, appassionate di storia e di arte, curiose di politica, ma arrivate alla vecchiaia vivevano isolate, con pochi amici, snobbando le cerimonie ufficiali e i salotti mondani, timorose di esibire la loro fragilità fisica, la loro stanchezza mentale. Elsa Morante così confidava: “Sono una vecchierella che vuole essere lasciata in pace. Sono aumentata di peso, ho i capelli bianchi, sono malata… Io detesto il mio corpo”.

Nei giudizi espressi sulle altre donne e sul femminismo indicavano spesso una notevole disistima. Anna Banti: “Non sono sempre e comunque dalla parte delle donne. E le dirò questo: le donne sono cattive verso le altre donne. Sono invidiose. Non sopportano che un’altra si distingua in qualcosa”; Elsa Morante: “Sarò stata sfortunata, ma non ho mai conosciuto una donna veramente intelligente. Le donne pensano solo a se stesse e alle loro faccende private, scimmiottano l’uomo, ed è un segno della loro stupidità voler essere come i maschi: spregiano le loro grandi qualità femminili diventando spregevoli”.

Valutazioni decisamente risentite e sprezzanti erano rivolte al mondo degli intellettuali, degli accademici, dell’editoria. “La figura del critico autorevole, ‘infallibile’, del critico padre, è in estinzione. Ora i critici sono più vicini, più simili agli scrittori, meno distaccati e forse più soggetti a infatuazioni e cecità” (Ginzburg); “Ma cosa vuole che creda nell’immortalità letteraria! Non vede che stiamo andando verso la distruzione dell’intero universo?” (Morante); “Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere da solo, darsi d’attorno… Autori e critici che una volta erano considerati seri, oggi non si vergognano ad avallare sotto prodotti letterari ignorando opere migliori” (Bonanni); “Si perde del tempo prezioso a leggere quanto oggi gli editori sfornano. I classici dobbiamo leggere. E rileggere” (Masino).

Molte di loro avevano avuto compagni importanti: Anna Banti era la moglie del critico d’arte Roberto Longhi, Maria Bellonci del giornalista Goffredo Bellonci, Fausta Cialente del compositore Enrico Terni, Paola Masino dello scrittore Massimo Bontempelli, Lalla Romano del banchiere Innocenzo Monti, Elsa Morante di Alberto Moravia. In generale, tuttavia, non parlavano con entusiasmo della loro vita di coppia, essendosi sentite spesso trascurate, o non prese nella dovuta considerazione come scrittrici nella stretta cerchia familiare.

Colpisce l’estrema saggezza di alcune frasi lapidarie di queste anziane scrittrici. Lalla Romano affermava: “Vivere con passione e raccontare la vita con distacco… Bisognerebbe coltivare l’indifferenza rispetto al rumore del mondo, alle chiacchiere, ai giudizi sbagliati. Il distacco dalla vanità e dalla compiacenza”, e Alba de Céspedes: “Il grande segreto della vita è eliminare. Proprio così: eliminare tante cose inutili, quelle che ci fanno perdere tempo. Bisogna avere la forza di dire di no, se si vuole riuscire in qualche cosa”, Anna Maria Ortese, alle cui riflessioni è concesso lo spazio più ampio nel libro, condensava con saggezza antica e acuta sensibilità la responsabilità morale che ogni essere umano dovrebbe provare nei confronti di qualsiasi elemento del creato: animali, vegetali, aria, acqua, rendendo continuamente grazie alla bellezza dell’universo, e rifiutando la violenza, l’inganno, la corruzione: “Questo vivere è cosa sovrumana… Tutto respira e tutto ha diritto di respirare”.

Sandra Patrignani, riproponendo dopo quarant’anni queste testimonianze di vita, ci ha permesso di incontrare non solo eccezionali signore della scrittura, ma anche maestre del pensiero: un invito pressante a riscoprirle nelle pagine straordinarie che ci hanno lasciato.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 5 aprile 2022

 

RACCONTI

OLIVIERO

Avevo un amico: si chiamava Ezio come mio padre; ma – viste le sue dimensioni – per tutti noi era Ezzino. O anche Scooterino, perché correva velocissimo, imitando con la bocca accelerazioni e frenate di una moto. Avevo anche un’amica, che per curiosa coincidenza si chiamava come mia madre, Liliana. Così io mi trovavo a ripetere nei giochi i due nomi che mi erano più cari e vicini in casa: ma con quale altra intonazione, più imperiosa ed esigente, o più allegra e sfottente. Li dissacravo, quei nomi troppo sacri, nel momento stesso in cui li attribuivo ai miei compagni.

