Mostra: 271 - 280 of 1.629 RISULTATI
RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, VERSANTE D’ESILIO – MINERVA, BOLOGNA 2019

La casa editrice bolognese Minerva ha aperto una collana di poesia – curata da Cinzia Demi e Giancarlo Pontiggia, intitolata Cleide, nome della figlia di Saffo -, con l’intento di ospitare giovani autori under 40 capaci di “raccontare la verità della vita, la bellezza feroce, gioiosa e dolorosa del suo mistero che incanta, innamora e chiede di essere detto”. Tra questi poeti, particolarmente degno di nota mi è parso Alessandro Anil, nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione.

Versante d’esilio, suo libro d’esordio, consta di tredici sezioni, introdotte da un’intervista in cui l’autore definisce fonti ed esiti della sua scrittura in versi, dichiarando i propri debiti verso i grandi maestri della letteratura europea novecentesca (Rilke, Eliot, Celan, Luzi…), e verso le correnti di pensiero indirizzate alla ricerca etica e metafisica: “Una poesia vuole essere un atto d’amore, un atto di liberazione o di sprofondamento”.

In effetti, tutte queste tre esigenze espressive sono ben riconoscibili nelle pagine, a partire dall’esperienza erotica che travalica sempre il dato fisico, scorporata da ogni materialità: “Esco dalla tua soglia, dal condominio del tuo corpo”. Il tu destinatario del messaggio è sì una figura femminile, ma eterea ed evanescente, mai descritta nella sua consistenza materiale. Alterità che non si riesce a raggiungere e possedere, vago abbaglio che splende e subito si dilegua, senza mantenere la promessa di un incontro definitivo: “Chi sei tu, seduta nella stanza, di solitaria veste / dopo anni ritrovata, chi sono io che ti parlo”. Ombra, sostantivo declinato anche al plurale, è uno dei termini più ricorrenti nella raccolta (“l’ombra di un nome che tu guardi”, “le senti / le ombre”, “Ho lasciato che l’ombra entrasse”, “Ovunque passi un uomo ne seguono le ombre”, “quando le ombre / iniziano ad allungarsi”, “cambia il corso di un’ombra”, “da quante ombre / deve essere un uomo attraversato” …), insieme a silenzio, a solitudine, a nulla, a fine.

Oltre a proporsi come atto d’amore, la poesia è liberazione. Libertà dalla costrizione del proprio minuscolo io, dalla miseria della biografia e della memoria, dall’ “inferno della carne”, e ascesi a una sovra-realtà non vincolata al contingente: “Il mio corpo è nel ventre, lo sguardo altrove. / Il mio corpo, nato dalla terra, lo sguardo altrove. / Le membra inondate di luce portano ancora / una lingua dispersa”, “Niente. Interminabile cerchio, margine o percorso, assenza…”. La fede dichiarata da Alessandro Anil supera i confini di un qualsiasi credo religioso, aspira a un assoluto non circoscrivibile teologicamente: “Invoco un silenzio oltre i secoli, apice di pura forma, / minuto chiuso nel duro segno che all’uomo sia dato ritrarsi / facendo di sé un seguito più lieve della sabbia”.

Appare naturale che l’interpunzione più presente nel libro siano i puntini di sospensione, a indicare che nulla è mai definitivo, che il viaggio verso la consapevolezza e la conoscenza di sé e del mondo dura per sempre, secondo gli insegnamenti che il poeta ha evidentemente assimilato nella terra nutrita di spiritualità in cui è nato e cresciuto. La sua è poesia sapienziale, metodo di conoscenza, mistica del pensiero: quindi, oltre che amore e liberazione, anche sprofondamento, ricerca di significato e verità, mezzo e fine per comprendere se stessi e il mondo, e tutto ciò che si cela “dietro lo schermo inevitabile degli avvenimenti”. Fa piacere leggere un poeta trentenne che non utilizzi la parola solo come artificio, ma demandi ad essa la capacità di una rivelazione, senza paludamenti oracolari, e invece con l’attesa di un’illuminazione, di un ancoraggio, anche solo di una carezza: “Ho camminato, con me stesso / dentro me stesso, un’infinita solitudine, anima tenera / come hai fatto ad amare così tumultuosamente?”

Il Versante d’esilio del titolo, allora, è la consapevolezza del proprio esistere fuori dalla cronaca del tempo in cui si è stati gettati, in un luogo che può essere ovunque, interno o esterno ai propri confini, comunque molto vicino a ciò che impropriamente chiamiamo anima.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 2 novembre 2021

 

RECENSIONI

PAVESE

CESARE PAVESE, LA FAMIGLIA – ENSEMBLE, ROMA 2021

Il racconto di Cesare Pavese La famiglia, da poco riproposto dalla casa editrice romana Ensemble, ci riporta alle atmosfere tipiche di questo autore, ai suoi luoghi piemontesi solitari e ombrosi, al male di vivere dei suoi personaggi, al timbro sommesso e sconfortato della sua scrittura. E senz’altro al nucleo fondante del suo disagio esistenziale, all’aridità di affetti patita nel rapportarsi con gli altri, ulcerosa e insopprimibile.

