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INTERVISTE

TAU EDITRICE

Intervista a Tau Editrice: programma culturale e prossime uscite

Tau Editrice, nata alla fine degli anni Novanta, si fonda sull’obiettivo di promuovere la crescita spirituale e la formazione cristiana dei suoi lettori, ispirandosi ai valori cattolici e spirituali di san Francesco, san Benedetto e del beato Jacopone da Todi. In questa intervista, la casa editrice ci apre le sue porte, parlandoci della sua redazione, dei rapporti commerciali, del proprio programma culturale e delle prossime uscite, fino a trattare l’annosa e fondamentale questione del rapporto fra cartaceo e digitale.

Intervista a Tau Editrice: programma culturale e prossime uscite

La nostra collaboratrice Alida Airaghi ha intervistato la casa editrice TAU; per la redazione risponde Michela Serangeli. La casa editrice ci apre le sue porte, parlandoci dei rapporti commerciali, del proprio programma culturale e delle prossime uscite, fino a trattare l’annosa e fondamentale questione del rapporto fra cartaceo e digitale.

  • Quando è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità? Come avete scelto nome e simbolo di TAU?

Tau Editrice è nata alla fine degli anni ’90 grazie all’iniziativa di un piccolo gruppo di persone accomunate da un percorso di fede condiviso. Il progetto iniziale era la pubblicazione di brevi sussidi divulgativi per le parrocchie, soprattutto opuscoli da utilizzare durante le Benedizioni delle Famiglie. Da questa esperienza locale la casa editrice è cresciuta, ampliando le sue attività e collaborando con nuovi autori, fino a diffondere i suoi titoli anche a livello nazionale. Il nome e il simbolo di Tau derivano dalla lettera tau (o taw), ultima dell’alfabeto ebraico, che nella sua forma latina (Ʈ) ricorda la croce di Cristo. San Francesco d’Assisi, infatti, scelse proprio questo segno come firma e sigillo, vedendolo come simbolo di umiltà, salvezza e amore.
Questo profondo legame con il simbolo cristiano riflette la missione della casa editrice, radicata nei valori spirituali dell’Umbria di san Francescosan Benedetto e il beato Jacopone da Todi.

  • Qual è la specificità editoriale che vi caratterizza? L’esplicito riferimento al cattolicesimo che vi definisce limita le vostre scelte programmatiche a un ambito totalmente confessionale?

L’esplicito riferimento al cattolicesimo non rappresenta un limite per Tau Editrice, ma piuttosto definisce una nicchia altamente coinvolta e motivata. La nostra specificità editoriale si fonda sull’obiettivo di promuovere la crescita spirituale e la formazione cristiana dei lettori, sempre ispirati ai valori cattolici. Attraverso le nostre pubblicazioni, miriamo a contribuire alla diffusione del Vangelo e a sostenere la fede, mantenendo un forte legame con la dottrina e il Magistero della Chiesa Cattolica.
Questo impegno ci consente di produrre contenuti originali che rispondono a un pubblico desideroso di approfondire il proprio cammino di fede, senza limitarci esclusivamente all’ambito confessionale ma valorizzando al massimo il nostro orientamento spirituale.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione, e su quanti collaboratori esterni potete contare?

Il nostro team editoriale è composto da quattro risorse principali: due persone si occupano della redazione e del coordinamento, una gestisce la comunicazione e un’altra è responsabile della parte commerciale. Inoltre, collaborano con noi internamente tre grafici editoriali che curano la parte visiva delle nostre pubblicazioni. A questo si aggiungono le risorse che si occupano di logistica e amministrazione, garantendo un’efficace gestione operativa.
Per quanto riguarda i collaboratori esterni, contiamo su una rete di autori e altri professionisti che ci supportano nella creazione dei contenuti e nella crescita del nostro progetto editoriale.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti di critica e di pubblico, e secondo voi per quali motivi? E quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra le nostre pubblicazioni che hanno ottenuto maggiore riconoscimento, sia dalla critica che dal pubblico, spiccano quelle di alcuni autori di punta come Luigi Maria Epicoco, Franco Nembrini e Francesco Cristofaro. Questi scrittori sono considerati dei veri e propri punti di riferimento e non solo per l’editoria cattolica. Le loro opere hanno riscosso un grande successo per la capacità di unire profondità spirituale e chiarezza espositiva, rendendo i temi religiosi accessibili a un vasto pubblico.
Oltre a questi autori affermati, siamo orgogliosi di supportare tanti altri scrittori, più e meno emergenti, che stanno portando avanti percorsi significativi in libreria. Crediamo fermamente nella nostra vocazione di far crescere questo tipo di autori e di accompagnarli nel loro percorso editoriale.
Per quanto riguarda i titoli in uscita, abbiamo in programma entro la fine dell’anno tre libri di grande interesse:

  1. Un libro testimonianza di Claudia Koll, che promette di toccare profondamente il cuore dei lettori attraverso la sua esperienza di fede.
  2. Un manuale di psicologia spirituale per la gestione della crisi di coppia, un progetto innovativo e curioso: un libro double face, per lei e per lui, scritto da venti influencer cattolici sotto la supervisione di una stimata psicoanalista.
  3. Il Testa di Catto, un’opera narrativa ironica e dissacrante ma rispettosa, che esplora con umorismo e talento le curiosità della Chiesa cattolica, scritto da un gruppo di giovani autori talentuosi.
    Siamo entusiasti di queste prossime uscite e crediamo che possano incontrare l’interesse e l’affetto dei nostri lettori.
  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti, e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Per pubblicizzare i nostri prodotti utilizziamo principalmente i social network e il web, che ci permettono di raggiungere un vasto pubblico in modo immediato e coinvolgente. Inoltre, le ospitate e le interviste con i nostri autori sui principali media di settore rappresentano un canale fondamentale per far conoscere le nostre pubblicazioni. Anche il punto vendita stesso si rivela un ottimo strumento di comunicazione, in quanto permette un contatto diretto con il lettore.
I traguardi che ci proponiamo di raggiungere a livello di mercato includono un consolidamento della nostra presenza nelle librerie e una crescente diffusione dei nostri titoli online.
Dal punto di vista culturale, miriamo a diventare un punto di riferimento per chi cerca contenuti che promuovano la crescita spirituale e la riflessione cristiana, contribuendo così all’arricchimento del dibattito culturale nel nostro Paese.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Anche se ci verrebbe da rispondere in modo pessimistico, osservando che la gente sembra leggere sempre di meno, in realtà i dati più recenti dell’AIE ci indicano che il settore editoriale è in crescita: si vendono più libri. Quindi, c’è effettivamente chi continua a leggere, o perlomeno ad acquistare libri (se poi li legga o li usi per fermare la porta, questo non possiamo saperlo!).
Il dato più interessante, però, riguarda i canali di vendita: il settore online sta superando le librerie fisiche e questo è un vero peccato. Le librerie sono luoghi di incontro, luoghi da visitare, in cui sostare, in cui soffermarsi, magari senza avere un’idea precisa di cosa si stia cercando. E poi, come per magia, trovare il libro che proprio si stava aspettando. Tutto questo non c’è nelle vendite online, e questo limita molto anche le occasioni di vendita e di contatto con il pubblico.
Siamo comunque ottimisti riguardo al futuro del libro cartaceo rispetto al digitale. Il cartaceo è un oggetto da vivere: si sottolinea, si consuma, si regala ed è parte di un’esperienza più tangibile e coinvolgente che, a nostro avviso, continuerà a trovare il suo spazio e la sua importanza nel mondo della lettura, a discapito del libro digitale che, probabilmente, resterà prerogativa della scolastica.

