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RECENSIONI

AAVV – POESIE SUGLI ALBERI

AAVV, POESIE SUGLI ALBERI – GARZANTI, MILANO 2022

L’antologia recentemente pubblicata da Garzanti in cartaceo e digitale, a cura di Giuliana Mancuso, raccoglie un’ottantina di Poesie sugli alberi scritte da autori internazionali di tutte le epoche, a partire da Petrarca per arrivare ad Antonia Pozzi. Proprio il nostro grande aretino inizia il catalogo arboreo rendendo omaggio a una “giovene donna sotto un verde lauro”: alloro definito “dolce, duro, vivo, ben colto”, essendo comunque evidente che l’attenzione del poeta si volge più che alla vegetazione a “’l bel viso e le chiome” dell’amata. Matteo Bandello, brindando in allegria, esalta la “nova vite” che dona “uve gialle”. Tra i romantici, l’inglese Charlotte Smith ringrazia il rude olivo, dai sacri rami emblema della pace: “Sebbene i tuoi pallidi fiori essenza non effondano / Nell’aria che i venti sollevano, / In te risiede il vero valore”; Goethe apprezza l’esotico Ginkgo biloba; il sognante Hölderlin loda le querce, figlie del monte, “liete e libere dalle possenti radici” (“Ma voi, voi querce gloriose! Vi ergete come un popolo di titani / Nel mondo addomesticato, e siete solo vostre e del cielo, / Che vi nutre e vi ha cresciuto, e della terra, che vi ha dato la vita”); Novalis ringrazia gli ontani “dai rami frondosi”, che regalano ombra agli abbracci degli amanti; Karl Meyer onora il “Vecchio pioppo tedesco” (un po’ di sano nazionalismo non guasta!), mentre Joseph von Eichendorff ricorda di aver intagliato il nome della sua fidanzata sulla corteccia di un tiglio. Il cantore dei boschi John Clare azzarda una similitudine: “Grande olmo dal tronco spaccato, tutt’inciso e sfregiato, / Simile è il tuo destino a quello di un guerriero!”, e Heinrich Heine si commuove osservando la fredda solitudine di un abete nordico. Poteva mancare nell’elenco Giacomo Leopardi? Malinconicamente segue con lo sguardo il volteggiare di una foglia di faggio. Se Walt Whitman si rispecchia orgogliosamente in una robusta quercia della Louisiana (“E il suo aspetto rude, deciso, vigoroso mi ha fatto pensare a me stesso”), con una sensibilità tipicamente femminile Luise Büchner si accorge che il faggio protegge le specie animali e vegetali più piccole e indifese. Nel classico trio ottocentesco italico, celeberrimo è il verde melograno di Carducci, mentre il mite Pascoli accarezza con grato pensiero l’agrifoglio, e il ricercato D’Annunzio glorifica l’astrusa siliqua. L’imperialista Rudyard Kipling ossequia tutti gli alberi che “adornano la vecchia Inghilterra”, mentre più modestamente la lombarda Ada Negri celebra l’albicocco del suo giardino: “Nei tre più alti rami / fiorì, leggero: in sua bianchezza alata / ride all’azzurro con stupor d’infanzia”; anche l’americana Amy Lowell si rivela affezionata al melo. Chissà se le due poetesse preparavano nelle loro cucine – come me! – conserve e marmellate, e per questo dimostravano riconoscenza agli alberi da frutto… Rilke raffinato e altero amava gli alti cipressi scuri, il solare Machado le palmette nane e l’arancio, il sensuale Lawrence il mandorlo in fiore, l’estenuato Lorca il limoneto. Infine la giovane, dolce, infelice Antonia Pozzi scriveva versi tristemente premonitori: “Io / sotto l’abete / in pace / come una cosa della terra, / come un ciuffo di eriche / arso dal gelo”…

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › Poesie-sugli-alberi           5 giugno 2022

RECENSIONI

DIANA

MASSIMO DIANA, UNDE MALUM? – MIMESIS, MILANO-UDINE 2022

Massimo Diana, filosofo e psicanalista, nelle sue numerose pubblicazioni si è interessato della relazione reciproca tra religioni, pedagogia, psicologie del profondo e filosofie. Il suo ultimo lavoro, Unde malum?, indaga l’enigma della distruttività umana, come suggerisce il sottotitolo del volume da poco uscito presso le edizioni Mimesis.

Prendendo spunto dall’interrogativo metafisico di S. Agostino, Diana esplora, alla luce dei più efferati episodi di violenza succedutisi nella storia dell’umanità, e in particolare nell’arco dell’ultimo secolo, origini-motivazioni-conseguenze delle scelte consapevoli di distruzione messe in atto da individui, popoli e nazioni nei confronti di altri individui, gruppi etnici o religiosi, definiti nemici. Basandosi su documenti e statistiche aggiornate, l’autore evidenzia come dall’inizio del ’900 fino ai giorni nostri gli abissi del Male abbiano sfiorato la catastrofe, avvicinandosi alla soglia del baratro.

Il raffronto tra il numero delle vittime di guerra nell’800 e nei cento anni successivi è sconvolgente: circa 7 milioni nel XIX secolo, 180 milioni nel XX, conteggiando i caduti militari e civili delle due guerre mondiali, i genocidi, le rivoluzioni, le carestie ed epidemie conseguenti ai vari conflitti. Il coinvolgimento popolare nelle vicende belliche novecentesche è derivato non solo da un contagioso entusiasmo paranoico, da una forte mobilitazione propagandistica e dalla diffusione capillare dei mezzi di mobilitazione di massa, ma anche dall’abilità persuasoria di feroci capi di stato, militari, dittatori, in grado di utilizzare – attraverso il terrore e le minacce – abili tattiche manipolatorie, istigatrici di fanatismi ideologici producenti l’isterico accecamento dei singoli e la loro ottusa ubbidienza.

Diana analizza le personalità di Hitler, Stalin e altri criminali attraverso la ricostruzione delle loro infanzie, che mostrano caratteristiche simili, con madri formalmente protettive ma poco affettive, padri violenti e soverchiatori che li resero inidonei a creare relazioni solidali ed empatiche, spingendoli in spirali di insicurezza, timore e desiderio di rivalsa e sopraffazione. Ovviamente, nessun evento storico può essere spiegato esclusivamente in termini psicologici: “non è sufficiente uno psicopatico paranoico per scatenare l’inferno e provocare una catastrofe”. L’inasprirsi di qualsiasi crisi sociale ed economica diventa terreno fertile alla trasmissione nella mente collettiva di concetti e comportamenti prevaricatori, producendo una regressione della condotta individuale e la tendenza all’aggregazione, in una sorta di infezione psichica dilagante.

