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POESIE

9 MAGGIO 1978

Scriveva.

Un memoriale, lettere, biglietti:

due volte al giorno circa,

in quei cinquantacinque

interminabili.

A mano, fogli bianchi.

Seduto rannicchiato

sul fianco che doleva.

“Miei cari”, e spesso

“Mia dolcissima”.

A volte più formale.

Monsignore,

Onorevole,

Presidente, Colleghi.

Beatissimo Padre, Santità.

Il testamento,

ricopiato e corretto

a più riprese.

Titubante commosso

malinconico rabbioso.

Minacciava implorava.

Da padre da marito

impartiva istruzioni: ritirare

una camicia al lavasecco,

vaccinarsi contro l’influenza,

chiudere il gas la sera.

Famiglia amata che ha bisogno

di lui.

Forse non si deve essere,

neppure poco, felici:

scriveva.

 

 

Pregava.

Inginocchiato a terra,

sdraiato sulla branda.

Con voce bassa, appena sussurrata.

Solo una notte urlando, pietà di me,

nel sonno. E poi maledicendo

“ricadrà il mio sangue su di loro”.

Ma sia fatta

la volontà di Dio, mi assista

la Madonna:

ubbidiente umilmente,

nella pienezza della fede

cristiana.

Ascoltava

la Messa registrata,

meditava il Vangelo, recitava

il rosario.

La Chiesa del Signore

non consegna

i suoi figli al macello.

Mi ha avuto

interprete suddito

modello. Non può volermi

martire, in questa muta

indegna catacomba:

pregava.

 

 

Ammoniva.

Ucciso tre volte,

chiamato a pagare

da solo

per colpe di molti.

Prigioniero politico

di un attacco

al cuore dello stato,

nel processo popolare

a trent’anni di potere.

Potere condiviso con altri,

lividamente zitti

impauriti, impantanati

in ambigue posizioni,

ostinati immobilisti a difesa

della ragion di stato,

di un astratto principio

legalista.

Rimasto senza amici,

sono stato ucciso tre volte;

tutti d’accordo

nel preferirmi cenere.

Non salverò nessuno.

Gli onesti piangeranno,

ne sarete travolti:

ammoniva.

 

 

Ricordava.

Discorsi pronunciati

in Parlamento,

fumosi nel dire

nel non dire,

commentati

derisi applauditi.

Bilanciere di opposte

ideologie, cauto assertore

di accorte convergenze,

alleato a spuntati

neutrali compromessi.

Perseguite amicizie

vantaggiose,

impedite ostilità

inquietanti;

trattative corruzioni

insabbiamenti.

C’era qualcosa, a consolare.

Innocui itinerari

affettivi, indulgenti abitudini

domestiche, come

minestre di verdura a cena,

carezzare il nipote bambino,

leggere un libro

in vestaglia la domenica.

Pur tra tante mie colpe

ho vissuto

con delicate intenzioni:

ricordava.

 

 

Moriva.

Ne uscirà e non sa come,

se graziato o cadavere.

Tutto è inutile

quando non si vogliono aprire

le porte.

Indicibile angoscia della morte,

dopo un calvario di lunghe attese.

Intorno tragiche maschere

di stoffa, allucinati

occhi feritoie, voci scomposte

negli ordini severi.

Alzarsi in silenzio, seguirli

ma dove, tenebra della notte

luce di un’alba sospirata.

Eppure rassegnato, quasi in pace.

Ci rivedremo, tornerò in altra forma,

miei cari che abbandono

e non vi lascio.

Vorrei capire cosa sarà dopo.

Ci fosse luce, sarebbe molto bello:

moriva.

 

 

«Gli Stati Generali», 8 maggio 2022

RECENSIONI

MANTEGAZZA

RAFFAELE MANTEGAZZA, FUGA – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2022

Otto brevi capitoli per raccontare l’arte della fuga, non – ovviamente – quella bachiana, bensì quella che a ciascuno di noi si prospetta, almeno una volta nella vita, come liberazione dall’angoscia, allontanamento da un problema che appare irrisolvibile, exit-strategy salvifica. Raffaele Mantegazza illustra varie modalità di fuga, alcune negative, altre invece propositive, in quanto forme di resistenza rispetto a un potere onnivoro e castrante che blocca l’individuo in una situazione mortificante.

Partire, scappare, andarsene, lasciare tutto: si tratta di una decisione che può assumere la connotazione di scelta egoistica e vile, soprattutto nei riguardi della collettività da cui si prende commiato. In termini bellici e militari diventa addirittura qualcosa di spregevole. Lo stesso suicidio, anche quando esprima disperazione o richiesta di aiuto, viene spesso tacciato di codardia ed egocentrismo. In realtà fuggire è spesso l’opzione più intelligente e razionale di fronte a un pericolo o a una minaccia; addirittura può acquistare una valenza educativa, di maturazione e arricchimento culturale, poiché in grado di aprire orizzonti nuovi, offrendo esperienze esistenziali valorizzanti.

Esistono fughe di evasione, anch’esse da non biasimare: nel gioco, nel sogno, nella creazione artistica.

Altre avventurose, o difensive, o virtuali in mondi illusori, sempre più frequentati in particolare dai giovani che amano costruirsi personalità fittizie e consolatorie. Fughe pericolose perché cogenti: quelle nelle dipendenze da droghe o alcol. Socialmente svantaggiose, come la dispersione scolastica. C’è poi un modo di sottrarsi alla libertà e all’indipendenza di giudizio, nella speranza di trovare sicurezza e protezione nella massificazione e nel conformismo, nella rinuncia al proprio io, temendo il confronto o la sconfitta nel rapporto con gli altri.

Fuggire nello spazio è sempre possibile: muoversi, viaggiare, emigrare sono opzioni alla portata di ciascuno. Spostarsi nel tempo, tornare con la memoria al passato o proiettarsi in un futuro fantascientifico e distopico è per ora solo una possibilità della mente, così come la capacità di innalzarsi nell’estasi mistica, secondo i percorsi tracciati da diverse tradizioni religiose.

Ci sono fughe, tuttavia, meno filosofiche, meno romantiche, meno individualistiche di quelle dettate da ribellioni, ansia di avventura, sogno. Intraprese per evitare “la fame, la miseria, l’oppressione, lo sterminio. Il capitalismo neoimperialista crea la fuga non come soluzione elitaria o come speranza di salvezza ma inizialmente come mera risposta dell’istinto di sopravvivenza. Milioni di esseri umani sono in fuga perché non possono fare altrimenti”.