RECENSIONI

MATTEI

PIERA MATTEI, DELL’INVIDIA DEGLI AMICI. DA FRANCESCO PETRARCA – GATTOMERLINO, ROMA 2024

Nel settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca, Piera Mattei – fondatrice delle edizioni romane Gattomerlino – dedica al poeta aretino un monologo teatrale, che intitola Dell’invidia degli amici, a cui accompagna il breve saggio Quando i cieli cadranno, con la riproduzione dei testi latini di Libera me e Dies irae. La prima sezione del piccolo volume è dedicata quindi a un assemblaggio di vari scritti petrarcheschi: lettere in esametri e in prosa, l’epistola Posteritati e il De Ignorantia, confessioni e ricordi di momenti diversi della vita dell’illustre letterato, tutti accomunati da alcune costanti interpretative del suo carattere.

In primo luogo, la vanità, da lui stesso riconosciuta e ammessa come difetto; secondariamente l’invidia, pervicacemente negata e aborrita nel proprio sentire, e invece avvertita negli altri. Ossessionato dal timore di non essere amato e compreso dai contemporanei, Petrarca camuffava le sue debolezze utilizzando i criteri dell’eloquenza e dell’invenzione classicheggiante.

Piera Mattei introduce e conclude il monologo rielaborando i Psalmi Penitentiales, segnati da un’ansia di penitenza e da una funerea premonizione di morte, alleggerite in finale dal salmo in lode della Creazione, che con echi francescani glorifica la bellezza della natura e dell’essere umano.

Il senso della vanità dell’esistenza, reso più angosciante dalla consapevolezza delle proprie colpe, appare esplicito nelle reiterate affermazioni che aprono il monologo: “Ahimè! Vedo con fuga precipitosa trascorrere il tempo. Il mondo se ne va… Per te è già trascorsa gran parte del giorno. Hai vagato finora irrequieto. Ripiega adesso le vele! Raccogli le gomene, per morire infine in un porto”, “Sono furioso contro me stesso, odioso, pericoloso a me stesso”. Tuttavia, nel profondo, il poeta è ben consapevole del proprio valore, e non resiste alla tentazione di sottolinearne la grandezza, vantandosi dei tributi ricevuti in Italia e all’estero: “Sia gloria a Dio, tutta la mia vita è stata onorata dall’amicizia degli uomini più grandi, dei più dotti. Roberto, re di Sicilia, quando ero ancora giovanissimo mi onorò con il riconoscimento delle mie capacità e del mio sapere! Non ricordano forse costoro la mia incoronazione in Campidoglio?”

Ciò nonostante, il timore che la sua eccellenza artistica non venga compresa lo assedia, e accusa conoscenti e intellettuali di astiosa rivalità, di malevola gelosia: “L’invidia. Ancora non sono esonerato dall’invidia. Subisco gli attacchi non so se di un’invidiosa amicizia o di una falsa amicizia, invidiosa… La fama è cosa faticosa, difficile, soprattutto la fama letteraria. Contro di lei stanno tutti all’erta, armati. Anche quelli che non possono sperare d’averla si sforzano di strapparla a chi ce l’ha”. Riversa il suo rancore soprattutto sui soli quattro amici che lo frequentano: “emisero il verdetto di condanna, non verso di me che certamente amano, ma verso la mia fama, che odiano”. Ma ammette a fatica il proprio sentimento d’inferiorità nei riguardi di Dante, di cui non aveva voluto leggere l’opera, timoroso di un confronto umiliante.

La lode a Dio, comunque, innalza Petrarca al di sopra di ogni miseria umana, e si esprime in parole grate e celebrative: “Non ho dimenticato tutto ciò che mi hai dato, ottimo elargitore. Il cielo e le stelle, l’avvicendarsi delle stagioni creasti per me”.

L’omaggio di Piera Mattei al poeta del Canzoniere si conclude con l’esplorazione del canto gregoriano, nella seconda parte del libro intitolata Quando i cieli cadranno. Per canto gregoriano si intende un patrimonio di circa tremila preghiere cantate in latino, secondo un criterio modale, monodico, e privo di accompagnamento musicale, custodite nei monasteri medievali e nel corso dei secoli riproposte durante le cerimonie religiose. Di tali componimenti, solo il cantore e il coro conoscevano parole e musica, mentre la comunità dei fedeli seguiva a senso il suono, spesso storpiando il testo che non sapeva comprendere e tradurre. In tale repertorio occupavano un rilevo particolare i canti per i defunti, dove visioni drammatiche si ispiravano all’Apocalisse e al Giudizio Universale. Piera Mattei ripropone la prima pagina dello spartito, il testo latino e la traduzione italiana di Libera me e del Dies Irae

Con l’abolizione del latino dalla Messa, decisa dal Concilio Vaticano II del 1963, i canti gregoriani (molto amati dal popolo per la loro arcana, dolcissima e suggestiva armonia) sono quasi scomparsi dalla liturgia, poiché si è preferito sottolineare la benevolenza piuttosto che l’ira punitrice di Dio. Ricordiamo comunque gli incipit dei due citati, che mantengono una potenza conturbante e misteriosa: “Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda / Quando coeli movendi sunt et terra”, “Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 ottobre 2024

