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RECENSIONI

SPARAPAN

GIANNI SPARAPAN, GRAN DE ROŞARI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2021

Studioso di storia, cultura, costumi e linguaggio del Veneto, Gianni Sparapan (Villadose 1944), insegnante, pubblicista e autore teatrale, ha pubblicato un libro di poesie dedicate al suo Polesine, Gran de roşari. Centoquaranta composizioni in lingua rodigina, con testo italiano in calce e glossario conclusivo, che attraversano un secolo di vicende sociali e familiari, sporgendosi oltre i confini ristretti del paese nativo, con uno sguardo che si allarga su pianure, monti e fiumi della regione (“El se intristisse solo, / el Po, / cô cala la fumara, / pan e companàdego de la vita nostra”), lambendo anche la Venezia Giulia (“Zità de gloria / Trieste ventana / scanpana felizità”).

Appunto come i grani del rosario cui allude il titolo, si inanellano episodi tragici della storia e della cronaca veneta, dalle vicende migratorie del primo ’900, alle guerre mondiali, alla Resistenza con i giovani partigiani impiccati a Bassano: “Jera el so silenzio, Bassan, / fin che drento i buschi de nogara / i s-ciopetava / e fóje e żoventù cascava”. Ma è soprattutto la terribile alluvione del ’51 che campeggia come un incubo nella memoria del poeta, allora bambino testimone impaurito dello straripamento di un fiume vorticoso e travolgente, che provocò lutti, evacuazioni, povertà: “spaventi somenando / e canpane a martèlo / e desperazión: aqua alta – aqua forta – aqua marza – aqua morta / aqua sassina da strada! / aqua sporca – aqua negra – aqua tròja…”.

Il borgo di Villadose rivive in una galleria di personaggi tipici, bozzetti disegnati con complice nostalgia (il barbiere, l’orbo, il calzolaio, il cappellano, il pescatore), o con la pietà di chi visita il cimitero di una Spoon River domestica, prendendo nota di suicidi e omicidi, morti infantili e lunghe agonie, compendiando in pochi versi il percorso terrestre di medici becchini prostitute fioraie maestri: a nessuna creatura sepolta viene negata la grazia di un ricordo, di una preghiera laica, che la ripaghi dal “vivare male”.

Le prove più convincenti del volume sono quelle in cui Sparapan racconta la sofferenza che lega animali e piante nello stare al mondo, come in El lamento de le creature, in cui un ciliegio, un asino, un maiale e un merlo sembrano invidiare a vicenda l’uno la sorte dell’altro, per concludere infine che nessuno di loro può dichiararsi felice della propria, nell’amara constatazione della pena che accomuna ogni esistenza. In particolare, sembra essere proprio il porcellino a patire di più l’oltraggio della crudeltà umana, nella ferocia della macellazione descritta dalla poesia iniziale, La morte del boşegato: “I xe ’ndà driti in te’l so caşón / i ghe ga messo la mordécia in boca, / i lo ga tirà fòra de pèşo. // I so zighi i’ndava in zhièlo” (La sua disperazione arrivava al cielo. // L’hanno rovesciato sull’aia / accoltellato sotto la gola / scottato con l’acqua bollente / ripulito con le raspe della setola / alzato con corde e pali fino alla trave del porticato / sventrato da sopra a sotto / tenuto aperto da paletti appuntiti / come un povero crocefisso).

Il trascorrere di mesi e stagioni, l’avvicendarsi di realtà differenti a livello spazio-temporale, ma uguali nell’eco emotivo suscitato in chi scrive, induce la stessa trepidazione vissuta nell’infanzia: Natale con la neve, l’attesa sempre delusa dei regali della Befana, il risveglio di un’innocenza primaverile a Pasqua, e poi l’estate tormentata dalle zanzare e da temporali violenti, rinfrescata dalle angurie e da frutti succosi, per tornare infine a un autunno nebbioso e grigio di paludi. Il Polesine rivisitato di Gianni Sparapan, benché maledetto dal lavoro duro dei campi e da una miseria atavica, torna a pungere proprio perché morto. Irrecuperabile, se non scavando nella memoria: “A scarpiè de ricordi / a xe tacàle beate imàjini” (A ragnatele di ricordi / restano appese le immagini care).

 

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SoloLibri.net › Gran-de-rosari-poesie-polesane-Sparapan                 20 gennaio 2022

POESIE

AMANTI

Poiché gli unici angeli rimasti

sono gli amanti fedeli, l’uno

nunzio all’altro di essere e bene.

I soli che soli rimangono,

che soli si guardano: sfiorandosi

si sanno, non hanno vergogna.

Noi strani e stranieri, incapaci

di abbandono, noi sì ci vergogniamo,

e più non riusciremmo a sorridere

del riso dell’altro, ma presi

da un sospetto, da un’invidia

tremante scuoteremmo la testa

allontanandoci. Beati i promessi,

invece, che si fidano delle loro parole,

le presumono nuove, ansiosi di illudersi

ancora, di credersi sinceri.

 

 

Infatti se si sfiorano le dita

per errore, hanno come un soprassalto,

quasi un brivido. Si ritraggono, dapprima;

poi si cercano. E ripetono il gesto,

lo ripetono studiandosi, se per caso

l’intenzione calcolata suscitasse

nell’altro un leggero fastidio,

o piacere. Nel palmo della mano

premono poi la mano sconosciuta,

ne ascoltano il tepore, la proteggono.

Così semplice allora diventa

tentare altri gesti, qualche carezza;

così semplice toccarsi, esplorarsi.

E subito «sei mio» si dicono, «sei mia»,

sentendosi padroni, e insieme servi.

 

 

Quello che fuori non li interessava

diventa loro in un istante. Tanto si espande

in chi ama il sentire, che cielo

erba segnali stradali si imprimono

in dissolvenza, scenario

irrilevante – o necessario. E l’albero

la sedia il portacenere spariscono,

per poi riaffacciarsi imperiosi,

decisi a ribadire «ci siamo,

e testimoni potremmo se richiesti

assolvere o accusare».