L’autore puntella la sua esposizione con frequenti e originali citazioni tratte da film, canzoni d’autore, opere letterarie. Quindi possiamo leggere testimonianze bibliche e filosofiche, alternando brani di Joyce e Proust con Calvino e Rodari, recuperando i versi di Vecchioni, Fossati, Ron e Masini: anche questi rimandi testuali testimoniano quanto il fuggire (da dove, da cosa, perché?) faccia parte di uno dei comportamenti umani più frequenti e complessi. Negli ultimi cinquant’anni sono scomparse in Italia 60.000 persone: una trasmissione seguitissima come Chi l’ha visto? ne dà testimonianza settimanalmente.

Raffaele Mantegazza, Professore associato di scienze pedagogiche presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi Milano Bicocca, nelle sue numerosissime pubblicazioni, si è occupato di pedagogia, comics, fantascienza, sapienza biblica, filosofia e canzone d’autore, interrogandosi sempre sulla possibilità di una resistenza nei confronti di ogni tipo di dominio e di arroganza del potere.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 2 maggio 2022

 

 

 

RECENSIONI

KEATS

JOHN KEATS, LA VALLE DELL’ANIMA. LETTERE SCELTE 1815-1820 . ADELPHI, MILANO 2021

Di John Keats (Londra,1795 – Roma,1821), unanimemente considerato uno dei massimi poeti romantici, Adelphi pubblica, con il titolo La valle dell’anima, la più ampia scelta delle lettere mai edita in Italia, a cura di Alessandro Gallenzi.

Cinque anni, dal 1815 al 1820, di vertiginoso, febbrile epistolario, che – oltre a documentarci nella maniera più completa e veritiera sull’esistenza quotidiana del poeta – ci fornisce preziose indicazioni sulla sua produzione poetica, e sull’estetica che ne è sottesa. In esso Keats rivela, attraverso una prosa contraddittoriamente raffinata e colloquiale, frizzante e ponderata, compita e familiare (talvolta addirittura approssimativa nella sintassi e nella grammatica), ogni emozione, paura e aspirazione, l’amore tormentato e passionale per Fanny Brawne, l’affetto per i fratelli e gli amici, l’arguta considerazione per i poeti coetanei Hunt, Reynolds, Shelley. Ma non si limita a un colloquio circoscritto ai sentimenti, poiché spesso travalica la contingenza comunicativa per affrontare argomenti filosofici, valutazioni di profondo spessore critico, bozzetti satirici e resoconti di viaggi, inframmezzati da poesie di ogni tipo: ballate, sonetti, stralci di tragedie, canzoni, odi, epistole in versi. La grafia, costretta a sfruttare ogni spazio offerto dai fogli onde evitare lo spreco di carta, è fitta e nervosa; lo stile vigoroso, perennemente esaltato, ricco di intuizioni folgoranti. Egli stesso è consapevole di una certa trasandatezza formale, dell’eccitata incoerenza che lo porta ad affastellare vari temi e impulsi, e così se ne giustifica con gli amici: “Continuo a saltare di palo in frasca…”, “Quando scribacchio una lunga lettera, devo essere in grado di seguire i miei ghiribizzi… di essere pesantissimo o leggerissimo per pagine intere… di essere bizzarro e immune da tropi e figure… di poter giocare a dama come voglio…”.

I primi due anni di corrispondenza sono perlopiù dedicati all’esuberante e briosa descrizione dei viaggi intrapresi nel Galles, in Scozia, in Irlanda, nelle isole di Wight e di Staffa, in cui ammirate raffigurazioni naturali di boschi, laghi, brughiere si mescolano a osservazioni pungenti sugli abitanti e sui loro costumi, e all’elenco puntuale di incontri, cene, lunghe camminate. Al culto del sublime si contrappongono commenti più banali e il gusto di battute grossolane, ma anche la consapevolezza che quel lungo vagabondare a piedi avrebbe arricchito la sua anima e la sua scrittura: “Anche prima di vederli, si possono ben immaginare i grandi spazi, la vastità dei monti e delle cascate, ma la loro fisionomia, le loro tonalità spirituali superano ogni potere immaginativo e sfuggono al ricordo. È qui che imparerò la poesia… e d’ora in poi scriverò sempre di più, nel tentativo poco concreto di aggiungere un minuscolo contributo a quella mole di bellezza che le più eccelse menti traggono da questi grandiosi materiali, dando       vita a qualcosa di celestiale per dilettare i propri simili”.

Qualsiasi esperienza vitale serve a Keats da arricchimento e sprono alla produzione poetica. La riflessione sulla poesia è infatti il tema più appassionatamente ribadito, poiché nella sua visione ideologica ed esistenziale, scrittura e vita si identificano completamente; alla propria opera il poeta ha il dovere e il compito di dedicare ogni attimo delle sue giornate, sacrificando qualsiasi soddisfazione materiale, anche pagando con la solitudine, il fallimento professionale, l’incomprensione sociale, la povertà, pur di farsi portavoce dell’Assoluto, della Bellezza, della Verità. Nelle due composizioni in versi che aprono l’epistolario, dirette all’amico George Felton Mathew e al fratello George così scrive: “Potessi dedicare ogni mio istante        /       alla musa restia, vivrei distante / da questa città buia e insieme a lei   /         senza riserve mi diletterei”, “Ma a chi ama l’alloro a volte avviene /   di riuscire a scordare le sue pene: / abbagliato, non pensa che ci sia – / nell’acqua, in terra e in aria – che poesia”. Il poeta, devoto all’immaginario, all’estasi e alla trascendenza, annulla se stesso nell’invenzione. Solo così la poesia può nascere sorgiva, spontanea, naturale: “La mia immaginazione è un monastero, di    cui io sono il monaco”, “Ho pensato così tanto e così a lungo e di continuo alla poesia che la notte        non riuscivo a dormire”, “Sento di non poter esistere senza poesia… senza la poesia eterna”, “La cosa bella della poesia è che rende interessante tutto, tutti i luoghi”.

Sacerdote di un esperire visionario, di una verità archetipica nell’ombra, Keats si dichiara pronto a immolarsi sull’altare della poesia (“Ammiro la natura umana, ma non mi piacciono gli uomini… voglio scrivere cose che facciano onore all’uomo, ma su cui non possano mettere le grinfie gli uomini”). Lo anima ed esalta un ardente desiderio di gloria e fama immortale, nella compiaciuta consapevolezza della propria grandezza: “Considererò sempre gli altri   debitori verso di me per le mie poesie, non   io verso di loro per la loro ammirazione… cosa di cui   posso fare a meno”. Eppure, le difficoltà della vita materiale e la fragilità fisica spesso minano le sue sicurezze, angosciandolo: “Dentro di me spunta di tanto in tanto un terribile temperamento morboso… Sono convinto che se ne avessi avuto la possibilità sarei stato un angelo ribelle”.