Il male, l’istinto devastatore, la ferocia hanno contraddistinto le azioni degli uomini dal sorgere della civiltà: ce lo racconta la Bibbia, con il fratricidio di Caino, i soprusi narrati in Genesi, la strage degli innocenti compiuta da Erode. Ce lo raccontano tutti i miti e le saghe nordiche e orientali, a dimostrazione di quanto la brutalità, le prepotenze, le angherie immotivate abbiano da sempre trovato spazio nella psiche degli esseri umani.

Ma la tesi veementemente sostenuta da Massimo Diana, attraverso un’approfondita analisi delle fonti scientifiche e letterarie, è che violenza e distruttività (verso se stessi e gli altri) siano reattive e non innate, dovute in massima parte a carenze o anomalie di cure adeguate ricevute nella primissima infanzia. Alla base dei comportamenti aggressivi si trova in genere il disturbo paranoico, definito come psicosi caratterizzata da deliri sistematici, manifestanti sospettosità, diffidenza, isolamento, sindrome di accerchiamento. Tale affezione agisce anche a livello sociale, in quanto contagiosa, inconsapevole di sé, incapace di autocritica e di assunzione di responsabilità. L’intera storia umana, contraddistinta da un’interminabile sequenza di vessazioni e crudeltà, può essere interpretata attraverso la chiave di lettura della paranoia, che nel suo esternarsi utilizza i meccanismi della pseudospeciazione (la difesa irrazionale e accanita della propria specie, o razza, o nazione, ritenuta superiore alle altre), dell’individuazione e del conseguente annientamento di un capro espiatorio.

Scaricando le proprie colpe e implicazioni illegittime all’esterno e su altri soggetti, il potere paranoico riesce abilmente a far regredire la collettività nella lucida follia del branco.

Nel terzo, vibrante e appassionato capitolo del libro, Massimo Diana individua le radici del Male nel diniego dell’infanzia: “La distruttività e la violenza gratuita e intraspecifica non sono qualcosa di innato, di tristemente caratteristico della specie umana, perché sono reattive: sono infatti la reazione della psiche all’infanzia negata, non riconosciuta, abusata, violentata, perseguitata, sacrificata. Sono la reazione della psiche a un trauma, inteso in una duplice accezione: come evento particolare nella storia biografica di alcuni individui (molti, più di quanti possiamo immaginare), e come parte integrante dell’esperienza umana, momento di passaggio ineludibile nel divenire umano… Le persone non nascono cattive ma lo diventano perché qualcun altro ha fatto loro del male… I bambini maltrattati diventeranno adulti maltrattanti… Quanto accade nell’infanzia finisce per congelare (fissazione) il vissuto traumatico e costringe a ripeterlo (coazione a ripetere) nel disperato tentativo di incontrare uno sguardo capace di comprendere e di medicare l’antica ferita”.

Nella contemporaneità si è diffusa in modo preoccupante la figura dell’“uomo senza inconscio, che non sa mettersi in relazione con i propri paesaggi interiori… che non ha avuto la possibilità di riconoscere e integrare i propri vissuti emotivi” e di conseguenza non sa sintonizzarsi sul mondo emotivo degli altri. L’uomo senza inconscio, poco accolto e non accudito amorevolmente nei primissimi anni di vita, “è estremamente vulnerabile al contagio psichico provocato da leader paranoici, e predisposto a scivolare nella logica folle del branco, nella psicologia arcaica della massa”.

Diana rivolge parole molto severe alla “pedagogia nera” in auge fino a pochi decenni fa, che induceva i genitori a usare metodi coercitivi per “addestrare” i figli, inibendo il loro naturale istinto vitale in nome di una pretesa correttezza comportamentale.

Come guarire dal malessere interiore, come rimediare alla ferita sofferta da piccoli, non riconosciuta e infine rimossa? Le due strade suggerite dall’autore sono la terapia e l’educazione. Gli adulti devono riparare il danno ricevuto nell’infanzia in modo da non trasmettere sofferenza alle generazioni future, e possono farlo solo attraverso il recupero di una relazione terapeutica che li aiuti a superare la tendenza schizo-paranoide alla proiezione/evacuazione all’esterno dei propri nodi interni irrisolti: “Solo adulti liberati e liberi saranno in grado di liberare”. Gli ultimi capitoli di questo libro “difficile” (come viene definito dallo stesso Diana nell’introduzione) sono dedicati appunto alle risposte da opporre al Male, per medicarlo, trasfigurarlo e trasformarlo in senso generativo, con l’aiuto di terapeuti e di educatori capaci di azioni non direttive, non violente, non traumatiche.

Riuscire a fare di noi stessi qualcosa di quello che Altri ci hanno reso: da essere semplici oggetti del desiderio di Altri, dobbiamo imparare a diventare soggetti autonomi, artefici del nostro destino, partendo da un processo di riscrittura della nostra infanzia (se è stata problematica o sofferta), guidati da una figura che sia “in grado di intercettare empaticamente e di curare efficacemente le ferite altrui”, ma diffidando di facili e illusorie scorciatoie proposte da sedicenti maestri spirituali.

E in quanto genitori, il primo necessario compito da porsi è quello di accogliere, ospitare, sostenere e contenere con affettuosa premura e disponibilità totale il bambino, difendendolo nella sua estrema fragilità e vulnerabilità, soprattutto nei primi due anni di vita. Trascorsi i quali si può iniziare il percorso formativo e dell’attenta correzione, che sempre devono fondarsi su sentimenti di fiducia e positività, in modo da garantire ai piccoli uno sviluppo sereno. “Se i bambini crescono in un ambiente felice, se vengono educati alla libertà, nella libertà, non covano dentro di loro alcun motivo per agire odio e violenza, non sono costretti a divenire distruttivi verso se stessi, verso gli altri o verso entrambi… Questa è la rivoluzione che ci attende se vogliamo un futuro migliore o, più semplicemente, un futuro”.

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 2 giugno 2022

 

 

 

 

RECENSIONI

STASSI

FRANCESCA STASSI, CI SALVERÀ LA TENEREZZA – LA QUADRA, BRESCIA 2022

Nella lettera apostolica “Patris Corde” del dicembre 2020, Papa Francesco scriveva che “solo la tenerezza ci salverà… è la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi”. Non so se consapevolmente o meno, Francesca Stassi ha ripreso le parole del Pontefice, e soprattutto l’indicazione che ne deriva, nel suo libro di aforismi e poesie, intitolato appunto Ci salverà la tenerezza.

L’idea, o la speranza, che qualcosa di immateriale possa riuscire a riscattare la sofferenza e la crudeltà della storia umana, e delle piccole storie personali che tutti noi patiamo, era già stata espressa da Dostoevskij, che attribuiva invece alla bellezza il gravoso compito di guarire il mondo, di redimerlo dal male.