Protagonista del racconto è un giornalista trentenne introverso e scontento di sé, Corradino, che vive “con un’ansia annoiata” la propria quotidianità, passando da solo i pomeriggi estivi sulle rive del torrente Sangone, deciso ad abbronzarsi con la smania di cambiare pelle, “per diventare un altro”, senza però cambiare nessuna delle sue radicate abitudini. Così si confessa a un amico: “io la gente, e special mente le donne, li avevo sempre trattati allo stesso modo: conosciuti e piantati. Con nessuno ho mai fatto vita in comune né assunte le mie responsabilità. Non sono amico di nessuno”.

Animato da “un desiderio di solitudine antico”, e contemporaneamente ossessionato all’idea dell’immutabilità della sua esistenza, si rassegna a frequentare donne che non ama, finché una sera ritrova Cate, amica degli anni universitari: “un’impiegatuccia” divenuta artista di varietà, molto diversa da quando l’aveva conosciuta: “Anche la voce era mutata: aveva scatti, aveva nella franchezza un’energia, una   prontezza aggressiva che appunto sapeva di palcoscenico”.

I due riprendono a frequentarsi, dapprima con qualche imbarazzo e reticenza, in seguito inseguendo una disinvoltura difficile da ristabilire. Entrambi privi di legami sentimentali stabili, faticano a confidarsi reciprocamente, non tanto per diffidenza, quanto per una specie di pudica riservatezza. Cate in maniera del tutto imprevista presenta all’amico il suo bambino di sette anni, che ha cresciuto da sola, lasciando intendere di averlo avuto proprio da Corradino, in un fuggevole rapporto sessuale. L’uomo entra in crisi, sospetta un inganno ma è tormentato da dubbi e sensi di colpa, da improvvisi desideri di paternità e paralizzanti paure: “un uomo, per quanto in gamba, è come un                  ponte che ha una certa portata e non oltre. Viene un carretto         che pesa di più, e il ponte crolla”. Spia Cate indagando sui suoi rapporti con possibili corteggiatori, cerca nel ragazzino, che porta il suo nome, eventuali somiglianze fisiche o caratteriali. Infine, tentato dalla volontà di ancorare la sua esistenza a un ormeggio più solido, propone all’amica di sposarla. Ma il racconto si chiude, come molto spesso in Pavese, in modo vago e sospeso, con i due che si lasciano non si sa se per poco o per sempre, “dicendosi cose inutili e cortesi… senza cerimonie,         quasi senz’imbarazzo”.

L’approfondito e interessante commento del postfatore Riccardo Deiana si sofferma sulle varianti che lo scrittore piemontese impose al testo, scritto nel 1941 e riveduto più volte, quasi fosse un canovaccio sperimentale per prove narrative di maggiore impegno. Le similitudini, di contenuto e formali, con altri romanzi dello stesso periodo (La bella estate, La spiaggia, Feria d’agosto), sono evidenti nella tensione tipicamente pavesiana tra una realtà deludente ma vincolante e l’aspirazione a una sovrarealtà mitizzata e irraggiungibile. La vita quotidiana viene subita dal protagonista con “irritazione e rabbia”, in una gabbia spazio-temporale a cui cerca di sfuggire rifugiandosi nella solitudine, o in una sorta di eden naturale protettivo e consolatorio, che tuttavia finisce per ribadire l’immutabilità della sua situazione esistenziale. Corradino riassume, nella sua incapacità di scegliere il cambiamento, attendendo dal destino un imprevisto che gli imponga decisioni che non sa assumere, tratti caratteristici di molti personaggi maschili di Pavese, e della stessa indole dell’autore, soprattutto nella sua vocazione e paura dell’isolamento.

Nel Mestiere di vivere, il 15 maggio 1939, infatti scriveva: “Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine […]. Co sì si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie”. Tre argomenti topici del racconto che abbiamo esaminato.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › La-famiglia-Pavese22 ottobre 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCARABICCHI

FRANCESCO SCARABICCHI, LA FIGLIA CHE NON PIANGE – EINAUDI, TORINO 2021

Nella quarta di copertina, vengono così presentate le poesie comprese in questa raccolta einaudiana, purtroppo postuma, di Francesco Scarabicchi (Ancona 1951-2021), intitolata La figlia che non piange: “Il lirismo sommesso ed essenziale tipico del poeta marchigiano è qui al servizio di un libro testamentario in cui il poeta fa pacatamente i conti con la fine della vita, avvertita ormai come imminente. Senza mai indulgere al pathos, attenendosi a quella sobrietà linguistica, a quel «monachesimo lessicale», come scrisse Enrico Testa, che chi ha letto Il prato bianco e gli altri suoi non numerosi libri ha imparato a interpretare come indicazione etica non meno che come scelta stilistica”.

Libro testamentario, dunque, malinconicamente teso nella consapevolezza di una fine ormai prossima, ma nello stesso tempo proteso generosamente verso un futuro che non riguarderà chi l’ha scritto, ma gli altri, tutti gli altri: i cari più amati, gli amici degli anni giovani e i sodali del tempo più responsabile, i poeti letti, i pittori ammirati, e insomma ogni vivente che respira e si muove intorno, insieme alla solidità consolante e protettiva degli oggetti, delle case, dei paesaggi. Così si alternano considerazioni sul passato irrecuperabile, e su un domani riservato a chi sopravvivrà:

“Sarò puntuale quando sarai notte, / starò dalla tua parte a ravvisarti / gli anni di molte insonnie e passi calmi. / Avrò quel viso che non so di avere, / dirò parole appena per fermarti / sull’unico confine che scompare”, “Si decida il contabile del tempo / a restituirci gli anni non vissuti, / tutti i sogni, le cose, / i persi sguardi, / le idee che vanno, veloci, a scomparire”.