Oscillavo nelle preferenze tra la violenta irruenza del maschio che mi trascinava a intrepide esibizioni, e la riposante mansuetudine della femmina, che offriva ai miei sudati ritorni il riparo ombroso di tazzine e bambole allineate ad attendermi.  Con Ezzino non parlavo mai di matrimonio, non sprecavamo il nostro tempo in scimmiesche imitazioni dei ruoli di papà e mamma; piuttosto vigeva tra noi una virile solidarietà di gusti e imprese, che mi vedeva spesso succube, scudiera fedele alle esigenti prodezze del mio cavaliere.

Con le nostre biciclette avevamo scoperto anzitempo il brivido del cross in campagna, poi le corse sbucciate nei ginocchi a nasconderci nelle canalette, e battaglie di pere acerbe contro i nemici al di là dei muri di cinta, e assalti ai muretti stessi. Ma il divertimento più rischioso era quello che chiamavamo “il volo”, buttarsi giù da un’altezza di tre metri o più sul fieno ammucchiato per terra, o sulle foglie secche. Ezzino spronava la mia paura con motteggi crudeli, mi chiamava donnetta, a volte mi spingeva lui nell’abisso. Perché il mio amico voleva diventare paracadutista o scalatore: non aveva ancora ben deciso. Io lo veneravo; volevo essere come lui, meglio, essere lui. Se mia madre mi accordava la grazia di non costringermi a indossare le gonne, ecco che potevo – coi miei capelli cortissimi, lo sguardo più sicuro di cui fossi capace – diventare maschio. Maschio, piantarla con tutte le smancerie e lo stare composte cui vengono costrette le bambine. Saltavo il muro, e tradivo le mie consorelle, disprezzandole, irridendole.    Mi scelsi presto un nome, che assunse subito alle mie orecchie il segno di un destino: fui Oliviero, e mai nessuno, ero certa, aveva foggiato per sé una seconda pelle tanto aderente quanto quella che mi ero creata. Rinnegai la mia assurda desinenza in a, il nome dolce e inusuale che mi avevano imposto. Oliviero, decisi: e fosse valido davanti a tutti. Chiesi come regalo di compleanno uno schioppetto da portare a tracolla: non me ne separavo mai. Dormendo, lo nascondevo sotto il cuscino.

Tentassi in questa maniera, da bambina eccessivamente sensibile e morbosamente malinconica qual ero, di consolare i miei genitori del mancato arrivo di un erede; cercassi di alleviare in me il senso di colpa per non essere stata io, quello da loro tanto aspettato, non saprei dire. Avevo comunque deciso (omaggio ai miei oppure a me stessa) di cancellare ogni traccia della femmina che ero stata: a cinque anni. Le mie sorelle illanguidivano sullo sfondo di un rapporto insipido, loro che sembravano addirittura contente della propria miseria. Tranquilla e soddisfatta della mia scelta, ero capace ancora di giochi pacifici, quasi femminili. Raccontare storie, recitare, ballare, non toglievano nulla alla mia esibita virilità. Seduta su una panchina, tra i miei due amici, Ezzino e Liliana, mi sentivo partecipe della natura di entrambi, e felice.

Stavamo lì a passare le ore riempiendoci la bocca di frasi insulse, a volte inseguivamo il nonsenso, l’assurdo, fino a morirne dal ridere o a esserne terrorizzati. Fu per prima la Liliana a proporci di ripetere all’unisono e ad libitum la stessa parola, finché essa perdesse i suoi contorni, assumesse altri significati, si stravolgesse. Ricordo che tentammo un esperimento continuando a sillabare insieme “la Puglia”, che io non sapevo cosa fosse, ma la mia amica sì. E lapuglia divenne dopo poco pugliala, e poi glialapu, e in seguito più niente: vocali miste a consonanti, puro suono. Più coinvolgente ancora fu riproporre lo stesso gioco col nome del nostro paese, “Lupatoto”: ridicolo, fatto apposta per essere smontato e ricomposto: tolupato-totolupa-patotolu. Già il nome tutt’intero invitava alla risata: ma così riconciato e irriconoscibile ci pareva una formula per chissà quale sesamo.   San Giovanni Lupatoto – nella sua martellante metrica ottonaria – si prestava anche a venire etimologicamente interpretato in maniera diversa: sapevo da mio padre che il paese anticamente era stato infestato dai lupi; ma Ezzino sosteneva invece che di lupi ce n’era uno solo, e femmina, e Toto era il valoroso cacciatore che l’aveva uccisa. Noi altre propendevamo a credere in un miracolo liberatorio di San Giovanni, perché mai sennò dedicargli la fiera paesana?