INTERVISTE

ROVELLI

Carlo Rovelli e la poesia

Fisico e saggista (Verona 1956), dopo essersi laureato in fisica presso l’Università di Bologna, Carlo Rovelli ha svolto il dottorato all’Università di Padova. Ha lavorato nelle Università di Roma e di Pittsburgh, e attualmente è ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille. I suoi studi vertono soprattutto sulla gravità quantistica. Si è anche occupato di storia e filosofia della scienza con il libro Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (2011). Tra le sue altre opere: Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio? (2010), Sette brevi lezioni di Fisica (2014, tradotto in 41 lingue, con una diffusione di oltre un milione di copie), L’ordine del tempo (2017, da cui la regista L. Cavani nel 2023 ha tratto l’omonimo film), Helgoland (2020), Relatività generale (2021) e Buchi bianchi (2023).
Collabora regolarmente con il Corriere della Sera, in particolare con il supplemento La Lettura. I suoi articoli sono apparsi sul supplemento culturale de Il Sole 24 Ore, e saltuariamente su la Repubblica, sul Guardian e sul Financial Times.

Professor Rovelli, ricorda quando è stato il suo primo approccio a un testo poetico, e quale è stata la prima poesia che ha imparato a memoria?

Forse la prima poesia che ho imparato a memoria è stata La Madre di Ungaretti. Penso sempre che sia stata una grande ricchezza aver imparato versi a memoria da ragazzo.

Le capita tuttora di leggere raccolte di versi, e preferisce gli autori classici o i contemporanei, gli italiani o gli stranieri?

Si, mi capita di leggere poesie. Preferisco i grandi classici. Amo molto Orazio per esempio. Ma leggo anche di tanto in tanto poesie contemporanee…

Sono noti il suo impegno politico, e l’adesione convinta al movimento pacifista. Tra i libri di poesia predilige quelli che danno voce a istanze civili, e in particolare di quali autori?

Trova che esista una corrispondenza tra l’intuizione artistica di chi scrive poesia e l’intuizione scientifica di chi ricerca lo svelamento di un mistero nella materia? In entrambi i campi non sono forse necessarie notevoli doti creative?

Penso che ci sia una vicinanza profonda fra la scienza migliore e la migliore poesia, perché entrambe sono modi per aprire uno sguardo nuovo sul mondo, per farci vedere qualcosa che prima non vedevamo, o vedevamo solo confusamente. Entrambe si aprono mondi.

Ha letto poeti che nella loro produzione si siano ispirati alla scienza? Recentemente Bruno Galluccio (fisico che si è occupato di telecomunicazioni e sistemi spaziali) ha pubblicato tre volumi nella collana bianca di Einaudi…

Esiste una diffidenza nei lettori sia verso il linguaggio poetico sia verso il linguaggio scientifico. Ritiene che tale difficoltà inerisca alla struttura specifica di entrambi i codici espressivi e alla scarsa dimestichezza con i metodi delle due diverse discipline, o a semplice disinteresse?

Penso che serva un apprendistato, un imparare, in entrambi i casi, che spesso non è semplice. Come tutte le cose che nella vita valgono la pena, serve fatica per arrivarci.

Si, molto spesso. Soprattutto i Canti di Leopardi. Ne ho imparati alcuni a memoria da ragazzo e quando sono solo, magari all’aperto, me li ripeto nella mente. E li trovo sempre meravigliosi. Il Passero Solitario per esempio, mi accompagna spesso…

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 14 ottobre 2024

RECENSIONI

CARLUCCI

VANNA CARLUCCI, LA PAROLA ANFIBIA – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA 2024

In un intervento pubblicato il 24 gennaio di quest’anno su La Poesia e lo Spirito, Vanna Carlucci così si esprimeva riguardo al suo rapporto con la parola poetica: “Come è possibile allora, per me, spiegare che esiste un animale selvatico che vive al centro del mio petto. È – come direbbe Milowsz – il daimon della poesia ‘come se fosse balzata fuori una tigre’. L’artiglio della parola è tra le sue zampe e dilania, ferisce e svela un linguaggio che è una forma che sanguina, una ferita. La poesia, quindi, è azione, movimento felino, contatto tra corpi”.

Un rapporto fisico, dunque, feroce e lacerante, un atto di violenza che incide la pelle e squarcia le vene, quello intessuto tra chi scrive in versi e il testo prodotto. Concetto che viene a più riprese ribadito nella recente raccolta dell’autrice pugliese, La parola anfibia, pubblicata dalle edizioni “Il Convivio” lo scorso marzo, e ben evidenziato dall’immagine graffiante della copertina

Parola anfibia, dalla duplice natura, salvifica e punitrice, è la parola della poesia: “La poesia, questa parete di luce /questo impianto di carne nell’universo” diventa “abisso senza protezione” in cui perdersi e dannarsi, che costringe a confessare la propria masochistica dipendenza: “il fremito di me che sono / la cassa sonante di una parola muta / terremotata nel costato / franata di luce”.

Una parola nata nell’oscurità, e dall’oscurità (“la parola nasce dentro il suo liquido nero e / si sparge lungo un campo di terra sterminato”), emersa e insieme minacciata da buio e da silenzio, i due sostantivi più ossessivamente ribaditi nel libro, diciotto e dieci volte ciascuno: “la risacca del buio”, “il buio dei nostri corpi”, “Nel buio dei respiri”, “il buio dietro gli occhi”, “sul mio volto buio”, “un piccolo silenzio pieno di sassi”, “nel silenzio della pelle trapassata, / c’è la violenza dello strappo” …

L’immagine del corpo sgualcito, ferito, sventrato, che macera, che si sgretola, ritorna spesso nelle pagine, ed è carne piagata dall’aggressione brutale inferta a volte proprio dalle parole scritte o pronunciate (“la bestia dimorata nel petto //… aspetto che mi divori e che lasci i miei resti sul cuscino”), a volte da immodificabile autolesionismo, a volte ancora patita in un sofferto rapporto di coppia.