La prima quartina del memorabile sonetto petrarchesco (“La vita fugge, et non s’arresta una hora, / et la morte vien dietro a gran giornate, / et le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora”), insieme al “fugit inreparabile tempus” virgiliano, vengono ripresi da Scarabicchi in classicissimi endecasillabi: “Dalla parte del tempo passa il mondo, / dai suoi sentieri ignoti, dalle strette / vie degli istanti che non torneranno”, “ad ogni passo se ne vanno i giorni”, “Ah, il tempo che passa alle mie spalle, / sulle mie scarpe nuove, sulla pelle”, “Come scompaiono veloci gli anni, / come portano doni ad ogni giorno”, “Ore degli anni che ti lasci indietro, / minuti d’ogni epoca che è stata”.

Ma non è l’unico argomento, lo scorrere dei giorni e l’avvicinarsi del tramonto, a essere affrontato dal poeta: ci sono versi civili, irosi contro un’Italia scaduta politicamente e socialmente, contro “questo adesso inerme”, che fa rimpiangere “un sogno infranto, un’utopia perduta”. Anche le scelte formali sono varie, diversificandosi tra brevi prose ritmiche (“L’esito di un’attesa”), modulate in endecasillabi o quinari mimetizzati narrativamente, allineati senza andare a capo. O tra serie di acrostici dedicati al nome di un amico, e ai giorni della settimana. Ancora, altri distici riassumono specifici caratteri dei dodici mesi e delle stagioni, indicando quanto il tempo e la sua scansione cronologica siano un tema fondante di tutta la raccolta: “Autunno: È una quieta bellezza a dominare / l’intero mondo, i campi, le colline”, “Ottobre. Mese del mosto e del pane di vino, / vendemmia delle ore e del conforto, // lume di tempo quieto del destino, / nome dell’umiltà, bosco, cammino”.

La scelta del metro e del lessico, così piani e cantati, rientrano nella nostra più collaudata tradizione elegiaca, riecheggiante magari alcune atmosfere di Sandro Penna, ma volutamente straniate nella proposta di termini desueti, antichi (m’aggrada, lasca, contrada, s’avvera, duole, compìta). Sulle orme leopardiane, poi, silenzi, spazi infiniti, colline, orti, vento, luna, notti, sono un tacito e discreto invito alla meditazione, all’abbandono di sé per naufragare in più alti spazi: “Cala piano la sera e tutto intorno” …

È il bianco il colore che prevale in tutta la raccolta, quello del sogno e della neve, come nella dolcissima silloge celebrante appunto la Nevicata: “Nessun passo su tanto candore, / nessuna orma ignota”.

Alla verità filtrata dai suoi versi (“la verità invisibile del mondo”), Francesco Scarabicchi ha affidato non solo la possibilità di continuare a vivere nel ricordo altrui, ma anche la capacità di interpretare il reale, e ciò che lo supera: “la pagina / e poi quelle formiche delle righe / a dire il poco, il molto che noi siamo”. Poco e molto, il suo essere poeta mite, dallo sguardo stupito e mai recriminatorio, cantore di memorie e nostalgie che raccontano la bellezza di “un vivere smilzo e con la corda corta”, lì dove si nasce e muore: “Scegli il crepuscolo o l’alba, visita il regno. Del privilegio che ti tocca in sorte non farne mai parola a anima viva”.

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 22 ottobre 2021

 

 

RECENSIONI

CONSONNI

GIANCARLO CONSONNI, PINOLI – EINAUDI, TORINO 2021

Alla sua quarta prova nella collana di poesia dell’editore Einaudi, Giancarlo Consonni (Merate, 1943), professore emerito del Politecnico di Milano e urbanista, ribadisce con voce sicura benché sommessa la sua fede nella bellezza delle cose, dei visi, della natura in cui ci muoviamo tutti, troppo spesso disattenti e superficiali.

Lo fa scegliendo la forma breve e stilizzata del verso, un lessico semplificato fin quasi all’elementarità, l’abolizione di qualsiasi strategia metrica o sintattica. Racconta di insetti minuscoli, fiori campestri, fenomeni atmosferici lievi, privilegiando la leggerezza di temi e tonalità vicini alla sapienza meditativa degli antichi poeti orientali, con la grazia degli haiku, o dei mistici renani innamorati del silenzio divino: “Qual è il peso di un bombo? / di un’ape? / di una farfalla? // Ogni fiore lo sa”, “Dolorano i rami / gonfi di gemme. / Premono / impazienti fanciulle”, “Intona il Gloria in excelsis / il papavero / e sale sommesso / il controcanto del fiordaliso. // Rosso, blu e giallo oro / non è il paradiso / è solo un campo di grano”, “Si fa ronzio / il dolce dell’uva”.