Gli oggetti, i silenziosi complici,

le congiuranti spie

di incontri, abbracci,

promesse imperiture.

 

 

Il miracolo nasce nello sguardo,

non altrove: tutto lì è il prodigio,

sotto le ciglia che vibrano appena,

negli occhi che restano socchiusi

timorosi di abbagli.

In loro si riflette la paura,

l’esultante scoperta del volto

messo a fuoco, isolato dal resto

del giorno. Proprio quella è la faccia,

impastata dal fango in una creazione

generosa; poi offerta,

poi premio allo sguardo paziente

impaziente che aspettava,

e trema, adesso

– incredulo, turbato.

 

 

Così povere, sempre, le parole:

inadeguate a esprimere, incapaci

anche solo di rispecchiare il fiato.

Eppure a loro chiedono soccorso

gli occhi le mani degli amanti

per dire e dire (non sanno bene

cosa, dire; come). Preziose

illuminate le vorrebbero i due,

e nuove, coraggiose: invece sulle labbra

intimidite si bloccano, balbettano;

oppure torrenziali straripano,

torbide inutili. Tacete, allora,

innamorati sciocchi. Preferite

il silenzio, arrendetevi zitti.

Vedete come stanno muti

i fiori, le nuvole, la neve.

 

 

 

Da Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2017, e in Gli Stati Generali, 12 gennaio 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VAGNOLI

CARLOTTA VAGNOLI, POVERINE – EINAUDI, TORINO 2021 (ebook)

Come non si racconta un femminicidio, è il sarcastico sottotitolo dell’ebook che Carlotta Vagnoli ha recentemente pubblicato con Einaudi: Poverine. Classe 1987, fiorentina, Vagnoli ha collaborato con i magazine GQ e Playboy; sex columnist e scrittrice, utilizza le piattaforme social per fare divulgazione sui temi della parità, del consenso e della violenza di genere. Con stile asciutto e determinato, lancia il suo j’accuse verso gli organi di stampa nazionali, quando riferiscono i femminicidi che avvengono quasi quotidianamente nel nostro paese con farisaico pietismo, se non addirittura con colpevoli censure e omissioni, scegliendo spesso punti di vista parziali, ricorrendo a fonti non sempre attendibili, ribadendo cliché scontati e obsoleti, ma soprattutto utilizzando una terminologia fuorviante e semplificatoria.

Attraverso un suo personale percorso di ricerca, l’autrice analizza la struttura narrativa di articoli, titoli e documentazioni fotografiche riguardanti gli omicidi di donne, spesso basati su repertori retorici di impianto fiabesco, in cui realtà e fantasia finiscono per sovrapporsi. In generale, nei giornali prevale la descrizione morbosa o romanzata dell’assassino, ridotto frequentemente alla figura del folle ottenebrato dalla gelosia o dal troppo amore, portato a delinquere a causa di una situazione familiare depauperata e violenta. Il male viene stereotipizzato: “I motivi ricorrenti e il profilo psicologico dei personaggi delle favole tradizionali, traslando di storia in storia, dopo un po’ diventano elementi ripetitivi e riconoscibili. I cattivi si tramutano puntualmente in maschere teatrali, personaggi da commedia riproposti all’infinito… gli schemi dell’universo favolistico vengano spesso importati nella realtà per poter giustificare i comportamenti umani che ci rifiutiamo di imputare ai nostri simili”. La vittima invece (ragazzina, donna, fidanzata, moglie, madre, sorella) interessa meno, le viene negata l’attenzione anche da morta. Se va bene, “la reazione unanime è sempre quella di un composto, sommesso, quasi imbarazzato: ‘poverina’”. Poverina soprattutto quando l’uccisa ha i caratteri della giovane bella, seria, decisa a non concedersi sessualmente. Altrimenti, scatta l’accusa: se l’è cercata, non ha saputo o voluto difendersi, ha tradito, provocato, umiliato, esasperato. Per l’omicida si cercano attenuanti, per la vittima colpe o imprudenze.

L’autrice fa riferimento ad alcuni recenti e crudeli femminicidi: quelli di Elisa Pomarelli, Chiara Ugolini, Barbara Gargano, Aurelia Laurenti, Jennifer Sterlecchini, Maryna Novozhylova, in cui al “mostro” si è attribuito un movente passionale o un raptus sessuale per legittimarne la brutalità, annullandone ogni responsabilità sociale e culturale. In tale maniera si occultano i perversi meccanismi determinati da millenni di dominio patriarcale che hanno concorso non solo a perdonare con indulgenza l’abuso maschile, ma anche a indurre le donne a una pericolosa romanticizzazione della violenza, a una sua rassegnata o impaurita accettazione. Davanti a “uomini cresciuti nella cultura sessista fondata sul possesso e sulla prevaricazione” spesso anche le forze dell’ordine appaiono conniventi, e i parenti dell’assassino sono indotti a discolpare l’atto efferato.

Carlotta Vagnoli propone un decalogo deontologico cui i media dovrebbero affidarsi nelle cronache dei femminicidi: evitare il sensazionalismo, la morbosità nella descrizione dei particolari, la pornografia del dolore, la colpevolizzazione della vittima, l’incoraggiamento di qualsiasi emulazione. Si dovrebbe invece assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate, affidandosi a fonti certe, imparziali e precise e citando più spesso i database ufficiali sui fenomeni di violenza di genere. I femminicidi non vanno raccontati dal punto di vista del colpevole, ma partendo da chi subisce la violenza, nel rispetto solidale e convinto della sua persona: perché è la vittima che va tutelata, non il carnefice.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 7 gennaio 2021

RECENSIONI

BORGES

JORGE LUIS BORGES, SOGNARE E SCRIVERE – IL CLUB DI MILANO, 2013 (ebook)

Di Jorge Luis Borges ((Buenos Aires,1899-Ginevra,1986), scrittore, saggista, poeta, filosofo, traduttore e bibliotecario, sono raccolti in questo economicissimo ebook alcune conferenze tenute negli ultimi anni di vita sulla letteratura, considerata dal punto di vista di chi scrive e di chi legge. Sognare e scrivere è un titolo indovinato e accattivante, espunto da uno dei saggi editi nel 2007 in Una vita di poesia. Esplicita è già l’epigrafe: “… si vantino altri delle pagine che hanno scritto; quanto a me, m’inorgogliscono quelle che ho letto. La mia lettura è molto più importante della mia scrittura”.