La parola anfibia potrebbe infatti essere letta anche come un piccolo canzoniere amoroso, perché la presenza dell’amante è un “tu” che si rivela prezioso e insostituibile (“Tu, a cui affido il mio tremore”, “Io e tu / mai interamente compiuti / due polmoni affaticati / due occhi da neonati”), eppure velata da una sinistra premonizione, dal timore di un inevitabile allontanamento futuro. I due sembrano entrambi consapevoli della reciproca estraneità caratteriale, che induce lei a confessare l’impossibilità di un raggiungimento: “Tu dici Realtà / Io dico Pietra”, “Tu invece della vita hai fatto inconsistenza / cerchio mobile / soffio”. Tuttavia, la possibilità di una rinascita, di un recupero del rapporto viene affidato, ancora una volta, alla parola che è capacità di incontro e confronto nel canto, nel ritrovarsi di una voce poetica che accomuna e guarisce: “Risorgere, tu ed io, / come cicale”.

Attraverso un dettato aspro e frantumato, i versi di Vanna Carlucci (Bari 1987) trovano la giusta rispondenza alla sperimentazione dolente e ruvida della realtà, interiorizzata nel suo severo offrirsi all’interpretazione di un’acuta sensibilità poetica.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 15 ottobre 2024

 

 

 

RECENSIONI

BASSI

SHAUL BASSI, PIANETA OFELIA: FARE SHAKESPEARE NELL’ANTROPOCENE

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

Una bella occasione per rileggere (e rimeditare) le più importanti opere shakespeariane ci viene offerta dall’interessante volume di Shaul Bassi, docente di Letteratura inglese a Ca’ Foscari: Pianeta Ofelia, che audacemente propone un’interpretazione ambientalistica di sei testi chiave del Bardo: Amleto, Sogno di una notte di mezza estate, La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia e Otello.

Perché offrire un’ipotesi critica tanto attuale e insolita prendendo in esame capolavori scritti più di quattro secoli fa? Ma perché Shakespeare non solo possedeva un’eccezionale potenza immaginativa, in grado di illuminare passato e futuro, ma sapeva penetrare con particolare acutezza nella psicologia dei suoi personaggi, inserendoli in strutture sociali e ambientali puntualmente analizzate. Aveva inoltre una spiccata sensibilità verso il mondo naturale, con profonde conoscenze della botanica e della zoologia, e una giusta diffidenza verso la capacità umana di comprendere, rispettare e sfruttare positivamente la ricchezza del mondo non-umano: “Ma l’uomo, l’uomo superbo, rivestito di una piccola e breve autorità, del tutto ignaro di ciò di cui più dovrebbe essere sicuro – la sua specchiata essenza – si esibisce come una rabbiosa scimmia in tali trucchetti stravaganti davanti all’alto cielo da far piangere gli angeli; i quali, se avessero la nostra milza, morirebbero dal ridere” (Misura per misura III.1.78-80).

Queste caratteristiche del genio di Stratford ce lo rendono contemporaneo, e incoraggiano un dialogo con le sue opere per ripensare noi stessi e le nostre relazioni col mondo, oggi pericolosamente minacciato sia dagli squilibri climatici sia dalla crisi della cultura antropocentrica. Shakespeare infatti

da un lato affronta esplicitamente problemi ambientali del suo tempo (deforestazione ed eventi meteorologici estremi) che nella nostra epoca si sono esacerbati; dall’altro crea situazioni e personaggi che si prestano a nuove e stimolanti interpretazioni ecologiche.

Bassi non individua il teatro shakespeariano come precursore dell’ambientalismo o profeta della fine dei tempi, ma invita ad approfondire tracce e suggerimenti per ripensare alla radice i comportamenti distruttivi dell’umanità, utilizzando riferimenti critici tratti dall’arte, dal cinema, dalla letteratura di tutti i tempi. Troviamo nelle pagine citazioni di filosofi contemporanei (Cacciari, Cavarero, Agamben, Derrida, Braidotti, Coccia) e antichi (Giordano Bruno); di poeti e scrittori come Leopardi, Primo Levi e Cormac McCarthy; di ecologisti come A. Ghosh, B. Latour, S. Iovino, D. Haraway, J.J. Cohen, O. Laing,

Lasciamoci quindi condurre da questo fil rouge che attraversa epoche e luoghi, per sottrarci alla provocatoria ammonizione di Re Lear: “È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi” (IV.1.46), cercando di aprire gli occhi sul domani che ci aspetta, anche con l’aiuto della letteratura.

Nella tragedia di Amleto, da secoli simbolo della condizione umana, possiamo riscontrare due concetti contrapposti di ecofobia ed ecofilia: il primo incarnato dal protagonista, ossessionato dall’idea di marciume e putrefazione del mondo naturale (l’aria è “una immonda e pestilenziale congregazione di vapori”, “il sole genera vermi in un cane morto”, “la marcia corruzione, che tutto mina dentro, infetta non veduta”). Risponde in controcanto l’ecofilia di Ofelia, immersa in un paesaggio floreale e in visioni acquatiche, capaci di conciliare cielo terso e terra fertilmente produttiva.

Il rapporto tra natura e cultura balza in primo piano soprattutto nel Sogno di una notte di mezza estate, dove la simbiosi tra umano e non umano crea combinazioni impreviste tra luoghi magici e boscosi, ambienti popolari, specie sovrannaturali e ceti aristocratici, in una continua metamorfosi il cui principale interprete è Puck, folletto che varca e intreccia i domini umano, animale e vegetale. L’elogio della biodiversità implicito in questa commedia suggerisce anch

e una celebrazione del polimorfismo sessuale, che ha offerto l’estro a recenti ambientazioni teatrali basate su nuove versioni queer, e riflessioni sulla coesistenza, interdipendenza, ibridazione degli umani e delle creature più-che-umane, aldilà di ogni rigida schematizzazione.

La tempesta, unica opera di Shakespeare che prende il titolo da un fenomeno atmosferico, è la più carica di significati politici, poiché testimonia un momento di passaggio da un oceano mitologico, divino e ostile, a un oceano reale che spiana la strada ai commerci transatlantici e alla conquista di nuove terre. Ambientata tra il mare minaccioso e sconfinato e la misteriosa segregazione di un’isola, si situa in un orizzonte lontano dallo spazio urbano e civile, evidenziando le potenzialità mai del tutto conosciute e dominabili degli elementi naturali, ben presenti nell’immaginario dell’uomo dell’Antropocene, consapevole degli stravolgimenti climatici provocati dalle attività industriali ed economiche prive di controllo.

