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RECENSIONI

SELLARS

JOHN SELLARS, SETTE BREVI LEZIONI SULL’EPICUREISMO – EINAUDI, TORINO 2022

John Sellars, docente di Filosofia al Royal Holloway di Londra, è autore di alcuni bestsellers, tra cui The Art of Living. The Stoics on the Nature and Function of Philosophy, in cui invita i lettori, con prosa accattivante e di facile presa, ad affrontare la vita con la saggezza degli antichi. È stato uno dei fondatori di “Stoic Week”, evento globale con cadenza annuale, i cui partecipanti sono invitati a vivere come gli stoici per una settimana, per provare a migliorare la propria esistenza.

Einaudi ha pubblicato un esile volumetto, Sette brevi lezioni sull’epicureismo, che illustra con intento divulgativo il pensiero epicureo, oggetto di molti travisamenti e interpretazioni superficiali nel corso di duemila anni di storia. Con il termine epicureo, infatti, la vulgata popolare intende l’individuo che ama godersi la vita negli aspetti più materiali e grossolani, dal cibo al divertimento, dalla soddisfazione smodata di appetiti fisici a un’eccessiva autoindulgenza. Anche filosoficamente l’epicureismo è stato frequentemente demonizzato come dottrina pericolosa, corruttrice, da associare all’ateismo, all’immoralità, all’insaziabilità dei sensi.

Epicuro, nato e cresciuto nell’isola greca di Samo intorno alla metà del IV secolo a.C., aveva girovagato in diverse città dell’Asia Minore proponendo in lezioni pubbliche i suoi insegnamenti, non sempre accolti favorevolmente, per acquistare infine un terreno fuori dalle mura di Atene, chiamato il Giardino, in cui vivere con amici fedeli un’esistenza serena e autosufficiente. La sua comunità si mantenne rigogliosa per più di duecento anni, e il culto per il fondatore nei secoli successivi si diffuse ovunque, trovando numerosi allievi e prosecutori della sua dottrina, come Diogene e Filodemo in Grecia, e Lucrezio, Virgilio, Orazio a Roma.

Delle tre epistole di Epicuro che ci sono rimaste, la Lettera a Meneceo è la più famosa, poiché tratta di argomenti etici e, più in generale, di come vivere una vita buona e felice. In essa, la filosofia veniva indicata come rimedio terapeutico per ottenere la tranquillità, raggiungibile superando il duplice rischio dei desideri frustrati e dell’ansia per il futuro, rischio determinato dall’incapacità di osservare il reale funzionamento di ciò che ci circonda, e dal timore infondato di minacce inesistenti. Il superamento del dolore si ottiene, secondo Epicuro, attraverso il perseguimento del piacere, attivo (cinetico) e statico (catastematico), sia fisico che mentale: il piacere attivo ha il suo fine nel raggiungimento del piacere statico, in cui non si sentono più desideri incontrollati. Si mangia non tanto cedendo a un senso smodato di golosità, ma per appagare lo stimolo della fame, e raggiungere lo stato di non avere fame. Epicuro stesso viveva in maniera parca e morigerata, nutrendosi di pochi alimenti frugali. Sono però le sofferenze mentali e psicologiche, più che gli appetiti fisici, quelle che agitano maggiormente l’uomo. Se la soddisfazione dei piaceri del corpo è transitoria e facilmente dimenticabile, quella derivante da un godimento intellettuale (una bella conversazione tra amici, una lettura arricchente, una vacanza istruttiva) è invece fruttuosa e duratura. Ciò che si deve raggiungere per essere felici è quindi il benessere mentale statico: non essere ansiosi, preoccupati o spaventati da false paure e superstizioni, in particolare sugli dèi e sulla morte, che sono la sorgente principale del turbamento mentale, in modo da poter vivere sereni, “come un dio fra gli uomini”.

Per arrivare all’ataraxia, cioè alla tranquillità interiore, è necessario ridurre i bisogni all’essenziale, senza vivere assediati dall’avidità e dall’invidia verso il prossimo. I veri amici sono più necessari dei beni materiali, poiché non solo ci donano la gioia di una confortante compagnia, ma possono offrirci sostegno e consolazione nel momento del bisogno. È opportuno inoltre vivere in disparte, senza cedere alle lusinghe del successo e del prestigio politico e sociale. Se ci convinciamo del fatto che tutto l’esistente è composto da atomi, che si fondono insieme e poi si distaccano in movimenti casuali, non solo riusciremo a evitare le paure derivanti da false credenze scientifiche sulla natura, ma saremo disposti anche ad accettare la nostra inevitabile morte come un lungo sonno privo di sensazioni dolorose, e a superare il terrore degli dei, i quali non sono interessati alle vite individuali degli uomini: “Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi”.

Secondo Sellars, Epicuro insieme agli stoici Epitteto e Marco Aurelio è stato uno dei precursori della moderna psicoterapia cognitiva, perché ha insegnato a guarire dalle passioni dell’anima e a vivere con felicità il tempo che i è dato.

 

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10 marzo 2022

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ROMAGNOLI

FERNANDA ROMAGNOLI, LA FOLLE TENTAZIONE DELL’ETERNO – INTERNO POESIA,  2022

Quanti anni devono passare, in Italia, perché una grande poeta venga recuperata dall’oblio, e possa ottenere la considerazione e l’ammirazione che merita, e che già le erano state negate in vita? Di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986) le piccole e raffinate edizioni pugliesi di Interno Poesia pubblicano ora la più ampia scelta di poesie finora mai edita, con una esaustiva prefazione di Paolo Lagazzi: La folle tentazione dell’eterno. Finora, di lei erano uscite solo quattro raccolte, ormai introvabili (Capriccio, Berretto rosso, Confiteor e Il tredicesimo invitato), che avevano suscitato l’interesse di affermati poeti come Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, ma non erano riuscite a imporsi all’attenzione di un pubblico più vasto. Infine Donatella Bisutti aveva curato nel 1997 una silloge di testi inediti, Mar Rosso.

Nata in una famiglia piccoloborghese, Fernanda si era diplomata alle magistrali e poi in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia. Sposata con un militare di carriera, da cui ebbe l’unica figlia Caterina, per alcuni anni aveva insegnato in diverse scuole elementari, dedicandosi poi completamente alla famiglia, seguendo il marito nei trasferimenti di servizio, e tenendosi sempre ai margini del mondo letterario, in una sorta di esilio e auto-esilio determinato sia dalla sua indole riservata, sia dall’indifferenza con cui i suoi libri venivano accolti. L’inappartenenza, l’esclusione, la doppia identità sono in lei temi costanti, quasi a rimarcare la sua volontà di non aderire al teatrino dei rapporti sociali, delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo: “Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / E fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere. / Inetto, benché arda, / a sostenere quel peso di splendori, / si sente grato se qualcuno casualmente / lo guarda. Quando in cuore / si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» / e all’improvviso capisce / che siede un’ombra al suo posto: / che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori”.

Nelle cinquantacinque pagine del denso e coltissimo saggio introduttivo di Paolo Lagazzi, Fernanda Romagnoli viene definita “tragica e struggente, ferita e sublime poetessa” che ha saputo trarre dai suoi versi “brucianti di amarezza, strazio e ribellione… le radici della parola sino a farne una musica misteriosamente capace di coniugare laceranti dissonanze e imprevedibili armonie, duri strappi al cuore e onde d’immensa forza espansiva”.