Pinoli, il poeta ha chiamato la sua raccolta: omaggio ai minuscoli semi, commestibili e proteici, che pur presentandosi umili, danno sapore ai cibi più ricchi. Mattino, aurora, alba, inizio del giorno, sole che sorge, bianco, luce, neve: è nel chiarore che si aprono i suoi occhi, al primo luminoso raggio che vince l’oscurità notturna, rimanendo clemente a intiepidire Les petites heures che attendono il risveglio del mondo. L’avvio quotidiano dell’esistenza è sempre augurale, e si ripete benevolo come una promessa: “Sì / amo la colazione. / E non solo la prima: la seconda / la terza… // Vorrei che l’inizio del giorno / non finisse mai”. Se è possibile un dialogo tra le creature, può avvenire solo con una presenza amata e gentile, il profilo di una lei appena accennato: “Resistono / le parole tra noi / come le erbe errabonde / nelle insenature dei coppi”.

Eppure, anche in questa persistente ricerca di innocenza, gratuità e dolcezza si insinua discordante la presenza del male, nella sofferenza dell’umano e del non-umano: “Parla per tutti / il ramo spezzato / dice delle vite incompiute, / le nostre”. Morti sul lavoro, incidenti stradali, ragazzi di strada, fabbriche dismesse, giovani donne suicide nel fiume Adda, case di ringhiera di una Milano del dopoguerra, e la povertà degli ultimi …

Allora, forse solo il tacere – consolatorio come un gesto d’amore – offre uno scampolo di pietà al dolore immeritato: “Porgere la parola / al silenzio / come all’amata / un fiore”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Pinoli-Consonni 18 ottobre 2021

RECENSIONI

GIRAUDOUX

JEAN GIRAUDOUX, LA LETTERA ANONIMA– VIA DEL VENTO EDIZIONI, PISTOIA 2021

Via del vento è una piccola e raffinata casa editrice di Pistoia, fondata nel 1991 dal pittore Fabrizio Zollo, che da allora è riuscito non solo a pubblicare importanti testi di narrativa e poesia di autori internazionali, costruendo un catalogo ricco e originale, aperto alla collaborazione di autorevoli studiosi e traduttori, ma anche a stimolare la vita culturale cittadina con molteplici iniziative: mostre, concorsi, dibattiti. I libri che vengono offerti ai lettori hanno la particolarità di essere costituiti di poche pagine, in genere non più di cinquanta: sono libriccini curati, eleganti, che propongono nomi rilevanti del nostro 900, soprattutto toscani (Bigongiari, Parronchi, Viani, Luzi, Manzini, Malaparte…), ma anche scrittori notissimi a livello mondiale e tuttavia lontani dalle mode imperanti e imposte dai media nazionali (Bousquet, Cendrars, Ramuz, MoNtero, Bonnard, Akutagawa…). I volumetti sono corredati da una breve postfazione critica e da una nota biografica sull’autore, e il loro prezzo non supera mai i quattro euro. Per inaugurare il trentesimo anno di vita delle sue edizioni, Fabrizio Zollo ha scelto cinque racconti brevi di Jean Giraudoux, pubblicati per la prima volta in Italia con il titolo La lettera anonima, traduzione e postfazione di Stefano Serri.

Jean Giraudoux (1882-1944), uno dei più rilevanti intellettuali francesi tra le due guerre, autore di romanzi, prose varie, testi teatrali e sceneggiature cinematografiche, è stato anche un importante diplomatico, rappresentante della borghesia laica e illuminata, impegnato nella difesa dei diritti umani. Con una scrittura elegante e ironica affrontò temi sociali e politici, non tralasciando di rielaborare i miti classici, trasposti in ambientazioni contemporanee e caricati di inquietudini psicologiche moderne, indagando con particolare finezza i caratteri femminili.

Le cinque novelle qui presentate (La panchinaGuiguitte e PouletLa lettera anonimaAl miglior offerente e L’equivoco) hanno come protagonisti uomini e donne che affrontano l’esistenza lottando contro un destino avverso (povertà, sfortuna, solitudine, pregiudizi) e contro la propria inettitudine, che li induce a perseverare sempre negli stessi errori. Quindi ci imbattiamo in mendicanti che si contendono furiosamente il posto su una panchina, in un aspirante suicida contrastato nella sua scelta di morte, in due fidanzati reciprocamente ignari della loro attività furfantesca, in un bigamo che si smaschera da solo per distrazione e in un uomo irresoluto perseguitato da lettere anonime, menzognere ma forse profetiche.

Giraudoux, con leggerezza e ironia, riesce a delimitare i confini dell’infelicità dei suoi personaggi in un ambito di rassegnata e paziente consapevolezza di ciò che è comune a tutti gli esseri umani. Convinto che la sofferenza sia inevitabile, prevedibile, scontata, suggerisce di accettarla, con umiltà e sottomissione. Non c’è violenza nei protagonisti delle sue storie, né ribellione contro le ingiustizie sociali: semmai un’arrendevole constatazione che la vita segue proprie regole, spesso casuali o inspiegabili.

Stefano Serri, nel suo conciso ma acuto commento, definisce giustamente l’autore “uno scienziato del sorriso”, per la sua stringente capacità di analisi, addolcita da una saggia e garbata clemenza.

