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RECENSIONI

ESIODO

ESIODO, TEOGONIA – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2021

Daniele Ventre, poeta, traduttore, insegnante di lettere classiche nei licei, ha curato una recente edizione della Teogonia di Esiodo, pubblicata dall’editore Marco Saya con testo integrale a fronte.
Nella dotta e analitica introduzione, il Professor Ventre si sofferma su alcuni punti nodali del poema e della figura del suo autore, che – primo ad essere storicamente identificabile nella storia della letteratura europea –, si presenta in terza persona al v. 22, dopo la lunga sezione proemiale. Auto-citandosi (con un nome che etimologicamente parrebbe significare “colui che spande la voce”, allusione alle doti affabulatorie delle Muse), Esiodo ha mitizzato sé stesso, “eroicizzando il proprio io empirico”. Nato ad Ascra, in Beozia, intorno al 750 a.C., e morto verosimilmente nel primo decennio del secolo successivo, la sua esistenza si colloca dopo la composizione dei poemi omerici, rispetto ai quali i suoi scritti mostrano di essere posteriori per ragioni tematiche, intertestuali e linguistiche. Compose probabilmente tra il 720 e il 690 a.C. le opere attribuitegli con certezza: Teogonia, Eoie, Le opere e i giorni. L’epoca in cui Esiodo visse era segnata dalla crisi della società aristocratica proto-arcaica, in cui la figura dell’aedo veniva ricondotta a un ruolo marginale e socialmente irrilevante o addirittura ambiguo, contiguo a quello dello sciamano o del mago, operante in una dimensione sacrale. Esiodo aveva sperimentato in prima persona l’iniquità e la doppiezza dell’aristocrazia, essendo stato defraudato della sua eredità dal proprio fratello Perse, grazie all’appoggio di un potere corrotto. Nella sua opera è vitale l’appello alla giustizia come valore assoluto, consacrato dagli dei. Nel Proemio della Teogonia, che si protrae per più di cento versi, sono presenti tutti questi presupposti storici, culturali, sociali e biografici, in particolare nell’Inno alle Muse, con l’investitura attribuita al poeta dalle dee, attraverso il dono dello scettro di lauro, indicante un rapporto preferenziale del cantore con la divinità ispiratrice, che gli conferisce una capacità profetica e illuminante sul passato e sul futuro, e nello stesso tempo sancisce una connessione profonda tra le le figlie di Zeus e il loro padre. L’investitura accordata a Esiodo lo eleva al rango di chi amministra il potere, poiché la formula poetica, attraverso l’uso della parola – strumento di conoscenza e di persuasione -, è contigua alla formula giuridica e a quella rituale. Il rapsodo non è più associabile al pastore dell’età omerica, ma si innalza al rango dei regnanti e dei sacerdoti: “Il re, che sana le discordie e placa la rabbia dell’offeso, e il poeta, che sana i dissidi interni dell’animo e guarisce l’afflitto, sono l’espressione dello stesso potere di guarigione, quello insito nella voce e nel dono delle Muse”. Esse, figlie di Mnemosine (la Memoria), hanno la facoltà di riassestare la mente di chi soffre, somministrando in dosi equilibrate ricordo e oblio. Esiodo nel suo poema esprime la convinzione che gli aedi rivestano una funzione istituzionale assimilabile a quella dei re: il loro canto è canto della Dike (la Giustizia), che addita la norma come principio, nella stessa direzione indicata dagli dei.

Dopo aver inquadrato in maniera approfondita la personalità e il ruolo sociale dell’autore, Daniele Ventre passa a esaminare la struttura narrativa della Teogonia. Ricalcando parzialmente le cosmologie presocratiche e mesopotamiche, Esiodo pone all’origine dell’esistente non tanto un atto creativo, bensì la materia informe del Caos primordiale, che si manifesta come disordine e totale discordia. Al Caos si affianca per prima Gaia, la Terra, e tra i due agisce la potenza pulsionale di Eros. Dai vari connubi tra gli dei nascono stirpi di giganti mostruosi, tesi a eliminarsi a vicenda, per imporre con crudele violenza il proprio dominio. Un lungo processo evolutivo procede dal magma indistinto verso una sistemazione ordinata e razionale. L’avvento finale di Zeus, ultimo nato dal dio Crono, agisce sulle forze caotiche come principio divino di catarsi cosmica, aprendo l’universo a orizzonti di giustizia e armonia. Gli dei olimpici, i semidei, gli eroi “definiscono una nuova fase del canto teogonico: quella che illustra la permeazione reciproca fra il divino e l’umano”, in cui lo spazio terrestre è pervaso dalla presenza di un ordine sovrano. Con la Teogonia si apre la strada alla riflessione filosofica sull’arkhé dei presocratici.

Il raffinato volume edito da Marco Saya è arricchito da un ingente apparato di note e da un’altrettanto considerevole bibliografia.

 

© Riproduzione riservata            SoloLibri.net › Teogonia-Esiodo    20 settembre 2021

RECENSIONI

SOFRI

GIANNI SOFRI, L’ANNO MANCANTE – IL MULINO, BOLOGNA 2021

Gianni Sofri (Staranzano, 1936), storico e saggista, considerato uno fra i maggiori studiosi italiani di Gandhi, ha dedicato un volume alla figura del noto medievista Arsenio Frugoni (1914-1970), suo docente alla Scuola Normale di Pisa negli anni ’50. Si tratta di un’affettuosa ricostruzione biografica mirata a esplorare non solo il lato pubblico dell’esistenza di un noto e stimato intellettuale, ma anche a descriverne il profilo morale e l’integrità politica, facendo luce soprattutto su un episodio rimasto a lungo oscuro, un intero anno (L’anno mancante, recita il titolo del volume) di cui Frugoni non volle mai parlare, e che Sofri ha ricostruito attraverso minuziose ricerche documentali e numerose testimonianze di parenti e amici del protagonista. Già nella descrizione fisica del maestro si avverte l’ammirazione dell’allievo per la signorilità della sua figura: “Era un uomo alto, con gli occhiali, affascinante, molto elegante non solo nel vestire, ma anche nel gestire, nel parlare, nel misurare le pause. E nell’ironia”.

Nato a Parigi da famiglia bresciana, rimasto orfano del padre a un anno, Arsenio Frugoni si era laureato in Lettere alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1938, perfezionandosi in seguito a Heidelberg e insegnando per un biennio in un liceo pisano. Sposatosi nel ’39 con una compagna di scuola, Pia Chiappa, ne ebbe due figli: Chiara, oggi celebre medievista, e Giovanni. Vicedirettore dell’Istituto italiano di cultura di Vienna dal 1941 al 1943, rientrò in Italia a 29 anni e si stabilì con la famiglia in un paesino del bergamasco. All’interno di quella piccola comunità aveva apertamente manifestato “una forte estraneità al fascismo e alla sua cultura”, mantenendo saltuari rapporti con i partigiani della zona, e adattandosi a praticare lavori umili, quali il conciatore di pelli e il fabbricante di burattini, per contribuire al fabbisogno domestico.

