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RECENSIONI

PAVESE

CESARE PAVESE, IL COMPAGNO – EDIZIONI CLANDESTINE, MASSA 2020

L’incipit de Il compagno è memorabile, una delle frasi più note della narrativa novecentesca:
“Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra”. Pablo e la sua chitarra sono una cosa sola, infatti: lui la suona nelle feste di quartiere, tra amici che vogliono solo cantare a squarciagola, fare casino, divertirsi: senza alcuna reale attenzione per la musica e l’abilità dell’interprete. Poi, improvvisamente, il giovanotto perde ogni interesse per lo strumento, per la tabaccheria di famiglia in cui lavora, per le facce che gli stanno intorno. E lo ripete in continuazione, “sono stufo”, “voglio andare via”. Si tratta di un topos nei romanzi di Cesare Pavese. Tutti i suoi protagonisti desiderano partire, tentare la fortuna altrove, uscire dall’abbraccio soffocante delle abitudini e degli affetti parentali. Poi tornano, in genere nostalgici e sconfitti.

Per Pablo il momento discriminante, quello in cui ci si confronta con la propria esistenza mettendola in discussione, è l’incidente occorso al suo più caro amico, Amelio, finito in un fosso con la moto e rimasto paralizzato. Lo va a trovare, steso nel letto e disperato; suona la chitarra per distrarlo, bevono insieme, parlano o stanno zitti. Incontra nella stanza la ragazza di lui, Linda, uscita incolume dall’incidente; ne aspira il profumo, la osserva prendersi cura del malato, muovendosi con leggerezza tra il letto e la cucina. Se ne innamora.

Pablo e Linda iniziano a frequentarsi, vanno a ballare, e poi a letto insieme. Tra loro, ingombrante, il pensiero fisso di Amelio costretto all’immobilità, rabbioso, tra bottiglie di liquore e sigarette. Tentando di distrarsi, e di non sentirsi in colpa, Pablo esce con i compagni di sempre (Lario, Gigi, Martino, Chelino), torna con loro nelle trattorie a suonare, o in bicicletta sugli argini del Po fino alle colline. La notte, attraversa a piedi una Torino deserta. Entra nel giro un po’ losco degli amici di Linda, teatranti e ballerine, ma se ne stanca presto: “Certi giorni, a pensare quanta gente c’è a questo mondo, anche poveri diavoli che nessuno conosce, mi veniva una voglia di andarmene a spasso, di saltare sopra un treno, che quasi gridavo… ne avevo abbastanza e capivo che ormai tutta quanta Torino e il mestiere e le strade e le pietre di casa non bastavano più a darmi pace”.

Allora cambia lavoro, fa il meccanico e gira col camion, pur continuando a suonare la chitarra, a ballare nelle sale, a ubriacarsi. Ma quando Linda lo lascia per un altro, decide di accettare la proposta di un amico, seguendolo a Roma. “Mi piaceva di Roma proprio quel fare perditempo che si sente nell’aria. uscivo e andavo a spasso… Mi guardavo le strade e i palazzi, e ce n’erano di così vecchi e mai visti, che soltanto i romani li avevano fatti”.

La capitale, in quegli anni fascisti antecedenti la guerra, non è per Pablo solo aria tiepida, donne in carne, osterie e monumenti: è soprattutto la scoperta di una nuova coscienza civile, la volontà di opporsi a una dittatura ingiusta, lottando a fianco dei lavoratori sfruttati, organizzando scioperi e riunioni politiche clandestine. Rinuncia a Linda riapparsa a Roma per rivederlo, rinnega gli anni sventati della giovinezza torinese, diventa uomo scoprendosi comunista. Trova lavoro in un’officina che ripara bicilette, e presto intreccia una relazione con la proprietaria, una giovane vedova “brusca e asciutta”. Tuttavia, la vocazione per cui combattere non è più l’amore, bensì la resistenza contro il regime, la solidarietà con i nuovi amici: Giulianella, Dorina, Carletto, Fabrizio, Luciano. E Gino Scarpa, reduce dalla guerra di Spagna, che lo fa crescere intellettualmente, attraverso incontri, letture, lunghe discussioni. Pablo infine viene arrestato, passa in cella alcuni giorni, per essere poi sottoposto a sorveglianza speciale nella sua città di provenienza, Torino. Lascia Roma, adulto, consapevole, pronto a rimettersi in gioco. “Le cose importanti, le cose che buttano a terra, queste cose succedono per conto loro. Vengono addosso come un camion, come una brutta polmonite, e dietro c’è qualcuno che ci gode e che gioca”.

Nel descrivere lo sviluppo della consapevolezza antifascista di Pablo, lo stile di Cesare Pavese diventa sempre più scarno, i dialoghi franti e veloci, a imitazione dell’ansia ribelle del protagonista e dei co-protagonisti, “compagni” come lui.