Ma la tenerezza a cui affida la sua utopia Francesca Stassi è puramente, completamente umana, e si esplica nel campo dei sentimenti più delicati e fugaci: quelli d’amore. Amore per l’amato, in primo luogo: atteso, desiderato, cui affidare pensieri confidenti e grati: “Non conosco chiesa / più grande del tuo abbraccio, / altare più sacro del tuo sguardo”, “Sei la spina / a cui il mio cuore / è appeso / ferito mille volte / e mille volte arreso”, “Ho bisogno del tuo raccolto / per affrontare il mio inverno / la mia dispensa è vuota”, “E se fosse vero che tu sei me / e io sono te / e voliamo con le stesse ali / cadendo senza farci male”, “Succedimi adesso / come per caso / senza che ne sappia niente / senza averti implorato”, “È una lunga attesa / di giorni di mesi / poi stare insieme / e non dirsi niente”.

Leggendo questi versi, ne percepiamo con immediatezza l’assoluta trasparenza, l’incapacità di finzione, e la volontà di abbandonarsi a una sonorità elementare che sappia rispecchiare entusiasmi e malinconie proprie della giovinezza. Francesca Stassi è nata a Catania nel 1963, ha iniziato a scrivere poesia in età matura, eppure ritroviamo nel suo modo di rivelarsi alla pagina la freschezza e l’ingenuità di chi crede nella scrittura senza infingimenti, senza filtri. Priva di artificiosità letteraria, la sua poesia è diretta espressione dei sentimenti, e mai meditata costruzione formale, studiata elaborazione strutturale.

Danno la stessa impressione anche i testi in cui l’autrice parla di sé, ritraendosi sia nei momenti di più convinta e vivace affermazione del proprio io, sia quando confessa una sconcertata esitazione, un turbamento nel non riuscire a trovare il proprio spazio di donna: “Ho voglia di colori / come se qui fosse un lungo inverno / deciso a rimanere per sempre”, “Ci sono giorni / che sul vestito / ho già le idee chiare / ma è sul volto / che non so cosa indossare”, “Stanno proiettando la mia vita / ed io fuori a cercarne un’altra”, “Ho mille volti, / età diverse, / scatole con altre vite / tra i capelli: / rossi, neri, castani, biondi. / Sono tante donne indefinite. / Sono antica”.

Nei versi di Francesca Stassi troviamo un’adesione spontanea e felice agli aspetti luminosi dell’esistenza, nella convinzione ribadita che ogni attimo, ogni ora, ogni giorno vada goduto nella sua pienezza: ma oltre a questo c’è la consapevolezza della fugacità della vita, del suo implacabile e severo scorrere verso la fine. Allora il timore di perdersi, e di perdere l’amore e la bellezza sognati, trova nella sapienza aforistica la sua manifestazione: “E quando avrò compreso quasi tutto / sarò casa abitata / perché nulla riempie più delle domande”, “Il buongiorno / è quella foglia stanca / che pur cadendo / non pensa di morire”.

Solo la tenerezza, recuperata nel tempo vissuto e da vivere, e nelle parole affidate al foglio bianco, può salvarci e salvare dal nulla quello che amiamo.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Ci-salvera-la-tenerezza-Stassi      1 giugno 2022

RECENSIONI

HARDY

THOMAS HARDY, L’OROLOGIO DEGLI ANNI – ELLIOT, ROMA  2022

Con traduzione, prefazione e note di Edoardo Zuccato, la casa editrice Elliot pubblica una scelta di poesie scritte da Thomas Hardy tra il 1857 e il 1928. Il titolo dell’antologia, L’orologio degli anni, è tratto dalla composizione omonima, in cui uno Spirito offre a un vedovo la possibilità di rivedere la moglie defunta nell’età da lui scelta. Ma il desiderio espresso dall’uomo non viene esaudito, e il fantasma evocato regredisce dalla maturità fino all’infanzia e al dissolvimento nel nulla.

Si tratta di un testo esemplare dello stile e delle tematiche privilegiate dall’autore inglese (1840-1828), che anche nei famosissimi romanzi (Via dalla pazza folla, Tess dei d’Uberville, Jude l’oscuro) prediligeva la narrazione di episodi minuti e frammentati, le immagini rapide e poco convenzionali, le descrizioni di interni ed esterni inospitali e quasi minacciosi. La relazione tra passato e presente, ugualmente insoddisfacenti se non addirittura tormentati, anima ossessivamente la maggior parte delle poesie, in cui la consapevolezza dell’irrecuperabilità del tempo trascorso, avvertita nella sua feroce ingiustizia, rende impossibile vivere con serenità un presente mutilato delle sue radici. Ogni perdita è irreparabile, e la memoria non riesce ad addolcire o salvare il ricordo, se non falsandolo per renderlo ancora più amaro e affollato di rimorsi.

L’approfondita introduzione di Zuccato insiste molto sull’importanza che gli avvenimenti biografici del poeta hanno avuto sulla sua produzione letteraria: la nascita clandestina, l’infanzia trascorsa in una famiglia modesta e priva di cultura, gli studi interrotti, i due matrimoni entrambi travagliati per ragioni diverse. Il senso di estraneità vissuto sia nella provincia originaria sia in una Londra avviata a una celere trasformazione industriale e cosmopolita, lo aveva reso aspramente critico nei riguardi della società, spietata nelle sue dinamiche di oppressione delle classi e degli individui più deboli e sfortunati.

In questa raccolta sono ricorrenti le rappresentazioni di funerali, tombe, spettri e reincarnazioni, e contesti in cui i protagonisti vengono ingannati, illusi, abbandonati o traditi nel loro fiducioso relazionarsi al prossimo e alle vicende della vita. Anche il rapporto con il destino individuale e storico è infatti problematico, poiché Hardy (agnostico, fatalista, darwinista), riteneva la realtà mossa da forze cieche e feroci, insensibili alle sofferenze di un’umanità innocente e incapace di difendersi.