Fonte principale d’ispirazione è l’amore per Fanny Browne, cui indirizza trentasette lettere, tra il luglio del 1819 e l’agosto del 1820, ribadendo ossessivamente i suoi sentimenti di dipendenza affettiva, di ansia di possesso e fusione, di gelosia: “Non avevo mai conosciuto un amore come quello che mi hai fatto provare. Non       credevo che esistesse: lo immaginavo con terrore, te mendo che potesse consumarmi del tutto”, “Non riesco a vivere senza di te. Dimentico ogni altra cosa… penso solo a rivederti… Mi assorbi del tutto. Sarei pronto a morire per te. Il mio credo è l’amore, e tu sei il suo unico dogma”, “Mia adorata, io ti amo di un amore eterno, senza riserve. Più ti conosco e più ti amo… Persino la mia gelosia è un tormento d’amore: persino quando ne ero accecato avrei dato la mia vita per      .te…Tu sei sempre nuova ai miei occhi. Il tuo ultimo bacio è sempre il più dolce, il tuo ultimo sorriso il più splendente, il tuo ultimo gesto il più    grazioso”, “Rassicurami, amore mio. Se non avrò qualche rassicurazione, morirò di dolore. Se è vero che ci amiamo, non dobbiamo vivere come gli altri uomini e le altre donne”. L’ultima commovente missiva così si conclude: “Il fatto è che non posso lasciarti, e non potrò mai assaporare un minuto di gioia se il destino non mi consentirà di vivere insieme a te per sempre… Nonostante questo, sono contrario a incontrarti. Non posso sopportare di essere abbagliato e poi tornare di nuovo nelle mie tenebre… Vorrei tanto stare fra le tue braccia pieno di fiducia o essere colpito da un fulmine. Che Dio ti benedica, J.K.”.

Sentimenti di profondo affetto, stima e confidenza uniscono il giovane letterato agli amici più cari: Brown, Bailey, Haydon, Taylor, Dilke, Severn (“Ho molti buoni amici disposti ad aiutarmi… e quindi sono tenuto ancor di più a stare attento ai soldi che mi       prestano”). Degli amatissimi fratelli George, Tom e della sorellina Fanny scrive: “L’amore per i miei fratelli, a causa della prematura perdita dei nostri genitori e anche di sventure precedenti, si è trasformato in un sentimento più dolce dell’amore delle donne”.

Altro motivo affiorante con la stessa trepida insistenza e affezione è quello della morte, percepita come vicina e inevitabile. Struggente ci appare l’ultima lettera diretta all’amico Charles Brown da Roma, il 30 novembre 1820: “Ho la costante sensazione che la mia vita reale sia già passata e che stia vivendo un’esistenza postuma… continuo a pensare che moriremo tutti giovani… Se dovessi guarire, farò il possibile per rimediare a tutte le cose che ho mancato di fare durante la malattia… in caso contrario, mi verrà tutto perdonato…. Riesco a malapena a dirti addio, persino per lettera. Sono sempre uscito con un goffo inchino. Che Dio ti benedica!”

Queste lettere, che T.S. Eliot definì “le più straordinarie e importanti che siano mai state scritte da un poeta inglese”, costituiscono secondo il curatore del volume Alessandro Gallenzi “un’autobiografia spirituale”, da cui emerge “la figura di un giovane generoso, socievole, in continuo fermento e in costante trasformazione, insoddisfatto e consapevole dei propri limiti, incessantemente alla ricerca del bello e della perfezione poetica”. Il letterato classicheggiante, solenne, marmoreo dell’Endimione e dell’Iperione, trova in esse una dimensione più profondamente umana e spontanea, ricca di sfaccettature, incongruenze e idiosincrasie. Un epistolario privato che, forse aldilà delle intenzioni dell’autore, ha assunto in due secoli la levatura e l’importanza di capolavoro, al pari della sua celebrata produzione in versi. Tanto maggiormente opportuna, quindi, la proposta di Adelphi, che ha saputo valersi dell’ottima traduzione (particolarmente felice nelle versioni poetiche) di Gallenzi, che in sessanta pagine di note puntuali e scrupolose ha fornito al lettore vitali strumenti di conoscenza e interpretazione.

 

© Riproduzione riservata              «L’Indice dei Libri del Mese” n. 5, maggio 2022

 

 

 

RECENSIONI

RECALCATI

MASSIMO RECALCATI, AMEN – EINAUDI, TORINO 2022

Amen, atto unico di Massimo Recalcati, dopo la dedica all’amico e poeta Francesco Scarabicchi scomparso lo scorso anno, reca come epigrafe questa frase tratta da Finale di partita di Samuel Beckett: “Hamm: Intorno a te ci sarà il vuoto infinito, tutti i morti di tutti i tempi non basterebbero, risuscitando, a colmarlo, e sarai come un sassolino in mezzo alla steppa”, a indicare come sia la morte la protagonista assoluta di questo testo teatrale.

Sul palcoscenico, all’interno di una scenografia dimessa, si muovono tre personaggi: un uomo maturo (Enne 2), un soldato e una madre. Al protagonista, alla sua riflessione sconsolata e a tratti rabbiosa, spetta il compito di coordinare ieri oggi e domani, a partire dalla propria nascita tribolata, così come viene raccontata dalla madre, poi da un passato che assume la voce di chi ha combattuto in guerra, per immaginare un futuro di decadenza fisica e mentale, fino all’inevitabile esito della scomparsa dal mondo dei vivi.
Enne 2 esprime il suo tormento filosofico nei riguardi del significato dell’esistenza, e soprattutto della sua conclusione: “dopo” risulta il termine più carico di spessore emotivo, nell’inquieto interrogarsi metafisico sul niente e sul buio che attende ogni essere vivente: “Ma si potrà «dopo» ancora bere? mangiare? respirare? camminare? Avremo ancora «dopo» occhi, gambe, mani, orecchie, capelli, piedi? Potremo ancora «dopo» ridere? respirare? parlare? O saremo solo degli spettri freddi, fradici, separati per sempre dalla vita, inghiottiti dalla notte, morti per sempre, perduti, vinti, senza luce, caduti nel buio più buio della notte…”, “«Dopo» dove sarebbe? In cielo, sotto terra, in un altro mondo?”