Ma “in un giorno di maggio, o forse di giugno, del 1944, il dottor Arsenio Frugoni uscì dalla casa di Solto Collina, in provincia di Bergamo, nella quale abitava con la sua famiglia. Inforcò una bicicletta e pedalò per 125 chilometri: tanti occorreva percorrerne per scendere a Brescia e poi, da lì, raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, dove si erano richiesti degli interpreti. Qui rimase, sia pure tornando abbastanza regolarmente a Brescia o a Solto, più o meno per un anno”.

A Gargnano, nel cuore della maggiore concentrazione di forza militare fascista e nazista, era stanziato l’Ufficio di collegamento fra l’Alto comando della Wehrmacht e la Repubblica sociale, e risiedeva Mussolini, con i parenti e i collaboratori più stretti. Quale sia stato l’effettivo ruolo svolto da Frugoni nel periodo di poco precedente alla caduta del fascismo è quanto intende verificare la ricerca di Gianni Sofri. Fu mediatore politico-militare tra la Repubblica di Salò e il Comando tedesco? Informatore segreto degli ambienti della Resistenza? Incaricato di salvare la vita a oppositori incarcerati e condannati a morte?

Assunto con la qualifica di traduttore e insegnante di italiano del Colonnello di Stato Maggiore Hans Jandl, addetto militare dell’Ambasciata, il professore era entrato in confidenza con il Capitano Otto Joos, che in una lettera spedita a Chiara Frugoni da Berlino il 26 dicembre 1994, lo definiva “uomo di cultura, di gentilezza e di franchezza”. L’ufficiale tedesco si dichiarava convinto dell’antifascismo di Frugoni, sapendo che aveva rifiutato qualsiasi incarico istituzionale all’interno della RSI, e platealmente evitava il saluto romano al passaggio di Mussolini. Era a conoscenza di come coltivasse intensi rapporti culturali e di amicizia con il cattolicesimo bresciano – in particolare con l’Oratorio della Pace dei padri Filippini, con il Liceo Calini dove insegnava lettere, con Monsignor Montini (futuro Papa Paolo VI) e con i partigiani delle Fiamme Verdi. Sempre secondo la sua testimonianza, Arsenio Frugoni aveva lasciato improvvisamente e segretamente Gargnano nell’aprile del 1945, spostandosi verso Como, dove forse ebbe parte alla cattura di Mussolini a Dongo, fatto tuttavia non comprovato.

Frugoni non fu mai iscritto al Partito Fascista Repubblicano, né venne inserito nelle liste di epurazione del dopoguerra: anzi i familiari rivelarono di avere trovato documenti relativi alla sua appartenenza a gruppi partigiani lombardi, tra cui una tessera rilasciata dal CLN di Brescia e diverse sue dichiarazioni autografe sul proprio impegno attivo nella lotta contro la dittatura.

Dopo la Liberazione, il professore preferì osservare un composto riserbo riguardo al periodo trascorso a Gargnano, evidentemente amareggiato dai silenzi, dalle titubanze e dai commenti non sempre benevoli espressi da conoscenti e colleghi, “quando alcune delle solidarietà e delle coperture che lo avevano accompagnato cedettero il campo ad altri atteggiamenti, che andavano dall’ignorare o misconoscere il suo operato fino a farlo oggetto di biasimo ipocrita”.

Pur non essendo mai entrato direttamente nell’agone politico con l’iscrizione a qualche partito, Arsenio Frugoni nel dopoguerra assunse precise e coraggiose posizioni di denuncia nei confronti di un potere accademico e giudiziario illiberale e discriminatorio. Titolare della Cattedra di Storia alla Scuola Normale di Pisa dal 1954, morì in un incidente d’auto insieme al figlio Giovanni nel 1970, lasciando un ricordo ammirato e riconoscente della sua figura umana e intellettuale.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 20 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CLARE

JOHN CLARE, L’OLMO CADUTO – MEDUSA, MILANO 2021

L’olmo caduto, antologia pubblicata dalle edizioni Medusa, raccoglie una sessantina di poesie di John Clare tratte da sette diverse raccolte, uscite tra il 1820 e il 1864. Nato nel 1793 nel villaggio di Helpston, nella contea del Cambridgeshire, John Clare proveniva da una famiglia di contadini, contadino egli stesso. Autodidatta, lettore onnivoro, iniziò a scrivere da ragazzo. Conobbe già con il suo primo libro di versi, ispirato al mondo rurale, un grande successo di pubblico: commuoveva la sua sensibilità quasi infantile verso l’ambiente naturale, e incuriosiva i lettori la sua scrittura istintiva, priva di ricercatezze formali, basata su di un lessico semplice e una sintassi elementare, densa di espressioni dialettali.

Clare non ebbe vita facile, provato da difficoltà economiche e lutti familiari, continue pressioni e censure editoriali, stati depressivi e allucinatori che lo portarono all’internamento in manicomio poco più che quarantenne, fino alla morte avvenuta nel 1864. Nonostante fosse continuamente minacciata dalle tormentose vicende private, la sua poesia fu tra i contemporanei più popolare di quella di Wordsworth, Keats e Coleridge, venne recitata e musicata nei teatri londinesi alla moda, conobbe estimatori tra gli intellettuali più in vista. Etichettato come “The Peasant Poet”, o “The Green Man”, fu in un primo momento la peculiarità della sua storia personale ad attirare tanta attenzione sulla sua produzione letteraria. Che da un’iniziale interesse rivolto empaticamente agli animali e alla vegetazione, affrontò nella maturità temi più impegnativi, sia socialmente sia esteticamente, fino alla misteriosa enigmaticità dei versi visionari scritti nella clinica psichiatrica in cui fu rinchiuso per 23 anni.

Se oggi certa critica tende ad accreditarlo come poeta ecologista, il suo interesse per la natura non esprimeva in realtà alcuna polemica nei confronti della nascente urbanizzazione e industrializzazione; era piuttosto sincero amore per la terra e per l’innocenza dei suoi abitanti non-umani: tutti i tipi di uccelli, le talpe, i ricci, i conigli, le piante e i fiori che rendono il paesaggio più gentile.

“Benvenuta pallida primula! Spunti tra / il morto fogliame di frassini e querce /… quanto la tua presenza fa più bella la terra”, “Nel basso di siepi e mura al riparo dal vento / i moscerini si radunano in sciami per giocare”, “Le api si lisciano le zampette passandole tra le ali / e osano piccoli voli ove il bucaneve lascia pendere / le campanule d’argento”, “Le timide lepri dismesse le paure del giorno / Sulla stradina s’impolverano danzano e giocano”, “Amo vedere le vizze felci della brughiera antica / Mischiare le crespe foglie a ginestrone ed erica / Mentre dal lago deserto il vecchio airone / Parte lento battendo l’ala malinconica”.