Emozioni e passioni controllate con eleganza, contraddizioni comportamentali giustificate con generosità, soprusi pubblici e legali scherniti con saggio umorismo testimoniano la volontà, quasi l’ostinazione, di ribaltare il lato tragico della vita mostrando una sconfinata pietà per l’uomo, per le sue debolezze e le sue sciocche illusioni”.  Il distacco, la fine di un rapporto o di un’esperienza esistenziale, la stessa morte, sono considerate elemento ineluttabile e prestabilito del destino umano: ad essi ci si deve adattare, senza sconforto o inutile ferocia. Jean Giraudoux lo asserisce in una prosa scorrevole e raffinata, sorridendo.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2021

 

 

RECENSIONI

BONO

ELENA BONO, CHIUDERE GLI OCCHI E GUARDARE – ARES, MILANO 2021

Per il centenario della nascita della scrittrice e poetessa Elena Bono, le Edizioni Ares pubblicano un’antologia di cento poesie (curata da Stefania Segatori, Francesco Marchitti e Silvia Guidi, con prefazione di Francesco Bultrini), intitolata Chiudere gli occhi e guardare. Elena Bono (1921-2014), ligure di adozione, è diventata un caso editoriale già dall’esordio con Garzanti negli anni’50, proprio con un volume di versi, I galli notturni.

Autrice di teatro e narrativa, acclamata dalla critica per la sua scrittura colta e raffinata, si è sempre contraddistinta per un’attenzione ai temi della spiritualità, nutrita da costanti riferimenti alla mitologia, alla letteratura e all’arte greca e latina, alla storia contemporanea, all’incantevole splendore della natura. Questi suoi interessi sono individuabili anche nelle poesie qui antologizzate, come sottolineano sia l’intensa introduzione di Bultrini (“un materiale narrativo incandescente, che raggiunge il lettore in maniera frontale, senza travestimenti o derive intellettuali”), sia l’approfondita ed entusiastica nota iniziale dei curatori.

In primo luogo, sono da rimarcare i sapienti rimandi a figure del mito (Venere, Bacco, Arione, Orfeo) e ai luoghi della civiltà classica (Pompei, Paestum, Taormina, il Colle Palatino, le Termopili), capaci di riverberare emozioni (“Voi, tombe antiche, sapete ogni cosa: / che sia la gioia / e ciò che chiamiamo dolore, /   che cosa ne resti ai morti / ed ai loro sogni”). Anche il pensiero, la poesia e la civiltà dell’antico Oriente hanno lasciato tracce consistenti nella produzione della poetessa, come dimostrano le composizioni dedicate ad antichi maestri dello Zen e alla loro mistica meditativa, con l’invito alla contemplazione della bellezza del creato e al raccoglimento introspettivo: “Silenzio e ancora silenzio. / Versatelo a lungo / piano, sulle ferite. / Anche la musica duole /   ad un cuore dolente”.

Ma è soprattutto incisiva, in una fervente cattolica come Elena Bono, l’ispirazione alle fonti bibliche, alle figure evangeliche descritte in numerose poesie. Maria, illuminata dal sacrificio e dalla gloria della maternità, Maddalena derisa dai soldati ma fiera della sua dedizione al Signore, e Cristo con la Passione e la Croce: “Cristo, svegliati, non dormire. //…  Ho bisogno di te, / di sentire il mio cuore nel tuo, / i tuoi nei miei pensieri. / La vita mia non mi basta. Voglio innestarmi a te, / fiorire nei tuoi fiori. / Prendimi, mio Signore, e dammi te stesso”).

Oltre a questo evidente e declamato afflato religioso, la scrittura poetica dell’autrice si rivolge con slancio partecipativo anche alla storia umana nella sua tragica concretezza. L’esperienza vissuta come staffetta nella guerra partigiana sulle montagne dell’Appennino ligure è narrata con ardore, nella precisa volontà di rendere omaggio ai compagni caduti combattendo, nominati e descritti nel loro generoso contributo offerto alla lotta contro il fascismo (“Morirono per la libertà, / essi, a cui i padri non avevano insegnato a vivere liberi”). L’imprecazione contro un’Italia imbelle che non ha saputo difendere i propri figli migliori assume tonalità quasi dantesche: “Ah Italia Italia / mugnaia che macini male. / Tu che trattieni la pula  / e getti via la farina…”. Lo stile di impianto tradizionale risente infatti dell’eredità di tutta la nostra storia letteraria, da Dante a Leopardi, di cui si ricalcano atmosfere, ambientazioni e descrizioni naturali: il vento, il cielo, la notte, la luna, la vastità dello spazio, tutti elementi che favoriscono la riflessione malinconica, l’affiorare dei ricordi, l’ansia di comunicazione con l’universo, l’attesa della morte, il motivo segreto della sofferenza. Decisamente leopardiani sono questi versi: “I notturni silenzi e i grandi spazi […] E le voci diverse / e  il mutare e il perire / non son più che una / incandescente quiete … / silenzio spazio interminato e stelle”, “Cuore, sopportami tutto e non domandare. /    Soffri soltanto”, “ma a poco a poco ciò che si ignora non fa più male / così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare”. Chiudere gli occhi per non patire troppo, come suggeriscono i versi che danno il titolo all’antologia, e continuare a guardare attraverso i tremiti dell’anima.