Se nella raccolta d’esordio, ancora modellata sull’eredità dei classici protonovecenteschi, (D’Annunzio, Pascoli, Carducci), prevalevano arcaismi e preziosismi lessicali, descrizioni naturali idilliache e una religiosità di stampo devozionale, già in Berretto rosso (1965) e in Confiteor (1973) diventano evidenti sia lo stile più personale e maturo, sia i temi che hanno reso la produzione della poeta così riconoscibile ed esclusiva. In primo luogo l’aspirazione a una spiritualità libera dai canoni della cattolicità ufficiale, con il nascere di dubbi e domande relative alla giustizia divina e alla sua riconoscibilità (“Con Lui non abbiamo contatti”, “S’Egli non vuole scendere per me, / per pietà faccia dire al custode / che non darò più fastidio,/ che soltanto mi lasci abitare / – qui – seduta sul primo gradino”, “Lui / sempre più in alto si cela”, “Voi fate gran compianto per Abele, / per lo scaltro innocente, così certo / del consenso divino. / Ad un buio sudore io   penso, al fiele / d’un cuore nella polvere respinto. / Io piango l’altro: Caino”, “Io sono stanca d’essere tutta pura […] // E bianca come una monaca che abiura / mi svesto di te, libertà”). Pur mantenendo un’ansia di ascesi e assoluto (“la folle tentazione dell’eterno”), altrettanto angoscianti e fondamentali si fanno gli interrogativi sulla propria esistenza, sul suo destino di moglie e madre. Costretta nei limiti della realtà quotidiana (“confitta dal limo terrestre / come uno spino”), scissa tra la fedeltà al ruolo domestico, con le abitudini imposte dalla routine casalinga – che la riduceva a vivere come una “massaia dal dito bruciacchiato”, tra “i robot smaltati di cucina”, “in una scolorita veste rossa” –, e un’insopprimibile sete di libertà e indipendenza, confessa il desiderio di evasione per saziare l’ “inappagata sete beduina”: “all’improvviso, / ecco, rinasci intatta una mattina / d’alberi e odori sopravvento […] // Ah, la tua fuga libera, a perdifiato, sotto i piedi”.

Tale profonda inquietudine non era riconducibile solo a fattori contingenti e limitanti della propria quotidianità: il timore di non saper assolvere con pienezza i doveri di moglie e madre, le pulsioni contraddittorie che la inducevano a sognare un altrove più appagante, la nostalgia di relazioni umane autentiche, la non sempre facile comunicazione con il marito (si legga l’amaro bilancio di Tirate le somme), creava in lei laceranti sensi di colpa e di fallimento: “la stigmata che in me sfolgora e dura”.

Nessuna leggerezza nei suoi versi, nessuna addolcente retorica: ma spesso sferzate ironiche e autoironiche, paradossali, sprezzanti, marcate da frequenti incisi, interpunzioni, trattini e parentesi: il rispetto attento della metrica e soprattutto l’uso sapiente delle rime, rendevano comunque la sua scrittura ricca di una composta e cadenzata musicalità. Giustamente Paolo Lagazzi nella prefazione fa riferimento ad autori che possono averne influenzato l’assetto strutturale: in primis Emily Dickinson, ma anche i nostri Betocchi, Penna e Caproni, oltre alla densità concettuale dei testi sacri e dei mistici. Ma le atmosfere e gli esiti stilistici dei suoi versi rimangono assolutamente originali, soprattutto nello splendido libro-testamento Il tredicesimo invitato, del 1980.

Qui, la dissociazione dalla propria figura viene dolorosamente ribadita: “Prima o poi qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva. È di donna straniera / la faccia tra i capelli in giù sporta / che subito si ritira, / l’ombra che dietro le tende / s’aggira di sera, / il passo che viene alla porta / e non apre. Suo il canto / che intriga i vicini coprendo / i miei gridi sepolti. / Qualcuno / prima o dopo lo scopre. Ma intanto…// Lei a proclamarsi non esita, / lei mostra il mio biglietto da visita. / Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta: / testimonianza che mio / era il nome alla porta, ma il corpo / non ero io” (Falsa identità).

L’idea della morte, sua personale a causa della malattia al fegato che l’aveva debilitata per anni, e dei propri cari, come di tutti gli esseri animati e inanimati, si fa via via assidua e angosciosa, nel suo mistero inaccettabile e crudele. Mi sembra giusto dare ampio spazio ad alcune tra le poesie più belle del nostro secondo Novecento, in cui l’idea del distacco, della rinuncia al possesso e all’imposizione del proprio simulacro vivente, diventa un imperativo etico, malinconica e rassegnata accettazione della fugace transitorietà dell’esistenza.

“Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente. / Per migliaia di giorni, / ogni giorno: / all’andata, al ritorno. / Per migliaia di notti, / ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. / Non ci siamo scambiati / niente” (Niente); “Mia madre celebrava la mattina / con un caffè solitario. / Filtravano dalla cucina / neri aromi in un chiaro di gesso. / Toccavano rumori la parete / per farsi indovinare / da me, che silenziosa / sorridevo nel buio «vi conosco!». / Mia madre la mattina / stava sola di là, come Dio / sta sulla terra e sul mare. / Prendeva il giorno nelle sue mani rosse, / assegnava alle cose il loro posto. / Come farà, che adesso / sola fatica delle sue mani è stare / incrociate sul petto” (Rito); “Tagliato in due col suo frutto / il bruco si torce, precipita / nel piatto, ove un attimo orrendo / sopravvive al suo lutto. / Coperto di bucce, sepolto / fra le dolcezze e gli aromi / che amava in vita, gli accendo / sulla catasta l’incenso / della mia sigaretta. / Morte pulita – ed in fretta. / Ma che ne so della via / che il bruco ha percorso in quell’unico / istante di agonia” (Bruco); “I piccoli oggetti, i piccoli / amici-schiavi, che tirano / troppo in lungo la vita! Miei cari, / vi licenzio in tronco. È più dura / forse per me: ma chi monco, / chi gobbo, chi spelato da lebbra; / e il mazzo di chiavi risputato / da ogni serratura. // Gli ipocriti inermi! Bisbigliano / Aiuto, pietà. / E s’uncinano a tutti gli appigli, / a tutti i ricordi come labbra / s’attaccano, come vermi. // Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! / Non sarà un lungo viaggio. / In cantina, il bel dormitorio. / Col teatrino dei topi, il tanfo / del vino, la grata / (tarlata) del parlatorio / per la piuma, per la foglia di passo. / Tra vecchi fratelli… Diciamo / che a noi padroni va peggio, / quand’è l’ora nostra… ma adesso / muoviamoci, andiamo” (Oggetti).

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 7 marzo 2022

 

RECENSIONI

BRE

SILVIA BRE, LE CAMPANE – EINAUDI, TORINO 2022

Più denso e concentrato, più meditato formalmente e ricco di tensioni emotive di quanto non siano le ultime pubblicazioni apparse nell’einaudiana collana bianca di poesia, l’esile volume di versi di Silvia Bre (Bergamo, 1953), pluripremiata poeta e traduttrice soprattutto dall’inglese, si presta a svariate intuizioni critiche. A partire dal titolo, Le campane, che nel rimando a un’immagine tradizionalmente benevola e innocua, quasi da sagra paesana, stride sia con i temi inquietanti, sia con l’ordito linguistico oscuro, avviluppato, del testo.

Costante è il richiamo al senso dell’udito, nell’inventario dei termini ad esso connessi (suono, canto, silenzio, ascolto, voce, orecchio, corda vocale, musica, note, rintocco, ritmo, cori, assoli, rumore, mugolio, rimbombo…). Altrettanto presente l’organo della vista, con i fulminei passaggi tra buio e luce, splendore ed eclissi, trasparenza e opacità. Il contrasto, visivo e uditivo, ha una sua motivazione nella presenza-assenza, vicinanza-lontananza, fatticità-astrattezza del mondo che ci ospita, e da cui siamo contemporaneamente espulsi verso spazi interplanetari abissali, verso tempi oscillanti tra passato remoto e futuro insondabile, con scarsa evidenza del momento presente.