Partendo dai poemi medievali islandesi sulla guerra tra le forze del bene e le forze del male, in una lotta che segna il crepuscolo degli dei e l’inevitabile apocalisse, Borges passa a citare Shakespeare e Cervantes, Schopenhauer e Whitman, confessando di non riuscire a pensare al passato se non rifacendosi concretamente a esperienze letterarie, e ugualmente di non essere in grado di decifrare il presente, nella confusione delle cronache giornalistiche. Immaginandosi immortale, come ogni essere vivente, riesce solo a proiettarsi nel futuro più prossimo, scandito da azioni e progetti concreti.

“Io vedo la storia come un lungo sogno, un lungo sogno arbitrario e, quello che forse è più strano, è che è un sogno che sogna se stesso. Un sogno senza sognatore. Forse questo mi allontana dal cristianesimo e mi avvicina al buddismo”. Riguardo alla propria esistenza individuale, ritiene sia meglio rimanga velata, inconoscibile a se stesso e agli altri, mentre per ciò che concerne la propria scrittura, sa che essa si produce come per miracolo: “Sento all’improvviso che qualcosa sta per occorrermi e allora la mia anima, la mia coscienza, stanno in atteggiamento passivo, e aspetto, e qualcosa occorre, che può essere una favola. Di questa favola mi è dato vedere il principio e la fine, non quello che succede tra il punto di partenza e la meta: questo, devo scoprirlo io”.

L’arte accade, e l’artista si deve porre in una posizione di attesa, in modo di accoglierla nel suo avvenire. Le teorie estetiche, le scuole e le correnti non hanno alcun rilievo nell’ispirazione e nella composizione di un’opera: interviene qualcosa d’altro, il subconscio, o lo spirito. Anche la storicità di un romanzo o di un poema non lo interessa, bensì solo la fascinazione prodotta dalla sua musicalità: la poesia è suono, incantevole affabulazione.

Molto interessanti sono le considerazioni che Borges fa sull’individualità, che non ha alcun rilievo come culto della propria immagine personale, in quanto siamo tutti inessenziali e destinati a morire e a venire dimenticati: “L’umanità è immortale, non l’individuo. Io non voglio essere immortale in quanto individuo… Solo la poesia e l’arte non possono morire”. Riguardo alla sua attività di autore, afferma: “Ho fatto di me questa strana cosa, un uomo di lettere, un uomo il cui destino è cambiare le sue emozioni in parole, scriverle, forse pensare non tanto al loro senso quanto alla loro cadenza, alla loro musica, alla loro suggestione, e creare sogni”.

Convinto che uno scrittore debba essere fedele non tanto alle proprie idee, quanto ai propri sogni, Borges ritiene essenziale che un poeta si dimostri sensibile a ogni cosa, e sappia poi trasformare le cose in parole: in ciò risiede il suo dovere etico. “Non so che cosa significhi la mia opera. Non so se ho un’opera. Sono piuttosto frammenti, abbozzi in cui però la gente ha trovato qualcosa e in cui, forse, c’è veramente qualcosa, nonostante le mie intenzioni”. Noi lettori prendiamo atto stupiti della modestia con cui uno dei massimi letterati del ’900 si esprime in queste conversazioni: l’umiltà delle anime grandi, che si riconoscono piccole nei confronti dell’infinito temporale e spaziale. Completano l’ebook una breve nota biobibliografica e una galleria di ritratti dell’autore.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Sognare-e-scrivere-Borges    7 gennaio 2022

 

 

 

RECENSIONI

McGOUGH

ROGER McGOUGH, LA RESA DEI CONTI – MEDUSA, MILANO 2021

L’antologia di Roger McGough pubblicata da Medusa raccoglie versi tratti da quattro raccolte uscite in Gran Bretagna tra il 2009 e il 2021. McGough, nato nei pressi di Liverpool nel 1937, oltreché poeta è drammaturgo, performer teatrale, autore di testi per l’infanzia e conduttore da più di vent’anni del seguitissimo programma radiofonico della BBC Poetry, Please. Negli anni’60 ha iniziato la sua carriera come paroliere pop e componente di un trio musicale cabarettistico di successo: questa esperienza di contatto diretto con il variegato pubblico giovanile inglese – in un decennio in fibrillazione per la rivoluzionaria comparsa di nuovi gruppi rock –, e il sapiente utilizzo di mezzi di comunicazione di massa, lo mise in grado di servirsi di un lessico quotidiano, provocatorio e veloce, tipico di una generazione di adolescenti che a gran voce reclamava attenzione sul palcoscenico mondiale.

Il suo primo volume di versi, The Mersey Sound, scritto in collaborazione con altri due poeti di Liverpool, divenne nel 1967 un best seller, e conobbe numerose ristampe, grazie a un linguaggio sperimentale, misto di cultura classica e popolare, fitto di termini slang, calembour, citazioni tratte dal cinema, dai fumetti, dalle canzoni, con l’esplicita tendenza a un’oralità fatta di un fraseggio sincopato e poliritmico, variazioni fonetiche, pause improvvise, ripetizioni, elenchi e rime elementari.