© Riproduzione riservata                   SoLibri.net › Chiudere-occhi-guardare-Bono

13 ottobre 2021

 

 

 S

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FITZGERALD

FRANCIS SCOTT FITZGERALD, SOGNI D’INVERNO – FELTRINELLI, MILANO 2021

Feltrinelli ha pubblicato nella brillante collana Zoom un nuovo ebook di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940): Sogni d’inverno. Brillante e sagace, questa collana, perché i racconti propone sono veloci, letterariamente non impegnativi, però scritti con eleganza e accuratezza: che di questi tempi non è cosa da poco. Permettono una lettura rapida e mai soporifera, da affrontare in mezz’ora, magari sul treno, o in una pausa di lavoro, o prima di andare a dormire, a un costo minimo, o addirittura nullo per gli abbonati a Kindle unlimited.

Fitzgerald è tra gli autori più gettonati, proprio per la qualità della sua scrittura, scorrevole e ironica, e per i temi che affronta: i rapporti di coppia e l’ambiente sociale americano dei ruggenti anni ’20. Sempre piacevolmente spigliato nel ritrarre i personaggi, in questo testo troviamo un’attenzione più marcata e suggestiva nelle descrizioni naturali, ricche di metafore: “In autunno, quando le giornate diventavano frizzanti e grigie e il lungo inverno del Minnesota calava come il coperchio bianco di una scatola…”, “nella brutta stagione lo offendeva vedere i terreni in forzato abbandono, afflitti da passeri arruffati… Quando saliva sulle colline, il vento soffiava freddo come l’infelicità”, “osservò le onde accavallarsi al docile soffio del vento, la melassa d’argento alla luce della luna piena settembrina. Poi la luna avvicinò un dito alle labbra e il lago divenne una pozza d’acqua limpida, pallida e silenziosa”.

Protagonista della novella è Dexter Green, un ragazzo nato in una modesta famiglia di negozianti, che riesce a riscattare le sue origini attraverso una carriera imprenditoriale di successo. A quattordici anni fa il caddie (portabastoni) in un lussuoso campo da golf di Sherry Island per trenta dollari al mese, e un pomeriggio rimane folgorato dall’incontro con una splendida e capricciosa undicenne, Judy Jones, al cui tono sprezzante e imperioso si ribella, rifiutandosi di mettersi al suo servizio. Questa disobbedienza inaugura per Dexter una serie di altre numerose resistenze al corso degli eventi che segneranno non solo il suo percorso professionale, ma anche quello sentimentale.

I due giovani si incontrano di nuovo una decina di anni più tardi, quando lui, ormai laureato e proprietario di una serie di remunerative lavanderie, scorge Judy nuotare sensuale e bellissima nel lago vicino allo stesso campo da golf che li aveva visti insieme per la prima volta: “Le sue braccia, color noce, si muovevano sinuose tra le monotone increspature platino; prima emergeva il gomito, poi l’avambraccio spingeva all’indietro scandito dallo scroscio d’acqua, per riemergere e affondare di nuovo aprendosi un varco”. La ragazza avvia uno sfrontato corteggiamento, e lo invita a cena a casa sua. Da banale flirt estivo, il rapporto tra i due si fa man mano più stringente. Judy rivela una personalità spregiudicata, passionale ed egocentrica; Dexter, conquistato dal fascino di lei, si lascia irretire, desideroso di un coinvolgimento sempre maggiore e sempre negato. Dopo un anno di sofferenza e di tradimenti patiti in silenzio, decide di lasciarla (“Lei lo aveva trattato con interesse, con incoraggiamento, con cattiveria, con indifferenza, con disprezzo”), e si fidanza con la più responsabile, tranquilla e solida Irene Scheerer. “Sapeva che Irene non sarebbe stata altro che una tenda tirata alle sue spalle, una mano tra luccicanti tazze da tè, una voce che chiama i figli…”, eppure con lei si sente più sicuro di sé e di un sereno futuro da costruire.

Proprio alla vigilia delle nozze, tuttavia, si ripresenta Judy, sfrontata e infelice, che implora Dexter di sposarla. Rotto il fidanzamento con Irene, Dexter si ritrova ancora stregato, illuso e infine di nuovo abbandonato dall’inquieta e implacabile seduttrice. Partito volontario per la guerra “per liberarsi dalle ragnatele di un groviglio di emozioni”, al suo ritorno in una luccicante New York come businessman, troverà la sua vendetta venendo casualmente a conoscenza dell’esistenza infelice in cui si dibatteva la donna che era riuscita a ferirlo di più, facendolo innamorare come non gli sarebbe più successo.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Sogni-inverno-Fitzgerald                             

7 ottobre 2021

 

 

 

RECENSIONI

DESNOS

ROBERT DESNOS, LA COLOMBA DELL’ARCA – MEDUSA, MILANO 2021

Con l’importante introduzione e l’attenta cura di Pasquale Di Palmo, appassionato studioso del surrealismo, è uscita presso l’editore milanese Medusa l’antologia La colomba dell’arca di uno tra i maggiori poeti francesi della prima metà del ’900: Robert Desnos (Parigi1900-Theresienstadt, 1945).