Così, nelle grotte di Chauvet, le pitture parietali risalenti al Paleolitico, primo esempio al mondo di arte preistorica, si propongono come battesimo dell’atto gratuito, di apertura all’eterno. “È l’origine”, elementare desiderio di oltrepassare i limiti della finitezza materiale, proiettandosi in un altrove disincarnato: istintuale, arcaico germe di poesia. La storia si definisce appunto nella consapevolezza di quanto ci ha preceduto e di quanto ci sopravviverà: “discendere da loro / in un destino // nel fumo // negli spazi // essere stati il futuro di qualcuno”.

Dal passato millenario in cui si muoveva l’homo sapiens, alla relatività einsteiniana, fino alla proiezione di un antropocene sconosciuto, in questo rincorrersi delle epoche indifferenti a chi le abita, si schiude uno spiraglio di consistenza umana, il pensiero primordiale della creazione poetica: “Anche ora s’incrina una fessura / tutto il cosmo che passa è / metallo fuso, un ritratto tanto uguale a qualcosa / che mi esalta, creare un gorgo e poi esserne inclusa”. La voce della poesia è sempre testimoniale, “porta incisa una malora / e una resurrezione astrusa”, “l’ambizione incendiaria” di lasciare un segno: “Mi si dica, lo chiedo in ginocchio, / dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra / un gesto di pietà da offrire a un altro / a chiunque, e qualcuno lo ha fatto o lo farà / in un tempo astrale senza saperlo”. Tra la consapevolezza della fragilità della parola, della sua probabile inutilità, e la speranza di servire (a qualcosa, a qualcuno: pronomi indefiniti che si ripetono, proprio a rimarcare l’assenza di un destinatario esplicito), si pone la figura del poeta, presenza gratuita e misconosciuta, ma forse salvifica: “Non sono mai nessuno i poeti – / nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria / pugnalano in lingue il lontano. / Poi l’aurora”. Dicono cose artificiose, eppure indicano una necessità: “tu, meraviglia, / perché ti riconosco, sbandieri / che divampa su tutto, il ritmo antico del tutto”.

Le campane, dunque, diventano metafora di un annuncio di verità, che solo la parola poetica può formulare. È un appello, sebbene monco, imperfetto, che non ha il rilievo e il prestigio della parola politica o filosofica: si accontenta del suono: “dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore, / è un’altra l’unità da pronunciare, ebete, / e non sai quale, non sai farlo”; “da qui si scorge la belva che esiste per sparire / e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo / il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale / che è l’amore sfinito per i giorni, / nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno”.

Silvia Bre nella sua scrittura compressa, elusiva e allusiva, ammette con impudenza la propria difficoltà di farsi ponte tra l’essere e il dire, nonostante sappia servirsi anche di stratagemmi tradizionali, come rime, anafore, endiadi, metonimie, ecc. Rimane enigmatica persino quando si misura con il concreto, con il “mosaico di dolore” dei migranti morti affogati, o della sua città natale, Bergamo, devastata dalla pandemia.

L’oscurità eraclitea del divenire fa di lei una messaggera del transeunte, “profeta dell’inaccessibile con la voce di cera”, la cui misteriosa verità va sviscerata, sgomitolata, per scongiurare che il rintocco lontano delle campane sia un funereo presagio del nulla a venire.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 1 marzo 2022

 

 

 

 

RECENSIONI

FROST

ROBERT FROST, FUOCO E GHIACCIO – ADELPHI, MILANO 2022

Fare i conti con la tradizione, in poesia, significa anche rileggere un classico del Novecento americano: Robert Frost, di cui Adelphi pubblica una corposa scelta di versi, in un volume curato dall’anglista Ottavio Fatica, intitolato Fuoco e Ghiaccio. Titolo che riprende, oltre che il componimento omonimo, una definizione dello stesso poeta: “Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente, la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento”. Fredda, nel senso di razionale e controllata, ma capace di incendiarsi e di incendiare, la poesia deve sapere poi anche sciogliersi, abdicando al proprio ruolo di visionarietà fulminante, per assumere una forma più liquida, arrendevole, indulgente. Chiarezza, compassione, gratitudine per il mistero dell’esserci, sono i tratti unificanti di questi versi, sospesi tra ansia metafisica e attenzione alla concretezza del reale, espressa nei volti e nelle azioni delle persone, nella fisicità dell’ambiente animale e vegetale.

Insignito per quattro volte del Premio Pulitzer, Robert Frost (1874-1963), nato in California, cresciuto nel New England e trasferitosi nella maturità nella campagna del Vermont, dove possedeva una fattoria, dedicò l’intera esistenza alla letteratura, all’insegnamento e all’amore per la vita agreste. Nonostante le numerose tragedie che colpirono la sua famiglia (lutti, suicidi, malattie psichiche, difficoltà economiche), la sua poetica mantenne sempre una serenità di fondo, complice una visione incantata della natura, di cui avvertiva (come Emily Dickinson) l’insita sacralità. Eppure, nella placidità del mondo bucolico rappresentato, non mancano atmosfere cupe, ostili, quasi stregonesche; morti violente, incidenti sanguinosi, cataclismi meteorologici e dissesti finanziari, che trovano però un riscatto e una strategica via di salvezza negli echeggiamenti delle saghe e delle ballate popolari.

Ottavio Fatica, poeta egli stesso e insigne traduttore, nella sua acuta e pungente postfazione, sottolinea quanto le opinioni della critica sulla produzione di Frost siano state ambivalenti, se non addirittura contrastanti. Dal rimprovero di essere il tardo “cantore di una vita rurale da rimpiangere”, autore di versi facilmente memorizzabili, oscillanti tra didascalismo e ridondanza, fino alle accuse di intemperanza, artificio e tendenza ad autocelebrarsi come poeta nazionale (i suoi viaggi come ambasciatore culturale all’estero, e la sua presenza all’insediamento di John Kennedy alla Casa Bianca gli vennero sempre rinfacciati), i critici ideologicamente più impegnati biasimavano la sua estraneità alle inquietudini contemporanee, il disinteresse verso la psicanalisi, l’economia e le conquiste scientifiche. Un po’ la stessa sorte era toccata al nostro Giovanni Pascoli, ritenuto un retorico celebratore degli affetti domestici che mirava a nascondere la sua vera natura di morboso e complessato sessuomane, nell’assurdo tentativo di sminuirne l’eccezionale statura di maestro della poesia italiana novecentesca.

Ovviamente, non si può chiedere a Pascoli di non essere Pascoli, né a Frost di non essere Frost. Robert Frost scriveva “sentimentalmente”, avvicinandosi all’oggetto della poesia con una soggettività interpretativa forse eccedente, naturalmente candida – come ritengono alcuni –, astuta e costruita, come ipotizzano altri. Era questa, tuttavia, la sua maniera di intendere non solo la poesia, ma anche la realtà materiale e spirituale ad essa sottesa. “Il bello sta nel modo in cui lo dici”, affermava, e il suo concetto di bello formale coincideva con l’armonia del dettato, da raggiungere attraverso una spontanea musicalità dei versi. Nella sua copiosa produzione, utilizzava formule tradizionali, senza ricorrere a sperimentalismi linguistici o ad astrusi stravolgimenti sintattici: le rime come elemento strutturale determinante; la metrica abilmente sorvegliata e altrettanto sagacemente tradita; un lessico puntiglioso, concreto, eppure mai appesantito; il parlato svelto e colloquiale; l’immagine precisa ma non pedantemente minuziosa. L’estrema abilità compositiva rende le sue pagine godibilmente fruibili, evitando pedanterie e sfoggi di perizia stilistica, e mantenendo un’immediata freschezza di rappresentazione.