L’ironia e lo sberleffo al paludato stile accademico di quel lavoro inaugurale, si mantenne anche nelle produzioni successive di McGough, sempre improntate all’ironia e all’autoironia, e soprattutto a una grande abilità divulgativa. Nell’antologia di cui ci occupiamo, che esibisce il programmatico titolo de La resa dei conti, permane l’entusiastica adesione a un’esistenza vissuta intensamente, senza censure o rimpianti, anche nell’età più avanzata, da godere con dinamismo e gioiosità, pur nella consapevolezza dell’avvicinarsi della fine: “Non c’è cura per l’invecchiamento / La morte sarà incurabile, ma diventare vecchi non è una malattia”. Convinto che l’essere anziani non sia una condanna, ma una stagione della vita da affrontare con pienezza, ne tratteggia con arguzia e spietata sincerità pregi e difetti, schernendo anche L’eterno riposo con un invito ad andare in discoteca: “Alza il volume, abbassa la Luce Perpetua, / e lasciali divertire. Amen”.

Quanti indirizzi cambiati, treni presi e persi, libri letti e dimenticati. Ma è sempre valsa la pena, secondo Roger McGough, di sbagliare e ricredersi, di ridere e piangere, in omaggio al caleidoscopico e futile teatrino della vita. I ricordi? Da rinverdire solo se divertenti. Gli amori? Nessuna nostalgia, visto le delusioni che hanno procurato. I figli? Da sfruttare economicamente, facendo pagare loro quanto sono costati. I consigli da dare alle future vedove? Sghignazzanti e vendicativi. Il decadimento fisico? Si accetta come inevitabile pedaggio per il privilegio di non essere ancora morti. La lezione da dare al mondo consiste nello sbeffeggiare gli stereotipi sul decadimento senile, o rinforzarli sadicamente, sogghignando.

In Grandi abbracci, il poeta si chiede “Prima di andare, a chi do un abbraccio?” ed enumera familiari e amici, fidanzate e insegnanti, vacanze e sbronze: ma soprattutto le parole “che sono sempre state una buona compagnia”. Convinto che l’eternità celeste auspicata da molti sia noiosissima, McGough dedica numerose composizioni del suo ultimo volume all’attualità (in particolare alla pandemia che sta convertendo il genere umano a un gretto individualismo), alle abitudini mantenute con scarso spirito critico (le lunghe code negli uffici, l’ubbidienza ai diktat dei media, l’ossessione delle statistiche) e al ruolo pubblico e privato rivestito dalla poesia, arte inutile, non remunerativa,  tuttavia disinteressata, e talvolta addirittura nobile: “Facciamo festa per la nascita della poesia / Per il bisogno di interrogare, ispirare e creare / Che se ne elenchino i modi. Facciamo festa”. Perché, come scrive Franco Nasi nella postfazione, “La poesia è una cosa che ci riguarda, che ri-guarda le nostre vite, e che può aiutarci a dare qualche risposta”. Quindi, Poetry, Please.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei Libri del mese» n. I, gennaio 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

CIMATTI

FELICE CIMATTI, SGUARDI ANIMALI – MIMESIS, MILANO 2018

Felice Cimatti (Roma, 1959) si occupa di filosofia, psicanalisi, linguaggio, realtà e sovra-realtà, con un occhio attento anche al mondo non umano. Insegna all’Università della Calabria, e conduce su Rai Radio 3 la trasmissione Uomini e profeti.

In Sguardi animali indaga il concetto di animalità, partendo dal commento di vecchie fotografie in bianco e nero acquistate su bancarelle di robivecchi, in cui il non-umano si accompagna all’umano: personaggi anonimi di ogni età, sesso, condizione sociale posano distrattamente o narcisisticamente, insieme a gatti, cani, cavalli del tutto indifferenti all’obiettivo che li immortala. Oltre alle numerose immagini di sconosciuti, nel libro edito da Mimesis sono presenti scatti di volti famosi, da Mastroianni a Hemingway, quadri celebri, paesaggi e nature morte, collegati tra loro dalla presenza di dettagli estranianti e inattesi, che hanno la funzione di turbare chi guarda, proponendo qualcosa di inafferrabile, di non facilmente razionalizzabile. Questo particolare inquietante è appunto l’animalità dell’oggetto rappresentato, corpo vivo, edificio, albero, ombra che “spezza la composizione e il progetto iniziale” di chi ha scattato la fotografia, lasciando apparire “il mostro”, che nella sua etimologia latina indica il prodigio, l’eccezionalità. Il movimento è bloccato: sul sorriso di una ragazza, su un cagnolino immobile, su una mano o una gamba sbucanti dal margine, su un movimento impedito.

“La fotografia è un luogo esemplare dell’animalità, come apparizione improvvisa e spesso anche sgradita di quell’elemento vitale, animale appunto, del mondo che nessun preesistente quadro concettuale riesce a contenere. Perché l’animalità disturba, proprio come la vita disturba, perché è novità e sorpresa”.

Per animali di solito intendiamo quelli domestici, e addomesticati, quasi umanizzati, a cui attribuiamo dei diritti e concediamo la nostra attenzione morale. Ma gli animali “altri” (una talpa, una zanzara, un ragno, un’ameba, un microbo) li sentiamo allo stesso modo portatori di desideri e intenzioni, e quindi di prerogative di difesa legale, o invece l’idea di animale rimane in qualche modo allegorica, non incarnata, solo pensata? “Un animale è sempre un discorso sull’animale, sia scientifico che mitico, realistico o fantastico, effettivo o immaginario”.

Per Cimatti, l’animale è un ente linguistico, è “vita catturata dal linguaggio”. Allora, l’animalità riguarda i non-umani e gli umani, soggetti e oggetti, attivi e passivi, tutti i corpi materiali che “possono fare qualcosa nel mondo”. Anche un sasso è un corpo, agli occhi di un gatto: “Vedere il mondo dal punto di vista dei corpi, non da quello del soggetto, dell’homo loquax, questa è l’animalità… Si tratta di permettere all’animalità di apparire… semplicemente di apparire”, senza essere categorizzata. L’animalità esprime una lacerazione che rende visibile il mondo, in cui il soggetto diventa oggetto senza cessare di essere soggetto. Anche l’uomo pertanto diviene animale, è visto all’interno di un mondo di intensità pure, aldilà di ogni significato, e “al di qua della distinzione tra conscio e inconscio, fra razionale e irrazionale, fra parola e silenzio… L’animalità non vuole né pensa nulla, non desidera né rimpiange nulla, non manca di nulla”.