Il destino ingiusto e crudele di essere destinati a sparire in quanto creature, viene stigmatizzato in un elenco rabbrividente di sostantivi e attributi che descrivono i corpi quando perdono ogni funzione vitale: “spettri freddi, fradici, separati per sempre dalla vita, inghiottiti dalla notte, morti per sempre, perduti, vinti, senza luce, caduti nel buio più buio della notte…”, “finiti, sfiniti, spenti, scomparsi, ridotti a marmi freddi, al silenzio totale”, “segatura, sabbia, cenere, polvere…”, “resti putridi, avanzi, scarti, sabbia, detriti…”

L’amplificazione del concetto nel reiterato susseguirsi di sinonimi serve a Recalcati per indicare quello che la morte toglie, con cieca ferocia, a chi vorrebbe poter continuare a godere della bellezza, dell’amore, degli affetti familiari: “Voglio vedere ancora le cose, i corpi, i volti, gli odori, il sole, le stelle, i mari, le città, i ruscelli, la montagna, il bosco, le case, le strade…”, “bere, mangiare, respirare, baciare, toccare, vedere, leggere, scrivere, amare…”, “Troppo bello nuotare, correre, amare, respirare, camminare, vedere la luce…”

Al lamento funebre dell’uomo risponde la madre, rievocando il suo parto difficile, da cui lui è nato prematuro, sofferente, “gattino indifeso”, lottando con forza per rimanere aggrappato alla vita, per non essere risucchiato nel silenzio e nel vuoto del niente. E gli fa eco il ricordo del giovane alpino, coperto da un logoro pastrano, che ricorda le marce nelle notti gelide, il ritmo cadenzato dei passi di soldati in colonna sulla neve, il sacrificio di tanti ventenni caduti senza poter godere della loro giovinezza: “C’è solo la vita che resiste. Il ghiaccio attorno e la vita che resiste. Il passo e il cuore. Nient’altro. Tutto attorno morte e poi c’è la vita del passo e del cuore. Il passo e il cuore, amico. È tutto lì”.

È lo stesso cuore che batte, implacabile e mai arreso, nel neonato chiuso nella scatola trasparente di un’incubatrice e nel soldato sfinito che vorrebbe lasciarsi andare; ciascuno combatte furiosamente la sua battaglia per non arrendersi alla fine che tutto cancella: il partigiano come il terrorista, il toro portato al macello come i conigli scuoiati, i giovani amanti avvinghiati nel desiderio sessuale e gli anziani ormai inebetiti.

Alle voci dei protagonisti, stentoree nei loro disperati monologhi, fanno da sottofondo nella resa teatrale preghiere, canzoni popolari, versetti dei Salmi, i battiti amplificati di un cuore, lo scalpiccio di scarponi militari sulla neve, slogan di lotta armata, voci di bambini, pioggia e tuoni, e le parole dell’ultima lettera di Aldo Moro (“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”).

Dal battesimo all’estrema unzione, dal vagito del neonato all’Amen che accompagna la sepoltura, (“Amen! Ma io non voglio che finisca!”), tutto il testo di Massimo Recalcati risulta un drammatico de profundis che implora salvezza e pietà, ma grida anche la sua ribellione per la caducità dell’esistenza, che non merita di dissolversi nel nero della morte. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, ha debuttato al Festival di Spoleto l’8 luglio del 2021 con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli, per la regia di Valter Malosti.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Amen-Recalcati         27 aprile 2022

RECENSIONI

BUX, GALLINA, GUGLIELMIN

ANTONIO BUX, FRANCESCO GALLINA, STEFANO GUGLIELMIN

L’editore milanese Marco Saya ha coraggiosamente scelto di dedicare la sua attività alla poesia, arte poco redditizia e di difficile divulgazione. Nel suo catalogo sono compresi sia opere classiche (da Esiodo a Leopardi, da Laforgue a Yeats, da Poe a Rilke), introdotte da illustri e competenti prefatori, sia volumi di critica letteraria, e soprattutto testi di autori contemporanei. Tra di loro, i nomi di Sonia Caporossi, Nicola Vacca, Luca Vaglio, Maria Angela Rossi, Gabriele Galloni, Franz Krauspenhaar, Annamaria De Pietro, Giulio Maffii, Giorgia Meriggi, Andrea Carraro e di numerosi altri poeti, si sono segnalati a livello nazionale, ricevendo premi e attestazioni di valore.

Quest’anno, le edizioni Saya hanno proposto ai lettori i lavori di Antonio Bux, Francesco Gallina, Stefano Guglielmin.

Iniziando proprio da quest’ultimo (Schio, 1961), docente alle scuole superiori e fondatore del blog Blanc de ta nuque, possiamo affermare che il suo libro Dispositivi si distingue non solo per il pensiero ideologicamente critico sotteso alle composizioni, ma anche per la coraggiosa e provocatoria scelta stilistica, lontana dagli esiti lirici della tradizione letteraria italiana, estranea a facili accomodamenti e recuperi espressivi. I dispositivi cui si riferisce Guglielmin sono quelli messi in atto dalla cultura, dai media, dal potere politico e finanziario che ci dominano per determinare i nostri comportamenti quotidiani, le nostre scelte nel lavoro, nell’alimentazione, nella vita sentimentale e sessuale, nei rapporti comunitari, nel sistema scolastico, nelle abitudini riguardanti la salute. E, ovviamente, anche nella scrittura, troppo spesso asservita alle imposizioni del mercato editoriale. I versi, oscillanti tra il sarcastico, il rabbioso e l’amaramente rassegnato, dispensano lampi di consapevolezza, volontà di resistenza, desiderio di opposizione: “non c’è ospedale o lente non c’è / olezzo o stridore che soccorra, ma dissenso vero o dispersione / per moto involontario: scegliere al bivio un senso provvisorio, / crederci, oppure tornare all’infinita diversione / ossia vivere, appunto”, “Smonto teorie e piccole chiese. Sbanco terra / promessa. Cerco garanzie sulla morte di Dio. / Offro in cambio collezione in plastica di falle / e reliquie, praticamente eterne”.