Piante e animali, fenomeni atmosferici e stagni patiscono, nei versi di Clare, gli stessi sentimenti degli uomini: paura e gioia, ansia di libertà e ferocia, imperturbabilità e irruenza. Ogni cosa risponde al richiamo eterno e insopprimibile della sopravvivenza, della riproduzione fisica, del desiderio appagante, e il poeta ribellandosi alla violenza di chi turba la semplice autenticità dell’esistere, soffre per l’abbattimento di un olmo, per la macellazione di un bue, per lo squartamento di un tasso. I bambini che escono da scuola correndo, i braccianti nei campi, le belle ragazze da spiare di nascosto, il trapassare delle stagioni; ma anche la solitudine, il silenzio, la morte stessa: ogni cosa per lui è degna di venire raccontata con meraviglia e gratitudine. L’ultima composizione del volume è una vera dichiarazione d’amore per ciò che ci circonda: “Tutto in natura è sentimento – boschi campi rivi / Sono vita eterna – e in silenzio / Parlano di felicità inaccessibili ai libri”.

John Clare ha suscitato l’ammirazione di poeti come Dylan Thomas, John Ashbery, Seamus Heaney, che l’hanno ritenuto degno di venire menzionato tra i grandi della letteratura inglese. Per questo l’elegante antologia proposta da Medusa ha reso un prezioso favore ai lettori italiani, per la maggior parte ignari della sua esistenza.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 16 settembre 2021

 

RECENSIONI

PERSE

SAINT-JOHN PERSE, L’OSSESSIONE CELESTE – MEDUSA, MILANO 2021

Le edizioni Medusa hanno dedicato un elegante volume, curato da Laura Madella, a Saint-John Perse: L’ossessione celeste.

Saint-John Perse (pseudonimo di Alexis Léger; 18871975), poetascrittore e diplomatico francese, figura intellettuale in Italia colpevolmente trascurata, fu insignito nel 1960 del Premio Nobel per la Letteratura “per l’ambizioso volo e le evocative immagini della sua poesia”. Appartenente a una famiglia aristocratica, proprietaria di piantagioni di caffè e di canna da zucchero in Guadalupa, trascorse con la famiglia un’infanzia paradisiaca nelle Antille francesi fino al 1899, a stretto contatto con il mare, la vegetazione e gli animali, sviluppando una sensibilità particolare per la libertà e gli spazi aperti della natura. Costretto a trasferirsi in Francia in seguito al tracollo economico della famiglia, si sentì sempre e ovunque un esiliato, definendosi “uomo d’Atlantico”. Erudito, elegante, di una raffinatezza inattuale, coltivò molti interessi in ogni campo dello scibile, frequentando i più importanti artisti contemporanei: Odilon RedonJacques RivièreAndré Gide, Paul Claudel, Paul Valéry. Impegnatosi nella carriera diplomatica, viaggiò a lungo in Europa e in Cina, approfondendo un percorso morale affine alla spiritualità orientale. Oppositore del nazismo, nel 1940 venne rimosso dall’incarico di segretario generale al Ministero degli Esteri e privato della cittadinanza, per cui si trasferì negli Stati Uniti, tornando in Francia solo dopo la liberazione. Della sua vita politicamente tormentata, rimane scarsa traccia nella produzione letteraria, orientata invece a un continuo superamento della contingenza verso temi immaginosamente metafisici.

Il libro di cui ci occupiamo raccoglie lettere, memorie, brevi saggi, dissertazioni: tra questi, il discorso tenuto a Stoccolma in occasione del conferimento del Nobel. Si tratta della sua prosa più conosciuta in assoluto, una vibrante celebrazione della Poesia intesa come “strumento conoscitivo alternativo e complementare alla scienza”, secondo la definizione della prefatrice, ma forse alla scienza addirittura superiore nella capacità di esplorare i misteri insondabili della natura e dell’animo umano. Il poeta è, secondo Perse, “la cattiva coscienza del suo tempo”, voce profetica e visionaria che si eleva aldilà di ogni futile apparenza, e aiuta ad essere consapevoli della propria inviolabile e impenetrabile unicità. “Alla domanda che sempre ritorna: ‘Perché scrivete?’ la risposta del Poeta sarà sempre la più breve: ‘Per vivere meglio’”, affermava nel 1955.

Cinque anni dopo, apriva la celebre allocuzione per il Nobel con queste parole: “Solo per la poesia ho accettato l’omaggio che le viene reso in questa sede, e che bramo di restituirle”. Sottolineando lo scarto tra la gratuità dell’arte poetica e “l’attività di una società sottomessa alle servitù materiali”, Saint-John Perse rivendicava alla poesia e alle sue “folgorazioni dell’intuito”, la stessa dignità di ricerca e di immaginazione delle altre scienze. “Figlia della meraviglia”, operando con “pensiero analogico e simbolico”, la poesia è in grado di sondare il mistero dell’essere, e di renderlo percepibile attraverso la grazia del linguaggio: “È azione, è passione, è potenza, è innovazione quando sposta i confini”.

Tale appassionata considerazione nei riguardi della scrittura si ritrova nelle lettere antologizzate in questo volume, dirette a corrispondenti prestigiosi (Stravinskij, Riviére, Larbaud, Ungaretti, Paulhan…), a cui attribuiva la sua stessa acuta sensibilità e il suo stesso rigore compositivo. E sapeva mettere in luce, con pochi calzanti cenni critici, le principali peculiarità stilistiche degli scrittori presi in esame (Eliot, Gide, Claudel, Tagore, Ocampo, Borges Cioran, Bousquet, Char), tributando loro un riconoscente omaggio.

Di Dante, con la solennità e l’autorevolezza che era la sua cifra distintiva, scrisse nel 1965 un elogio rimasto celebre: “Poeta, uomo di assenza e di presenza, uomo di rifiuto e di concorso, poeta, nato per tutti e da tutti nutrito, sempre inalienato, egli è fatto di unità e pluralità… Destino prodigioso, per un poeta creatore del suo linguaggio, essere anche l’unificatore della lingua nazionale, assai prima dell’unità politica che questa annuncia. In Dante, il linguaggio restituito a una comunità viva, diventa la storia vissuta di un intero popolo in cerca della sua verità. Quale poeta, per la sola eminenza della sua poesia, ha mai rappresentato, nella storia di un popolo orgoglioso, un tale elemento di forza collettiva?”