Gli estesi poemetti di impianto teatrale, siano essi monologhi o dialoghi, introducono chi legge in situazioni di forte impatto drammatico: esemplare Morte di un bracciante, in cui marito e moglie discutono animatamente se mantener a loro servizio un vecchio operaio, malato e non più produttivo, che infine viene ritrovato cadavere nella stalla. Oppure il doloroso fronteggiarsi di una coppia che ha perso il bambino, e ne osserva la tomba da lontano, rinfacciando l’indifferenza dell’uno alla sproporzionata afflizione dell’altra. O ancora la lunga confessione di una serva che, dopo aver abbandonato la disgraziata famiglia d’origine, si ritrova in una situazione di sfruttamento ben peggiore; o i due amanti che affrontano di notte l’arrivo minaccioso di uno sconosciuto.

Assumendo di volta in volta prospettive e ruoli narrativi differenti (donna e uomo, giovane e vecchio, padrone e subalterno), Frost regala al lettore squarci di notevole intensità emotiva, in un’atmosfera che rimane sospesa, tra amarezza e ironia, fino a conclusioni inaspettate. In queste composizioni dal respiro più ampio, la traduzione di Silvia Bre, puntuale e riflessiva, accompagna scrupolosamente il testo, animandolo con empatica adesione. Nelle poesie più brevi e liricamente abbandonate, si fa invece razionalizzante e spigolosa, quasi a voler correggere con più sobrietà il cantato dell’originale, attualizzandone la terminologia ed evitando l’esuberanza delle rime ricorrenti. Che invece nella versione di Giovanni Giudici, pubblicata in un Oscar Mondadori del 1988, aveva trovato una rilassata e quasi compiaciuta rispondenza.

La pacata saggezza che ancora oggi ritroviamo nei versi di Robert Frost, più o meno consapevolmente si traduce in un ammonimento morale, a volte esplicito, più spesso velato da allusiva ironia, che la limpidezza e la trasparenza del linguaggio riesce a rendere non colpevolizzante. In uno dei suoi testi più antologizzati, reso famoso dalla voce recitante di Robin Williams nel film L’attimo fuggente, l’indicazione è appunto solo suggerita: “Two roads diverged in a wood, and I – / I took the one less traveled by, / And that has made all the difference”. La differenza che viene proposta da un’arte poco frequentata, marginale, come appunto la poesia.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 22 febbraio 2022

 

 

RECENSIONI

NIETZSCHE

FRIEDRICH NIETZSCHE, POESIE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Le poesie di Friedrich Nietzsche (Röcken, 1844-Weimar, 1900) pubblicate da Feltrinelli in edizione economica nel 2019, con l’approfondito commento della curatrice Susanna Mati, sono presentate in ordine cronologico di composizione, seguendo l’edizione critica di Colli-Montanari del 1967.

Straordinario filosofo che ha rivoluzionato il pensiero politico e morale del secolo scorso, raffinato e originale scrittore, Nietzsche non fu tuttavia un grande poeta: ma ai versi affidò per l’intera esistenza il compito di accompagnare, spesso ironicamente, la propria produzione teorica. Dopo le poesie dell’adolescenza, convenzionali e imitative dei modelli classici tedeschi (ripudiate nella maturità perché giustamente ritenute pateticamente devozionali), il giovane Friedrich si dedicò con spirito più genuino all’aforisma pungente, alla sentenziosità moralistica, per approdare verso i trent’anni a un compiaciuto autobiografismo, attraverso cui amava ritrarre se stesso come der Thor (lo stolto), il pensatore folle, il buffone. In Tra amici sembra insieme sia sbeffeggiare il conformismo di chi lo circonda, sia gloriarsi di una sua maschera provocatoria e sardonica:

“Se ho fatto bene, allora taciamone; / se ho fatto male –, allora ridiamone / e facciamo sempre peggio, fare peggio, rider peggio, / finché nella fossa scenderemo. // Amici! Sì! Così deve andare? / Amen! E arrivederci! //… Onorate in me l’arte dei giullari! / Imparate da questo libro giullaresco / Come la ragione è ricondotta – ‘alla ragione!’”. Dove il libro giullaresco è Umano, troppo umano, del 1878, che riporta questa composizione a conclusione della prima parte.

La prima raccolta autonoma di versi nietzschiani fu Gli Idilli di Messina (1882), i cui modelli formali erano non solo Goethe e Heine, ma soprattutto gli scrittori romantici più popolari, come Brentano e Mörike. Prevalgono, in questa prova d’esordio, bozzetti di figure femminili o fiabesche, immagini campestri, notturni elegiaci, spiritose descrizioni di volatili: temi ricorrenti nei Volkslieder in voga tra le classi più umili.

Al preludio del La Gaia Scienza (1882) appartengono poi un gruppo di rime, intitolate Scherzo, malizia e vendetta, di cui l’amica Lou Andreas-Salomé scrisse: “Su tutti i versi incombe qualcosa che commuove in modo singolare; sono infatti fiori che un solitario sparge sulla propria via crucis per suscitare l’impressione che sia una via della gioia”. Eccone alcuni esempi, da cui si evince l’intento violentemente polemico e derisorio, oltreché autocelebrativo: “Da quando fui stanco di cercare, / imparai a trovare. / Da quando un vento mi fu avverso, navigo con tutti i venti”, “Estraneo al popolo eppure utile ad esso, / seguo la via, ora al sole, ora alle nubi – / e sempre al di sopra di questo popolo”, “Tagliente e mite, rozzo e raffinato, / fidato e singolare, sporco e puro, / un convegno di saggi e di giullari: tutto questo io sono e voglio essere, / colomba e insieme serpente e porco!” Sempre nell’Appendice a La Gaia Scienza si trova poi una delle più ispirate poesie di Nietzsche, scritta tra le amate montagne di Sils-Maria nel 1882, in cui si avvertono accenni alle opere teoretiche successive: “Qui sedevo, attendendo, attendendo, – nulla attendendo, / al di là del bene e del male, ora della luce / godendo, ora dell’ombra, tutto solo gioco, / tutto lago, tutto meriggio, tutto tempo senza meta. // E all’improvviso, amica! L’Uno divenne Due – / – Zarathustra mi passò vicino…”.

Due anni dopo, all’allieva e amante Lou dedicò la canzone da ballo Al Mistral, invito esaltato al superamento di ogni limitante mediocrità: “Chi non sa danzar coi venti, / chi si invischia in mille lacci, / incatenato, vecchio storto, / chi è come gli scemi ipocriti, / i balordi onorati, le oche virtuose, / vada fuori dal nostro paradiso! // Muliniamo la polvere delle strade / sotto i nasi di tutti i malati, / impauriamo la nidiata dei malati! / Liberiamo l’intera costa / dall’ansito dei petti rinsecchiti, / dagli occhi senza coraggio! // Cacciamo i perturba-cielo, / gli oscura-mondo e spingi-nubi, / rendiamo limpido il regno dei cieli! / Soffiamo… oh spirito di tutti gli spiriti / liberi, essere in due con te fa / soffiare la mia gioia come una tempesta – // …  – Affinché eterna sia la memoria / di questa felicità, prendi il suo lascito, / prendi con te e solleva questa corona! / Lanciala in alto, più lontano, più oltre, / assalta la scala del cielo, / e appendila – alle stelle!”

Nei Frammenti postumi del 1884 apparivano temi che saranno tipici di molta letteratura novecentesca: quelli del viandante che vaga senza meta, dell’uomo senza patria orgoglioso di rispondere solo al proprio spirito indipendente, dell’inesistenza di Dio, della follia del poeta unico detentore della verità (“Il poeta, che può mentire / coscientemente, volontariamente, / lui solo può anche dire la verità”).