Francesco Gallina (trentenne, anch’egli docente di lettere alle superiori, ricercatore all’Università di Parma e saggista), con Medicinalia approfondisce, attraverso l’indagine sul mondo scientifico e ospedaliero investigante sintomi e cure di morbi e patologie varie, il collegamento che unisce la poesia – malattia dello spirito – con il dolore del corpo. Ogni singola infermità radiografata dall’autore, trova quindi la sua corrispondenza in una sofferenza dell’anima, che la scrittura poetica è incaricata di sondare e possibilmente guarire. La poesia colta, esplorativa, cerebrale di Francesco Gallina, disserta di cellule, cromosomi, ossa, viscere; cita nomi di famosi clinici, genetisti, farmacologi, anatomisti, psichiatri (Netter, Milgram, Evans, Koebner…); elenca malesseri fisici di ogni tipo, dal raffreddore alla cataratta al morbo di Basedow; passeggia tra i reparti ospedalieri; illustra prodotti, articoli, macchinari, suppellettili presenti nei nosocomi.  “il museo delle armi: il divaricatore / di Beckman, il fissatello atraumatico, / l’enterostato, il mosquito (avresti preferito / un mojito, ma va be’), il passafilo, / il portaaghi, rovi di forbici e forcipi / e altri ordigni barocchi”, “a vetro smerigliato il polmone / radiopaco è una costellazione / nodulare di supernove / dense, come colonie / di biomasse a legno ceppi radici, / incielate lucciole nel parenchima”. Per constatare leopardianamente, infine, che il dì natale è comunque funesto, perché “non c’è cura dalla morte, ma dal mal che deriva / dal passare dentro un corpo”.

Antonio Bux (Foggia, 1982), traduttore, critico letterario, blogger e curatore di collane editoriali, nel suo Diario dell’intruso riporta il lettore in un ambito poetico più tradizionale, che utilizza risorse e metodi tipici del patrimonio poetico universale. Le descrizioni naturali di paesaggi ed elementi vegetali o animali si rincorrono di pagina in pagina (fiori, insetti, uccelli, condizioni atmosferiche o astrali); i sentimenti, assolutamente privi di aggressività, rancore o acredine, sono orientati verso la tenerezza di rapporti amorosi e consolanti memorie infantili; lo stile è piano, scevro di azzardi sperimentali, e affidato perlopiù a frasi paratattiche e ripetizioni, nella ricerca di un’equilibrata musicalità, e in un’atmosfera di pacata limpidezza che fa dubitare di qualsiasi estraniante o negativa intrusione: “nei fischi // su in aria di un merlo / l’eco e la notte sono fuori / e tu devi imparare”, “c’è del tempo che mai si perde / quello d’una mano messa a sfiorare / le corde luminose a maggio del grano / nel verde che sale come onda di pace”.

 

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 26 aprile 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

YOSHIMOTO

BANANA YOSHIMOTO, IL DOLCE DOMANI – FELTRINELLI, MILANO 2022

Sayoko e Yōichi sono i due giovani protagonisti dell’ultimo libro di Banana Yoshimoto pubblicato in Italia, nella Universale Economica Feltrinelli: Il dolce domani. Ambientato fra i templi e gli onsen di Kyoto, il romanzo, scritto poco dopo il terremoto e lo tsunami di Fukushima, racconta una storia d’amore quasi banale, interrotta tragicamente dalla morte del ragazzo, in un incidente stradale che lascia la fidanzata ferita gravemente. Si tratta quindi della narrazione di un lutto e della sua elaborazione, da parte di chi rimane in vita, ma con la vita stessa fatta a pezzi.

La voce narrante è quella della ventottenne Sayoko, che inizia il suo racconto dalla ricostruzione dell’incidente, avvenuto in una tiepida giornata primaverile, mentre i due, di ritorno in auto da una gita alle terme di Kurama, vengono investiti da un’altra macchina guidata da un ubriaco. Yōichi, giovane e promettente scultore d’avanguardia, muore sul colpo, mentre la ragazza ha l’intestino trapassato da un bastone di ferro. Il suo recupero fisico è lento, quello emotivo pare da subito ancora più problematico.

Sayoko si aggrappa alle poche certezze che le rimangono: il ricordo affettuoso del nonno e di un cane amato nell’infanzia, il rapporto recuperato con i suoi genitori e le visite ai genitori del fidanzato, l’impegno a catalogare e diffondere le opere artistiche di lui. Ma trascorre il primo anno successivo alla tragedia chiudendosi al mondo, imbozzolata nel dolore, incapace di reagire. Inizia a bere: frequenta il locale di un barista gentile, Shingaki, che la incoraggia a ritrovare il suo mabui, l’anima, là dove le è accaduto di perderla, e intanto controlla fraternamente che i bicchieri di awamori tracannati non abbiano effetti troppo nocivi su di lei. La tristezza prende forme strane: induce la protagonista ad assumere sembianze maschili per mortificare la propria femminilità, le fa balenare davanti agli occhi vaghe allucinazioni, fantasmi o personaggi dei fumetti manga, le rende difficili i rapporti con tutte le persone di cui intuisce l’insensibilità o la grettezza: “Ognuno di noi vive la propria vita portandosi dietro il peso del dolore che ha provato. Ci sono anche quelli che non provano niente e che non portano alcun peso: basta un’occhiata per capire chi sono. Sembrano automi, sono diversi dagli altri. Quelli che portano un peso li riconosci dal colore, dall’incedere pieno di grazia. Ecco perché sono contenta di avere un peso da portarmi dietro. Finché avrò giorni da vivere, voglio viverli con grazia”.

Sayoko è consapevole del proprio cambiamento, fisico a caratteriale, decisa ad accettarlo accontentandosi di vivere giorno per giorno nel presente, senza preoccuparsi di quello che il futuro le prospetta, senza averne più paura, e anzi apprezzando le minime premure e gentilezze quotidiane di conoscenti e sconosciuti, che le costruiscono intorno “fortezze di fiducia”. Oltre al barista, stringe amicizia con un giovane gay, Ataru, che come lei soffre la perdita di una presenza amata, e insieme godono di ritrovare nella memoria il ricordo dei cari scomparsi, riflettendo sulla bellezza di ogni istante vissuto, provando compassione per se stessi e per ogni essere vivente.

Un racconto scritto con garbo, Il dolce domani, senza la pretesa di affrontare temi profondi o di esibire particolari abilità di stile: l’autrice stessa, nella postfazione, ne parla con umile consapevolezza: “Io non scrivo opere colossali, che mettano tutti d’accordo: posso solo, nel mio piccolo, rivolgermi a quei pochi che, per un motivo o per un altro, si sentono aiutati, o confortati, leggendo i miei romanzi”. Banana Yoshimoto, figlia di Takaaki Yoshimoto (uno dei più importanti poeti giapponesi degli anni sessanta), è nata a Tokyo nel 1964. Lo pseudonimo Banana è stato scelto dalla scrittrice, a sostituire il vero nome Mahoko, per il suono volutamente androgino...Sposata con il musicista Hiroyoshi Tahata, da cui ha avuto un figlio, è convinta sostenitrice dei diritti LGBT, e nella sua narrativa, sempre attenta alle problematiche sociali e psicologiche e alle esperienze emotive giovanili, molti personaggi fanno parte della comunità gay.