Re Lear è l’opera di Shakespeare in cui ricorre con maggior frequenza la parola ‘natura’ con i suoi derivati (34 occorrenze), pur in una molteplicità di significati: carattere, destino, vita, età, paesaggio.

Solo in questa tragedia un personaggio shakespeariano si rivolge direttamente a un elemento atmosferico, in termini di incontenibile furore, quasi augurando una sorte di apocalisse vendicativa: “Soffiate, venti, e spaccatevi le guance! Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e trombe marine, sgorgate finché non avrete infradiciato i nostri campanili e annegato i galli segnavento! Voi fuochi sulfurei e rapidi come il pensiero, avanguardie dei fulmini che spaccano le querce, strinate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti, spiana la spessa rotondità del mondo, schianta gli stampi della natura, distruggi d’un colpo tutti i semi che fanno l’uomo ingrato”.

La Venezia di Shakespeare si ripete due volte, la prima come commedia e la seconda come tragedia, ne Il mercante di Venezia e in Otello, due opere sensibili a tematiche attuali, in quanto mettono in luce il rapporto necessario che intercorre tra ecologia, spazi urbani e comunità. Il capoluogo veneto è città cosmopolita, esattamente come nel 1600: multirazziale e multiculturale, epicentro mondiale del turismo, del commercio, dei trasporti e delle comunicazioni, ricco di esperienze artistiche ma segnato pure da sentimenti xenofobi e dall’ansia per i mutamenti climatici, che lo vedono spesso protagonista in negativo di inondazioni, inquinamento delle acque, abusivismo edilizio.

Ecco dunque che, seguendo i suggerimenti di Shaul Bassi, anche Shakespeare (“prospettiva e rifugio, monito e speranza, angoscia e consolazione”), può essere letto da noi abitanti dell’Antropocene riattualizzandolo con gli occhi del presente, alla luce delle trasformazioni che ci spaventano, per aiutarci a immaginare un futuro migliore.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 12 ottobre 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, CONVITO DELLE STAGIONI – EINAUDI, TORINO 2024

 Come giustamente rileva il commento in quarta di copertina a Convito delle stagioni, ultimo volume di Antonio Prete (Copertino 1939), i due caratteri fondamentali della raccolta sono senza ombra di dubbio la natura e il tempo. La natura contemplata e raccontata in ogni sua espressione, dal cosmo al paesaggio che ci circonda, dal mondo vegetale e animale all’ambiente antropico, sempre riflessi attraverso la lente magica della meditazione metafisica, capace di riassumere in sé sentimenti di stupore, gratitudine, consapevolezza del sublime. Il tempo come mistero che permea l’esistenza degli esseri umani, nello scandire delle ere geologiche, della cronologia storica e della vita privata di ciascuno.

In questo senso, la lezione leopardiana concentrata nei quindici versi dell’Infinito, ha impresso tracce indelebili nella scrittura di Prete, egregio studioso e interprete della poetica del recanatese: il verde del colle e della siepe, il passato e il presente, la lontananza dell’orizzonte, il silenzio e lo spaesamento del pensiero, l’immensità di cielo e mare. Ognuno di questi elementi viene ripreso e amplificato nelle sei sezioni che compongono il libro, vero e proprio convito ricco di emozioni, suoni, colori, memorie.

In un capitoletto interno, Per un bestiario, sono celebrate presenze animali che hanno la funzione illuminante e fugace di una rivelazione improvvisa, più spirituale che materiale. Apparizioni angeliche, nel loro inaspettato mostrarsi e nei nascondimenti segreti: cani, gatte, istrici, insetti, cervi “vicini al respiro / della terra”, che hanno “in comune gli stellari / silenzi, l’indecifrata distanza”.

Sparse invece in tutte le pagine del volume sono le presenze vegetali, più di trenta specie di alberi e fiori, ascoltati nel canto sommesso dello stormire delle foglie, osservati nei mutamenti stagionali,

compianti nella crudele agonia imposta dalla siccità, dal disboscamento, dalle epidemie batteriche: “C’era nella musica degli alberi / un silenzio che era specchio / del cielo, dei suoi silenzi”.

L’attenzione al paesaggio, essenzialmente quello salentino di nascita, si esplica in una poesia intessuta di immagini che abbracciano in un quadro luminoso (invaso dalla luce, celebrata non solo come elemento fisico, ma come capacità di illuminazione interiore) terre e cieli, minimi figuranti umani e presenze animali, come in questo Notturno: “il tempo dell’infanzia, con il folto / degli ulivi sulla terra rossa, gli spaccapietre / sul ciglio della strada, sotto il sole, / il monaco che sostava nella controra / all’ombra dell’eucalipto, la ragazza / nella casa di calce, vestita di bianco, / la voce del violino che la chiamava al ballo / di san Paolo, i cavalli nel meriggio / con i carri carichi d’uva, // e il mare, il grido / del mare nelle notti di luna, sotto l’alta / torre saracena”.

Il Sud, “lontananza e insieme spina” è “lingua del ricordo”, “vento dei pensieri”, mitizzato nella sua fissità arcaica, non vissuto nelle contraddizioni sociali, ma reso eterno dalla memoria e dal desiderio di Stare: “stare in quella privazione di tempo / dove tutto quello che accade, amori, / erranze, perdite, ardimenti, / non conosce il gelo della sparizione, // stare nell’incantata spera / d’una sempre lucente primavera”.

Appunto al tempo (“che è lampo di presenza e stilla / d’accaduto”) viene demandato il compito di preservare il ricordo, pur nella coscienza della sua labilità: memoria che si affaccia negli anni che si accumulano, visi e voci amate che ritornano a vivere, squarci che si aprono nel buio, riportando alla mente le tante città visitate, i poeti incontrati, le parole pronunciate. Ma anche il tempo della storia collettiva, quella passata e quella violentata, tenebrosa, del presente, con le guerre in atto, tra eroismi e sopraffazioni, ingiustizie e morte. E infine il tempo dell’universo, delle galassie “sul cui confine il tempo non è più tempo”, in cui il pensiero, leopardianamente, si annega.