In Saint-John Perse la consapevolezza della missione della scrittura si univa alla coscienza del proprio valore di letterato, autore di un’opera “evoluta al di fuori di uno spazio e di un tempo”, nella stessa misura eterna e universale.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Ossessione-celeste-Perse      14 settembre 2021

 

 

 

INTERVISTE

LE PLURALI

INTERVISTA ALLE REDATTRICI DELLA CASA EDITRICE LE PLURALI

Come e quando sono nate “Le Plurali”, con quali finalità e prospettive?  Perché avete deciso di chiamarvi così?

Il progetto de Le plurali è nato ufficialmente a Marzo 2021 ma noi quattro ci conoscevamo già da un anno e mezzo, perché scrivevamo su uno stesso blog. Entusiaste di intraprendere un percorso nostro ci siamo guardate negli occhi di uno schermo (anche prima della pandemia eravamo infatti abituate al digitale vivendo sparse nel continente) e abbiamo pensato… perché non fondare una casa editrice nostra, femminista e indipendente? L’obiettivo era ed è grande: vogliamo pubblicare libri di autrici che alimentino il dibattito femminista, con un’ottica inclusiva e intersezionale. Vogliamo che sia un progetto che diventi sempre più grande e per fare ciò abbiamo deciso di investire le nostre competenze per tre anni durante i quali ci bilanceremo tra primi, secondi e terzi lavori. Vogliamo cercare di rendere la nostra passione un vero e proprio lavoro di cui vivere, anche in un momento in cui si parla molto di crisi del settore editoriale. Eravamo convinte del nostro progetto e ci siamo prese tempo per crearlo dalla a alla zeta, studiando, informandoci e capendo come riuscire a distinguerci per qualità del contenuto e bellezza dell’oggetto. Perché ci chiamiamo plurali? Beh, perché l’unicità di ogni storia risalta ancora di più nella pluralità delle voci delle altre donne che stanno attorno ad ognuna di noi. Ci riconosciamo del tutto nel motto “uniche ma plurali” e abbiamo anche un simbolo che vedete stampato nelle copertine dei libri: la macchia. La macchia è qualcosa che nasce magari per caso, ma che si fa notare, è quel tanto di inchiostro che dilaga sulla pagina e basta a generare parole nuove; la macchia coinvolge altre macchie per creare storie e sconvolgere i fogli su cui si è posata.

Quante persone lavorano nella vostra casa editrice, con quali compiti e ruoli, e dopo aver seguito quale percorso formativo?

Attualmente siamo in quattro: Beatrice (traduttrice ed editor letteratura straniera), Clara (editor sezione italiana, ricezione manoscritti), Hanna (grafica e impaginazione) e Valentina (ufficio stampa e comunicazione). Abbiamo compiti e ruoli diversi ma condividiamo ogni decisione, e ognuna sta infatti imparando poco per volta a sostituire l’altra quando c’è bisogno. Prima di essere colleghe siamo amiche, e questo è un elemento di coesione che ci rende il lavoro più piacevole, facile e veloce da affrontare: ci sentiamo unite e sappiamo che ognuna vuole il bene dell’altra e del progetto. E pensa te che c’è chi ancora è convinto che le donne non riescano a lavorare insieme… pazzesco! Abbiamo un background umanistico, grafico e linguistico: Bea è traduttrice professionista, Clara una ricercatrice di letteratura femminile rinascimentale, Hanna una super grafica con tanti anni di esperienza nel settore e Valentina è esperta di marketing e cinematografia. Le nostre competenze si intrecciano e hanno dato forma alle collane della nostra casa editrice: le sagge (saggistica italiana e straniera), le bussole (agili guide femministe su temi specifici), le cantastorie (narrativa contemporanea italiana e straniera) e le radici (libri di grandi autrici del passato non più ristampati o ancora inediti in Italia). La formazione è fondamentale e ognuna segue dei corsi specifici per ampliare le proprie conoscenze e metterle al servizio della casa editrice: dal digital marketing, all’organizzazione di un magazzino, all’editing.

Quanti titoli pubblicate ogni anno, quali volumi hanno avuto più successo di vendita e di critica, quali saranno le vostre prossime uscite? Credete che l’e-book possa rappresentare un’alternativa vincente rispetto al libro cartaceo?

Per ora abbiamo due titoli usciti, Girls will be girls e Lady Cinema per le collane delle Sagge e Bussole rispettivamente. Quest’anno usciranno altri due libri: Muoviamo le montagne, per la collana Radici, e Come volano le api di un’autrice emergente, per Cantastorie, e che speriamo faccia tanta strada! Girls will be girls ha avuto un bel successo, è stata tra le letture consigliate da Internazionale, menzionata ne la Repubblica e siamo già alla seconda ristampa… probabilmente dovremo procedere alla terza in poco tempo! Lady Cinema, con prefazione di Marina Pierri, pure è piaciuta moltissimo e abbiamo organizzato varie presentazioni del libro: a settembre saremo a Firenze e poi a Roma per Feminism 4, la fiera dell’editoria delle donne, e ci stiamo organizzando anche per un incontro a Milano durante Bookcity, insieme a Marina Pierri. Muoviamo le montagne promette molto bene, ci sono già molti preordini e lo porteremo al festival di Firenze Eredità delle donne del prossimo 22 ottobre. Per il 2022 abbiamo in mano tre bei romanzi inediti di autrici emergenti e non, una guida al sesso femminista, un libro che ci porterà nel mondo di una ragazza diversamente abile, canadese, e per la collana delle Radici vorremo proporre una maestra dell’horror italiana purtroppo dimenticata dalla critica. Vorremmo pubblicare almeno 8 libri il prossimo anno e abbiamo tanta carne al fuoco! Tutti i nostri libri escono sia in formato cartaceo sia in formato ebook: vogliamo andare incontro alle esigenze e le preferenze di tutt* per poter agevolare la circolazione delle idee che proponiamo. Non pensiamo che l’ebook sia un’alternativa “vincente” ma solamente un’alternativa pratica e necessaria per chi, per vari motivi, non vuole comprare cartaceo e si trova meglio ad avere le sue letture in un comodo dispositivo digitale per il quale abbiamo anche creato le portali: dei porta dispositivi in stoffa riciclata unici e plurali!

Che importanza ritenete abbiano i festival letterari, le letture pubbliche, gli incontri con gli autori nell’incoraggiare la sensibilità femminista, nel far crescere una coscienza civile responsabile e democratica, nel favorire l’interesse per l’“oggetto libro”?