© Riproduzione riservata  SoloLibri.net      13 luglio 2021

 

RECENSIONI

SIMONIGH

CHIARA SIMONIGH, LA DANZA DEI MISERI DESTINI, TESTO&IMMAGINE, TORINO 2000

Chi ha amato Decalogo di Krzysztof Kieślowski (oggi scaricabile in tutti i dieci episodi su diverse piattaforme streaming) può leggerne un’esauriente e appassionata esegesi nel volume La danza dei miseri destini di Chiara Simonigh, pubblicato nel 2000 ma ancora facilmente recuperabile nelle librerie online. Il libro si apre con un excursus sulla biografia di Kieślowski, nato a Varsavia nel 1941 e morto nella stessa città nel 1996, in seguito a un intervento al cuore. Orfano di padre dall’adolescenza, la sua vita fu segnata da problemi di salute, familiari, economici e da persecuzioni politiche. Laureato alla Scuola di Cinema di Łódź nel 1969, iniziò la sua carriera girando documentari, per cui si valse della collaborazione dell’avvocato Krzysztof Piesiewicz, divenuto suo prezioso sceneggiatore in quasi tutti i film successivi, caratterizzati dall’assenza di effetti speciali o spettacolari, da dialoghi scarni e da temi concentrati su laceranti dilemmi etici ed esistenziali.

Il cinema “di pensiero” di Kieślowski raggiunse il suo apice espressivo proprio nel Decalogo, serie di 10 mediometraggi prodotti dalla televisione polacca  dal 1988 al 1989: ogni episodio della durata di un’ora circa, indipendente dagli altri, racconta storie di vita quotidiana, ispirate vagamente o in maniera più esplicita a uno dei dieci comandamenti biblici. Chiara Simonigh ne offre un’accurata sinossi, presentando i vari personaggi nell’incalzare degli avvenimenti esteriori che li coinvolgono, conducendoli poi verso scelte definitive e discriminanti. Il luogo in cui le vicende accadono è un anonimo condominio del quartiere Stowski di Varsavia, dall’architettura spoglia e squadrata, a sottolineare la presenza spersonalizzante, livellatrice del regime. I condomini vivono vite parallele ma estranee tra loro: di tanto in tanto alcuni personaggi appaiono fuggevolmente e in modo enigmatico in puntate diverse, come a richiamare un’unicità di destino, o all’opposto uno stridente contrasto. Una sola figura ritorna con insistenza in tutti e dieci film, osservatore misterioso e silenzioso, testimone dell’accaduto o di ciò che accadrà, incarnazione di un giudizio destinato a restare inespresso.

Gli anni in cui il Decalogo fu ideato e girato avevano visto nascere dapprima la dittatura comunista di Jaruzelski nel 1981, in un clima di terrore e abbattimento sociale, quindi la contrapposizione del movimento sindacale di Solidarność, appoggiato dalla Chiesa: come alternativa al totalitarismo e alla paralizzanti paure della sua gente, Kieślowski scelse di dare voce ai conflitti interiori, alla destrutturazione psicologica individuale, alle domande esistenziali delle singole coscienze piuttosto che alle imposizioni del potere e alla ribellione politica collettiva. Preminente era infatti nelle sue inquadrature il senso di desolazione degli ambienti esterni ed interni, che rifletteva sia la rassegnazione e la mancanza di iniziativa popolare, sia un insopprimibile senso di colpa, di sospetto e di vergogna nei rapporti interpersonali.

In tutti gli episodi il richiamo a una spiritualità capace di superare la contingenza materiale del vivere mantiene sempre qualcosa di segreto e indecifrabile, non direttamente collegabile a qualche fede o esperienza religiosa, estraneo a ogni schema dottrinale, lontano da toni moralistici. Il regista polacco in più riprese ebbe a definirsi laico: “Da quarant’anni non vado in chiesa… Bisogna cercare Dio in altre cose cha vadano oltre Dio… Non credo in Dio, ma anche non credendo, ho comunque un rapporto con Lui”. Il dio privato di Kieślowski non fa riferimento a nessuna Chiesa (non è presente alcun rappresentante del clero in tutto il ciclo), ma il sentimento del divino è innegabilmente pervasivo e perturbante in tutta l’opera, simbolicamente rappresentato da segnali provenienti da un aldilà, da un altrove non razionalizzabile: oggetti, animali, suoni, ricorrenze visive, presagi imperscrutabili, indizi sibillini privi di nessi logici che mirano a sconcertare chi guarda, ponendogli domande ineludibili.

Chiara Simonigh lo conferma: “Lo spettatore è continuamente posto dinanzi all’inesplicabile, alla contraddizione, al paradosso, senza che questo scalfisca in nulla la trasparenza, a tratti così limpida da risultare intollerabile, del realismo dei dieci film”.