L’ingenua freschezza di queste poesie esercita anche oggi sul pubblico un fascino discreto, per l’attenzione sensibile agli eventi minimi di vissuto quotidiano, nel reiterarsi di pochi e fondamentali contenuti. La natura (Guardando fuori all’alba stagno, / campo, gregge, albero solitario, / sembra mi fissino tutti / come bimbi in castigo in classe, muti”), caratteri umani particolari (“Le lasciavamo fare come voleva, / Judy era pazza, lo si sapeva), gli oggetti (“Scricchiola, legnetto, scricchiola, / se ti tocco con i gomiti o le ginocchia, / è il tuo modo di parlare / di quella che a me ti donò”), il tempo trascorso (“Noi due, io e il Passato, governavamo la casa, / io e il Passato; aleggiava su ogni cosa da fare / senza mai lasciarmi solo”), l’amore per la prima e la seconda moglie (“La baciai col pensiero andando / via nel chiarore del mattino: / sul vetro del suo ritratto la baciai: / lei non lo seppe mai”): e poi la crudeltà della guerra, le vessazioni economiche, il dolore della morte, la imperturbabile vastità del cosmo. Secondo Edoardo Zuccato, “Comico e tragico, elegia e satira, lirica e canzone, riflessione filosofica e ricordo si alternano senza un ordito definito, come avviene nella vita”.

La chiarezza del dettato, lodata anche da Ezra Pound, la musicalità ottenuta con un sapiente impiego delle rime, l’utilizzo teatrale di dialoghi e monologhi, hanno reso l’opera poetica di Thomas Hardy facilmente memorizzabile, e proponibile anche didatticamente: citata in eventi pubblici e nei media, è riprodotta in numerose antologie scolastiche. Formalmente, i versi si affidano a una metrica tradizionale, con grande varietà di forme strofiche, seguendo ritmi echeggianti la musica popolare e utilizzando frequenti dialettismi e arcaismi, volti a rendere i testi facilmente accessibili ai lettori coevi, sebbene letti con una certa condiscendenza dalla critica accademica. Ma la presente antologia rende giusto merito a un grande narratore che ha voluto e saputo misurarsi con la voce intima ed essenziale della poesia.

© Riproduzione riservata               «L’Indice dei Libri del Mese» n. 6, giugno 2022

 

RECENSIONI

SEUSS

DIANE SEUSS, LA RAGAZZA DALLE QUATTRO GAMBE – ENSEMBLE, ROMA 2021

Premio Pulitzer 2022 per la poesia, la statunitense Diane Seuss è stata pubblicata per la prima volta in Italia dalla casa editrice romana Ensemble, con il volume La ragazza dalle quattro gambe. L’introduzione di Alessandra Bava, che ne ha curato la traduzione insieme a Maria Adelaide Basile, parla esplicitamente per questo testo di “invenzione    di una nuova forma poetica americana”. La poeta stessa ha infatti coniato per la propria scrittura l’espressione freaking form, intendendo con ciò di aver voluto “apprendere forme tradizionali per usurparle, rovesciarle, riutilizzarle”, facendo dei suoi versi una sorta di scherzo di natura.

E agli scherzi di natura, alle deformità, ai deragliamenti da regole e consuetudini è dedicata anche la presente raccolta, il cui titolo rimanda all’infelice figura di Myrtle Corbin, nata nel 1868 e affetta da dipigo, il cui corpo terminava con due bacini e quattro gambe. Diventata nel 1913 una delle attrazioni più celebri del Circo Barnum, a lei è dedicato il testo conclusivo del libro (Is there still a Betty in this new life?): “Per aver visto lungo la strada per Ramptown, le gambe in più penzolare / inutili tra le cosce delle altre due, inutili come un usignolo / meccanico, inutili come la frangia del tuo kimono transilvano, / cantai sottovoce // … le tue gambe non erano petali o viticci come avevo creduto,     // ma sfrontate, i tentacoli aberranti sotto la veste di una regina segreta”.

Nata in una small town del Michigan nel 1956, rimasta orfana di padre a sette anni, dopo il liceo Diane si trasferisce a New York, lavorando come segretaria e scrivendo romanzi rosa e pornografici per mantenersi. Si introduce nello spietato mondo artistico della metropoli, unendosi agli adepti di William Burroughs e Andy Warhol. Alla morte del suo compagno per overdose, torna a vivere nel Midwest, si laurea in Scienze Sociali presso il Kalamazoo College, dove continuerà a insegnare scrittura creativa per trent’anni.

L’ambiente sociale in cui ambienta i suoi versi è quello miserevole dell’infanzia, con strade sterrate, paludi infestate da cicale, paesi semideserti, pochi negozi, qualche pollaio e la morte che si aggira tra imprese di pompe funebri e cimiteri. La sua adesione anti-intellettualistica al mondo degli emarginati deriva da una concreta esperienza esistenziale, come afferma in una orgogliosa dichiarazione di poetica: “Ritengo che il mio lavoro possa essere definito come punk rurale. Emerge dagli spazi rurali alla ricerca della durezza, della stranezza, dell’assurdità, della tigliosità, della rabbia e del dolore di ogni cosa in contrapposizione alla rusticità. La ruralità non è meno punk dell’urbanità. La mia estetica è quella delle carcasse di animali investite. Dei fantasmi che fumano sigari lungo le sponde del fiume”.

La campagna, infatti, fa da sfondo alla maggior parte delle composizioni, mantenendo nel suo rivelarsi qualcosa di minaccioso e di putrido, persino nella sua colorata e lussureggiante fertilità: “nella merda di falco, nella borragine, nel crescione, / nella licnide, nella vite americana, nella fitolacca, nella phryma, nel convolvolo, /  nel trifoglio e nel fiore di caprifoglio, bianco come osso bollito”, “Gli iris si alzano su steli carnosi, / i boccioli ancora avvolti in qualcosa di simile a cartine, / il viola che passa attraverso, il colore delle viscere”, “Qui, a metà maggio,  passato il fiore degli anni, / i tulipani ingialliti e spampanati come cose trascinate a riva, / e le ragazzacce si sono tolte gli abiti da sposa, hanno fatto ricadere le tette, / hanno allentato i loro strascichi. La bellezza era un fardello, dopo tutto, / non è vero?”, “Ricordi quella primavera? La brezza odorava di preparato per torte / e di un certo non so che di sodomia nell’aria. Forse era la spirea, / che olezzava di spermatozoi e detersivo al pino”.

Dalla desolazione campestre del Michigan, ancora più squallida negli interni domestici, al feroce abbruttimento del periodo newyorkese, Diane Seuss sembra non volersi risparmiare nulla in infelicità e abiezione: a sfregio di ogni facile e privilegiato perbenismo, sceglie l’abisso, il degrado, e la provocazione diventa per lei bandiera.  Il rifiuto riguarda ogni cosa, dalla banda degli amici punk all’intellettualità di moda, dalla maternità alla religione (“Dio ha persino il voltastomaco per le preghiere / dei credenti. Sono sudaticce e ampollose, / non come stalker ma come guardoni, che propendono / all’introversione e alla balbuzie”). Soprattutto respinge l’idea di morte, dopo che quella paterna ha tormentato il suo immaginario infantile, lasciando in lei cicatrici indelebili: “i tumori di mio padre / sbocciavano come i palloncini nei cartoni animati”, “quando / ero bambina, la bara nera di mio padre mi ricordava // un piano. Un piano senza tasti. Ero abbastanza / giovane da credere che fingesse di essere morto / e i miei // incubi erano colmi della sua strana resurrezione, / braccia cariche di gigli bianchi”.