Compito della parola rimane quello di preservare tutto il vissuto e ciò che rimane da vivere, per salvare un barlume di speranza che aiuti ad andare avanti: “Le parole camminano con noi”. In particolare è la parola poetica, curata e sensibile, che assume su di sé la responsabilità di un’espressione più intensa, matura, sofferta: “la poesia, conoscenza e insieme / angustia per le ferite del mondo”. Antonio Prete celebra nel suo convito verbale l’accadimento dei giorni, sforza lo scrigno della bellezza perché si apra al mondo.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 2 ottobre 2024

 

RECENSIONI

TAGLIAFERRI

CARLA TAGLIAFERRI, L’ARCHITETTURA DI UNA VITA – ARCOLIBRI EDIZIONI, ARCO 2024

 

Con il sottotitolo “Una vita per l’architettura. Una vita…un sogno…una realtà”, è uscito presso le edizioni Arcolibri il corposo volume autobiografico di Carla Tagliaferri L’architettura di una vita”. Architetta, pittrice, progettista, docente universitaria, Carla Tagliaferri (Verona, 8 marzo 1933) ha costruito tutta la sua esistenza con la consapevole solidità, la feroce dedizione e l’ambiziosa utopia di una realizzazione ideale, rispettosa della propria individualità e dell’ambiente in cui si è via via inserita, colorandola con le tinte intense e vivaci che utilizza nei quadri e negli arazzi.

A partire dalla sua data di nascita, un otto marzo di novantuno anni fa (omaggio al proprio dichiarato e convinto femminismo, testimoniato dall’adesione come membro onorario alle associazioni Fidapa e Soroptimist, e dai numerosi riconoscimenti ricevuti per il suo impegno nei riguardi dell’empowerment delle donne), Carla Tagliaferri sembra aver scelto l’architettura come espressione artistica e civile capace di incidere più di altre forme culturali sulla realtà circostante, attraverso la possibilità di edificazione e trasformazione concreta del territorio e dell’habitat umano.

Cresciuta in una famiglia colta della borghesia veronese, laureata a Venezia nel 1960, assistente di Bruno Zevi prima allo IUAV di Venezia e poi alla Sapienza di Roma, in seguito docente in entrambe le università e per la Comunità Europea, ha frequentato e collaborato con nomi di assoluto rilievo internazionale, concentrando i suoi interessi soprattutto nel campo dell’architettura ambientale, dell’arredo urbano, dell’edilizia economica e popolare, della ristrutturazione delle periferie. Si è dedicata con particolare passione alla progettazione di parchi e giardini in Italia, Germania e Africa. Oggi risiede in un piccolo comune del lago di Garda, in una villa disegnata e arredata nei minimi particolari con originalissimo gusto estetico, dedicandosi con passione a sensibilizzare i concittadini alla salvaguardia del paesaggio naturale.

Il volume da poco pubblicato si apre con un’affettuosa rivisitazione del milieu familiare che l’ha cresciuta ed educata, con gli anni e gli studi giovanili vissuti tra Verona e Venezia, la traumatica esperienza della guerra e l’esaltante entusiasmo della ricostruzione post-bellica. L’università a Venezia, il trasferimento a Roma con incarichi professionali sempre più prestigiosi e impegnativi, il matrimonio e la maternità: scelte di vita arricchenti anche nella loro problematicità, nel conciliare la dedizione agli affetti privati con l’applicazione a un lavoro che negli anni ’60-70 non incoraggiava

la presenza delle donne (soprattutto a livelli dirigenziali!), diffidando di chi proponesse un pensiero autonomo, anticonformista e innovativo. Le esperienze vissute negli studi tecnici, nei cantieri, nei rapporti con le maestranze; le difficoltà e le resistenze patite per vincere i pregiudizi sessisti delle commissioni esaminatrici e delle imprese edilizie; la fatica fisica del protrarsi di discussioni e rielaborazioni di progetti già approvati: tutto ha contribuito a forgiare il carattere, sempre più risoluto, della giovane professionista.

Carla Tagliaferri si sofferma orgogliosamente sugli incontri e le amicizie importanti intessute negli anni romani con le maggiori personalità dell’arte, della scienza, della politica nazionale e internazionale. La passione civile che l’ha vista militare nelle file del Partito Socialista – esponendosi con veemenza nei comizi, affrontando logoranti riunioni di partito, testimoniando la propria verità riguardo alle morti di Moro e Falcone, conosciuti di persona –, la portò a essere minacciata direttamente negli anni bui del terrorismo, al punto da dover vivere sotto scorta, mettendo a rischio anche l’esistenza dei propri familiari.

Tutto il volume è postillato, quasi a ogni pagina, da citazioni illuminanti tratte da discorsi o testi di poeti, narratori, scienziati, musicisti, cantautori, artisti di ogni epoca e provenienza, con ampia partecipazione femminile, a indicare la vastità delle letture e della preparazione culturale dell’autrice. Ma è nel richiamo forte alla creatività, alla gioia di vivere, al coraggio di fare scelte difficili impegnandosi per il bene della collettività, che trova la propria giustificazione la pubblicazione di questo volume: messaggio di speranza e invito morale ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità nei riguardi del prossimo: “La mia idea è attuare programmi e azioni per aiutare a modellare la società, ridefinendo cosa significa essere uomini e donne nel nostro secolo, dare nuova positività e contenuto alla società civile”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 26 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HUERTA

EFRAÍN HUERTA, POEMINIMI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2024

Il messicano Efraín Huerta (1914-1982), è stato l’inventore di un particolare genere letterario, i Poeminimi, composizioni brevissime che hanno come caratteri essenziali condensazione, sintesi, precisione, ironia, memorabilità. La colta ed empatica postfazione di Stefano Strazzabosco mette in luce la particolarità di questi “versicoli virali, insieme fulminanti, passionali e cinici”, capaci di creare un fulminante cortocircuito irriverente e caustico nei riguardi dei vizi pubblici e privati di un’epoca, di una nazione, e dello stesso loro autore.

Ironico e autoironico, Huerta sapeva prendersi in giro, in particolare nel suo ruolo pubblico di intellettuale e scrittore:

Minaccia: “Beati / I poeti / Poveri / Perché / Di essi / Sarà / / Il regno / Dei / Suoli”; Ahi Poeta: “Prima / Di tutto: / Mi compiace / Enormissimamente / Di essere / Un buon / Poeta / Di seconda classe / Del / Terzo / Mondo”; Handicap: “Non posso / Smettere Di / Scrivere / Perché / Se mi fermo / Mi raggiungo”; Maximinima: “Solo / A forza / di poesia / Si smette / Di essere / Poeti / per forza”.