L’autrice indaga trasversalmente forme e contenuti delle diverse puntate utilizzando alcune questioni fondamentali presenti in varia misura in ciascuna di esse: il senso metafisico di un’alterità che pur rimanendo inconoscibile continua a interrogare le coscienze, la contrapposizione tra caso e destino, la colpa e il castigo osservati dall’implacabile lente della giustizia, il corpo nella sua gloria e nella sua miseria, il paradosso impietoso del grottesco nella tragedia. Tanti i casi umani raccontati: il rapporto genitoriale, la morte ingiustificabile di un bambino, il tradimento nella coppia, l’avidità, l’omicidio, la malattia, l’eroismo e la viltà, la sensualità, il perdono, la tentazione. La relazione con i dieci comandamenti dell’Antico Testamento non è dichiaratamente espressa, ma rimanda allusivamente all’insieme di norme che per millenni hanno indirizzato la condotta morale dell’intera civiltà occidentale, comunemente accettate e continuamente trasgredite.

Oltre all’importante esegesi offerta nel libro di Chiara Simonigh, un più recente e-book di due psicanalisti friulani (A mani vuote, di Sandra Puiatti e Moreno Manghi) suggerisce un’analisi critica acutamente provocatoria del Decalogo, a indicare quanto questi film di iKrzysztof KieślowskI ancora oggi possano offrire al pubblico spunti di riflessione, com’è nella natura di ogni capolavoro.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 8 luglio 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OPPEZZO

PIERA OPPEZZO, ESERCIZI D’ADDIO – INTERNO POESIA, 2021

Autrice di poesie, testi teatrali, narrativa, traduzioni, Piera Oppezzo (Torino 1934-Milano 2009) ebbe una vita e un destino letterario non facile. Nata da una famiglia di modeste condizioni economiche, si adattò a lavori umili prima di venire assunta dalla Rai a Roma, dove ebbe modo di conoscere intellettuali e artisti che incoraggiarono il suo appassionato affacciarsi al mondo della cultura, appoggiandone le prime pubblicazioni su riviste e con piccole case editrici. A metà anni sessanta si trasferì a Milano, avvicinandosi al femminismo e all’impegno politico. Nel 1966 uscì presso Einaudi una sua raccolta intitolata L’uomo qui presente, che fu ampiamente recensita e apprezzata.

Interno Poesia pubblica ora i suoi versi inediti, Esercizi d’addio, raccolti in ordine cronologico, a cura di Luciano Martinengo, con prefazione di Giovanna Rosadini e postfazione di Gaia Carnevale. Si tratta di poesie scritte tra il 1952 e il 1965, affidate dall’autrice settantacinquenne e malata all’amico Martinengo, al quale si deve la riproposizione della sua opera non solo in una scelta antologica del 2016 (Una lucida disperazione), ma anche attraverso il documentario Il mondo in una stanza, che ne ripercorre affettuosamente l’esistenza privata e l’attività letteraria.

Le poesie di cui ci occupiamo anticipano non tanto lo stile maturo della Oppezzo, più orientato verso la sperimentazione linguistica (per Giovanni Raboni “disadorno e quasi afono”, espressione “dell’appiattimento della parola al suo elementare, irriducibile nucleo gnomico”), quanto la stessa persistente tonalità malinconica, per una consapevolmente accettata e irrisolta sofferenza psicologica, segnata dalla precarietà della vita sentimentale e professionale.

Gelo, paura, luci remote, voci morte, bruma dolente, scarnite mani, pietre fredde, cani randagi, umidi asfalti, sono termini con cui la poetessa ventenne esprimeva la desolazione di una giovinezza ferita da privazioni e incomprensioni familiari, sullo sfondo di un devastante conflitto bellico: “Il ricordo della mia infanzia   /     è guerra. Un motore / nel cielo si avvicina / alla mia testa, i giocattoli diventano mostri. / Aiuto! la mia bambola è stecchita”. Nei “poveri giorni” in cui “Solo le asprezze / si ascolta”, il rimpianto per una serenità negata diventava senso di colpa per l’incapacità di sfuggire alla lugubre atmosfera ambientale: “I morti! I morti!” gridavo. / Ero alla finestra / e non passò nessuno.  //        Il vento sbandava nei miei capelli. / “I morti! I morti!” / Chi venne / e mi sollevò, quasi?  /         Ma io ero pietra, ero gelo o fiamma, / febbre o abbandono, ma non ero ancora… / – Oh, fino a quando? – /       e rimasi”.