Finché, per salvarsi, decide di anestetizzarsi, cementandosi: “Non c’era sollievo a essere / umana e così mi trasformai in pietra   / e ora non provo sollievo / a essere una pietra. Non / ho scelto di essere pietra”.

Nella postfazione, Maria Adelaide Basile insiste giustamente sullo stile immaginoso delle frequenti metafore usate da Diane Seuss, sempre visivamente plastiche, mescolanti realtà e magia, storia e affabulazione. Le immagini che ci scorrono sotto gli occhi sono nitide e oniricamente svianti, nel loro variopinto anarchismo, capaci di suscitare inconciliabile rabbia, e umanissima pena.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 maggio 2022

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HANDKE

PETER HANDKE, DI NOTTE, DAVANTI ALLA PARETE CON L’OMBRA DEGLI ALBERI – SETTECOLORI, MILANO 2022

Un titolo lungo e suggestivo, quello che Peter Handke ha scelto per il corposo ultimo libro pubblicato in Italia, a indicare un tempo e un luogo determinato, di assorta meditazione ed essenziale solipsismo: Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi. Segni e presagi dalla periferia 2007-20015. Handke, nato in Carinzia sul confine tra Austria e Slovenia nel 1942, non è un autore facile, e ha fama di non essere persona facile. Drammaturgo, sceneggiatore, romanziere, poeta, saggista, premio Nobel nel 2019, ha lasciato il paese nativo, che sentiva estraneo alla propria vulnerabile sensibilità e scontrosa irriducibilità ideologica (come altri due straordinari scrittori austriaci del ’900, Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann) per girare il mondo, e infine rifugiarsi nei dintorni di Parigi, a Chaville, dove pare condurre una vita eremitica.

La casa editrice milanese Settecolori propone ora, con traduzione e cura di Alessandra Iadicicco, una densa raccolta di appunti diaristici, aforismi, riflessioni, bozzetti, scritti con stile pacato ed evocativo, colto e lieve, e inframmezzati da disegni, schizzi stralunati, fantasiosi arabeschi. Scrutanti l’abisso del pensiero sono perlopiù le riflessioni cui Handke si abbandona nel suo quotidiano peregrinare materiale e spirituale, in un continuo scandaglio emotivo e filosofico, di domande e risposte indaganti le forme della solitudine (“Essere soli non è una buona cosa – a prima vista”, “Mi piace così, da solo. – E hai ragione”), dell’assenza (“Verbo per l’assenza: lascia rinverdire”), dell’introspezione (“Dunque io resto un filosofo camuffato?” “Visto abbastanza? Ascoltato abbastanza? Niente affatto”, “Non c’è niente di grave, a parte me”).

Altri frammenti sono esortazioni morali, moniti didascalici, prescrizioni di comportamento, suggerimenti benevoli: “Accrescere l’esistenza”, “Buttare via molto più spesso, e con leggerezza!”, “Il tuo pensiero deve essere un rammentare”, “Non restare lì dove sei capitato”, “Si impara anche quando non si impara”, “Tu non ti stupisci abbastanza!” Chi scrive sembra avvertire come un dovere il proprio ruolo di maestro, di esempio e sprone educativo, volto ad allargare i confini ristretti dell’esistenza domestica, ampliando gli orizzonti mentali, sviluppando il respiro della coscienza in chi legge.

Alla stregua di una pratica ascetica, il semplice camminare, il girovagare solitari nella natura, il “Wanderung” celebrato letterariamente da molti scrittori di lingua tedesca, diventa cura dell’io, oltre che premura-attenzione-gratitudine per l’ambiente: “Devo arrivare così lontano da poter andare ancora oltre”, “Camminare, andare a prendere un volto”, “Ieri ho camminato lungo i margini – che cosa voglio di più?”, “Per gradi: vagare per piacere – vagare alla ricerca – vagare”. Uscire di casa, passeggiare da soli, senza meta, concentrati su ciò che accade dentro e fuori di sé, diventa controllo delle emozioni, e insieme libertà di espressione fisica, esercizio di membra e meningi.

Moltissime sono, tra le prevalenti intuizioni personali, anche le citazioni da autori classici e contemporanei, da film, musiche, proverbi, a significare che persino un premio Nobel ottantenne non smette mai di cercare saggezza, imparando dal passato, interrogandosi sul presente.

I disegni riportati nel testo, in bianco e nero, o colorati con pastelli scuri, riproducono in genere alberi e varia vegetazione, pioggia e ghiaccio sui vetri, oggetti casalinghi, visi umani con espressioni stupefatte o malinconiche: raffigurazioni comunque consone al tono meditativo e raccolto del narrato, “strategia per attingere una rivelazione”, come sottolinea la curatrice. Nell’ultimo schizzo è effigiato il rosone di Notre Dame de Paris, in data 13 novembre 2015, giorno degli attentati terroristici nella capitale francese, perché la storia collettiva non deve rimanere esclusa dal vissuto privato.

Un’ultima considerazione su questo importante e necessario volume va doverosamente fatta riguardo all’approfondita postfazione della curatrice Alessandra Iadicicco, che ricostruisce con appassionata competenza tutto il percorso biografico e intellettuale di Peter Handke, postillato da ben nove volumi di diari già pubblicati e da centinaia di taccuini inediti, in cui – parallelamente alla copiosa attività letteraria ufficiale – lo scrittore reagisce tramite la parola a ogni accadimento personale, percezione, impressione, sentimento: non utilizzando la pura descrizione, ma attraverso i riflessi che di essi serba il linguaggio. Nei Tagebücher (vero e proprio libro d’ore) di cui ci occupiamo, disegni e parole trascritti tra il 2007 e il 2015 si affiancano e sovrappongono, offrendosi reciprocamente bellezza, quando anche l’ombra degli alberi nella notte diventa palpabile illuminazione.