Tra i suoi quindici romanzi, i più famosi Kitchen, (best seller internazionale, con oltre 60 ristampe nel solo Giappone), e Tsugumi, sono stati trasposti in film  di successo. La critica ritiene la scrittura di Yoshimoto piuttosto superficiale, prevalentemente mirata a conquistare il mercato commerciale. In realtà i temi trattati, per quanto tradizionali (amore, amicizia, famiglia, dolore, morte) riescono a interessare milioni di lettori in tutto il mondo, e rappresentano un fenomeno culturale da non sottovalutare.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 22 aprile 2022

 

 

RECENSIONI

HOPKINS

GERARD MANLEY HOPKINS, POESIE 1875-1889 – EINAUDI, TORINO 2022

Un volume fondamentale, quello che Einaudi dedica a Gerard Manley Hopkins (Stratford 1844-Dublino 1889), con una dettagliata ricostruzione biografica, un puntuale commento interpretativo, una ricca dotazione di note e un’esaustiva bibliografia della curatrice Viola Papetti, che ha tradotto le poesie con elegante perizia. Compito non facile, perché la scrittura di Hopkins non è immediatamente approcciabile, sia nei temi (che spaziano dalla teologia, alle scienze e alla storia) sia nella forma, audacemente sperimentale nella sintassi, innovativa nelle scelte lessicali, nella metrica e nell’accentuazione. Ricco di allitterazioni, anacoluti, paradossi, fonosimbolismi, contrappunti ritmici, parallelismi, in una continua torsione stilistica ottenuta attraverso l’omissione di nessi logici e grammaticali e l’accumulazione di senso, lo stile di Hopkins è pienamente rivelatore della sua inquietudine intellettuale e della tensione emotiva con cui partecipa, in gloria e in penitenza, alla celebrazione di Dio e del creato: “not live this tormented mind / With this tormented mind tormenting yet”. Un esempio dell’estrema modernità linguistica del poeta gesuita, possono darlo questi versi tutti giocati sul suono spesso indipendente dal significato, sull’onomatopea, sulla ripetizione vacua e martellante delle sillabe: “Or a jaunting vaunting vaulting assaulting trumpet telling”, “Whorlèd wave, whelkèd wave, – and drift”, “Fallow, foam-fallow, hanks – fall’n off their ranks”, “And the sunlight sidled, like dewdrops, like dandled diamonds”, “A wíndpuff-bónnet of fáwn-fróth”, “Pitched past pitch of grief”…

La sua produzione comprende una cinquantina di poesie complete (più una ventina di frammenti e abbozzi di liriche), diversi saggi di critica letteraria e di musicologia, pagine di diario e un epistolario, ma rimase inedita fino al 1918, quando il suo vecchio compagno di studi Robert Bridges, “poeta laureato” da Giorgio V, pubblicò una vasta scelta di versi, ampliata successivamente in diverse edizioni. Apprezzato da Pound ed Eliot, dai nostri Montale, Bertolucci, Giudici e Raboni, ottenne solo nella seconda parte del ’900 il meritato riconoscimento letterario a livello internazionale.

Beppe Fenoglio, che lo aveva tradotto, ne parlava con ammirazione: “È arduo poeta. Concorrono a formare questa sua monumentale difficoltà la peculiarità della sua ispirazione, la sua cultura esoterica e il suo stile. Uno stile da splendido isolato, da artista senza maestri e senza allievi. Sfrenata, oseremmo dire libertina, è la fantasia di questo gesuita”. E nell’appendice al volume einaudiano, un intervento di Giorgio Manganelli sui poeti cattolici inglesi dell’ottocento, riporta diciassette penetranti righe dedicate a Hopkins, poeta “non da amare ma da temere” per la sua “verticalità atroce”, per il “linguaggio estatico ed abbagliante… oscuro non torbido”, che ha “qualcosa di immite com’è della ferina geometria del barocco, anche nelle sue dolcezze”.

Gerard Manley Hopkins, primo tra otto figli di una colta e ricca famiglia di assicuratori marittimi, ebbe un’educazione scolastica di prim’ordine, nella severa Highgate School di Hampstead, e quindi a Oxford, nel collegio di Balliol, dove si perfezionò in studi classici e filosofia, seguendo tuttavia soprattutto i suoi interessi religiosi. A ventidue anni si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, entrando due anni dopo nella Compagnia di Gesù, scelta avversata dalla cerchia parentale, dei docenti e degli amici intellettuali. Dopo un rigido noviziato, nel 1877 fu ordinato sacerdote e destinato sia all’insegnamento sia al servizio in diverse diocesi: Londra, Oxford, Liverpool, Glasgow, fino alla poco amata destinazione finale di Dublino, dove ebbe l’incarico di professore di letteratura greca e latina presso il college cattolico della Royal University of Ireland. Eccentrico, ansioso, sensibile, gentile, non riscuoteva molto successo né tra i fedeli durante le omelie, né tra gli allievi, mettendo a dura prova la sua salute con l’impegno indefesso negli studi letterari e musicali, nell’insegnamento, nelle pratiche ascetiche perseguite con intransigenza. Morì a quarantacinque anni di febbre tifoide, bruciato nella fragilità fisica da un implacabile fuoco interiore, “ossessionato dal tema dell’Essere e della fine dei tempi”.

La poesia di Gerard Manley Hopkins ruota intorno a tre temi fondamentali: Dio, la bellezza, il peccato. Nel peccato, inteso come disarmonia spirituale, arbitrarietà di giudizio, irrequietezza spirituale, riconosce se stesso, creatura effimera e fallace, in versi frantumati e assillanti, esplorativi del conscio e dell’inconscio: “Anima, io; su, povero me, ti consiglio, / tu, stremato, smetti;  svia i pensieri per un po’ / altrove; libera la radice del conforto; gioia cresca // dove Dio sa quando fino a quanto Dio sa”; “faticosi i giorni, i compiti; / cedere, farsi disarcionare, e obbedire, // … Sentiamo il nostro cuore contro se stesso stridere; uccide / schiacciarlo anche più fieramente”; “Quella notte, quell’anno / d’ora terminata tenebra io sciagurato giacqui lottando / con (mio Dio!) mio Dio”. Suppliche e maledizioni che ricordano i più angosciosi salmi, le tenebre in cui si dibattevano i mistici medievali, i cilici e le mortificazioni degli ordini flagellanti, l’ardore dei sonetti di Donne.