Così parlò Zarathustra (1883-1885) contiene molte poesie, riprese più volte prima e dopo la sua composizione: è però esso stesso un poema sinfonico, puntellato da liriche con metrica regolare, e sostenuto nella sua interezza da toni declamatori, oracolari. Particolarmente rappresentativa delle tematiche nietzschiane è senz’altro la complessa Il canto della melanconia, severo e compiaciuto autoritratto del filosofo: “Il pretendente della verità? Tu? – così ti beffavano – / No! Solo un poeta! / Una bestia, furba, rapace, strisciante, / che deve mentire, / che deve mentire con scienza e volontà: avido di preda, / mascherato con mille colori, / a se stesso maschera, / a se stesso preda – / questo – il pretendente della verità? / No! Solo giullare! Solo poeta! / Uno che parla con mille colori, / che grida con mille colori da maschere di giullare, / che s’inerpica pe ponti di parole menzognere, / per arcobaleni multicolori, / tra falsi cieli / e false terre, / che vaga in giro e si libra attorno, – / solo giullare! Solo poeta!”. Con sembianze di aquila e pantera, “predatore, strisciante, mentitore”, “bandito / da ogni verità”, Nietzsche offre di sé un’immagine di commediante e falsario, di mago che giostra con concetti e figure, maschera capace di creare solamente illusioni, esiliato dal mondo civile, come poeta e come filosofo.

Anche in Aldilà del bene e del male (1886) sono presenti dei versi: le misogine Sette sentenzine di femmina (“Giovane: una grotta fiorita. Vecchia: un drago ne esce fuori”), il malinconico Da alti monti, in cui si esprime tutta la tristezza di una vita solitaria, e altri aforismi dedicati all’amico-nemico di sempre, Richard Wagner.

Infine, i Ditirambi di Dioniso furono l’ultimo lavoro composto nel 1888, prima del crollo psicofisico che lo condusse all’ottenebramento totale. Parzialmente già pubblicate, nella sezione inedita mostrano i segni di una dissociazione mentale e di una perdita di controllo sul proprio materiale: si tratta di monologhi scritti in uno stile declamatorio, con costruzioni sintattiche oscure, con libere associazioni ritmiche che riprendono argomenti mitologici o misticheggianti.

Susanna Mati nella sua intensa postfazione afferma che le poesie di Friedrich Nietzsche, prive di reale validità artistica benché dotate di notevole arguzia, vanno collocate nel “territorio dell’affetto e dell’effetto”, essendo soprattutto sintomatiche dei moventi psicologici e teorici del filosofo. Svolgono tuttavia molteplici funzioni: di rilassamento della tensione intellettuale, di satira-parodia-imitazione, di caratterizzazione del personaggio Zarathustra, di sfogo emotivo. Lo stesso Nietzsche considerava la poesia arte menzognera e fraudolenta, attribuendole il compito secondario di distrarre, consolare, edificare, senza alcuna pretesa di profezia o rivelazione. I suoi versi vanno quindi letti a integrazione contingente e occasionale da affiancare alla ricerca delle verità ultime.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 febbraio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

IACCI, GALIMBERTI

PAOLO IACCI, UMBERTO GALIMBERTI, DIALOGO SUL LAVORO E LA FELICITÀ 

 EGEA, MILANO 2021

 

Il volume pubblicato da Egea. Dialogo sul lavoro e la felicità, è la trascrizione fedele di una conversazione tenuta tra Paolo Iacci, docente di Gestione delle risorse umane alla Statale di Milano, e il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti. L’editore ha deciso di lasciare inalterata l’originale versione orale per non togliere immediatezza al testo, che risulta infatti vivace e di godibile lettura, nonostante l’argomento trattato non sia dei più accessibili.

Al giorno d’oggi il lavoro, fondamentale ancoraggio alla vita reale, è diventato una chimera per molti: giovani che non lo trovano, laureati costretti a emigrare, personale qualificato espulso dalla catena produttiva, donne che non riescono ad accedere a un impiego. E tra chi ha conquistato un suo ruolo nel sistema, quanti sono i privilegiati che possono dire di amare il proprio mestiere, e quanti invece lo reputano una condanna, conseguenza della maledizione divina lanciata contro Adamo nel giardino dell’Eden?

Galimberti, rifacendosi alla cultura classica, prende in esame i due termini di felicità e di ozio. Per i greci l’eudaimonia si basava sull’armonia, l’equilibrio e la misura, acquisibili solo attraverso una profonda conoscenza e padronanza di sé, in accordo con il daimon interiore che è presente in ogni persona e ne guida le azioni. Nella società contemporanea, regolata dal mercato e basata sulle logiche di prestazione ed efficienza volte solo al profitto, l’obiettivo della felicità individuale, ottenuta con l’espressione e la realizzazione di ciò che siamo, viene subordinato al raggiungimento di altri traguardi (denaro, successo professionale, competizione esasperata), asserviti a ideali esteriori e futili.

L’otium dei latini coincideva con l’agire proprio degli uomini liberi, in opposizione al negotium, inteso come incombenza faticosa e costrittiva, e indicava lo spazio che ciascuno dovrebbe dedicare a se stesso, coltivando lo studio, le relazioni arricchenti, il perfezionamento del proprio carattere. Oggi per ozio si intende solamente lo svago, il riposo dalle fatiche lavorative, la distrazione offerta da diversivi superficiali.

Paolo Iacci considera l’essere umano come biologicamente   costruito per un’attività diretta a un fine, e ritiene che l’ozio, o   l’attività priva di scopo, provochi sofferenza e atrofia: l’idea del “lavoro ben fatto” è invece talmente radicata da spingere a perfezionare anche quello imposto, schiavistico. Il motto Arbeit macht frei, diabolicamente esibito all’ingresso del lager di Auschwitz, in cui si mirava in realtà all’annullamento della dignità e della vita dei prigionieri, era tuttavia assolutamente veritiero. Il lavoro rende liberi, ma i nazisti miravano a svilirlo e disprezzarlo, proprio perché atto “sovversivo” di sopravvivenza e di riscatto.

Alla valutazione positiva di Iacci, Galimberti oppone la constatazione che nella nostra età della tecnica non si viene valutati per il risultato dell’opera fornita, ma per la modalità con cui la si esegue; non si richiede adesione emotiva ma unicamente prestazioni all’altezza delle aspettative del mercato. Il modello economico adesso imperante piega la volontà dei singoli alla dura logica del rendimento e del profitto. Il lavoratore è sempre più dissociato dalla propria azione, poiché “l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, gli si contrappone come qualcosa di estraneo, come una potenza indi pendente da colui che lo produce”, secondo quanto scriveva Marx più di un secolo fa. Sarebbe pertanto necessario e doveroso sottrarsi all’alienazione del produrre fine a sé stesso, favorendo in primo luogo nei salariati “lo sviluppo dei propri talenti, la realizzazione della propria identità”, più che la sudditanza a un mezzo di sopravvivenza.

In un’epoca come quella in cui viviamo, oppressa da paralizzanti paure (i terrorismi, le pandemie, i tracolli finanziari) è tanto più necessario un profondo ripensamento del nostro modo di vivere e di progettare il futuro, traendo dal sentimento di angoscia che ci pervade nuove occasioni di riflessione e interiorità, consapevoli però di quanto il mondo sia cambiato, con il prevalere dominante della tecnica, convertita da mezzo a fine, non più strumento ma soggetto stesso della storia umana. Dobbiamo revisionare tutte le nostre categorie concettuali, nella vita economica, sociale e relazionale. I modelli economici tradizionali si dimostrano oggi carenti perché tentano di rintracciare una razionalità sequenziale che è ormai tramontata. Le antiche variabili chiave del mercato (domanda, offerta e concorrenza) non sono più utilizzabili per interpretare un sistema produttivo complesso, specializzato, parcellizzato, iperconnesso, computerizzato, e pertanto soggetto a imprevedibili e paradossali rivolgimenti, non inquadrabili in schemi mentali obsoleti.