Altrettanto frequente era nei suoi versi l’ammiccamento erotico o la sfrontata dichiarazione d’amore per la bottiglia:

Imprendotoriale: “Il mio amore / Per te / Per lei / Per voi / Per l’(e) altra (e) / È un / Frutto diretto / Della più pura / Iniziativa Privata”; Immenso dramma: “Tutte / Le donne / Che amo / Sono sposate / Persino la mia!”; Miss Himalaya: “È vero / Amore mio / I tuoi seni / Sono il / Petto del / Mondo”; Ordinamento: “Non / Bere / Domani / Quello che / Puoi / Bere / Oggi”; Galileica: “E / Pur / Si / Beve!”

Tutti provvisti di titoli, spesso sarcastici o fuorvianti, i Poeminimi trovano la loro specificità nell’allusività (non sempre subito avvertibile), nella deformazione, sostituzione o nello slittamento morfologico del testo. Secondo una dichiarazione dello stesso autore, il loro segreto è la capacità di “dislocare e alterare”, creando così alternativamente nei lettori attesa, sorpresa, divertimento. Pur attraverso lo scherno e la derisione, un richiamo etico si avverte nella polemica sofferta nei riguardi della politica trasformista e corrotta. Da stalinista mai pentito, negli anni ’60 Efraín Huerta si erge ad accusatore delle violenze antipopolari che provocano stragi nel suo paese, delle pesanti ingerenze degli Stati Uniti, dei regimi dittatoriali che di impongono nel sangue in tutta l’America Latina.

Sterile: “Teorico / Di tutto / Militante / Di niente”; Sconcerto: “I miei / Vecchi / Maestri / Di marxismo / Non li posso / Capire: / Alcuni sono / In prigione / Altri sono / Al / Potere”; Di classi: “Non c’è / Peggior / Lotta / Di quella / Che / Non s’è / Fatta”; Pinochet: “Ah / Maledetto!/ Tutto / Lo pagherai / Con la / Stessa / Moneda”; Sinistra parafrasi: “ Odio / L’odore / Dei marines / Che bombardano / E se ne vanno / Un bombardamento / in ogni porto / I marines / Bombardano / E se ne vanno”.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 22 settembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

HELD

RICCARDO HELD, MISHKIN – EINAUDI, TORINO 2024

Mi piace iniziare il commento a quest’ultimo, originale libro di versi di Riccardo Held, Mishkin, prendendo in considerazione la toccante prosa finale, che il poeta dedica alla memoria del suo gatto Mishkin, intitolando a lui addirittura l’intera raccolta. Un gatto particolare, appartenente a “un altro ordine dell’essere”, “una concentrazione inspiegabile di bene incondizionato”, “creatura infinitamente più complessa, sorprendente, strana, significativa e più simile a una cosa che non so chiamare in altro modo se non bene assoluto”.

La stessa acuta sensibilità ed empatia nei riguardi di ciò che è altro da noi, e pure ci assomiglia, ritroviamo se dalla pagina conclusiva del volume si risale alla prima sezione, “Andata”, in cui un centinaio di brevissime composizioni – giocose, spiazzanti, ironiche e insieme provocatoriamente meditative –, hanno come protagonisti animali, vegetali, oggetti, idee continuamente mutanti e indefinibili.

Ereditando una tradizione minoritaria della nostra letteratura, ma  presente e vivace già nell’antichità e nel medioevo (da Giovenale a Cecco Angiolieri, Lorenzo de’ Medici e Francesco Berni), attraverso l’800 di Giusti e dei grandi dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa), per arrivare al ’900 dei futuristi e di Palazzeschi, fino ai contemporanei Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja e Gianni Rodari, la poesia “che si diverte” e “fa divertire” scardina ogni pretesa rigidità del testo, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. L’esempio più calzante cui fare riferimento rimane comunque quello del limerick anglosassone, di cui fu rappresentante insigne Edward Lear: cinque versi severamente regolamentati improntati a un umorismo più o meno pungente.

Gli strumenti usati da Riccardo Held nella sua produzione sono i più vari: nonsense, satira, parodia, grottesco, paradosso, contraddizione, lapsus, calembour, incoerenza lessicale, scelti alternativamente per creare situazioni imprevedibili, incarnazioni ibride e fluttuanti, ruoli imposti che si vorrebbero sovvertire. Ecco quindi una candela che non vede l’ora di spegnersi, una coperta stanca di stare sopra il letto anziché sotto le lenzuola, un leggio desideroso di poter osservare dall’alto il libro che sostiene, un quadro astratto occhieggiante con invidia una natura morta cinquecentesca. E poi insetti, pesci, uccelli che involontariamente si trovano a fare coppia con animali molto dissimili. I titoli delle composizioni sembrano ideati a bella posta per depistare il lettore: (New economy) “La cicala non canta / Lavora e si affatica / E quando il freddo avanza / Soccorre la formica”. Troviamo capovolgimenti di situazioni: (Fiaba triste) Un principe bellissimo / Colpito da malocchio / Desidera moltissimo / Trasformarsi in ranocchio”; giochi di parole: (Nuove coppie) Ad Asti all’asta un istrice / Si aggiudica un Vermeer / – Lo appendo – dice all’astice / – Nel nostro pied-à- terre”; sarcasmo ideologico: (Atti del convegno di linguistica): “Se la lasci un po’ in pace / La lingua non si offende / Lo dice pure Chomsky / Che certo se ne intende”.

E poi filosofi, pittori, scienziati, divinità mitologiche, tartarughe parmenidee e libellule rivoluzionarie: un microcosmo di esseri intenti a riflettere le contraddizioni della storia e del pensiero umano, schiudendo “tesori sempre nuovi / di saggezza e virtù e conoscenza!”

Le altre due sezioni che compongono il volume (Pausa e Ritorno) appaiono più intimiste e tradizionali, sia nella strutturata eleganza dei sonetti sia nei ricalchi dai classici. Un ricomporsi non solo formale, recuperando echi gozzaniani e crepuscolari, ma soprattutto esistenziale quello che il poeta si propone di conquistare, dopo tanto tempo e tanto studio trascorso a sporgersi fuori di sé: un recupero di interiorità e di memoria (“Spostarsi appena, mettersi al riparo”), per ritrovare voci e immagini perdute: dell’infanzia, della madre, dell’ispirazione poetica. Alla ricerca delle proprie ombre, da rivalutare nella loro generosità protettiva (“Eccomi qui di nuovo / Nel mio luogo di sempre / Dentro la chiesa scura del mio cuore / Che stupido pensare / Di poterlo lasciare”), vincendo i demoni che oscurano la gioia di vivere, e bloccano in un egoismo smemorato della sofferenza altrui.