Nato in un quartiere popolare parigino, nella capitale trascorse tutta l’esistenza, animandone con vivacità il panorama culturale, circondato da amici e nemici famosi: Picasso,  Hemingway, Dos Passos, Éluard, Artaud, Poulenc, Aragon, Masson, Cocteau, Clair, Céline, Drieu La Rochelle… Fu giornalista, critico letterario, autore radiofonico, pubblicitario. La sua convinta adesione iniziale al movimento surrealista e agli ideali professati da André Breton, si esprimeva in una scrittura legata alle suggestioni dell’écriture automatique, del désordre formel, degli accostamenti analogici casuali dettati dai sonni ipnotici cui si sottoponeva, talvolta sotto la guida di una medium. La linea poetica di Desnos, votata agli ideali di libertà e indipendenza che lo condussero a morire nel campo di concentramento di Terezin per avere preso parte attiva alla Resistenza, lo indusse nel 1927 a sconfessare polemicamente le direttive bretoniane, rivolte a un più esplicito impegno politico a fianco dei comunisti, per rimanere fedele a una scrittura giocosamente inventiva, caleidoscopica, irrazionale, antilirica, capace di accettare senza censure qualsiasi suggerimento dell’attività inconscia del pensiero.

La sua raccolta più famosa, Corps et biens, pubblicata da Gallimard nel 1930, utilizzava sperimentazioni linguistiche tese a creare effetti stranianti e dissacratori (tautologie, irregolarità grammaticali e sintattiche, allitterazioni, calembour, cantilene, paronomasie, palilalie), secondo un’esplicita dichiarazione programmatica: “In rivolta contro la morale nella vita, l’autore, nella sua poesia, è in rivolta contro la forma”. Questa sua posizione provocatoria, intenzionata a scardinare la produzione letteraria tradizionale, traeva ispirazione sia dal dadaismo di Tzara, sia dai calligrammi di Apollinaire e dalla patafisica di Jarry, in analogia con la rivoluzione pittorica messa in atto da Duchamp.

“Attendendo / chi attende tendendo / Sotto quale tenda?”, “Che angosciante angoscia! / Ma le amanti disarmate hanno capelli capelluti / Cieli celesti / terra terrestre / Dov’è mai la terra celeste?”, “gatto selvaggio / gatto gatto selvaggio equivalente a saggio / gatto saggio o saggio selvaggio / lasciate seccare le cacce leccate / caccia questi carri senza cavalli e questa spina dorsale / senza scialli”, “Muori mio male ma mimano mani / Nodi, nervi no anelli. Nessun nord / Medesimo molle amore? morose, morde / Nude nenne novizia né Nina”, “occhio! / ciglio! ascella! rene! / gola!… orecchio! / orecchio a me? Sta’ attenta, narice! / ma insomma, vecchia gengiva! / dito! / fica!”

Era evidente la volontà di épater le bourgeois, come scrive Di Palmo: “Vi è in questa sezione, come in tutta l’opera di Desnos, un gusto esibito per l’invettiva nei confronti dell’odiato perbenismo borghese, modulato contro tutte le regole, fintanto quelle grammaticali e sintattiche”. Intento ribadito anche nelle prose della stessa raccolta, caratterizzate da un’impronta più sentimentale, ovviamente mai retorica, e semmai ironica e auto-ironica.

“Se tu sapessi. Lontano da me e forse ancora più dal fatto di ignorarmi e ignorarmi ancora. Lontano da me perché senza dubbio tu non mi ami o, il che è lo stesso, io non ne dubiti”, “Ascoltate, ne ho abbastanza del pittoresco e dei colori e del fascino. Amo l’amore, la sua tenerezza, la sua crudeltà”, “Ho perso il rimorso del male passato negli anni. Mi sono guadagnato la simpatia dei pesci… Ho perso ancora la gloria che disprezzo. Ho perso tutto tranne l’amore, l’amore dell’amore, l’amore delle alghe, l’amore della regina delle catastrofi”.

Nelle prove poetiche successive al 1930, Desnos tornò a forme più tradizionali, non trascurando il verso in rima e il sonetto, compromettendosi maggiormente con tematiche amorose e, soprattutto, etico-sociali. Dal ciclo di liriche dedicate alla sua donna, Youki, ai versi per l’infanzia, alle poesie più direttamente erotiche, a quelle destinate a essere musicate, fino ai riferimenti classici e mitologici, la produzione dell’autore parigino si indirizzò a una maggiore fruibilità, e a una tensione più radicalmente morale. Alcune composizioni degli anni di guerra, firmate con uno pseudonimo, inneggiavano al pacifismo e alla ribellione contro l’invasore tedesco.

Fortunes, uscita nel 1942 sempre da Gallimard, e i versi pubblicati postumi di Destinée arbitraire si servivano di uno humour amaro per stigmatizzare il conformismo culturale dei contemporanei, sempre in omaggio all’ideale di autonomia e indipendenza perseguito in tutta l’esistenza: “In definitiva non è la poesia che deve essere libera, ma il poeta”, scrisse in un’appassionata lettera a Youki, il 7 gennaio 1945, dopo il suo arresto. L’ultima lirica del volume, L’epitaffio, traccia un autoritratto consapevolmente orgoglioso di sé: “Ho vissuto in questo tempo e dopo mille anni / Sono morto. Vivevo, non decaduto ma braccato. / Ogni libertà umana essendo imprigionata / Ero libero tra schiavi mascherati”.