 

© Riproduzione riservata                  25 maggio 2022

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RECENSIONI

GUALTIERI

MARIANGELA GUALTIERI, L’INCANTO FONICO. L’ARTE DI DIRE LA POESIA –EINAUDI, TORINO 2022

Di cosa è fatta la poesia? Ovviamente, di parole. Ma anche di silenzio. Silenzio che circonda le parole, ne attutisce o amplifica suono e significato. È fatta di caratteri neri stampati sulla pagina. E di bianco, di tanto spazio bianco lasciato intorno, di fianco, sotto ai versi. Che non dicano troppo, che non dicano tutto. Di quali altre cose, sentimenti, sottigliezze, si nutra la poesia ce lo rivela Mariangela Gualtieri nel suo ultimo libro, L’incanto fonico. Da attrice e fondatrice nel 1983 del Teatro Valdoca insieme a Cesare Ronconi, e da poetessa tra le più intense e apprezzate oggi in Italia, nel suo saggio composto di aforismi, meditazioni, suggerimenti, intuizioni e lampi rivelatori, sottolinea l’importanza della resa sonora del componimento poetico. È stata Amelia Rosselli a coniare l’espressione “incanto fonico”, e alla sua arte viene reso omaggio nel volume, insieme a quella di altri eccellenti maestri: Dante, Emily Dickinson, Mandel’štam, Rilke, Celan, Cristina Campo. Poeti che hanno saputo “dinamizzare il verso nella sua vitalità massima”.

Forte della propria quarantennale esperienza sul palcoscenico, l’autrice sa quale sia l’importanza di riconsegnare vocalmente veridicità e tremore alla lettura poetica, quale sia la magia che si instaura quando un pubblico attento e silenzioso viene immerso in un “bagno acustico”: gli astanti, in “stato umanissimo d’ascolto acuto”, diventano testimoni e nello stesso tempo partecipi dell’evento sonoro, vivendolo risonante. Disabituati ad ascoltare poesia, ne sono affamati: “Portano loro denutrizione su poltroncine, la mettono lì spalancata. Portano loro gigante aver fame, aver sete. Nessuno da tempo dava un boccone. Nessuna tetta allattava loro secca terra interiore”.

Attraverso una prosa ellittica, ispirata, sentenziosa e sapienziale, Mariangela Gualtieri ci introduce nel rito del dire e dell’ascoltare poesia, che è tenacemente e sempre costruita su ritmo, timbro, respiro, memoria, pensiero: “Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha”. Costruzione melodica, quindi, e concreta fisicità: “Da pagina a voce… Da mente a corpo”, “La forma sonora del verso passa da intimo della gola, intimo del respiro, strofina corde vocali, aziona diaframma, muscoli tutti della fonazione, sensuale lingua, sensuali labbra e profondità di laringe”. La materialità del dire poesia viene aiutata (a teatro, nelle sale di registrazione, in radio o alla televisione: ovunque siano previsti auditori) dalla “sacra tecnologia” fornita da esperti tecnici, da fonici competenti cui va la riconoscenza dell’autrice, poiché riescono a tramutare la tonalità umana in qualcosa di ultraterreno o di bestialmente ancestrale.

Allora i versi diventano “formule magiche… formule mantriche”, “pezzi di esplosivo capaci di indurre a trasformazione interiore”, riconducendo il vissuto alla sua dimensione più elevata e trascendente. Come suggerisce nella sua ricca produzione poetica, anche in questo saggio Mariangela Gualtieri affida alla poesia un compito di rinascita spirituale: “Sue molte potenze. Esortazione. Illuminazione. Cortocircuiti. Svelamento. Scioglimento di ghiacci interiori. Potenza di affratellamento, comprensione e compassione, risveglio della pietà. Rivolta. Profezia. Eversione. Sanguinamento. Consolazione. Consonanza con l’umano. Con l’armonia ritmica del mondo, del cosmo, del tutto…”

Così, immergendosi in un “mondo aurale orale”, si impara a piangere e a ridere, ad ascoltare e ad ascoltarsi, a “non avere non essere non volere… a esserci pienamente presenti e non esserci… a diventare invisibili”. Questo insegna la voce che dice poesia: “Lasciare zavorra di pensieri. Lasciare desiderio di compimenti, di buon risultato. Rinuncia. Niente esito”. Ciò che si raggiunge è una liberazione, un’apertura: perdono, consolazione, rimedio. “Catarsi si chiama. Come quando la neve appare. Come, svoltato l’angolo, luna improvvisa piena”.

 

© Riproduzione riservata                         «Gli Stati Generali», 23 maggio 2022

 

 

RECENSIONI

WOOLF

VIRGINIA WOOLF, SE TI IMMAGINO QUI SONO FELICE – GARZANTI, MILANO 2022

ùIl primo incontro tra Virginia Woolf (1882-1941) e Vita Sackville-West avvenne alla fine del 1922, segnando l’inizio di una passione amorosa e di un sodalizio culturale testimoniato da un fitto epistolario sparso nell’arco di un ventennio. Vita aveva trent’anni, Virginia dieci in più. La prima godeva già di vasta notorietà, la seconda aveva appena iniziato a pubblicare. Entrambe sposate, non facevano mistero del loro rapporto con i mariti, che non se ne scandalizzavano, esattamente come la società aristocratica, mondana e intellettuale che le accoglieva con stima e cordialità, lontana da condanne e pregiudizi a cui comunque le due scrittrici erano del tutto indifferenti. Il piccolo volume pubblicato da Garzanti, Se ti immagino qui sono felice, raccoglie una selezione delle lettere e dei biglietti di Virginia, insieme ai suoi appunti di diario riportati in corsivo: decisamente più limitata rispetto ad altre ampie proposte editoriali del carteggio uscite recentemente.

La rassegna si apre su una nota della scrittrice londinese (mai stata tenera nei suoi giudizi sul prossimo) che riferisce la prima impressione poco positiva tratta nel corso della cena del 15 dicembre 1922 in cui ebbe a conoscere Vita: “Non corrisponde granché ai miei gusti più severi: florida, baffuta, colorata come un pappagallo, con tutta l’agile disinvoltura dell’aristocratica, ma senza l’arguzia dell’artista… è un granatiere: dura, piacente, mascolina, tendente al doppio mento”. E ancora, in una nota del 15 settembre 1924: “è una perfetta signora, con tutto lo slancio e il coraggio dell’aristocrazia, e meno puerilità di quanta ne aspettassi. È come un chicco d’uva troppo maturo nei lineamenti, baffuta, imbronciata, destinata a diventare un po’ pesante; nel frattempo, cammina su belle gambe, in una gonna ben tagliata, e anche se è imbarazzante a colazione, ha in sé un buon senso e una semplicità … Oh sì, mi piace, potrei includerla per sempre nel mio equipaggio, e se per ipotesi la vita lo permettesse, potrebbe essere una specie di amicizia”. Di nuovo, nel 1926: “Non è intelligente, ma generosa e feconda; e anche sincera”.