Perfettamente contenti, perfettamente uguali, noi tre ci amavamo senza dircelo, Liliana Ezzino e Oliviero. Finché un giorno si ruppe l’idillio, finì l’incantesimo; non posso dire se la stessa cosa sia successa anche ai miei amici: ma io cambiai, non fui più la stessa di prima. Quel giorno appunto, alla fine di un innocente gioco a tre, Ezzino annunciò che gli scappava la pipì, e ci chiese di fargli compagnia. Non so quanta malizia ci fosse nei miei compagni, entrambi abituati a un’educazione promiscua, tra fratelli e sorelle: so però che io ero un Oliviero ingenuo e ignaro, sicura che al mondo fossimo fatti tutti allo stesso modo. Dunque decidemmo di isolarci un poco, non di nasconderci, ma comunque di prestare un paravento al nostro pudore; ognuno si scelse una panchina, infilandosi tra essa e la siepe, in modo che fossimo riparati da espliciti sguardi esterni, ma tra noi si aprisse un solidale corridoio di occhiate.

Liliana accucciata alla mia sinistra, Ezzino in piedi alla mia destra, con una mano a pugno dietro la schiena e l’altra a sostenere chissà cosa che zampillava. Io zitta ancora, ma con i pantaloni già abbassati, pronta a calarmi giù le mutande. Ipnotizzata da lui, da cosa e da come facesse: una mostruosità di pipì; tranquillizzata dalla mia amica che placidamente aveva quasi finito e mi esortava «Dai, dai!». «Devi abbassarti, tu sei una femmina!». Condanna e rivelazione, le parole irridenti di Ezzino mi umiliarono alla mia funzione biologica, mi schiacciarono nel mio ruolo non più rinnegabile. Mi abbassai, lasciando che la pipì mi spruzzasse scarpe e calzetti, osservandone attentamente le goccioline come se nient’altro, ormai, meritasse più attenzione.

Di colpo alle spalle uno scalpiccio affrettato sulla ghiaia, un’ombra proiettata al mio fianco e stridula la voce – di una o due tonalità più alte del necessario – della signora Gignol. «Cosa fate? Cosa state facendo?» Ci aveva sorpreso in flagrante, lei che era la signora più elegante e impettita del paese, che sembrava avesse ingoiato un bastone quando, con la figlia inamidata, tutt’e due con in testa lo stesso chignon, camminavano rigide a disprezzare il mondo: lei era alle nostre spalle e avanzava col suo dito puntato su me, proprio su me che ancora mezzo scoperta la guardavo spaventata. «Tu? Tu! Da te non me lo sarei mai aspettato! Con la mamma che ti cura tanto… Con le tue sorelline così educate…», e poi non trovando altro epiteto alla sua indignazione «Maschiaccio!», esplose, e ancora «Telefonerò a tua madre, per dirglielo».

Ignorò i miei amici, mi girò le spalle, e generalessa si avviò per andarsene, la signora Gignol con il suo chignon, sdegnata per il mio ignobile comportamento, gni gni, gni gno, la signora Gignol più severa di Dio, col suo dito alzato a minaccia, lasciandomi ignara ignava ignuda, in preda a ignota ignominia. Mi alzai e mi tirai su i calzoni, col cuore che mi usciva dalla gola, e prendendo per mano la mia colpa, corsi a casa, a tentare di far finta di niente con la mamma.

 

 

In Appuntamento con una mosca, Stamperia dell’ArancioSan Benedetto del Tronto 1991, in  Inverni e primavere (e-book) 2016 e in Gli Stati Generali, 30 marzo 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JULLIAN

PHILIPPE JULLIAN, IL CIRCO DEL PÈRE LACHAISE – MEDUSA, MILANO 2022

Il circo del Père Lachaise è un elegante volume di schizzi, disegni e caricature commentate dallo stesso geniale illustratore: Philippe Jullian, nato a Bordeaux nel 1919 e morto suicida a Parigi nel 1977. Romanziere, critico d’arte, autore di numerose biografie, collezionista, viaggiatore cosmopolita, fu un esteta decadente, salace animatore dei salotti parigini, e appassionato indagatore di temi omoerotici e sadomasochistici. La sua propensione verso la sensualità e il macabro era attraversata da una feroce vena satirica, rivolta soprattutto all’inconsistente futilità culturale dell’alta borghesia, e all’aristocratica classe politica che ne era l’espressione.

Il volume appena pubblicato dalle edizioni Medusa, uscito in Francia nel 1957, ci accompagna in una sarcastica e crudele passeggiata lungo i vialetti, i sepolcri e gli ossari del Père Lachaise, il cimitero più famoso di Parigi, dove riposano artisti, politici, eroi di guerra, filosofi e insomma il beau monde della cultura e della società internazionale. Un circo di esibizionisti vanitosi, questo camposanto raccontato da Jullian, che di santo ha molto poco: i defunti mantengono gli stessi vizi e le stesse smanie che li abitavano in vita, indossano uguali drappeggi, si muovono con la flemma o il parossismo che li caratterizzava durante la loro esistenza terrena. Di notte si incontrano tra di loro, uscendo dalle tombe, offendendosi e lusingandosi a vicenda; durante il giorno spiano i visitatori dietro le sbarre delle cappelle, o dalle fessure delle tombe di famiglia, soddisfatti se si scoprono rimpianti e lodati, delusi quando si sentono trascurati.