La divinità è percepita soprattutto nella formula trinitaria: un Dio padre severo, roccioso, che ammonisce e castiga sullo sfondo di una natura ostile, di tempeste, naufragi, deserti. Il Figlio è invece redentore, dolcezza del perdono e umiltà del gesto riparatore, consolazione: “Cristo cura: l’interesse di Cristo, cosa c’è da accettare / o emendare / li guarda, vuole col cuore, con zelo incalza, col piede / segue gentile, / loro riscatto, loro riscossa, e primo, fermo, ultimo amico”. Lo Spirito è alito di grazia, purezza di colomba, sollievo edificante: “lo Spirito Santo sopra il curvo / mondo cova con caldo petto e con ahi! luminose ali”.

La bellezza, infine, è un riflesso del bene e della libertà spirituale proposta dalla parola evangelica, traccia dell’apparizione numinosa del divino, emozione epifanica. Le onde del mare, la campagna del Galles, una conchiglia, la bambina Margaret che piange, i fringuelli, le trote, la notte stellata, tutto ciò che (“acquatico e selvatico”) si offre all’occhio estasiato, all’orecchio vigile: “Tutte le cose contrarie, originali, frali, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chissà come?) / con lesto, lento; dolce, amaro; abbagliante, torbo; Egli pro-crea la cui bellezza mai muta: / lodatelo”. “A che serve la bellezza mortale?”, si chiede in una poesia, così rispondendo: “tiene calda / l’intelligenza dell’uomo alle cose che sono; a quanto / significa il bene”.

Poiché “Il mondo è carico della grandezza di Dio”, anche il male trova una sua giustificazione nella storia umana, per quanto ingiusta e crudele. Nel famoso poema in ottave di trentacinque stanze Il naufragio del Deutschland, scritto in memoria di cinque suore affogate nell’inabissamento di una nave a vapore il 7 dicembre 1875, l’evento drammatico si trasforma in parabola, indicando il contrasto tra la potenza di Dio – creatore e distruttore – e la fragilità dell’uomo, la cui sofferenza diventa viatico per la salvezza.

La poesia di Hopkins conosce uno sviluppo contorto e doloroso, seguendo i sentieri di una fede continuamente rimessa in discussione: avvampa di improvvisi esaltati bagliori e si incupisce nel dubbio, nel rifiuto e nella disperazione. Le ultime composizioni, i celebri “sonetti oscuri”, esprimono timore e tremore nell’avvicinarsi della vecchiaia (“My winter world”), rassegnazione (“placo / qui le mie tempeste, il fuoco e la furiosa febbre”), e delusione, rimpianto, solitudine, abbandono: “L’uccello nidifica – ma io no; no, e mi sforzo, / eunuco del tempo, e non produco un’opera che viva”.

Viola Papetti, nel suo davvero lodevole lavoro di curatrice e traduttrice, afferma che le “poesie impervie e imperative” di Hopkins dimostrano quanto egli sia stato “incessantemente poeta, teologo, linguista”, in maniera tale che nessuna delle tre funzioni prevale sulle altre, ma insieme compenetrate danno linfa a una delle voci più singolari e intense della letteratura inglese.

 

© Riproduzione riservata                           «Gli Stati Generali», 19 aprile 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GUENON

RENÉ GUÉNON, LA METAFISICA ORIENTALE – ADELPHI, MILANO 2022

Il filosofo ed esoterista francese René Guénon (1886-1951) conosciuto anche come Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya dopo la sua conversione all’Islam, scrisse ventisette libri e numerosi interventi su rivista, esplorando con un linguaggio accessibile il concetto di metafisica così come si presenta in tutte le forme tradizionali della spiritualità e delle religioni mondiali, dal paganesimo al sufismo al cristianesimo, attraverso le loro specifiche ritualità e credenze. Ammirato e contestato, considerato un rigoroso storico delle tradizioni religiose oppure un superficiale adattatore di teorie personali, Guénon è stato tradotto in moltissime lingue, e ancora oggi ispira la ricerca di alcune comunità musulmane esistenti sul nostro territorio.

Il breve saggio pubblicato da Adelphi, La metafisica orientale, trascrizione di una conferenza tenuta alla Sorbona il 17 dicembre 1925, chiarisce già alle prime battute che la metafisica è – aldilà di ogni contingenza storica e geografica –, universale, poiché la verità che aspira a raggiungere è una, e solo le forme esteriori di cui si riveste per esigenze espositive possono essere orientali od occidentali. Tuttavia, mentre nell’Occidente moderno (che non ritiene indagabile ciò che esula dall’ambito scientifico e razionale) essa è trascurata, banalizzata, addirittura sepolta, in Oriente rimane “oggetto di una conoscenza effettiva… vera, assoluta, infinita e suprema”.

Avendo sostituito alla conoscenza una “teoria della conoscenza”, la filosofia occidentale ha ammesso la sua impotenza, e si è riconosciuta in grado di definire solo in via teorica l’essere in quanto tale, secondo metodi razionali, discorsivi, riflessi, sensibili, capaci di cogliere esclusivamente il mondo del mutamento e del divenire, cioè la natura, o piuttosto un’infima parte della natura. In Oriente invece, interpretando correttamente il significato etimologico del termine “metafisica” come studio di ciò che è aldilà e al di sopra della natura, definisce il “soprannaturale” come ciò che supera l’essere e le sue forme: è l’infinito, l’indefinibile, l’incomunicabile, a cui si può accedere solo attraverso uno sforzo strettamente personale, in maniera intuitiva e immediata, ma superando la propria individualità umana per cogliere i principi universali, eterni e immutabili, della conoscenza.

Quali sono, dunque, le tappe principali della realizzazione metafisica secondo gli insegnamenti comuni a tutte le dottrine orientali? L’essere umano, se utilizza i mezzi adatti alla sua condizione di creatura finita come punti di appoggio per arrivarvi (parole, segni simbolici, riti, procedure preparatorie, conoscenza teorica), deve servirsene come supporti puramente accidentali: quello che davvero gli è necessario per elevarsi alla conoscenza è la concentrazione, abitudine “assolutamente estranea, persino contraria, alle abitudini mentali dell’Occidente moderno, dove tutto tende alla dispersione e al cambiamento incessante”.