Dal punto di vista etico, poi, sembra che le indicazioni morali delle religioni e delle filosofie tradizionali abbiano ben poco da dire a individui sempre più egocentrici, isolati, disillusi e scettici, incapaci di slanci altruistici e solidarietà, indifferenti al mistero e alle questioni metafisiche. Il nichilismo a cui è approdato l’occidente, negando ogni speranza di futuro, riduce all’insignificanza l’agire umano, e quindi la stessa attività lavorativa, che attualmente è caratterizzata in primo luogo da cieca competitività, invidia sociale, conformismo diffuso e paralizzante senso di inadeguatezza. Nella vita produttiva, l’identità non è più determinata da fattori religiosi, culturali, familiari, di razza o di genere, ma è decisa dal ruolo occupato in azienda, dalla carriera fatta, dal riconoscimento degli altri affidato alla parola pubblica, secondo il primato dell’oggettività e l’appiattimento della soggettività.

Risulta pertanto difficile trovare una sintonia tra lavoro e felicità. La felicità sembra possa essere possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro. Dovremmo invece tentare di renderlo desiderabile e   non solo causa di fatica e luogo di tensioni.  In che modo? Paolo Iacci suggerisce di sperimentare nuove forme di organizzazione dell’attività lavorativa, non più basate sul paradigma del comando/controllo, ma contraddistinte   da maggior delega, più ampia autonomia delle perso ne e una superiore attenzione alla loro motivazione e individualità. La tecnica continuerà a proseguire nel suo planetario sviluppo auto-referenziale, ma i luoghi   di lavoro, per poter funzionare, dovranno concedere spazio anche alla dimensione emotiva e non unicamente a quella professionale e razionale, nell’ambito di un’educazione alla cultura e ai sentimenti intesi in senso lato.

La proposta di Umberto Galimberti appare addirittura più estrema: indica la necessità di passare gradatamente dal “lavoro come produzione” (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al “lavoro come servizio”, in grado di offrire non soltanto merci e beni spesso inessenziali, imposti da un consumismo esasperato, ma anche di erogare  tempo, cura, relazione. Senza trascurare la parte irrazionale, istintiva, ludica, affettiva ed emozionale dell’essere umano, attraverso cui ci si possa avvicinare individualmente e collettivamente alla felicità.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 febbraio 2022

 

 

 

 

 

POESIE

JUVENILIA

Inaspettati, insospettati,

ho trovato dei versi

in un libro non più aperto

da tempo immemorabile.

Perché oggi inservibile:

sulle lotte operaie

degli anni settanta.

Li avevo nascosti, timorosa

ragazza colpevole

di nutrire sentimenti borghesi.

Stridevano pudichi

e innamorati, tra analisi

puntuali di politologi marxisti,

di duri intellettuali,

economisti puri.

Innocui, indifesi

e forse indifendibili,

provavano a sfuggire

la prosa del reale.

Infantilmente, inutilmente,

era il mio modo

di medicare il male.

*

Dicevano caro

a un amore sbagliato,

sapendo che mai avrei osato

pronunciare davvero la parola.

Caro in quel libro

aveva un senso solo

e indirimibile,

mercantile finanziario

a valenza negativa:

costoso,

inaccettabile,

pesante da sostenere.

Ma io scrivevo caro

a chi non lo sapeva,

quanto mi fosse caro.

Nemmeno supponevo il costo

improponibile

di ardire poesia

tra cifre statistiche

sondaggi.

*

Preferivo Platone e Montale,

esitante opponevo

trascendenza a immanenza,

politico a privato.

Ed era la mia colpa,

l’infelice coscienza

– nebulosa nostalgica e scissa

tra viscere e cervello –,

soffrendo lo scandalo vero

della contraddizione.

Tradire o essere fedeli,

abbracciare la causa dei vinti

o l’allegria dei naufragi del cuore:

blandivo tristezza e ragione

con uguale viltà,

per una terza via mentale

al socialismo.

Persa dietro l’incanto impostore

di un’esile carezza,

seppellivo le rime

nel severo volume

di sociologia.

 

 

In La poesia e lo spirito, 11 febbraio 2022

RECENSIONI

EDWARDS

DOROTHY EDWARDS, SONATA D’INVERNO – FAZI, ROMA 2022

Figura eccentrica e sfortunata, quella della scrittrice gallese Dorothy Edwards (1902-1934), autrice di una raccolta di racconti e di un unico romanzo, Sonata d’inverno. Figlia di due insegnanti, laureata in greco, socialista, femminista e vegetariana, aveva viaggiato in tutta l’Europa impartendo lezioni di inglese. A Londra si era avvicinata al Bloomsbury Group, intrecciando amicizie e rapporti intellettuali importanti, in particolare con lo scrittore David Garnett che le offrì l’incarico di istitutrice nella sua famiglia. In seguito a una delusione amorosa, e alla riconosciuta difficoltà di inserimento nella società letteraria metropolitana, a soli 32 anni Dorothy si uccise gettandosi sotto un treno, giustificando il suo gesto in un biglietto in cui affermava di non essere mai riuscita ad amare realmente qualcuno, né a ricambiare con gratitudine l’affetto e le attenzioni che aveva ricevuto da amici e persone care.

Winter Sonata, pubblicato nel 1928, ottenne numerosi riconoscimenti per la sua struttura narrativa articolata e originale, e per l’interesse rivolto alla situazione socialmente depauperata delle classi lavoratrici e delle donne nel periodo di depressione economica succeduto alla prima guerra mondiale.

Il racconto è ambientato in un piccolo paese di campagna, dove non succede mai nulla e tutti si conoscono, e l’arrivo di un nuovo telegrafista all’ufficio postale, il giovane e timido Arnold Nettle, diventa l’elemento catalizzatore della curiosità degli abitanti. Silenzioso e impacciato nel rapportarsi con gli altri esseri umani, e in particolare con le ragazze, Arnold coltiva con dedizione la sua passione per il violoncello, accettando con qualche ritrosia l’invito dei compaesani a esibirsi nelle case private o in chiesa. La musica accompagna come sottofondo le scarne conversazioni dei protagonisti, insinuandosi con discrezione nell’ovattato silenzio che domina l’atmosfera.

Dorothy Edwards è molto abile sia nel tratteggiare con sensibilità e accuratezza la psicologia dei vari personaggi, sia nel ritrarre le condizioni ambientali e il paesaggio esterno in cui essi si muovono, durante un inverno in cui freddo e neve ben si accordano all’immutabile scorrere della vita rurale della comunità. La ricchezza dei particolari descrittivi e delle metafore che li accompagnano, interrompono con cadenza regolare i rari avvenimenti che si succedono nel villaggio, dando alla narrazione un respiro di calma e docile abitudinarietà. “Per tutto il giorno i campi rimasero imbiancati da un sottile strato di neve, i rami degli abeti un poco piegati sotto il suo peso, ma la   cosa più bella era che dappertutto gli alberi piccoli, fino a quel momento simili a scheletri grigi che innalzano le ri gide membra fredde in una supplica disperata al sole nascosto, ora rilucevano di neve e si aveva l’impressione che     i loro spogli rami grigi avessero generato dei boccioli per magia. Per un momento si poteva quasi credere di attraversare un frutteto nel mese in cui gli alberi sono in fiore,       nonostante il freddo e il cielo grigio”.