La mappa della necropoli mantiene la topografia della gloriosa capitale, suddivisa in zone che ricalcano la distribuzione demografica degli arrondissement, con i quartieri più emarginati a est (colombari, sepolture provvisorie), e quelli eleganti a ovest. Le sezioni centrali, fiorite e affollate di turisti curiosi, richiamano i grandi e trafficati boulevards, con la vivace offerta di distrazioni ed estrose stravaganze. La varia umanità che Jullian rappresenta con schizzi incisivi e impietosi è composta da famiglie dispotiche, vedove inconsolabili, accademici boriosi, avventuriere, austeri generali, vegliardi incartapecoriti. Ci sono anche gli straccioni, irriguardosi e irridenti la spocchia di chi si vanta dell’immortalità, pur sapendo di essere destinato come tutti all’oblio perenne. I commenti salaci dell’autore chiosano illustrazioni altrettanto, o forse più, mordaci, che raffigurano volti deturpati dal vizio, corpi sfasciati, in un tripudio di carnevalesche oscenità, accompagnate da orchestrine stridule e balli indecorosi.

La convivenza delle mummie livella ogni diseguaglianza: “Deve ricevere nella tomba di famiglia i parenti poveri a cui proibiva il suo salotto”; gli scrittori famosi “sono molto suscettibili e non cessano di stabilire i loro titoli”; rimasto solo e dimenticato, “l’egoista si annoia”, e i suicidi ostentano orgogliosamente lo strumento con cui si sono uccisi. C’è anche il trenino del piacere, che conduce le anime gaudenti al parco delle attrazioni. Sull’intera comunità aleggiano gli spiriti guardoni, quando non vengono evocati da tavolini traballanti in sedute serali di ascetici irrazionalisti.

Teschi, scheletri, orbite incavate, tibie e scapole sporgenti da vesti sontuose o da stracci, sono il perpetuo memento della caducità, del transeunte. Eppure, alcuni perseverano nelle illusioni mondane: (“Le persone di mondo che devono essere salvate dall’oblio tramite Proust si accalcano nel suo palco”), altri non temono il ridicolo delle esibizioni circensi collettive, altri ancora pagano il giusto fio del contrappasso (“Signora attorniata dai bambini che ha preferito non avere”, “Le poetesse rivali in scena, ciascuna obbligata a recitare le poesie della sua nemica, all’unisono”).

Scrive Pasquale Di Palmo nella sua dotta postfazione: “Come una medievale danza macabra che il tempo ha provveduto in parte a cancellare, gli ectoplasmi di Jullian sfilano carichi di tutto il loro retaggio di onorificenze e gioielli, reso ormai patetico quanto il loro aspetto repellente, proiettandosi in un passato che li condanna a ripetere all’infinito azioni prive di valenze oltremondane”. La rassegna del grottesco e della volgarità che l’autore di questo lussureggiante e disperato carosello ci offre, si presenta come uno sberleffo fatto alla morte e alla vita che l’ha preceduta, meritando l’inferno o il purgatorio in cui è precipitata: mai, assolutamente mai, il paradiso.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 28 marzo 2022

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LAGERKVIST

PAR LAGERKVIST, PELLEGRINO SUL MARE – IPERBOREA, MILANO 2012

Un romanzo strano, questo di Pär Lagerkvist (premio Nobel nel 1951): breve, scritto in una lingua piana, con uno stile facilmente accessibile, attraversato da trame diverse, e diviso in due blocchi poco comunicanti tra loro. Inoltre, con un finale sospeso, in attesa di una conclusione che arriverà due anni dopo la sua pubblicazione, nel racconto lungo del 1964 intitolato La Terra Santa.

Pellegrino sul mare racconta la storia di due personaggi alquanto misteriosi, le cui vicende si intrecciano casualmente su un battello di pirati diretto verso la Palestina: Tobias vi si è imbarcato dopo aver perso il posto prenotato su una nave di fedeli cristiani, ritrovandosi male accolto da un’equivoca ciurma di vecchie canaglie: un capitano violento e avido, quattro o cinque marinai sanguinari, e Giovanni, un oscuro uomo di mare, scontroso e tormentato.