La riflessione teorica di Felice Cimatti si situa tra indagine psicanalitica e problematicità filosofica, ma nel commento delicato e sensibile alle immagini fotografiche sfiora l’impalpabile grazia della poesia.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Sguardi-animali-Cimatti    28 dicembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TARTAGLIA

FERDINANDO TARTAGLIA, ERETICO “VITANDO”

Ferdinando Tartaglia (Parma, 1916-Firenze 1988), prete, teologo, saggista e poeta, è stato uno dei più singolari protagonisti del pensiero religioso contemporaneo. Ordinato sacerdote nel 1939, studioso e traduttore di testi spirituali e mistici, fondò nel 1942 una comunità religiosa, presto sciolta dalle autorità ecclesiastiche perché ritenuta troppo critica nei riguardi della Chiesa; collaborò quindi a Firenze con Aldo Capitini nei Centri di orientamento sociale.

Nel 1944 gli venne proibita la celebrazione della messa, nel 1945 gli fu interdetto l’abito ecclesiastico e nel 1946 venne colpito dalla scomunica di terzo grado (la più grave in ambito cattolico, che lo definiva come vitando, da evitare fisicamente, espellendolo in pratica dalla collettività dei credenti) per aver commemorato lo scomunicato ex-prete Ernesto Bonaiuti. Così si difese in quell’occasione: “Se Buonaiuti fu prete e credette nella missione e nel destino della Chiesa, anch’io. Se Buonaiuti cercò di trasmettere alla Chiesa la volontà del mutamento e aprire uno spiraglio in quell’abside morta, anch’io. Se Buonaiuti, deluso dalla mancata risposta della Chiesa, tentò d’incrinare la grande cupola cattolica, anch’io. Se Buonaiuti fu respinto, allontanato dalla comunità dei fratelli, anch’io, presto!”.

Le accuse che gli erano valse la scomunica (revocatagli solo nel 1987, un anno prima della morte) erano state la disobbedienza, la diffusione di dottrine false, l’eresia e il tentativo di sovvertire i fondamenti della religione. Nei quarant’anni di esilio dal cattolicesimo, Tartaglia scrisse un’enorme mole di saggi, aforismi, articoli e più di settemila poesie, in cui esponeva, con toni profeticamente roventi, la necessità di una trasformazione radicale del cristianesimo, libero da divisioni e barriere confessionali, e in grado di rinnovare lo spirito dell’umanità infiacchito spiritualmente.

Dai primi anni duemila, l’editore Adelphi si è assunto l’incarico di ristampare alcune opere di questo sacerdote visionario e rivoluzionario, poeta “pazzo di Dio”, polemista coraggioso e profondo conoscitore delle Scritture, e alcuni studiosi (Giulio Cattaneo, Sergio Quinzio, Adriano Marchetti, Marco Marchi, Roberto Saviano) hanno rivalutato e commentato i suoi scritti, vagliando l’enorme quantità di inediti lasciati in eredità alla moglie Germaine Muhlethaler, e da lei catalogati. Lo stile di scrittura di Tartaglia, appassionato e caustico, utilizza metafore abbaglianti, una sintassi contorta, un lessico volutamente straniante e obsoleto, inteso a stupire e magari irritare il lettore con il suo eccentrico sperimentalismo, risvegliandolo dal tradizionale e snervato classicismo della prosa novecentesca.

In Tesi per la fine del problema di Dio l’intenzione teologica più evidente risiede nella volontà di svincolare Dio da qualsiasi limitante attributo, compreso quello di creatore, proclamandone invece l’assoluta libertà dall’essere e dal non essere; un Dio capace di oltrepassarsi, superando se stesso nella verità del “puro dopo”, “posttrascendenza e postimmanenza”; da Dio necessitante a Dio liberante, “Dio nuovo, strutturato secondo pura antimemoria e puro futuro”, tramutato e tramutante. Concetti ostici e dirompenti, espressi in un linguaggio altrettanto difficile e impetuoso.

Ne La religione del cuore quattro brevi saggi delineano con ardore dissacratorio alcune figure fondamentali del pensiero spirituale dell’Occidente. Di Blaise Pascal e delle sue Provinciali, Tartaglia afferma: “Io non trovo il mio Dio in Pascal”, accusando il filosofo francese di scarsa carità, rigorismo farisaico, tiepidezza ideologica ed eccesso di ironia. Molto più accese sono poi le sue accuse contro l’Ordine dei Gesuiti, “né liberi né redenti… menti inchiavardate… gregari ciechi e obbedienti … Il Vangelo è libertà voi siete asservimento, il Vangelo è servizio voi siete impadronimento, il Vangelo è amore voi siete prudenza e tenace non-perdonanza, il Vangelo è superiore impotenza voi siete conato alla violenza, il Vangelo è miracolo voi siete assenza”. Altri tre interventi del volume meritoriamente riproposto da Adelphi nel 2008 sono dedicati a Malebranche, Newman e Gabriel Marcel. Riguardo a quest’ultimo, esponente dell’esistenzialismo cattolico francese tra le due guerre, Tartaglia pronuncia un severo e acuto giudizio di disapprovazione filosofica, accusandolo di un “esangue teologizzare impressionistico” e di una “segreta concessione al decadentismo” che lo avvicina pericolosamente a un irrazionalismo intuizionista “conservatore, a servizio dell’ordine costituito”.