Le vicende di diversi nuclei familiari si intrecciano nel racconto, senza mai sortire a esiti dirompenti. Arnold Nettle è in pigione nella villetta dei Clark, dove la madre vedova si occupa dell’esuberante figlia adolescente Pauline, ansiosa di distrazioni per evadere dalla routine domestica, e del piccolo Alexander. Più coinvolgente e attrattiva è invece per il protagonista la famiglia dei Curle-Neran, composta da un’anziana e stravagante signora, dal di lei figlio George (pasciuto e ciarliero aspirante filosofo), e dalle giovani e belle nipoti Olivia ed Eleanor. Arnold si innamora della maggiore, senza mai riuscire a dichiararsi, umiliato dal confronto con un distinto e seducente intellettuale, Mr. David Premiss, ospite della casa per il periodo natalizio. La serie di schermaglie amorose tra i vari personaggi, le conquiste e le ripicche reciproche, non riescono a scalfire il loro sostanziale individualismo, impastato di diffidenza, riserbo, paure.

Solitudine, malinconia, rassegnazione, impossibilità di uscire da una situazione esistenziale avvertita come costrittiva e ambigua, sono gli argini entro cui scorre monotona la vita, nell’assenza di avvenimenti risolutori e nella ripetizione ostentata di situazioni invariabilmente banali. La neve copre tutto, nel villaggio raccontato da Dorothy Edwards, e rende uniformi e intercambiabili i giorni, insieme alle questioni inessenziali che si portano dentro.

© Riproduzione riservata               «Gli Stati  Generali», 5 febbraio 2022

 

 

 

RECENSIONI

LANDOLFI

TOMMASO LANDOLFI, IL TRADIMENTO, ADELPHI, MILANO 2014

Tommaso Landolfi nacque a Pico, nel Frusinate, nel 1908, da una nobile famiglia di proprietari terrieri, di cui mantenne sempre l’orgogliosa impronta aristocratica, conservatrice ed elitaria, sia in politica sia nelle scelte culturali. Laureatosi a Firenze in letteratura russa con una tesi su Anna Achmatova, iniziò presto a collaborare a diverse riviste, pubblicando poi volumi di narrativa in uno stile sospeso tra il fantastico e il grottesco, segnati da pessimismo esistenziale corretto da un beffardo sarcasmo. Utilizzando un linguaggio sofisticato, in cui fondeva barocchismo e invenzione sperimentale, Landolfi descriveva un mondo abitato da individui singolari, segnati da difetti degradanti, da umori biliosi, da immodificabili malinconie che li allontanavano dalla comunità circostante e dai valori condivisi della modernità: in primo luogo dalla fiducia nel progresso, nella solidarietà umana, in qualsiasi fede salvifica. Questa disposizione d’animo, fortemente critica nei confronti dell’attualità, insieme all’invenzione linguistica giocosa, manipolatoria, lussureggiante, e alla sua algida riservatezza, fecero di lui un isolato nel mondo letterario: di tale emarginazione sembrava quasi compiacersi, consapevolmente fiero della propria eccentricità. Nonostante, o grazie a ciò, rimane uno dei maggiori esponenti della nostra letteratura novecentesca, stimato dai più importanti intellettuali contemporanei (Bo, Montale, Bassani, Soldati e Calvino, che curò un’antologia delle sue “pagine più belle”, così inquadrandolo: “Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto sé stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi si butta via”).

Ateo, anticlericale, misantropo, Landolfi alleggeriva il suo scetticismo con l’eleganza divertita del gioco, che non solo rappresentava materialmente il suo demone privato e dilapidatore, ma indicava letterariamente una propensione alla burla, all’inganno, allo scherno verso qualsiasi borioso credo nelle magnifiche sorti e progressive.

L’editore Adelphi dal 1992 sta recuperando tutto il repertorio landolfiano (romanzi, racconti, saggi e poesie, pubblicati anche nelle collane minori). Da non perdere, per chi non li conoscesse, due veri gioielli quali A caso, premio Strega nel 1975, e Le due zittelle, prose narrative urticanti, attraversate da sentimenti aggressivi, irrisori e polemici, animate da personaggi sogghignanti e ostili, per cui sempre Calvino ebbe a dire che producevano lo stesso effetto di “un’unghia che stride contro un vetro, o d’una carezza contropelo”.

Le composizioni raccolte ne Il tradimento, uscite per la prima volta nel 1977 e premiate a Viareggio nello stesso anno, vengono definite in una sua  nota “grave e terribile seguito” del diario in versi Viola di morte del 1972. Entrambe le raccolte hanno come tema centrale di riflessione la morte, che coglierà l’autore nel 1979, dopo una lunga e dolorosa malattia. Angosciate e rabbiose, le poesie di Tommaso Landolfi “Non volano mai, non cantano mai, non corteggiano mai le grazie dell’imma­gine e della musica”, secondo quanto scrisse Pietro Citati. Sono liriche filosofiche, intese ad aggredire i luoghi comuni, le facili consolazioni, le illusioni di riscatto morale, e rassegnate invece all’orizzonte nichilista della disperazione. Nella visione plumbea del poeta, il destino degli esseri umani viene manovrato da un demiurgo crudele e indifferente, a cui è impossibile opporre resistenza: “Ah, come non pensare ad un maligno / Fattore, a un bieco autore / Dei nostri giorni?”. La morte è quindi esito ineludibile, tradimento assoluto di ogni aspettativa di sopravvivenza individuale nell’eternità, e illusoria è persino la speranza del dissolvimento nella pace rasserenante del nulla: “O morte sempre amata / Ed in segreto sempre corteggiata, / Avvolgiti di nere bende il capo: / Tu non sei più speranza”. Anche della fine materiale si deve diffidare, perché non mette al sicuro dalla voracità del meccanicismo biologico: “È sempre più vivace / L’assalto della vita: non riparo / A tanta foga”, “Ahimè nell’universo / Non ha luogo la morte, ora ben vedo; / L’odiosa vita regna in ogni dove. / Vano è cercare scampo e refrigerio / Al gran barbaglio, travaglio e fragore /   D’una maligna estate. /… All’esser nati non è più riparo”, “Nulla finisce, o nulla / Comincia, colla morte ormai: / La morte è solo un caso / D’una trama più vasta, un nodo appena   / Del tramite che varca il tempo”; “Parto, e rinascere non voglio…  / Io temo, è questo il vero, / Io temo di protrarre il mio pensiero”.

Lo stile utilizzato da Landolfi è evidentemente modulato su un classicismo di stampo ottocentesco, in cui Leopardi appare senz’altro come nume tutelare non solo formalmente, ma anche in quanto riferimento teorico: il suo “è funesto a chi nasce il dì natale” diventa il leitmotiv della riflessione landolfiana sulla negatività dell’esistere: “Un luttuoso cuore / È il retaggio dell’uomo /… Nasce l’uomo ai tormenti”.

La condizione metafisica delle creature è priva di qualsiasi aspettativa di bene e salvezza: quella politica e sociale appare altrettanto miserevole, e trova nella forma epigrammatica la sua più confacente sintesi espressiva: “L’uomo più libero del mondo / Passò la vita ad obbedire”, “Tutti, rio tempo sconoscente, / Tutti ci hai fatti servi della gleba”, “Nacque; / Fu sempre solo / Tra tanta gente   / In molte parole / Tacque; / Indi morì, / s’accomiatò dal Sole”.