I motivi che hanno spinto Tobias a salire a bordo per raggiungere la culla della cristianità rimangono ignoti al lettore: probabilmente sta fuggendo da una colpa, da un rimorso, in cerca di una risposta alle sue inquietudini. Invece, le ragioni per cui Giovanni ha scelto di passare la vita sul mare sono molto concrete, e l’autore le espone nella seconda parte della narrazione. Alla base della scelta di entrambi c’è tuttavia la consapevolezza che l’elemento equoreo aiuta ad allargare la coscienza, avvicina all’infinito, placa le ansie nella sua vastità sconfinata: “Il mare racchiude più sapere di qualsiasi altra cosa sulla terra, se sei capace di farlo parlare. Conosce tutti i vecchi segreti, perché lui stesso è così antico, più antico di tutto. Anche i tuoi segreti conosce, non illuderti. E se tu ti abbandoni a lui completamente e lasci che si prenda cura di te, se non ti intrometti con le tue insignificanti obiezioni… allora può dare pace alla tua anima… Anche se percorri la terra tutta intera, non imparerai mai tante cose quante ne imparerai dal mare. Non troverai mai pace se non sul mare, che da parte sua non ha mai pace”. La traversata è resa avventurosa da burrasche e tifoni, e dalla brutalità della vita di bordo: assalti ad altre imbarcazioni, zuffe e omicidi. Quando Giovanni salva fortunosamente Tobias da un’aggressione, tra i due nasce una complicità solidale, e un bisogno reciproco di confessione e comprensione. Giovanni racconta così la sua storia di ex-prete, strappato alla fede e alla Chiesa da una passione illecita e clandestina per una nobildonna, sua ambigua ma affascinante penitente. La seconda parte del romanzo è quindi una lunga e appassionata confessione del tormento di un’anima travolta da un’irresistibile smania di sensualità e concupiscenza, a cui non sa opporre che la volontà di abbrutimento, in una fuga perpetua da se stessa e dal proprio passato. Il mare accoglie maternamente l’angoscia dei due naviganti, pellegrini verso una terra di redenzione che appare sempre più lontana e irraggiungibile.

 

© Riproduzione riservata              25 marzo 2022

SoloLibri.net › Pellegrino-sul-mare-Lagerkvist

 

 

 

 

RECENSIONI

BROGI

DANIELA BROGI, LO SPAZIO DELLE DONNE – EINAUDI, TORINO 2022

Quello a cui Daniela Brogi (docente di Letteratura Contemporanea presso l’Università per Stranieri di Siena), allude nel saggio einaudiano Lo spazio delle donne, può risultare risaputo e scontato. Che la cultura femminile sia stata per millenni assente dalla considerazione e dal riconoscimento pubblico, che la tradizione patriarcale e monologica abbia “oscurato, silenziato, internato” il lavoro materiale e creativo dell’altra metà del cielo, è un concetto acquisito e assodato. Le donne sono state addestrate a non avere talento, ad accettarsi supinamente in ruoli definiti dall’universo di pensiero e di pratica maschile. Continuare a ribadire tale indiscutibile affermazione potrebbe risultare addirittura controproducente, nella sua monotona e lamentosa ripetitività.

Brogi sceglie quindi una tattica operativa diversa, più intelligentemente proficua, proponendo un’indagine sulla produzione culturale femminile attraverso una prospettiva meno consueta, analizzata attraverso il termine chiave di “spazio”, inteso come campo di espressione e verifica delle identità. Spazio occupato dalla fisicità delle donne, dal loro operare concreto e quotidiano, dalla loro narrativa, soprattutto per ciò che riguarda gli ultimi due secoli. Prevalentemente rinchiuse in ambienti limitati e separati dal mondo esterno – salottini, cucine, camere da letto, orti, collegi, monasteri –, sono rimaste bloccate in complessi di insicurezza e sfiducia.

Dalla stanza tutta per sé reclamata da Virginia Woolf al “pezzetto di giardino” conquistato da Sibilla Aleramo, dallo studio reclamato da Alice Munro al tinello di Grazia Deledda, ecco che “la domanda di spazio, come dispositivo fisico e simbolico di un riconoscimento sociale” indica l’esigenza di possedere un luogo proprio, dove potersi riconoscere in quanto soggetti liberi dal dominio esercitato sui loro corpi. Gli spazi destinati alle donne hanno funzionato per migliaia di anni come “cifra di un destino imposto”, che le ha costrette a vivere in “recinti di minorità”, fuori dai campi professionali pubblici.

Cosa fare, quindi, e come reagire per recuperare la visibilità e l’identificazione sottratte al mondo femminile, per farne emergere capacità e ingegni inabissati? Daniela Brogi propone di cambiare linguaggi e prospettive, sfruttando qualsiasi interstizio che permetta forme diverse di espressione, mappando tutte le occasioni in cui si professi cultura e si elaborino strategie di intervento politico, occupando ambiti istituzionali trascurati, riscoprendo la sapienza e il coraggio di autrici dimenticate, utilizzando attivamente ogni “fuori campo” alternativo, multietnico, extra-generazionale.