L’intimità tra le due donne crebbe nel corso degli anni successivi, in un altalenarsi di emozioni e sentimenti contrastanti, dall’esaltazione alla malinconia, dalla reciproca stima alla rivalità letteraria, dalla gelosia all’esibita e provocatoria indifferenza. Impulsi istintivi alleggeriti comunque da ricche dosi di ironia e spontanea ilarità (“A maggio mi arrufferai i capelli, Tesoro: sono corti come il sedere di una pernice”). Leggono e commentano vicendevolmente i loro scritti, sia nel carteggio privato sia attraverso recensioni, interviste, interventi radiofonici: la casa editrice dei Woolf pubblica i libri della Sackville-West, incoraggiandone la diffusione presso il pubblico britannico. Le prime versioni di Gita al Faro e di Orlando, insieme a bozze di articoli, vengono sottoposti con ansia da Virginia al giudizio critico dell’aristocratica e puntuta corrispondente.

Ma soprattutto nello scambio epistolare diretto si esprime la reciproca dipendenza affettiva e sessuale. Virginia lusinga l’amante con un profluvio di lodi e complimenti: “Come diavolo hai imparato l’arte di essere sottile, profonda, umoristica, arcigna, schiva, satirica, calorosa, intima, profana, colloquiale, solenne, sensibile, poetica e un caro vecchio sciatto cane da pastore…” Pretende da lei dichiarazioni d’amore: “Aggiungi una frase concisa ma esaustiva in cui dici che Virginia è la persona che ami di più dopo tuo marito e i tuoi figli”, “Non sono niente per te, fisicamente, moralmente o intellettualmente?” Ammette i propri dubbi riguardo alla fedeltà dell’amica, che vanta apertamente le proprie conquiste maschili e femminili: “Non c’è più spazio, altrimenti ti proporrei una storia molto malinconica sulla mia gelosia per tutti i tuoi nuovi amori. E quando ti vedrò? Perché sai, adesso ami diversa gente, donne intendo, fisicamente intendo, meglio, più spesso, più carnalmente di quanto ami me”, “Ma tu non mi vuoi. Stai ammaliando, soprattutto con il fascino del tuo titolo e il bagliore delle tue perle, tutti i procioni del Canada”, “La percentuale di lesbiche è in aumento negli Stati Uniti, tutto grazie a te”. Si vendica delle lunghe assenze e dei continui viaggi di Vita (“Tesoro caro, non andare in Egitto per favore. Resta in Inghilterra. Ama Virginia. Prendila tra le tue braccia”), millantando incontri e avventure durante una breve vacanza in Grecia. E confessa candidamente di provare per lei un “affetto infantile e cieco: “Sì sì sì mi piaci. Usare una parola più forte mi fa paura”, “Sono piena di invidia e disperazione”, “Sono la tua interamente devota ma indifesa e inutile creatura”, “Per tutti questi mesi ho vissuto dentro di te – e ora che ne esco, come sei veramente? Esisti? Ti ho inventata?”, “Mi ami davvero? Tanto? Appassionatamente e irrazionalmente?”

Da questa pubblicazione garzantiana non conosciamo come Vera rispondesse all’esibito trasporto della Woolf. Possiamo immaginarla meno coinvolta di lei nella relazione, senz’altro più disponibile ad altre piacevoli esperienze, se diamo credito a una famosa e spesso citata metafora di Virginia: “Be’, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù nello spruzzo di una fontana: la fontana sei tu, io la pallina. È una sensazione che mi scateni solo tu. È fisicamente stimolante e al tempo stesso riposante”. Un’inquietudine sofferta che alla conclusione dell’amicizia la porterà a scegliere di abbandonarsi all’abbraccio acquietante dell’acqua.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 maggio 2022

RECENSIONI

ROTH

JOSEPH ROTH, LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI – GARZANTI, MILANO 2022

La cripta dei cappuccini, uno dei romanzi più (giustamente) famosi di Joseph Roth (1894-1939), fu pubblicato nel 1938, anno dell’Anschluss dell’Austria alla Germania. Insieme all’altrettanto noto La marcia di Radetzky, appartiene al filone “imperiale” della narrativa rothiana, che dalla metà Ottocento attraversa tutta la fin de siècle e la prima guerra mondiale, arrivando all’invasione hitleriana. Ottant’anni di storia europea descritti attraverso i destini individuali dei membri di una nobile e ricca famiglia, i Von Trotta. Uno dei suoi avi, sottotenente di fanteria di origine slovena, aveva ricevuto il titolo di barone e la promozione a capitano durante la battaglia di Solferino (1859), in cui era rimasto ferito facendo scudo col suo corpo al giovane imperatore Francesco Giuseppe. Il titolo nobiliare era rimasto ai Trotta come segno distintivo di prestigio, eccellenza e dignità, di cui si fregiava anche il protagonista e voce narrante del romanzo, il ventitreenne Franz Ferdinand. Figlio unico di madre vedova, il rampollo dei Trotta godeva della sua privilegiata esistenza in un sontuoso palazzo del centro di Vienna: “Ero giovane e sciocco, per non dire sconsiderato. Frivolo, in ogni caso. Vivevo allora per così dire alla giornata. No! Non è esatto: io vivevo alla nottata; di giorno dormivo”. Frequentava il bel mondo della capitale, caffè, teatri, gallerie, dame eleganti e avventuriere, accompagnandosi a una cerchia di coetanei aristocratici: “Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui non intuivamo l’approssimarsi”.

L’inaspettato incontro con il cugino sloveno Joseph Branco, contadino e caldarrostaio, produce in lui una svolta improvvisa: attratto dal comportamento genuino, grezzo ma esuberante del parente appena ritrovato, Franz Ferdinand mette in discussione il proprio stile di vita artificioso e improduttivo: deciso a sperimentare un’esistenza più autentica, lascia la capitale per trasferirsi in Galizia, ospite di un semplice vetturino ebreo, Manes Reisiger. Lo scoppio della guerra lo sorprende in uno sperduto villaggio orientale, convincendolo a lasciare il reparto del Ventunesimo Dragoni presso cui era alfiere della riserva, insieme ai raffinati amici dell’aristocrazia viennese, per arruolarsi nel più ordinario e plebeo reggimento della milizia territoriale in cui militano i nuovi compagni: “Volevo morire insieme con mio cugino Joseph Branco, il caldarrostaio, e con Manes Reisiger, il vetturino di Zlotogrod, e non con dei ballerini di valzer”, convinto che “una morte assurda era preferibile a una vita assurda”. Prende quindi congedo dall’alta società viennese e dalla severa madre, redige il testamento e decide senza alcun indugio di sposare la fidanzata Elizabeth, con cui tuttavia per una serie di contrattempi non riesce a trascorrere nemmeno la prima notte di nozze. Subito spedito al fronte, nel corso di una sanguinosa battaglia contro l’esercito russo viene fatto prigioniero, portato in Siberia insieme agli altri due commilitoni, e lì rimane per quattro anni.