Nemmeno la poesia riesce a offrire conforto o certezze, e la pagina bianca a cui manca l’ispirazione diventa una condanna: “E baratro infernale questo foglio, / Bianco d’un impossibile messaggio”, “Non v’è più schermo, non più verso egregio / Che ci protegga dal nulla”, “Ma la pagina bianca è muta e cieca / E nulla ci rimanda / Se non la nostra voce e il nostro sangue. / Di pagine bianche / È impossibile vivere”.

Rimangono quindi gli affetti, come possibile appiglio cui aggrapparsi per continuare a vivere. Alla figlia Idolina (1958-2008), scrittrice, critica letteraria, traduttrice e principale curatrice delle opere paterne, Tommaso Landolfi dedicò una commovente lirica (“Idolina, ti conceda la sorte / Di tralignare sempre, / Di non perdere le tempre / A corteggiare la morte, / A vagheggiare le forme / Compite, cui fosse affidato / L’estremo compenso, il riscatto / Da tutte le infamie. // … E tu, vivi / Lungo aleatorie, provvisorie orme, / Libera, casuale ed imperfetta, / Sposa a tutti i cammini e a tutti i trivii… / Fa’, dico, tutto quanto è in tuo potere / Per non trovarti un dì tradita, / Anzi negletta dalla morte, quale / Il tuo misero padre”). A un’altra misteriosa giovane donna, probabilmente solo vagheggiata nella fantasia, rivolse parole tenere e appassionate: “Unica, t’ho invocata, / Ed ogni volta ti sei sottratta / All’appello…”, “E perdermi tra ignote nebulose. / Lontano certo, ma non tanto / Che non mi giunga la tua mano / E l’umida tua lingua”, “E se m’odi, una sola grazia chiedo / A te, compagna errante e casuale: / Di bestemmiare o di pregare un dio”. A questa enigmatica figura femminile, “eternamente bella”, dallo sguardo “altero e dolce”, regala parole di affettuoso rimpianto, consapevole della propria “vecchiezza lercia”: “È inutile, se non sei mia, / Che a ben mostrare la tua nuova gonna / Tu mi prilli dinanzi sul tappeto. /… (E sei tornata / In camicino azzurro e trasparente / A dar la buona notte)”.

Una poesia, questa de Il tradimento, che sembra voler duellare con la morte avvertita come prossima, rifiutando tuttavia le lusinghe della vita stessa, considerata eccessiva nella sua esibita vivacità.

Persino la scrittura, allora, abdica alla contemporaneità, rifiuta il presente e il contingente, scegliendo forme ridondanti e barocche, termini arcaici (guatare, fenduto, diruto, piovorno, ugne, tabe, ronchioso), desueti (dimora, favella, ciarliero, fallace, solingo, inanimito) o poco comuni (canizza, pirenaico, eringio, repleto, farnia), prendendo così  posizione in favore di una letteratura esente da qualsiasi finalità didattica o di impegno, e invece incentrata sull’eleganza formale, sulla cesellatura della parola, in una sfida esibita alla banalità lessicale, alla superficialità, all’attualità conformante.

“Dalla nuda poesia, dalla ricciuta prosa, / Egualmente allettato / Ed egualmente da ambedue respinto”, Tommaso Landolfi in questo suo avvicinamento alla morte fa i conti  con la vanità del tutto, della scienza e della teologia, della carne e dello spirito:  “ Mentre non più il conoscere mi tenta / Né più l’intendere mi alletta, / Né a guardar dentro più s’accende il sangue. / Rapissi il fuoco della vita eterna / E sviscerassi l’universo, / A me che cosa ne verrebbe”.

Solo stanchezza, quindi: l’amara rassegnazione e l’iroso disappunto di chi si sente tradito.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 27 gennaio 2022

 

 

RECENSIONI

SAYA

MARCO SAYA, INCORPOREI APPUNTI – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2022, p.124

L’antologia che Marco Saya (Buenos Aires 1953, editore e musicista jazz) ha da poco pubblicato, raccoglie una scelta di versi scritti in vent’anni di attività poetica, già usciti in diversi volumi. Testimoniano un percorso di consapevolezza letteraria che si dipana dagli esordi più intimistici, attraverso alcune sperimentazioni di stampo avanguardistico, per approdare al più controllato esito formale della produzione recente. Se nelle poesie dei primi anni duemila temi e toni prevalenti si situavano all’interno della discorsiva e pacata linea lombarda, con aperture morbidamente sonore (“Non ci è dato sapere / se i cari estinti anelino / a resuscitare e penso di no”, “Quel palloncino salì improvviso / scappato da una piccola mano”), in seguito la tensione etica sottesa è diventata più severamente esplicita e risentita, evidenziando un deciso rifiuto ideologico verso la cultura postindustriale e gli ambienti sociali e culturali effimeri, conformisti ed esclusivi proposti da un “capitalismo abortito”, da una “democrazia stuprata”.

La frenesia del lavoro compulsivo, la rincorsa al successo economico, il meccanicismo di rapporti umani vissuti all’insegna dell’interesse personale, vengono stigmatizzati con un fastidio che sa farsi rabbioso rifiuto: “Le parole mentono. / Nude si coprono”, “La disperazione scivola / al mio fianco, / mi accompagna nell’open space, / che fastidio tutte quelle voci / all’unisono”, “E tutti dicono. / Poi tacciono. / Si nascondono. // E tutti pretendono”. Milano, la città in cui Saya vive e lavora da più di cinquant’anni, diventa il simbolo di una disumanità crescente, a cui l’individuo spesso non riesce a opporre resistenza: “Simili a pappagalli ripetiamo / che c’è stato un giorno, / un mese, un anno e domani / ritorneremo alla “burlesque” / di questo tempo ignari / di un futuro e imprecisato / giorno, mese, anno”, “Perché non scappavamo da questo scempio? / Perché non distruggevamo il non senso? // Torniamo a essere normali. // Nella pazza incredulità / riprendiamoci gli oggetti smarriti”, “pause di respiro. / flash di intermittenza, / luci impazzite del microonde. / “dove corri?”, “in ufficio” meccanica risposta-suono. / suona il cell. / numero privato chiama”.

Chi scrive si abbandona sia a sconfortate confessioni bisognose di un’assoluzione, o autoassoluzione (“Mi sento / (sempre) / fuori dal coro / di chi ha fatto / della consuetudine / il minore dei mali”, “È strano vedersi che vivi, / ti domandi perché sei lì… in mezzo agli altri (chi?), “Svesto il cuore / del rivestimento”), sia alla ricerca di verità definitive, che aiutino a trovare un ancoraggio esistenziale, in grado di salvare dal “coma della vita”. Quando il “fardello umano” si fa più pesante, allora nasce il desiderio di rimescolare le carte, servendosi di “un mazzo nuovo / con altri giocatori”. Anche la musica offre salvezza, allora, soprattutto se modulata sulla passione di un’intera esistenza. Esperto chitarrista jazz, Marco Saya esprime in versi sincopati la sua riconoscenza alle note: “Jazz jazzbo dancer / nel vicolo bidonville / o nella tumefatta favela / o nella metro leggo metro / o city leggo in piazza affari”.

Frequente nel volume è la sperimentazione di stilemi diversi, utilizzanti calligrammi, reiterazioni, plurilinguismi, citazioni varie, così come termini scientifici tratti dall’astronomia, dalla fisica e dalla paleontologia, a testimonianza degli interessi culturali dell’autore, approdato all’editoria dopo una lunga professionalità vissuta nell’ambito dell’ingegneria informatica.

Gli “incorporei appunti” del titolo segnalano l’intenzione di un avvicinamento discreto alla poesia, dove i versi, scorporati da qualsiasi presuntuosa referenzialità autobiografica, rivendicano la necessità testimoniale di annotare e chiosare tempi e spazi della nostra comune avventura terrena.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Incorporei-appunti-Saya     21 gennaio 2022