Si tratta, in fondo, di trovare il coraggio di “dispatriarcarsi”, e di assumere uno sguardo su se stesse autonomo da quello maschile (quante letterate e artiste si sono mimetizzate dietro a uno pseudonimo, o al cognome del marito…), con la coscienza di essere brave senza doversene vergognare. Si deve rileggere la storia delle donne sia relativamente allo spazio che non hanno avuto, sia a quello che hanno affettivamente avuto, ma che “è stato reso invisibile, irrilevante, dimenticabile, o persino caricaturale”. Eccole, allora, le tante eccezionali scrittrici che Brogi elenca, invitando a rileggerle tutte, riguadagnandone la complessità attraverso le competenze e i codici necessari, forniti soprattutto dalle lenti dell’ottica femminista. Tra le italiane, per non limitarsi alle conclamate Morante e Ginzburg, si citano Serao, Negri, Percoto, Banti, Masino, Campo, Guiducci, Livi, Romano, d’Eramo, Passerini…

Riflettendo sulla scrittura e la creatività delle donne, Daniela Brogi individua le problematiche che hanno reso difficile l’emergere delle loro potenzialità. Il tempo che esse dedicano a se stesse è da sempre vissuto come strappato ad altro, a urgenze familiari e domestiche più pressanti, e quindi vissuto con sensi di colpa, se non addirittura come un tradimento. Lo stesso luogo delimitato in cui possono lavorare artisticamente nasce da una situazione artificiale, perché costruito apposta, e in seguito a una scelta personale volontaria: “Scrivere significa collocarsi in uno spazio di autorevolezza e credibilità, anche narrativa, dove non era affatto scontato o naturale trovarsi”.

Proprio a causa “del silenziamento, oscuramento, inabissamento, estirpazione e perfino istupidimento delle donne praticato per secoli dalla cultura patriarcale”, la produzione artistica femminile non sempre è riuscita a raggiungere i livelli linguistici, espressivi e contenutistici richiesti dai canoni di valore letterario riconosciuto, e ha occupato un ruolo marginale in termini di merito; parlare di memorie autobiografiche, amori delusi, tormentosi rapporti familiari, disagio del corpo ha troppo spesso relegato tali argomenti in ranghi estranei alla rilevanza formale, svalutandoli in modo pregiudiziale.

Le donne hanno così finito per interiorizzare come debolezza strutturale e incapacità personale una reale condizione di svantaggio e di minorità sistemica, derivata da radicate e ininterrotte ingiustizie sociali, da asimmetrie legali, politiche, ideologiche.

Daniela Brogi termina la sua riflessione sull’autorevolezza e il prestigio negati alle donne auspicando che possano essere riconosciuti e riconquistati, nella nostra contemporaneità abitata da tante pluralità differenti, a cui è più che mai necessaria una cultura democratica del rispetto, dell’inclusione e della considerazione delle voci femminili.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 22 marzo 2022

RECENSIONI

EGAN

MOIRA EGAN, AMORE E MORTE – TLON, ROMA 1922

Moira Egan è nata a Baltimora e vive a Roma. Ha pubblicato cinque volumi di poesia negli Stati Uniti, e tre volumi bilingui in Italia. Suoi lavori sono apparsi in molte riviste statunitensi e internazionali, e in diverse antologie; in collaborazione con Damiano Abeni ha tradotto autori come Ashbery, Barth, Bender, Ferlinghetti, Hecht, Strand, Simic. Le edizioni Tlon di Roma pubblicano ora il volume con testo a fronte Amore e Morte, che raccoglie suoi versi editi e inediti, divisi in categorie tematiche, corrispondenti ai vari capitoli: amore, morte, sesso, filosofia, poesia. In ogni pagina aleggia la forza unificante, l’energia vitale dell’eros, che ha fatto dire a Goffredo Fofi “Moira Egan scrive poesie d’amore. E ci conferma che è ancora possibile scrivere poesie d’amore. Che, forse, sono le prime poesie che si ha necessità di scrivere, o di leggere, l’alpha e l’omega d’ogni esperienza”.

“Poesie piene di carne”, le definisce nella sua entusiastica prefazione Melissa Panarello, fornendo della poeta americana un vitalissimo ritratto: “ti sembra di vederla Moira Egan che si aggira ora per Campo de’ Fiori, ora per una spiaggia sarda o un’isola greca, con la sua aria da creatura magica, i lunghi capelli fatati, gli occhiali ad ali di farfalla che risaltano occhi di cielo e una pelle sottile e chiara”. Sensualità che anima i sentimenti e i pensieri, rendendo superflua ogni vaga interpretazione filosofica, grottesca ogni presuntuosa ideologia: solo la poesia è in grado di dare voce alla verità proclamata dal corpo: “La piccola morte / ti artiglia la gola, il tuo urlo è poesia”, “il sesso è l’unica via verso la verità. Filosofia, / religione, fisica – gli altri / percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia // ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?”