Ma è nella lingua delle sue poesie, dura, irriguardosa, eccitata, violenta, modellata sui toscani del Duecento, che più si esprime l’azzardo radicale e infuocato del prete “vitando”. In un ritmo rapido, con irriverenza e sarcasmo antidevozionali, esibisce una verticalità di pensiero esclusivo ed eccentrico. Recupera gli abbandoni estatici della mistica medievale declamando ossessivamente le argomentazioni teologiche che lo hanno condannato non solo all’esclusione dalla Chiesa, ma anche a un esilio culturale non ancora superato:

“Quando io dico ‘Oltre Dio’ / quando io grido ‘Dopo Dio’ / come vorrei essere capito / come vorrei essere capito. / Ma non ò le parole. / Non sarò capito”, “E quante cose avrei ancora da dire / prima di andare a la casa dei morti. / Mi chiudono bocca le sature sorti. / Tacere. Tacere. E soffrire”, “La rosa / così inutile è cosa che spaventa. / Anche la poesia: come la rosa”, “Vèstiti di nero / vèstiti a gramaglia Tartaglia. / Finché ci sarà una vita un uomo una pianta / un verme un animale che soffre in terra / un dio che soffre in cielo / come potrai vestirti tu di bianco / tu al banco di pianto tu Tartaglia?”, “Dopo il processo di Socrate / di Gesù / di Giovanna d’Arco: / Non vi vergognate ancora d’esser giudici?”, “Io non sono demiurgo. / Io non sono teurgo. / Io non sono ungitore di passato. / Io sono ungitore di futuro. / Io sono futurgo”, “Le cose morte durano in eterno / le cose vive subito muoiono serve”, “Io vivo ne le sagrestie. / Qui tutto è nientità / Tutto è mistero”, “Satana scese in terra e da mansarda / di parigi inventò cinema e affini. / A l’uomo disse: non pensare, guarda! / così in pugno vi avrò tutti: cretini”, “Quando sono dolore, io sono Dio. / Dio non è altro che dolore, Dio. / Quanto più Dio e tanto più dolore / e il dolor di dolore è Dio di Dio”, “Se voglio bene al ragno / devo lasciargli mangiare la mosca. / Se voglio bene alla mosca / non devo lasciarla mangiare dal ragno. / Com’è difficile o sultano! / tu provvidente signore / com’è impossibile amare tutti / in questa cosca d’orrore”.

Di quest’uomo dal “nome di re e dal cognome di buffone” e del suo “intelligentissimo delirio poetico e filosofico” Roberto Saviano ha scritto: “Il sogno di Tartaglia di liberare l’essere umano dal vincolo del progetto, dalla traccia, della tradizione e dal dogma sembra raccogliere in sé un lungo percorso attraversato dalle orme dei ribelli trecenteschi, dagli eretici del cinquecento, dai catari, dai filosofi arsi vivi, un percorso che innesca la sua voce attraverso Rilke, i passi di Cervantes e le parole di Errico Malatesta…  Ferdinando Tartaglia l’eretico, l’agitatore, il chierico studioso, l’eremita sessuofobo, il ripudiato, il riconciliato, l’anarchico, il politico rinnovatore, il poeta sublime, l’inetto freddoloso, il satiro fastidioso, il militante romantico. Tartaglia è impensabile poterlo rubricare. Potrebbe legittimamente essere fregiato d’ogni titolo e sfregiato d’ogni insulto”.


Di Ferdinando Tartaglia
: Tre ballate, Book Editore 2000; Tesi per la fine del problema di Dio, Adelphi 2002; Poesie. Esercizi di verbo, Adelphi 2004; La religione del cuore, Adelphi 2008.

Su Ferdinando Tartaglia: Giulio Cattaneo, L’uomo della novità, Adelphi; AAVV, L’eretico Ferdinando Tartaglia, Polistampa, Firenze 2011.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 22 dicembre 2021

 

RECENSIONI

BRAIDOTTI

ROSI BRAIDOTTI, FUORI SEDE – CASTELVECCHI, ROMA 2021

“Vita allegra di una femminista nomade”, recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Rosi Braidotti, ironica e stimolante autobiografia di una delle pensatrici più autorevoli nell’ambito della teoria femminista contemporanea. Nata a Latisana nel 1954, dopo il ginnasio si è trasferita con la famiglia in Australia, laureandosi in filosofia a Canberra. Concluso il dottorato conseguito alla Sorbona, si è trasferita nei Paesi Bassi, dove insegna dal 1988, attualmente in qualità di Distinguished University Professor all’Università di Utrecht e di Direttrice fondatrice del Centre for the Humanities.

Una carriera accademica prestigiosa, che l’ha portata a rivestire importanti ruoli di ricerca a livello internazionale, e a ricevere riconoscimenti e lauree ad honorem in atenei di tutto il mondo. I suoi lavori riguardano i processi di formazione e l’emergere di soggetti sociali nuovi e alternativi, al di là delle categorie socialmente imposte delle rappresentazioni familiari, delle differenze di classe, razza, genere o affiliazione politica. Il suo intento prioritario è la rifondazione di una filosofia non più centrata sul pensiero del maschio bianco occidentale, ma aperta a un nuovo umanesimo cosmopolita, in campi attinenti al femminismo, agli studi etnici e al pensiero post-antropocentrico.

Il volume di cui ci occupiamo, opportunamente intitolato Fuori sede, consta di quattro saggi autobiografici tratti da pubblicazioni precedenti, in cui l’autrice suddivide le tappe fondamentali attraverso cui si è snodata la sua esistenza e la sua riflessione scientifica. Nell’introduzione, Braidotti afferma di sentirsi più a suo agio nell’indagare e raccontare la vita degli altri (vicini e lontani, amici e sconosciuti) piuttosto che la propria: “Io ho l’impressione di mancare a me stessa costantemente, di differire da me”. Ciò che viene ripetutamente e orgogliosamente sottolineato dall’autrice, è la necessità di disidentificarsi da ogni forma di identità autoreferenziale e narcisistica: cosa che le è stata resa più facile dalla propria vicenda di emigrata, dal nomadismo professionale e dal plurilinguismo acquisito, motivando in lei forti spinte egalitarie, femministe, post-nazionaliste e antirazziste.