Primo stadio da cui partire è la modalità corporea, la padronanza e il controllo della propria fisicità per poi estendersi oltre l’ambito sensibile in altre direzioni, attuando lo “stato primordiale” dell’autenticità, affrancato dal tempo e dalla limitante successione degli accadimenti, per arrivare a una considerazione simultanea delle cose e degli eventi, fuori dalla temporalità, in un non-tempo che conduca al senso dell’eternità. In una seconda fase, si supera l’appartenenza al mondo delle forme e delle condizioni individuali: si arriva così alla negazione dei limiti che definiscono ogni esistenza nella sua relatività, ottenendo la Liberazione e l’Unione con il Principio Supremo. Solo allora l’essere “liberato” è veramente in possesso di tutte le sue potenzialità, essendosi svincolato da ogni costrizione negativa e da ogni illusione. Il risultato raggiunto sarà un’acquisizione permanente, perché basata sulla conoscenza che è perenne, a differenza dell’azione che è una modificazione momentanea dell’essere. Il dominio metafisico è del tutto al di fuori del mondo fenomenico, non riguarda la psicologia, non produce poteri speciali, non assicura nessuna evoluzione esteriore. È invece un’illuminazione interiore, che non si occupa di successi contingenti. L’Occidente, fondando le sue religioni su formule tradizionali ed esteriori, ha sviluppato la propria civiltà in senso puramente materiale, destinandosi a un declino spirituale che lo condannerà a perdersi.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-metafisica-orientale-Guenon        13 aprile 2022

 

 

RECENSIONI

PETRUZZELLI

PINO PETRUZZELLI, L’ULTIMA NOTTE DI DIETRICH BONHOEFFER – ARES, MILANO 2022

 Il pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) trascorre l’ultima notte della sua breve esistenza nel lager di Flossenbürg, in attesa di venire giustiziato per aver partecipato al fallito attentato contro Hitler, nell’operazione Walchiria. A raccontare le tragiche ore che lo separano dall’esecuzione è Pino Petruzzelli (Brindisi,1962), drammaturgo, regista e attore, fondatore – insieme a Paola Piacentini – del Centro Teatro Ipotesi di Genova; lo fa recuperando elementi biografici, itinerari ideologici e percorsi di fede del protagonista, con la volontà di renderne un ritratto psicologico e morale, sullo sfondo delle emozioni vissute nei drammatici momenti che precedono la sua impiccagione.

Si tratta di un monologo in cui Dietrich parla a se stesso e a Dio, lasciando che la paura, lo sconforto, la tentazione di una resa, affiorino alla sua mente e alle sua labbra insieme alla supplica. L’impianto della narrazione è volutamente teatrale, quasi che l’autore abbia progettato una futura rappresentazione sulla scena: si svolge infatti per quadri, scanditi in sei ore, dall’una di notte del 9 aprile 1945 fino all’alba, quando i carcerieri verranno a prelevare il prigioniero per condurlo al patibolo. E ogni atto, privo di azione e voci diverse, rievoca un passaggio dell’esistenza di Dietrich, intervallando le illuminazioni della memoria con brani evangelici, preghiere, poesie.

La prima, fondamentale e affettuosa ricostruzione, è quella dell’ambiente familiare, con la numerosa famiglia nell’elegante villa di Bratislava, il padre illustre psichiatra, la madre premurosa e attenta educatrice degli otto figli, l’amorevole ma austera formazione culturale e cristiana impartita ai ragazzi: musica, libri, rispetto per la natura, e soprattutto un costante impegno a vivere con dignità il proprio ruolo di cittadini democratici. I ricordi del fratello Walter ucciso da una bomba sul fronte durante la prima guerra mondiale, degli appassionati studi di teologia, dei seminari di qualificazione in Europa e in America, e quindi del servizio pastorale rivolto a soccorrere la sofferenza dei più poveri, lottando contro le ingiustizie sociali e contro il razzismo verso neri ed ebrei, si susseguono limpidi e nostalgici. Bonhoeffer ripercorre, in un puntuale esame di coscienza, i momenti che l’hanno portato ad assumersi la responsabilità convinta e decisa di opposizione al nazismo: gli articoli giornalistici, le trasmissioni radiofoniche, le omelie dal pulpito, i rapporti sempre più stretti con la resistenza europea. Gli scrupoli di coscienza che lo avevano tormentato negli ultimi anni riguardavano ovviamente la possibilità di conciliare la propria fede in Cristo con la decisione di eliminare Hitler, partecipando a un complotto pianificato per rovesciare la dittatura, all’interno dei servizi segreti dell’Abwehr. Messo di fronte al silenzio complice del luteranesimo tedesco se ne era allontanato con disgusto, aderendo alla Chiesa Confessante e scegliendo la lotta clandestina e lo spionaggio. L’arresto avvenuto nel 1943, l’internamento dapprima nel carcere di Tegel, quindi nel lager di Flossenbürg, avevano segnato il momento di più profonda depressione, non solo per la nostalgia di casa, della fidanzata diciannovenne Maria, e per la consapevolezza dell’inevitabile condanna, ma soprattutto per l’impossibilità di continuare a combattere, impedito com’era ad agire, chiuso in una cella buia di sette piedi per tre.

Nell’attesa della morte, l’uomo di Dio si appella alla fede, con i versi toccanti delle poesie che verranno pubblicate postume nel suo libro più famoso, Resistenza e resa: “Signore, povero tu fosti / e come me prigioniero e abbandonato, / degli uomini conosci ogni patimento, / ti sento accanto in questa solitudine. / Non mi dimentichi, mi cerchi, / ti riconosco e a te mi rivolgo, / donami la fede / che dalla disperazione salva”, “Quando un profondo silenzio ci avvolge, / facci udire il suono pieno del mondo”, “Non le sopporto più queste prigioni buie. / Sono malato come un uccello in gabbia. / Ho fame di colori, di fiori, di canti d’uccelli. / Ho sete di parole buone, di compagnia / e sono anche stanco e vuoto nel pregare. / Sono solo pronto a prendere congedo da tutto”. Il congedo dal mondo avvenne per Dietrich Bonhoeffer nelle prime ore del mattino del 9 aprile 1945: secondo le testimonianze raccolte, fu affrontato con dignità, coraggio e fiduciosa speranza nella risurrezione promessa dal Vangelo.

© Riproduzione riservata              11 aprile 2022