Nella prima sezione, Love, ci imbattiamo nel fronteggiarsi adorante-ostile di due amanti, nel reciproco darsi e negarsi, in incontri e addi: “l’amante / che ha infilato la porta è tornato da estraneo e / ha cercato di tenersi le mie chiavi”, “ci sdraiamo insieme, tu sul fianco destro, / io sul sinistro – che specchio stupendo”, “Lui insiste, sussurra, / e ci schiacciamo l’uno all’altra”. Si affollano i ricordi: il fico d’India assaggiato per la prima volta a Malta, l’alloro mancante in cucina fortunosamente recuperato in strada: pretesti a excursus storici o mitologici, a commenti etici o politici, a espressioni gergali o battute sarcastiche, a commosse memorie familiari.

In Death, “l’arte bestiale del morire” è descritta nella sofferta agonia del padre e di altre persone care, nel prevalere inesorabile del buio notturno con l’oblio del sonno, nel rintocco delle campane che allude a un paradiso più clemente e ospitale della terra.

Sex è il capitolo in cui più provocatoriamente si esprime l’adesione alla fisicità, la volontà sfacciata di seduzione, la ribellione alle costrizioni maschili e maschiliste, la descrizione audace di fantasie impudiche, insieme alla consapevolezza della proprie arrendevolezze, in forme letterarie controllate come i sonetti (scritti su un tovagliolino di un pub): “Come una sacerdotessa vudù, cerco soltanto / di mostrare i muscoli mistici, per sottomettere / un uomo in ogni porto che mi sappia riconoscere, / sapendo che ci separeremo senza un pianto”, “Sono, purtroppo, / una tipa che quasi si innamora se si sente riconoscente”, “Succo, carne, polpa, inghiotti / avida, le labbra iniziano a formicolare, / la gola si spalanca. Soddisfi / appetiti che ignoravi di avere”, “La notte scorsa, svegliatami, scossa, volevo sesso. / Non sapevo bene dove mi trovavo, né perché // non ero nel mio letto. Lui, perplesso / per la mia confusione, mi ha calmato con il sesso”.

La quarta sezione intitolata Philosophy si apre con alcuni peana alla sessualità quasi imbarazzanti, a ribadire che l’unica, autentica ontologia meritevole di approfondimento è il piacere del corpo perseguito fino allo sfinimento, che trova conferme nella concupiscenza dei fiori e delle costellazioni, nell’esibizione tumultuosa dei fenomeni meteorologici estremi.

In Poetry e in Other, infine, la sensibilità di Moira Egan esibisce una sua divertita e ammiccante opposizione alla poesia togata degli accademici e degli intellettuali, esaltando la spontaneità dell’abbandono al godimento di tutti i cinque sensi: gli ammalianti profumi, il cibo e l’alcol, la visione di begli oggetti d’arte e splendidi panorami, l’ascolto di musica jazz, la tattilità epidermica. Nessuna favola, magia, mito o religione vale quanto la pregnanza compatta offerta dal reale: “Queste sono le mie / poesie, / pistillo, stame, sangue e lividi”.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Amore-e-morte-Egan             18 marzo 2021

RECENSIONI

LAGERKVIST

PÄR LAGERKVIST, IL NANO – IPERBOREA, MILANO 2017

Pär Lagerkvist (1891-1974) è stato uno dei maggiori scrittori svedesi, Premio Nobel nel 1951. Nato in un’umile famiglia contadina, dopo una rigida educazione pietistica, aderì al socialismo e, durante un soggiorno parigino, alle avanguardie letterarie. In tutte le sue opere (poetiche, teatrali e di narrativa) la tensione religiosa è predominante, come ricerca spirituale, sensibilità alla colpa e all’ingiustizia umana, e desiderio di fratellanza universale. All’avvento del nazismo, prese di mira le aberrazioni del potere nei romanzi Il boia (1933) e Il nano (1944). Dopo la guerra la sua ricerca di una risposta ai dubbi religiosi proseguì con Barabba (1950), che ebbe un grande successo internazionale, con La sibilla (1961) e con Marianne (1967). Il nano, pubblicato durante la seconda guerra mondiale, si può leggere come un’acuta metafora della tragedia bellica, determinata da volontà di sopraffazione, brama di potere, sete di vendetta.