Definisce la guerra “mondiale non già perché l’ha combattuta tutto il mondo, ma perché tutti noi, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo”. Distrutto nel morale e nella voglia di tornare a vivere, quando finalmente torna a casa trova la giovane sposa completamente trasformata, in totale dipendenza sentimentale, sessuale e culturale da un’artista ungherese che l’ha convinta ad aderire a iniziative sperimentali di artigianato applicato. L’incontro commovente con la vecchia madre, ormai sorda e malata, visibilmente estranea alla storia collettiva e però esperta di cose umane, lo aiuta a riscoprirsi figlio, più che marito e in seguito involontario padre.

La generazione di Franz Ferdinand, votata alla morte ma sdegnata dalla morte, assuefatta alla disperazione, era stata capace di sopportare meglio la sciagura devastatrice del conflitto rispetto agli affanni e alle disgrazie particolari. Risucchiato nell’abisso dei debiti creati dall’attività della moglie e della sua amica, il barone Von Trotta è costretto a trasformare il suo palazzo in una pensione per una decina di pigionanti impoveriti e rancorosi. La sua disfatta umana è racchiusa tutta tra l’incipit e la frase conclusiva del romanzo, tra l’altera asserzione iniziale e la sconfortata ammissione finale: “Il nostro nome è Trotta”, “Dove devo andare, ora, io, un Trotta?”

La  sensibilità cristiano-ebraica attenta alla situazione degli umili e degli sconfitti di Joseph Roth, così perspicace ne cogliere la psicologia dei personaggi e profonda nelle intuizioni etiche e sociali, il suo stile conciso e puntuale, originalmente creativo nelle metafore (il solitario lampione diventa un orfano lacrimevole, l’abete una vedova livida, la piccola stazione un gatto pigro sdraiato sulla neve…) e poetico nella descrizione intenerita della natura e degli sfondi urbani, fanno di questo romanzo non solo una fondamentale testimonianza storica della dissoluzione dell’Impero austroungarico, ma soprattutto un gioiello della narrativa europea del ’900.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 16 maggio 2022

 

 

 

RECENSIONI

NANNI

FILIPPO NANNI, ALLE MIE SPALLE – VALLECCHI, FIRENZE 2022

Quante volte, assistendo a una telecronaca, sentiamo ripetere dal corrispondente la frase “Quello che vedete alle mie spalle”, come fosse un mantra, chiamando lo spettatore a testimone della veridicità di quanto viene affermato, quasi a sottintendere che il giornalismo è sempre foriero di autenticità, limpidezza, illustrazione imparziale di notizie e avvenimenti… Filippo Nanni (Roma, 1958), attualmente vicedirettore del Giornale Radio Rai dopo un lungo periodo passato a Rai News 24, autore di varie pubblicazioni, ha seguito come inviato molti avvenimenti politici, giudiziari, sportivi e di cronaca in Italia e all’estero. A pieno titolo, quindi, è in grado di indicare pregi e difetti di un mestiere non facile, quale quello del reporter, e in particolare del telecronista, nel suo ultimo libro Alle mie spalle. Le notizie in Tv, pubblicato da Vallecchi. A partire da una difesa d’ufficio del racconto televisivo, che “ha caratteristiche particolari, ma non solo può competere ad armi pari con le altre forme di giornalismo, in certi casi riesce ad avere una forza dirompente e diventa quindi ineguagliabile. Questo succede sempre quando è assistito da immagini vigorose e spettacolari”.

Forte della sua lunga militanza a Saxa Rubra, rivela al lettore le modalità con cui si svolgono ogni mattina le riunioni redazionali con i responsabili dei vari servizi da mettere in onda nel corso della giornata, secondo uno schema calibrato in ordine di importanza: cronaca, politica, esteri, società, economia, sport, e buoni ultimi cultura e spettacoli. Indica quali siano le regole fondamentali da seguire per ottenere un efficace reportage, iniziando da una seria documentazione iniziale e dalla verifica delle fonti, per proseguire con la scelta di un set adeguato, fornendo un racconto dettagliato e coerente dei fatti, ma flessibile nella conduzione. Anche il linguaggio del corpo va controllato, senza stazionare immobili davanti alla telecamera, con invadenti primi piani del cronista e degli intervistati. Voce e pronuncia sono poi fondamentali: “Proprio la voce è l’arma vincente per catturare l’attenzione. Il tono consigliato è quello medio basso. Ritmo e pause ben armonizzate conferiscono autorevolezza. Importante anche il controllo della respirazione sollecitando il diaframma”.

Molte e puntuali sono le raccomandazioni rivolte a evitare ridondanze e sciatterie nella comunicazione verbale: assolutamente censurabili sono le frasi fatte, i convenevoli, i luoghi comuni, la retorica, l’eccesso di aggettivazione, il burocratese, le pause ad effetto, gergalismi e anglicismi, domande inopportune, formule di congedo ripetitive, polemiche gratuite, ammiccamenti e sottintesi. Perché mai le persone “tragicamente” scomparse sono sempre definite “solari”? E con quale mancanza di tatto si esplorano i sentimenti di dolore, rabbia, rancore, delusione, di parenti o sopravvissuti a eventi luttuosi? Nanni segnala con asterischi i vari livelli di banalità riscontrabili nelle telecronache cui assistiamo quotidianamente, riportando sarcasticamente le formule rituali più sfruttate, gli intercalari più irritanti (“voglio dire…”), la gestualità di moda (quattro dita sollevate a mimare le “virgolette”). Ecco un divertente elenco di espressioni abusate: “il cerchio si stringe, indagini a 360 gradi, la colonnina di mercurio, il ferito versa in gravi condizioni, la morsa del gelo, l’asfalto reso viscido dalla pioggia, tanta roba, assolutamente, quant’altro…”

Un’altra grave pecca imputabile al giornalismo del piccolo schermo è l’eccessivo ricorso agli “esperti”, chiamati a esprimersi su ogni questione sociale di rilievo: opinionisti, scienziati, militari, criminologi, generici tuttologi (“Ogni giornalista radiotelevisivo può raccontare di aver contribuito ad allargare la famiglia dei nuovi mostri, soggetti con poche qualità che sono riusciti a imporsi a colpi di ospitate”).

Lavoro ingrato, quello del telecronista, oggi minacciato dal proliferare dell’informazione sui social e reso ancora più difficile da stress, fretta, controlli e divieti, competizione e concorrenza. Filippo Nanni, consapevole della sua complessità, lo descrive affettuosamente,  ironicamente, con l’obiettivo di ottimizzarne le potenzialità.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 11 maggio 2022