Così confessa nel primo capitolo: “Quattro passioni fungono da forze motrici dei concetti e degli affetti che strutturano il mio percorso intellettuale: la scrittura, la filosofia, il femminismo e il presente”, e su tali linee portanti si sofferma con motivato fervore. Ci racconta quindi dei 193 quaderni di diario che aggiorna quotidianamente dall’adolescenza, delle prime pubblicazioni su riviste di Women’s Studies, della vita culturale di Parigi (il post-strutturalismo, la psicanalisi, il marxismo), dei maestri francesi – Foucault, Irigaray e Deleuze – che le hanno insegnato quali relazioni di potere operino all’interno del linguaggio. Descrive la carriera universitaria a Utrecht, i due libri di successo che l’hanno fatta conoscere all’intellettualità internazionale (Dissonanze e Soggetto nomade), l’incontro con la sua compagna di vita, Anneke Smelik, nel 1987.

Un intenso attivismo istituzionale ha portato Rosi Braidotti a occuparsi dell’aspetto progettuale di una nuova Europa, capace di superare sovranismi e arroccamenti egemonici, e a intessere rapporti fecondi con le nuove generazioni, ideando programmi di intercambio studentesco tra le varie nazioni.

Chi leggendo rimanesse impressionato dalla vastità delle ricerche dell’autrice, si sentirà ancor più coinvolto dalla narrazione commossa della sua infanzia e adolescenza nella bassa veneto-friulana degli anni ’50-’60, descritta nella terza sezione del volume, Una vita a zig-zag (“Il fatto di essere cresciuta vicino a una frontiera mi ha lasciato in eredità un forte sentimento d’instabilità, oltre che la sensazione netta di poter   vivere molte vite”). Famiglia, collegio, Sanremo, alluvioni, antifascismo, gli scout, i Beatles e Che Guevara, un amato zio prete; poi lo strappo dell’emigrazione forzata in Australia, l’immersione in un’altra lingua, l’indagine filosofica da cui ha preso avvio una brillante carriera di studiosa, i lunghi anni di analisi, l’omosessualità, il grande amore con Annike.

Se, come si dice, il destino di una persona è il suo carattere, Rosi Braidotti ha dimostrato nella sua esistenza raccontata in Fuori sede, non solo un temperamento risoluto, perseverante e anticonformista, ma anche un’indole simpaticamente ironica e apertamente gioiosa, come possiamo arguire già dall’espressione sorridente e fiduciosa del ritratto in copertina, che pare invitarci ad affrontare “le sfide epocali che ci aspettano con solenne e   insolente leggerezza”.

 

© Riproduzione riservata               21 dicembre 2021

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RECENSIONI

DÉSÉRABLE

FRANÇOIS-HENRI DÉSÉRABLE, ÉVARISTE – BALDINI+CASTOLDI, MILANO 2017

“Questa è la storia di Évariste Galois, genio della matematica che morì in duello a vent’anni”. Così, in una scarna frasetta, lo scrittore francese François-Henri Désérable condensa nel Prologo la vita del protagonista del suo libro, biografia romanzata di un personaggio storico e leggendario insieme.   Cos’altro si potrebbe dire, infatti di un’esistenza racchiusa nel breve scorcio di due date: 1811- 1832? Si può dire tanto, in effetti, e il trentaquattrenne scrittore francese Désérable (ex giocatore professionista di hockey su ghiaccio e autore già di quattro romanzi di successo) lo fa imbastendo una narrazione vivace e scaltramente maliziosa, con un occhio al mercato librario e un altro al materiale d’archivio.

Nato a Bourg-la-Reine, in una famiglia borghese e colta, secondogenito tra Nathalie e Alfred, Évariste Galois ebbe probabilmente un’infanzia serena, seguita con attenzione e affetto dalla mamma Adélaïde, che esercitava anche le funzioni di amorevole precettore dei figli, e il padre Gabriel Galois, insegnante liberale e giacobino, aspirante poeta, e sindaco della cittadina. Mandato a studiare a Parigi, nel liceo gesuita Louis-le-Grand, il ragazzo (definito dai docenti ribelle, indisciplinato, verboso, indisponente verso i compagni) rivelò presto una particolare predisposizione per la matematica nella branca dell’algebra astratta. Più che un semplice trasporto, il suo era un prodigioso talento, tale da mettere in crisi i superiori. Nonostante ciò, venne bocciato due volte all’esame di ammissione dell’École Polytechnique e in seguito fu espulso dall’École Normale per un atto di ribellione nei riguardi di un professore. La sua rivoluzionaria “teoria dei gruppi”, formulata nel 1830 e consegnata all’Académie des Sciences con il titolo Memoria sulle condizioni di risolubilità delle equazioni per radicali, non venne presa in considerazione da tre massimi studiosi della materia – Cauchy, Fourier e Poisson -, che addirittura ne smarrirono la copia originale. Sconvolto dall’indifferenza del mondo universitario e dall’improvviso suicidio del padre, Évariste si allontanò dalla ricerca, gettandosi con impetuosa furia nella mischia rivoluzionaria, tra le barricate parigine. Arruolatosi nell’artiglieria della Guardia, prese parte a tutti i tumulti e le sommosse che agitarono la capitale all’inizio del 1831. Con lui, Alexandre Dumas e un altro centinaio di rivoltosi. Venne arrestato durante un banchetto per “istigazione all’attentato alla vita e alla persona del re dei francesi”. Messo in prigione, processato, assolto, poi di nuovo incarcerato per sei mesi a Santa Pelagia, di notte in cella continuava a prendere appunti sulle sue tesi matematiche. Genio indocile e rabbioso eversivo, tornato in libertà si innamorò di una giovane donna, Stéphanie, compromettendone l’onore. Sfidato a duello dal fidanzato di lei, passò la notte prima dello scontro a sistemare il teorema algebrico a cui si era dedicato per tre anni, e a scrivere lettere di commiato, sicuro di venire ucciso. “Non ho tempo”, chiosava a margine di sette fogli zeppi di formule, oggi celebrati dalla comunità scientifica internazionale perché da essi sono nati i concetti di “gruppo” e “campo”, alla cui comprensione si è arrivati, a opera di algebristi diversi, solo dopo settant’anni.