Protagonista è un nano al servizio di un Principe in una corte rinascimentale italiana, probabilmente a Firenze, anche se scenari e personaggi storici rimangono indefiniti, e riconoscibili solo attraverso enigmatiche allusioni. Fornito di un’alta considerazione di sé, e di un altrettanto elevato disprezzo per gli esseri umani che lo circondano, vive la propria anomalia come tratto distintivo e indicativo di eccezionalità rispetto a chi gli è vicino. Voce narrante del romanzo, sarcastica e criticamente incisiva, così si descrive dalle prime battute: “Sono alto ventisei pollici, il corpo tutto proporzionato… Il mio volto è imberbe, ma nel resto precisamente identico a quello degli altri uomini… Sono fatto in questa maniera e non ci posso fare niente se gli altri non sono così… Mi sembra che il volto degli altri sia del tutto insignificante”.

Rosso di capelli, grinzoso nel viso, fornito di grande robustezza e di audacia di carattere, si vanta di discendere da una razza antica, nata già vecchia, e per questo mentalmente e fisicamente superiore ai suoi contemporanei, da lui genericamente e sprezzantemente definiti come “gli altri”. La disistima nutrita nei riguardi altrui non risparmia nemmeno i Signori di cui è alle dipendenze, non come buffone, ma come consigliere e confidente: il Principe, impenetrabile nei suoi disegni di dominio, ma ingenuamente sprovveduto; la Principessa Teodora, ordinaria, ignorante e dissoluta; la loro figlia adolescente Angelica, inespressiva e immatura. Il disgusto del nano è rivolto soprattutto alla corte, brulicante di gente corrotta e inutile, avventurieri e lestofanti, sedicenti artisti e scienziati imbroglioni, sgualdrine e ruffiani: tutti pronti ad adulare e a tradire. Di fronte a loro, la bassa statura del protagonista, e il continuo dileggio altrui di cui è vittima, sono indice di esclusione e auto-esclusione, persino nello sfrenato competere delle diverse malvagità che animano ogni personaggio.

L’odio viscerale che il nano prova verso gli esseri umani, la sua repulsione per ogni aspetto materiale dell’esistenza (cibo, sesso, arte, religione, sporcizia, povertà, malattia, amore) è riservato anche alla propria vita e corporeità, da cui mantiene una gelida e controllata distanza: “Ma io odio anche me stesso. Mangio la mia propria carne intrisa di fiele. Bevo il mio proprio sangue avvelenato. Ogni giorno compio il mio rito solitario, sinistro sommo sacerdote del mio popolo”.

Misantropo, misogino, prova soddisfazione nell’annientare gli avversari, sia che siano alleati o nemici del suo signore. L’unica figura verso cui nutre un timoroso rispetto, intuendone l’eccellenza intellettuale e morale, è Bernardo, anziano pittore e scienziato che presta i suoi servigi a corte, disegnando macchine da guerra, studiando le costellazioni, sezionando cadaveri e dipingendo quadri straordinari, tra cui affascinanti ritratti femminili e una grandiosa Ultima Cena. L’evidente richiamo a Leonardo Da Vinci non è l’unico omaggio alla storia e alla cultura italiana, ricordata anche in molti riferimenti letterari e architettonici.

Quando il Principe dichiara guerra al confinante casato dei Montaza, da sempre ostile, il nano ottiene di arruolarsi e di partecipare alle battaglie più cruente, saziando così la sua brama di sangue e di fama: “Voglio combattere, voglio uccidere! Non per procurarmi la gloria, ma per il piacere dell’azione, della gesta in se stessa. Voglio veder cadere uomini, vedere morte e distruzione attorno a me, là dove sono”. In seguito all’armistizio e alla proposta di pace imposta dalle grandi potenze nazionali, la Signoria mette in atto un diabolico piano di soluzione finale, avvelenando gli avversari durante un finto banchetto di riconciliazione: sarà proprio il nano a doversi occupare materialmente dell’eccidio. I terribili avvenimenti che ne seguono (un nuovo conflitto e il diffondersi della peste in città) provocano nell’animo del protagonista-narratore il radicalizzarsi di sentimenti estremi, sottolineati dal reiterato utilizzo degli stessi sostantivi: nausea, ripugnanza, disgusto. Le sue azioni, sempre più scellerate, lo condurranno a essere imprigionato e torturato, mentre l’intero suo universo mentale e sociale cade a pezzi. La figura abietta del nano, con la totale mancanza di pietà e di scrupoli morali che lo caratterizza, incarna l’abiezione dei tempi tragici in cui Lagerkvist compose il romanzo, che a ottant’anni di distanza mantiene tuttora la sua carica di dirompente denuncia morale, e continua a dimostrare una pregevole qualità di scrittura.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 17 marzo 2022