Robert Desnos è sepolto al cimitero di Montparnasse a Parigi; con il suo fervente anelito alla libertà è rimasto negli anni un esempio coraggioso di anticonformismo, autenticità e opposizione a ogni rigidità intellettuale e a qualsiasi compromesso politico.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 27 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

CHIAVARONE

Intervista a Matteo Chiavarone, responsabile della casa editrice Ensemble

 

RECENSIONI

AAVV – POESIE DEL SILENZIO

AAVV, POESIE DEL SILENZIO – GARZANTI, MILANO 2021

La curiosa antologia proposta da Garzanti, Poesie del silenzio, raccoglie decine di versi sul silenzio, sparsi in duemila anni di scrittura mondiale. Secondo il prefatore Andrea Di Gregorio, il silenzio è un termine povero di sinonimi (quiete, pace, mutismo si avvicinano al suo significato senza però esserne equivalenti): indica l’assenza di suoni e di parole. Richiama la meditazione, il sogno, la pensosa solitudine, il vuoto, e forse per questo è gradito ai poeti, che in esso trovano lo spazio per l’immaginosa riflessione, l’espressione malinconica, il desiderio di conforto, la nostalgia dell’amore. Può impoverire e arricchire, spaventare o consolare, indicare l’inizio o la fine di qualcosa, celare imbarazzo colpa perplessità, o al contrario attesa e speranza.

Quante parole per raccontare il tacere, lodarne la nobiltà, premiarne la discrezione, biasimarne la superbia o la viltà: questo piccolo libro ci offre un ventaglio di immagini, a volte luminose a volte fosche, tra cui il lettore può spaziare a piacimento.

Il primo a citare il silenzio in letteratura è stato Omero, nell’XI libro dell’Odissea, nominando Aiace che, rifiutandosi sdegnosamente di perdonare Ulisse, ritorna nell’Erebo “tra le altre ombre dei morti”. Anche Virgilio nel VI canto dell’Eneide descrive un’addolorata Didone che non riesce a prendere sonno nella notte in cui tutta la natura, partecipe del suo sconforto, tace. E in un famoso passo dell’Antico Testamento (1Re 19, 11-13), è Dio a rivelarsi a Elia con “il sussurro di un silenzio leggero”, dopo aver negato la propria presenza nel vento, nel terremoto, nel fuoco. Nella tacita compostezza di Laura, Petrarca scorge un indizio di riflessiva maturità, mentre alla malinconica introspezione di Tasso fa eco “l’amico silenzio de le stelle”. Per Shakespeare “Il silenzio è il più perfetto messaggero della gioia”, per Alexander Pope è “coetaneo dell’Eternità”, per il nostro Leopardi “la profondissima quiete” si confonde con “sovrumani silenzi”. Se Baudelaire celebra le “lunghe cene, e silenziose” passate con l’amata, Emily Dickinson in una quartina sottolinea la duplice natura del tacere, oscillante tra minaccia e segreta comunicazione: “Il Silenzio è la più grande paura. / C’è riscatto in una voce – / Ma il Silenzio è l’infinità. / Volto per sé non ha”.

Carducci vede riflesso nell’occhio di un bue “il divino del pian silenzio verde”, Oscar Wilde sospetta che il mutismo tra due amanti sia sintomo dell’indifferenza che prelude al distacco. Nei suoi aforismi Tagore esalta la saggezza del non dire, del non sprecare parole vane: “La piccola verità ha parole chiare. La grande verità ha il grande silenzio”, “L’uomo si tuffa nella folla chiassosa per affogare il clamore del suo silenzio”, “Polvere di parole morte incombe su di te. Lava la tua anima con il silenzio”. Per il prolifico e verboso D’Annunzio “si tace la luce e il silenzio risplende”, per il raffinato Paul Valery il niente immenso del silenzio “esiste solitario, per sé stesso”. Rilke ritiene che un gatto faccia più grande il silenzio, quando “levigato dell’inverno” lascia il posto “a un silenzio che canta” in primavera. Per Khalil Gibran è il più elevato strumento di conoscenza, di sé e del mondo: “ci separa, il silenzio, da noi stessi, ci porta a navigare il firmamento dello spirito, proprio vicino al Cielo”. D.H. Lawrence odia la morte che “inghiotte il rumore degli uomini”, cancellandone anche il ricordo. Per Campana il silenzio è colorato, per Lorca è ondulato, per Marina Cvetaeva è solenne, per Antonia Pozzi è “l’arabo avvolto / nel barracano bianco / che ascolta Dio maturargli / l’orzo intorno alla casa”.

I poeti sanno spesso usare parole migliori del silenzio per aiutarci ad amare la vita. Nel caso contrario, quando la parola si fa chiacchiera futile, volgarità od offesa, è meglio taccia, come suggerisce il motto che Salvator Rosa incise alla base dell’autoritratto esposto alla National Gallery: “Aut tace, aut loquere meliora silentio”.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Poesie-del-silenzio       22 settembre 2021