I festival, gli incontri e le letture pubbliche sono fondamentali: cerchiamo di bilanciare la presenza online, pressoché costante, e incontri in presenza con le autrici e le prefatrici dei libri che pubblichiamo. Valentina, ad esempio, avrà un bel po’ di impegni nel presentare Lady Cinema e già si parla di incontri mensili e di un cineforum nel quale la nostra Vale metterà in pratica ciò che propone nella sua bussola sul cinema femminista. Metterci la faccia, discutere, fare gruppo ci unisce e alimenta la pluralità che ricerchiamo per un femminismo inclusivo, pluricromatico, con le ovaie o senza! Portare fisicamente l’attenzione al libro, anche come oggetto, che curiamo nei minimi dettagli, punta l’accento sulla bellezza della carta stampata, qualcosa che rimane per sempre e non si perde nell’onda informatica.

Come pensate di poter raggiungere un pubblico più vasto, in futuro, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Con la scelta di contenuti intelligenti, accattivanti e con libri che, oltre ad una bella copertina, portino anche dei temi sostanziosi, impegnativi ma in modo ironico e leggero. Nel mare magnum vogliamo distinguerci stimolando la curiosità, proponendo autrici talentuose e anche testi e saggi accademici. Tutto ciò ci riporta all’importanza di ascoltare chi ha qualcosa da dire, anche se diverso dal nostro modo di pensare.

 

(Per la redazione ha risposto Clara Stella)   info@lepluralieditrice.net

«Gli Stati Generali», 10 settembre 2021

RECENSIONI

TORRINI

VALENTINA TORRINI, LADY CINEMA – LE PLURALI, MORLUPO (RM) 2021

La giovanissima e intraprendente casa editrice femminista Le Plurali ha pubblicato un vivace saggio di Valentina Torrini dedicato ai film girati, prodotti, e fruiti dalle donne: Lady Cinema. Guida   pratica   per   attivare   le   tue   lenti   femministe, con prefazione di Marina Pierri.

È evidente che nessuna/o può pretendere di cancellare un secolo di cinema maschilista, ma sarebbe oltremodo opportuno imparare a guardare i film attraverso occhi più consapevolmente disincantati, più razionalmente analitici, più intuitivamente solidali con una lettura di genere. Valentina Torrini, forte della sua più che decennale esperienza nel settore dello spettacolo, propone quindi un percorso critico che attraversi la storia del cinema delle donne (per, su, contro le donne) a partire dai suoi albori, cioè da Alice Guy, regista del primo film narrativo nel 1896, La fée au choux, fino al New Queer Cinema, passando per la Feminist Film Theory. Il volume (corredato da una ricca filmografia, una puntuale bibliografia, indirizzi internet e una trentina di schede di approfondimento su film, attrici, sceneggiatrici, montatrici, produttrici e registe famose o di nicchia), si presenta come un’ironica e provocatoria guida alla storia delle donne che hanno agito o sono state agite dietro e davanti allo schermo, con la precisa volontà di scardinare pregiudizi e di ridicolizzare gli stereotipi più scontati. Il cinema è stato, dalla sua nascita fino ad ora, il frutto del cosiddetto male gaze, lo sguardo maschile: generalmente di maschio etero, bianco, per lo più americano. Ne sono derivate alcune ovvie e ribadite tipicità nella descrizione di virtù e difetti femminili: dolcezza, timidezza, contegno, capacità di curare e accudire, mitezza, remissività, debolezza, eleganza, oppure (al contrario) perfidia, infedeltà, doppiezza, pusillanimità, curiosità, ocaggine, sciatteria, avidità, gelosia, seduzione. Principessa o strega, Cenerentola o Crudelia, novizia o dark lady.

A questi luoghi comuni non si sono sottratte anche altre figure rese “in modo macchiettistico, marginale e stigmatizzato, con caratteri poco definiti e molto estremizzati”. Donne non conformi ai canoni estetici, con disabilità fisiche o mentali, androgine o lesbiche, afro o sudamericane, orientali, indiane: relegate a ruoli di supporto, grotteschi, servili. Come si sa, “Il male gaze si manifesta su tre diversi piani: lo sguardo di chi sta dietro la macchina da presa, quindi il regista; lo sguardo diegetico, cioè quello dei personaggi maschili all’interno della trama; lo sguardo extradiegetico, cioè quello dello   spettatore che osserva la rappresentazione”.

Il libro di Valentina Torrini si articola in due sezioni: la prima, più teorica, ripercorre la storia del cinema dal punto di vista delle protagoniste, delle spettatrici e della critica, a partire dagli anni Venti fino ad oggi. Quindi le grandi dive (da Marlene Dietrich a Audrey Hepburn a Susan Sarandon, ad Angelina Jolie…), le registe più impegnate nella descrizione di una complessità e problematicità del pensiero, del carattere e della quotidianità femminile (tra le tante nominate, Ida Lupino, Agnès Varda, Chantal Akerman, Marguerite Duras, Sally Potter, Kathryn Bigelow, Chloé Zhao, Anna Biller,  Ava Marie Du Vernay,  Safi Faye, Petra Costa), le più agguerrite critiche cinematografiche femministe (Julia Lasage, Laura Mulvey, Katha Pol litt), impegnate a denunciare il sessismo oltre che nella forma e nei contenuti dei film, anche nei meccanismi dell’industria cinematografica e della distribuzione, rivalutando nel contempo le opere di autrici colpevolmente trascurate.

La seconda parte del volume, più leggera ed empirica, analizza alcuni strumenti pratici da applicare per giudicare il grado di adesione al femminismo dei vari lungometraggi, con una quotazione simbolica che varia da zero a cinque. Almeno sei i metodi utilizzati per valutare con criteri precisi la presenza e la rappresentazione dei   personaggi femminili, non come mere appendici di quelli maschili, ma con un loro specifico rilievo nello svolgimento della vicenda narrata. Il più noto e utilizzato da decenni è il Bechdel test, improntato però su criteri più quantitativi che qualitativi, e quindi non del tutto attendibile.

Nella classifica dei primi della classe proposta da Torrini, svettano Persepolis (2007) e Rafiki (2018), seguiti da molti altri: Joy, Camille Claudel, A private war, The United States vs. Billie Holiday, Tonya, Una giusta causa, Maria regina di Scozia, Malala, Miss Potter, Suffragette, Frida, Una canta l’altra no, Caramel, Le meraviglie, Piccole donne, Whip it!, Una donna promettente.

Non solo Puffette, Miss Piggy e Minnie; non solo insipide presenze di appoggio a super eroi, geni, campioni sportivi o banditi, né eccitanti lusinghe di godimento sessuale o lacrimevoli ricatti affettivi. Esiste un cinema in cui le donne sono caratterizzate da reale complessità, esibiscono le loro ambizioni, soffrono di conflitti interiori, lottano per ottenere il giusto riconoscimento al proprio valore.  Il libro di Valentina Torrini ne mette in luce la troppo sottovalutata rilevanza, nella consapevolezza che il cinema non avendo solo funzione di intrattenimento, necessita di venire analizzato attraverso “lenti femministe” che aiutino a percepirne il fondamentale compito formativo.