Riccardo Held (Venezia 1954) vive tra Venezia e Vienna, occupandosi di teatro, musica, traduzione, critica letteraria.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 14 settembre 2024

RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, TERRA DEI RITORNI – SAMUELE EDITORE, FANNA (PN) 2023

 

L’ultimo libro di versi di Alessandro Anil, Terra dei ritorni, incluso nella dozzina finalista del Premio Strega Poesia 2024, segue altre due raccolte del 2019, Versante d’esilio e Come tradurre la neve, in cui l’autore aveva già dato prova della sua maturità espressiva e di una particolare tensione spirituale, non circoscrivibile solo teologicamente.

Anil è nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì è vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione. Della sua origine orientale mantiene tuttora una disposizione naturale alla meditazione ascetica, al superamento delle contingenze quotidiane nella ricerca della verità, prediligendo lo scavo interiore e solidi ancoraggi etici per conquistare la libertà interiore. La sua scrittura si propone quindi come metodo di conoscenza, nel raggiungimento di una consapevolezza non unicamente sensoriale.

Terra dei ritorni si compone di tre sezioni poetiche, sia tipograficamente sia formalmente vicine alla struttura della prosa filosofica, nel ritmo pacato dell’esposizione riflessiva, dell’argomentazione equilibrata, che non conosce scarti linguistici destabilizzanti o sperimentalismi provocatori, ma predilige l’armonia di una narrazione priva di discrepanze.

Già a partire dall’epigrafe, il lettore intuisce nel richiamo al nascondimento e alla rivelazione, all’ombra e alla luce, alla presenza e all’assenza che continuamente si inseguono, l’eco del pensiero classico e l’insegnamento di religioni millenarie sul transeunte che permea la realtà: “Noi siamo uno nell’altro nascosti / e ci apprendiamo quale l’uno il nascosto dell’altro. / Alternando, ci mostriamo quando siamo più nascosti / e ci nascondiamo quando più ci mostriamo”. Nell’intenzione gnomica dell’avvertimento, come non ripensare all’oscurità delle formule eraclitee, al “lathe biôsas” di Epicuro, allo svelamento del tempo di Heidegger, all’elogio dell’ombra di Borges, fino alle teorie più recenti della psicanalisi sulla duttilità delle esperienze umane e l’indefinibilità dell’inconscio?

Così nella lettera iniziale, il cui destinatario rimane ignoto (tutti o nessuno, l’io dell’autore o una presenza amata), il tema – ripreso poi nel corso delle pagine – è quello dell’esilio, dell’allontanamento (da sé stessi e dalle origini, dalla società e da asfissianti legami sentimentali) connesso a quello del ritorno, di un rimpatrio, di un rifugio protettivo nell’alveo materno della natura, del corpo femminile, della casa: “L’inermità del riposo richiede la protezione della tana”. Fuga e rientro, inizio e fine, alba e crepuscolo, primavera e autunno si rincorrono nelle immagini e nelle ostentate ripetizioni di alcuni concetti.

Come un mantra ribadito in una nenia tranquillizzante, troviamo infatti la supplica “lasciami entrare” rivolta alla donna salvezza e rifugio, e la continua affermazione della vanità e inconsistenza dell’essere: “niente resterà qui, niente”, “Niente, niente resterà, solo oscurità”, “Resteranno solo ombre, solo ombre”, “la luce senza oscurità è ombra perpetua, tenebra senza luce”. Ombra e penombra alludono alla quiete della sera, quando un inedito ulisse riapproda alla sua itaca abbandonata, cercando l’abbraccio protettivo e accogliente del corpo dell’amata. “Lasciami entrare” viene ripetuto ventitré volte, è una preghiera e insieme una richiesta perentoria a una presenza erotica immateriale, sfuggente e indefinibile e tuttavia persistente. Roccia àncora culla dimora letto. Concretezza e astrattezza insieme, la donna chiamata “amica mia”, moglie fidanzata madre di figli futuri, è soprattutto colei che aspetta, offrendo fiducia e consolazione a chi è andato via e ritorna trasformato, avendo finalmente trovato risposte alla propria inquietudine. Le dichiarazioni d’amore sono insistenti, come la richiesta di un perdono, di una

generosità immeritata: “se io sono partito è perché sapevo che tu eri qui ad attendermi. / Lasciami entrare. Impossibile non pensare l’amore come a una terra”, “la mia sete appartiene al tuo corpo”, “il corpo può continuare ad appagarci nonostante il dolore”, “Le mie mani sono ossessionate da te”.

Dopo la prima sezione che dà il titolo al volume, le due successive (Note sulla melodia dell’acqua e Cartografia della voce) si accentrano su due tematiche fondamentali nella riflessione teorica di Alessandro Anil: l’elemento liquido e il suono. L’acqua trova ancora importanti riferimenti mitologici e filosofici nella tradizione culturale di ogni tempo e latitudine: il fiume Lete che cancella la memoria, lo scorrere inarrestabile del fiume eracliteo, la purificazione del Gange, il battesimo di Cristo, immagini che tutte si riassumono nei versi del poeta: “il fiume misteriosamente dà forma al tempo”, “il rivolo d’acqua negli anni scava la via del ritorno”. L’acqua canta, trasporta melodie, e secondo l’autore “La musica è la tentazione del linguaggio di tornare nell’origine da cui ha dovuto astrarsi per esistere… Se la misteriosa forma del tempo è la musica, siamo il tentativo della materia di trasformarsi in vibrazione, una melodia, un suono che bussa sulla soglia del niente”.  L’ultima breve sezione del volume, è dedicata appunto al suono, alla magia della voce umana come si era espressa dolorosamente in alcuni ricordi infantili, avvicinando il pensiero al buio ineluttabile della morte, o come più gentilmente ha accompagnato la scoperta vitale della rinascita, della bellezza ritrovata in piccoli fiori spuntati al mattino, nel volo notturno delle falene, che rivelano “il dominio della grazia… vita che si ritrova nel minimo, nel nulla quasi essenziale”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 2 settembre 2024