Fin qui l’incredibile vicenda umana di un eccezionale e sventurato ragazzo vissuto nella Francia del primo ’800. Su come François-Henri Désérable ce l’ha raccontata, forse è il caso di esprimere qualche considerazione. In una sorta di riduzione macchiettistica della Storia a cronaca un po’ pettegola un po’ ridanciana, le vite dei vari personaggi si situano in uno spazio sospeso tra caso e necessità, in cui ogni nascita, morte ed evento socio-politico diventa accidentale e ininfluente, all’interno degli imperscrutabili disegni del “Vecchio”, un Dio assonnato e insensibile “che la maggior parte del tempo se ne frega”. A ogni occorrenza temporale raccontata, Désérable contrappone le vicende parallele di famosi contemporanei (Beethoven, Napoleone, Hugo, Stendhal…) impegnati in tutt’altre fondamentali occupazioni, a sottintendere che niente, nell’economia universale, ha carattere duraturo ed essenziale. Coinvolgendo continuamente il lettore a suffragare il suo punto di vista (“Sapete com’era l’Ancien Régime, no?”, “conoscete già il repertorio”, “Capite perché? No, voi non capite”, “Ma vi sto annoiando”, “come me, non avete capito una sola parola”), si dilunga in divagazioni spiritose, salti temporali, equilibrismi narrativi. Le rare situazioni collegabili alla sessualità vengono rese con scanzonata, goliardica grossolanità, esibendo nel contempo pillole di saggezza dal sapore alquanto scontato (“cos’è in definitiva la bellezza se non una forma di bruttezza alla moda?”, “il tempo è una puttana dal sorriso vendicativo”). I due capitoli conclusivi, narranti la morte di Évariste colpito da una pallottola allo stomaco, tendono a riscattare nell’esplicita emotività le cadute di stile del romanzo.

Peccato, perché la storia del giovane matematico avrebbe meritato un’empatia più controllata e rispettosa. Tant’è: la moda di una narrativa da salotto televisivo, importata dagli States, sta diffondendosi anche da noi, imponendo formule di scrittura scorrevolmente banali, purché accattivanti.

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 dicembre 2021

 

 

RECENSIONI

ROMANO

LALLA ROMANO, MARIA – EINAUDI, TORINO 2021

Presentando nella famosa collana einaudiana de I gettoni la seconda prova narrativa di Lalla Romano (1906-2001), Elio Vittorini nel 1953 scriveva: “Una storia di rapporti umani che si realizzano, pagina su pagina, come rapporti ritmici, e che tuttavia tendono a mostrare, malgrado il loro ripetersi, quanto di unico e insostituibile, di dato una volta per tutte, vi sia in ogni individuo”.

L’individuo in questione è Maria, protagonista del racconto, una donna mite, di origini contadine, che lavora come domestica presso una raffinata famiglia borghese, nell’arco dei vent’anni che precedono la seconda guerra mondiale. La voce narrante è invece quella della giovane signora, sposata con Pietro, che l’ha assunta prima di partire per il viaggio di nozze, e al ritorno la osserva attraverso la porta socchiusa: “Stava seduta sull’orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte nel grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all’ingiù, avevano un’aria rassegnata e un po’ triste”. In quello stare appena appoggiata alla sedia è già delineata la ritrosa timidezza, la composta e intimorita discrezione della governante. Più avanti ne viene descritta anche la dedizione attenta al lavoro: “Essa si aggirava per le stanze senza far rumore, era sempre occupata e non faceva domande”, “Maria conferiva, a tutte le cose che faceva, una certa solennità; senza imporle per niente all’attenzione, anzi sbrigandole con discrezione e silenzio”.

Quando la signora partorisce un bambino, la domestica ne diventa la balia, affettuosa e trepidante: le due donne se ne occupano senza reciproche gelosie, senza ansie di possesso, rinsaldando tra loro una complice ma sempre rispettosa solidarietà.

Maria riceve talvolta i parenti in visita dalla campagna, oppure invita l’intera famigliola dei datori di lavoro nelle vecchie case abitate da fratelli, cognati, nipoti: nelle rare e pudiche confidenze che si permette con la padrona racconta con nostalgia del padre severo, della povertà patita, delle figure più suggestive della sua infanzia e dei rapporti nutriti da maggiore tenerezza: con il nipote Fredo, sacerdote salesiano morto di tisi, con lo zio Barba e il fratello Giovanni, con le tante mogli e madri consanguinee usurate dai lavori domestici e nei campi. Si confrontano così a livello di microcosmo due diverse società: quella urbana e borghese, laica e intellettuale, e quella rurale, culturalmente arretrata ma salda nei principi morali e nei vincoli familiari, austera e ancora priva di rivendicazioni di classe.

Maria, scissa tra modelli di vita tanto differenti, rimane fedele a entrambi, con la dedizione che le è propria. Segue i padroni quando si trasferiscono a Torino, nonostante la diffidenza provata per la grande città, soprattutto per non dover abbandonare il bambino che le è stato affidato. Li accompagna obbediente nelle vacanze in Versilia o in montagna, partecipando a tutte le loro vicissitudini quotidiane, godendo e soffrendo di ogni loro gioia e dolore. “Maria non si era mai risparmiata; aveva sempre lavorato, per i suoi, ma anche per gli altri, quando ce n’era stato bisogno; lei voleva bene ai suoi, ma anche ai dolori degli estranei, compativa; e si sa che anche voler bene, stanca”. Infatti, si ammala di cuore: viene sostituita da altre governanti, e poi riassunta perché insostituibile. Fino all’inevitabile e malinconica conclusione del rapporto di reciproca dipendenza.

In uno stile asciutto e sorvegliato, mai retorico, Lalla Romano ha saputo rendere settant’anni fa atmosfere private e ambientazioni sociali, attraverso la descrizione attenta e intenerita di una donna poco consapevole, nella sua gracilità, della propria forza. Incapace di lusinghe e scaltrezze, docilmente rassegnata al suo ruolo di servizio privo di prospettive o speranze di riscatto, a Maria ci sembra debbano spettare le beatitudini promesse dal Vangelo.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 dicembre 2021