Quest’anno è nata Lynn, nuova divisione della casa di produzione cinematografica Groenlandia, intesa a promuovere    e a sovvenzionare esclusivamente progetti audiovisivi di donne. Si tratta di un’iniziativa coraggiosa e da incoraggiare, perché scommette sull’ideazione e fruizione di una settima arte davvero inclusiva.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GIUDICI, SERENI

GIOVANNI GIUDICI-VITTORIO SERENI, QUEI VERSI CHE RESTANO SEMPRE IN NOI 

ARCHINTO, MILANO 2021

La prima tra le quarantotto lettere raccolte nell’epistolario edito da Archinto, Quei versi che restano sempre in noi, era stata scritta da Vittorio Sereni a Giovanni Giudici nella primavera del 1955. L’ultima, sempre da Sereni, il 20 aprile 1982. Un carteggio durato quasi trent’anni, a cementare un’amicizia partita in sordina e in maniera piuttosto convenzionale (fino al 1960 i due poeti si diedero del lei, anzi, del “Lei”) e via via diventata sempre più solida, sincera, fraterna.

La curatrice del volume, Laura Massari, nella prefazione definisce in questo modo il sodalizio tra gli autori: “due poeti così diversi, che si trovano a vivere a Milano al principio degli anni Sessanta: sfuggente nella sua elegante e malinconica profondità l’uno, timido ma presente nella sua irruenza impegnata con la storia e con la vita, l’altro”. Sereni, nato a Luino nel 1913, e Giudici, nato a La Spezia nel 1924, avevano fatto di Milano la loro seconda casa. E proprio alla Milano dei poeti dedica la sua nota conclusiva il Professor Edoardo Esposito, sottolineando quanto il capoluogo lombardo si sia prestato nel dopoguerra ad accogliere e nutrire voci e scritture diverse, favorendo intensi momenti di aggregazione e collaborazione culturale, dibattiti e scontri ideologici accesi, opportunità di pubblicazione su importanti quotidiani e riviste letterarie, incarichi all’interno di case editrici piccole e grandi.

Sereni e Giudici avevano inaugurato la corrispondenza proprio in virtù di uno scambio di pareri sulle rispettive produzioni edite e inedite, offrendosi reciproche occasioni di commenti critici, recensioni e traduzioni, e manifestando sempre vicendevole stima e rispetto, pur nella diversa valutazione di cosa significasse scrivere in versi. Il più dibattuto tra i tanti argomenti affrontati dai due intellettuali era appunto il ruolo rivestito dalla poesia nella cultura e nel mercato librario, la sua origine e destinazione, la sua funzione e responsabilità sociale e politica. Più scettico Sereni riguardo a una finalità concreta e misurabile della parola poetica, più entusiasticamente convinto di un suo compito etico Giudici. Che così rispondeva al diffidente pessimismo dell’amico, ribadendo l’importanza “di una scelta ideologica, di una scelta morale preventiva”: “Se non mi sostenesse l’illusione che i miei versi riescano in qualche (vicino o lontano) momento a incidere nel corpo della storia, a mutare in misura infima la storia del mondo, avrei già smesso di scriverli…”.

Vittorio Sereni, più legato a una dimensione interiore della scrittura, temeva e rifiutava qualsiasi sua intenzionalità didascalica, volontaristica, edificante: “Non ho mai pensato che la poesia potesse aiutare a cambiare, tantomeno a cambiare, qualcosa attorno a noi. Penso al massimo che immetta qualcosa in te o in me o in un terzo, in una piccola folla di terzi; che aggiunga o tolga qualcosa nella vita emotiva di questo o quello”.

L’irrinunciabile sguardo che Giovanni Giudici volgeva, con ironia e autoironia, al reale, alla cronaca, alle motivazioni psicologiche del proprio agire, trovava nella disincantata amarezza, nella perplessa esitazione di Vittorio Sereni uno stimolante motivo di riflessione, che rinsaldava in entrambi la fiducia nella natura essenzialmente comunicativa della poesia, contro il contingente prevalere della neoavanguardia letteraria, concentrata su un estremizzato sperimentalismo linguistico. Tutti e due si dichiaravano determinati a difendere “il buon gusto in letteratura”, temendo di venire persuasi al silenzio, “ammutoliti di tristezza” dalla “babele dell’orda”, quando “fra qualche anno scrivere una bella poesia avrà (non solo praticamente, ma ahimè storicamente) ancor meno valore di oggi”, secondo l’amara profezia espressa da Giudici nella lettera del 24 febbraio 1963.

© Riproduzione riservata                        7 settembre 2021

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RECENSIONI

FUSINI

NADIA FUSINI, IL POTERE O LA VITA – IL MULINO, BOLOGNA 2021

Per la collana Icone delle edizioni Il Mulino, diretta da Massimo Cacciari, Nadia Fusini ha da poco firmato un saggio, Il potere o la vita, in cui arte, letteratura, storia, filosofia, psicanalisi confondono i loro confini, compenetrandosi, avvalorandosi e giustificandosi a vicenda.

Nella seconda sala del secondo piano della National Gallery di Londra, l’enorme quadro a olio (due metri per due) I due ambasciatori che Hans Holbein il Giovane dipinse nel 1533 attira l’attenzione dei visitatori non solo per la pregnanza dei protagonisti ritratti, ma per una sorta di misterioso turbamento che pervade l’intera scena rappresentata. I due personaggi, chiaramente di alto lignaggio, sono Jean de Dinteville e Georges de Selve, diplomatici alla corte di Enrico VIII: il primo, a sinistra, in abito corto di velluto, ha un’espressione vigorosa e decisa; il secondo, più sobrio e sottile, pare severamente raccolto nella sua palandrana scura, come si addice a un ecclesiastico.

Entrambi rivolgono a chi li osserva uno sguardo “pensoso, diretto, estroflesso eppure così interiore”, quasi intendessero comunicare altro, rispetto alla pura esibizione di sé. E questo altro, segreto e inquietante, si cela nei dettagli dell’arredamento del tipico studiolo umanistico che li ospita: il tendaggio verde damascato sullo sfondo, lo scaffale a due piani contenente due mappamondi, astrolabi, calendari, orologi, bussole, un libro d’aritmetica e uno di musica, un liuto, una custodia per flauti. “simboli laici delle arti e delle scienze”, commenta Fusini, strumenti che servono a interpretare il mondo fisico conosciuto e quello immaginario, più spirituale.

L’autrice, celebre e stimata anglista, nel riflettere sul “silenzioso colloquio tra l’immanente e il trascendente”, ritiene che l’intera rappresentazione, nella sua solennità, abbia un evidente significato allegorico, raffigurando il prestigio e l’influenza del potere mondano messo in discussione da un richiamo a ciò che lo supera, lo disorienta e lo annulla. Infatti, osservando con più attenzione il dipinto, e spostandosi di lato, scorge alla sua base “una forma confusa… di colore vitreo, grigio, bianco e avorio mescolati insieme”. È un teschio, inserito a bella posta da Hans Holbein come memento del transeunte, “per affermare una irrefutabile verità; per testimoniare, cioè, che ‘passa la scena del mondo’”.

Quel particolare, il cranio scarnificato, l’osso cavo (“hollow bone”, simile a hohl-bein, probabile allusione giocosa al nome del pittore), si manifesta come “un difetto, un errore, uno sgorbio”, un campanello d’allarme che disarma e fa vacillare l’imponente pomposità dei due autorevoli funzionari, suggerendone l’inconsistente vanità esistenziale, e trascinando “ogni significato nel verso del lutto”. Altri particolari del quadro sembrano voler indicare la fragilità della vita umana, nonostante i suoi fasti esteriori. Fusini li rinviene nella raffigurazione del liuto a cui è saltata una corda, nell’astuccio dei flauti mancante di uno strumento: segnali allusivi alla rottura di un ordine, di un’armonia. Nel quadro di Holbein “risuona, squilla forte l’allerta di uno stato di schisi, di disgiunzione”. A partire da questa constatazione, la studiosa indica nella relazione aporetica tra essere a apparire la stessa fondamentale e tragica domanda di Amleto: To be or not to be? Da profonda conoscitrice e traduttrice di Shakespeare, affronta una ricerca non tanto storica, quanto strutturale, che sovrappone alla pittura di Holbein la scrittura del Bardo, alla celebrazione della sfarzosa corte di Enrico VIII la malinconica meditazione sulla caducità mortale del giovane principe danese, “affascinato dal nulla”.

Nel secondo capitolo del saggio, Il potere dello sguardo, l’autrice chiama direttamente in causa i lettori, invitandoli a riflettere su cosa sia “propriamente un’esperienza visiva”, su quanto in essa incida la memoria, l’immaginazione, la volontà di razionalizzazione, l’emotività con cui ci relazioniamo con la pittura, consapevoli che in ciò che percepiamo con gli occhi rimane qualcosa di inesprimibile, che la psicanalisi definisce perturbante: “In inglese la lingua si diverte a giocare sulla coincidenza fonica che avvicina l’occhio, eye e il soggetto parlante, I. In inglese chi dice io, dice occhio”. Sono quindi “l’occhio” di Holbein, e “l’io” di Shakespeare a guidare il percorso esplorativo di Nadia Fusini, tesa a leggere i segreti del quadro in controcanto con la fondamentale domanda amletica sulla natura dell’umano: “What’s a man? … What a piece of work is man! How like an angel… Quintessence of dust!”. Grandezza e polvere, gloria e finzione, potere e apparenza, Madame Vita e Mr. Death.

Holbein e Shakespeare patiscono la stessa profonda fascinazione per l’immodificabile e crudele transitorietà del tempo: un tempo che nella loro epoca appare scardinato, disarmonico, “out of joint”. Nel quadro la dimensione temporale è statica, sospesa: ma nella storia i cinquant’anni che separano pittore e drammaturgo sono turbinosi e drammatici. L’anno 1533, in cui Holbein dipinse I due ambasciatori, è lo stesso dello scisma anglicano, della frattura tra Roma e Londra, dei fallimenti diplomatici per ricomporre il dissidio tra le potenze europee. Tempo di negazione. Che il pittore tedesco della corte inglese dei Tudor (di cui Nadia Fusini illustra vivacemente non solo la vicenda terrena, ma soprattutto il particolarissimo e innovativo stile artistico: oggettivo, crudamente descrittivo, fedele al reale) rende utilizzando una deformazione anamorfica: “la massa obliqua fluttuante come una larva di fronte agli occhi di chi guarda, per essere riconosciuta come teschio, richiede che lo spettatore si sposti, si abbassi, quasi si inginocchi di fronte al quadro. Solo allora il teschio diviene percettibile”. Il suo occultamento spezza il punto prospettico e l’unità di senso, relegando in secondo piano le imponenti figure dei protagonisti. Il cranio vuoto di Holbein rimanda all’inazione sfiduciata di Amleto, che impugna il teschio di Yorick celebrando la vittoria della morte, e decretando la tragica rottura con l’ambiente e l’epoca cui appartiene. Uguale è nel quadro e nella tragedia la sconfessione della vita, il trionfo del nulla sull’illusione del potere, “il segreto abisso che regge la rappresentazione dell’uomo e del mondo”.

Utilizzando le lenti interpretative fornite da Freud, Lacan, Barthes e Benjamin, Nadia Fusini nell’esplorare i segreti di un quadro esplora anche sé stessa, il suo “essere insieme soggetto e oggetto di visione”, sguardo che nel percepire l’altro da sé si percepisce: “Sì, due paia d’occhi mi fissano. I due ambasciatori guardano me che li guardo”. L’occhio-eye si spalanca sull’io-I, penetrandone la verità, sconvolgente come ogni consapevolezza rivelatrice dell’inganno dei sensi e delle menzogne sociali.

 

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 3 settembre 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DI PALMO

PASQUALE DI PALMO, TRITTICO DEL DISTACCO – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Con la prefazione di Giancarlo Pontiggia e un’intensa postfazione di Maurizio Casagrande, Pasquale Di Palmo (Venezia, 1958) ha pubblicato nel 2015 Trittico del distacco, volume di versi che adombra già nel titolo una dichiarazione programmatica. L’esergo iniziale tratto da Sant’Agostino (“Quale uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo a un uomo?) esemplifica ulteriormente il messaggio sotteso all’intera raccolta.

Grava su tutte le creature una condanna ingiustificabile, irreparabile, inconsolabile: l’inevitabilità del dolore, il suo misterioso perché, la sua possibile/impossibile redenzione. Soffriamo per una perdita, una malattia, un’immeritata sopraffazione, un’ingiustizia patita, un distacco. Appunto al distacco Di Palmo dedica il suo trittico poetico, mantenendo nella tripartizione del testo un’allusione alla sacralità espressa dall’iconografia cristiana. Nelle tre sezioni della raccolta la separazione definitiva da chi si amava (il padre – assistito in un Centro Alzheimer -; amici, parenti, case e luoghi perduti; l’infanzia e la giovinezza trascorse e non più recuperabili), è tuttavia anche allontanamento dalla pena, che osservata empaticamente negli altri, può venire infine superata e vinta, nella caparbia determinazione di continuare a vivere comunque.

Il primo gruppo di poesie, raggruppate sotto il nome di Mirco, cugino morto suicida perché incapace di uniformarsi alle aspettative della società, hanno come protagonisti gli ultimi, i vinti, i disadattati, per cui “l’esistenza ridotta / a una semplice opzione” non ha alternative se non il puro perpetuarsi in una livida elementarità di gesti e parole. Sono i gruppetti di ragazzi down spaesati che “si inebriano per un gelato, / piangono per un nonnulla”, oppure è il senzatetto sdentato e claudicante che importuna i passanti chiedendo “sinque euro per un panin”, o i bambini che giocano a calcio sul cemento in un torrido pomeriggio estivo, o ancora il geniale artista incompreso che regala le sue sculture alla città indifferente. Sullo sfondo, negozi semideserti, un ospedale, un cantiere in disuso, un canale, giardini frequentati da clandestini e tossicomani: la periferia immobile in cui è cresciuto il poeta. Mestre, Marghera, dove “il cielo ha un colore schiacciato, di decomposta aringa”.

La terza sezione della raccolta, I panneggi della pietà, è riservata a una serie di brevi prose liriche modulate ancora sul tema della solidarietà e della compassione verso gli sconfitti, i senza storia cancellati dall’inventario del successo e del profitto economico. Il nonno paterno, da cui Pasquale Di Palmo ha ereditato il nome, morto giovane in guerra e riscoperto solo durante intimorite visite al cimitero; la foto della mamma diciottenne già incinta di lui primogenito; bottegucce artigiane nella cui penombra sopravvivevano pallidi scampoli di umanità; patetici emuli calcistici nei campetti di un oratorio; il compagno di scuola morto precocemente e salutato dagli amici in un malinconico funerale. Da loro, resi eterni nel loro nulla, il poeta impara “la felicità degli ebeti”: “stendersi in un prato, sedersi sulla panchina di un parco suburbano contro un cielo sereno”.

Ma è senz’altro la parte centrale del libro quella in cui vibra maggiormente un sentimento di tenera pietas, quando l’addio al padre ridotto a rudere silenzioso dalla demenza senile, trascina con sé il figlio “verso il fondo / verso il fondo / verso il fondo”. I quindici componimenti dedicati alla figura paterna, dialogo muto e tardivo con chi non può più ascoltare né rispondere, sono incastonati tra due poesie in dialetto veneto, primo codice comunicativo familiare, recuperato nel pudico abbraccio della fine. Il padre divenuto figlio, il figlio diventato padre si ritrovano nelle sale asettiche di un Centro Alzheimer, tra altri malati e infermiere premurose, condividendo impotenti una vita che si dimentica di essere vita: “Adesso ti xe un albero, papà, / un albero grando / sensa nome / dove le seleghete va a ripararse / quando ghe xe vento / e la vita se desmèntega de la vita”.

Il distacco, altre volte preannunciato nelle inevitabili incomprensioni esistenti in ogni rapporto filiale, diventa definitivo: tragico ma forse anche liberatorio, assoluzione da mancanze reciproche, e ritrovato affetto, ritrovata gratitudine.

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1 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SERRAGNOLI

FRANCESCA SERRAGNOLI, LA QUASI NOTTE – MC, MILANO 2020

Francesca Serragnoli (Bologna 1972), con La quasi notte è al suo quarto libro di versi, tutti orientati a esplorare l’interiorità con discrezione e coerenza, nel rispetto dovuto alla parola poetica, che pretende pulizia formale e densità di contenuti. Le cinque sezioni in cui si articola il volume si misurano con un’ansia che definire religiosa è forse eccessivo, ma certamente pare circoscrivibile entro una dimensione di ricerca spirituale, non sempre rasserenante e risolta, e invece rasentante i bordi dell’incertezza, del rovello e dell’inquietudine.

Nella scrittura della poetessa si addensano infatti intensità e rarefazione, sobrietà e desiderio di svelamento, oscurità e trasparenza. L’evidente tensione metafisica, oggettivata in una terminologia che rimanda al credo cristiano (la croce, il calice, la lancia, la comunione, le reliquie, il costato da cui escono acqua e sangue) e il richiamo costante a una presenza divina, velata e non sempre paterna, si scontrano con una forte materialità fisica, evidente nell’accumulo di termini appartenenti al corpo: mani, dita, piedi, ginocchi, gola, lingua, bocca, cuore, scheletro, viscere, volto, occhi. Gli occhi, soprattutto, e lo sguardo, e l’atto di guardare, tornano ossessivamente in molte composizioni della raccolta, ad accentuarne l’aspetto simbolicamente visionario, di un’apertura e di una repentina e quasi impaurita chiusura sul mondo circostante (“l’occhio spalancato senza vita, / senza morte”, “gli occhi spaccati in due”, “occhi impietriti”, “occhi bassi”). Ascesi e caduta, volo e precipizio si alternano nelle pagine, utilizzando metafore indicanti rinuncia, angoscia, solitudine e sgomento, a cui si oppone una tenue ma tenace speranza di salvezza, di resurrezione.

Formalmente, la sintassi nominale e paratattica evita qualsiasi subordinata, nega a se stessa l’addolcimento delle rime, giustappone versi in apparenza slegati tra loro, procedendo per associazioni visive, correlazioni sonore, o allusioni volutamente ambigue: “M’ammazza e mi sfiora / il bucato è fiamma / lino che separa i pianeti / sventola il gingillo di una catastrofe // fra me e te muove un violino / la bufera è quasi un tango / la mano ferma sulla schiena / la vita ribaltata il volto in giù”.

Un’alterità è presente, quasi un’ombra, a cui la poetessa si rivolge con un sommesso rimprovero, lamentando lontananza, incomprensione, forse indifferenza (“Che tu mi voglia bene / è un precipizio levigato”), mentre più consolante è il frequente appello a figure infantili, ai bambini simbolo di innocenza e disinteressato affetto, osservati da lontano, con nostalgia.

La tentazione ultima è la resa, l’abbandono al sonno della notte, che tuttavia non è mai completamente buia, è – come sottolinea il titolo della raccolta – una “quasi notte”, a cui si oppone un’unica vivifica verità: la salvezza promessa dalla poesia. Negli Appunti sparsi che concludono il volume, Francesca Serragnoli dichiara apertamente e orgogliosamente la sua fede nella bellezza e nell’arte: “L’arte è oltre. Non è scavalcare lo steccato, è passarci dentro… Se serve a muovere l’uomo da se stesso, ad alzarlo alla vita, a scorgere una terra promessa, allora è consentito scrivere, lasciare che le cose diventino passi, che la bellezza appunto strappi dalla disperazione umana, ci sollevi nella corrente di una destinazione e non ci lasci ad annaffiare ciò che muore e che ha altrove la sua fioritura eterna”.

Scrivere per non lasciarsi sopraffare dall’oscurità, per continuare a credere nel chiarore dell’alba.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-quasi-notte-Serragnoli    31 agosto 2021