In queste prime e acerbe poesie si possono rintracciare formule obsolete e letterariamente abusate, una certa ovvietà descrittiva, ingenui sentimentalismi, ma sempre felicemente riscattati da versi di icastica intensità: “Inutile pregare gli assenti”, “Erano sere di poca luna”, “Tutta la mia speranza  / è nel giorno pieno”. Nelle pagine successive lo stile si fa invece più asciutto, più coraggiosamente innovativo nell’uso meditato di neologismi e costrutti prosastici, di una versificazione franta, quasi elencatoria e priva di punteggiatura, di una sprezzante ironia. Si intuiscono quindi i primi germi della futura ribellione formale e contenutistica, nel coinvolgimento emotivo su argomenti di rilevanza sociale: la solidarietà con gli sfruttati, il rancore verso gli egoismi e l’ignavia del mondo adulto. La voce poetica si fa più scandita: “In casa seggo e fumo. / Ho acceso la radio / e allontanato completamente / le cose di un giorno intero”, “Indossiamo il cappotto senza fare domande / Col buon cappotto / Dimenticheremo le future violenze di stagione /   Con tutti i rischi di allagamento e siccità / Che comporta / La nostra posizione geografica”, “Chi si accorge di ciò che accade? / Neppure giugno arresta le battute di spirito / Il dolce amore per la vita è snervante e imperfetto”.

All’effusione sentimentale della prima produzione si va quindi sostituendo una più ragionata padronanza dei propri mezzi, marcata dalla polemica combattiva contro le ingiustizie, i soprusi e l’alienazione prodotta dalla società contemporanea.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei libri del mese», n.7/8, luglio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

IOVINO

SERENELLA IOVINO, ECOLOGIA LETTERARIA.UNA STRATEGIA DI SOPRAVVVIVENZA – EDIZIONI AMBIENTE, MILANO 2015

L’ecocriticism è una branca di studi letterari molto sviluppata negli USA già dagli anni ’90. Piuttosto sottovalutato da noi, ha iniziato a interessare le istituzioni accademiche ed editoriali grazie al lavoro della Professoressa Serenella Iovino, una delle voci più accreditate dell’ecocritica internazionale: insegna “Italian studies and Environmental Humanities” alla University of North Carolina, e tra le sue numerose pubblicazioni sull’argomento, il volume Ecologia letteraria, Una strategia di sopravvivenza, pubblicato nel 2015, ha riscosso notevole successo non solo tra gli intellettuali addetti ai lavori, ma anche tra gli studenti più giovani, particolarmente sensibili alle problematiche ambientali.

Iovino ha intercettato questa empatica ricettività delle nuove generazioni nei riguardi dell’habitat naturale non specificamente umano (animali, oceani, foreste) proponendo un filone di ricerca inconsueto e stimolante: “Il risultato che speravo di ottenere era questo: presentare la cultura letteraria ambientale nella sua dimensione insieme locale e globale, facendone emergere la natura fecondamente comparatistica”. Un uso etico dei testi letterari, antichi e moderni, può contribuire a orientare i rapporti umani con il mondo non umano, in una sorta di pedagogia sociale che stimoli a riconsiderare il posto occupato dall’homo sapiens sapiens in un mondo minacciato dalla catastrofe. Non solo principi teorici, quindi, ma anche un impegno politico, un attivismo culturale da incoraggiare attraverso la lettura critica di testi che in varia misura si siano occupati dell’ambiente.

Il volume di Serenella Iovino si divide in due parti: la prima sezione inquadra l’orizzonte storico e teorico in cui si è inserita la cultura ecologica, privilegiando il pensiero filosofico post-moderno, la letteratura decentralizzata, non gerarchica, inclusiva; la seconda parte analizza criticamente quattro autori novecenteschi che hanno prestato particolare considerazione alle differenze di genere, di specie, di lingua, di evoluzione biologica: Annamaria Ortese, Clarice Lispector, Pier Paolo Pasolini, Jean Giono.

I capitoli iniziali del volume sottolineano le modalità negative con cui la modernità ha deturpato il paesaggio, inquinando non solo materialmente ma anche ideologicamente l’integrità e l’autenticità dell’habitat fisico e mentale che ci circonda: dal giardino alla discarica, dalla sovrapproduzione di merci di consumo allo scarto incontrollato e nocivo di rifiuti, dalla creazione di panorami sintetici alla distruzione di qualsiasi coltura spontanea. Per inventare una nuova etica della cultura ambientale, secondo Iovino bisogna abbandonare i modelli di dominio ideologico che impongono filosofie totalizzanti o verticalistiche, e le tecniche di produzione interessate solo alla commercializzazione globalizzata, favorendo invece politiche di gestione del territorio su base locale, e un nuovo umanesimo, non più antropocentrico, ma espressione di una comunità bioetica più vasta.

Numerosi sono stati gli autori che in passato hanno dimostrato un atteggiamento di rispettoso riguardo verso la natura: da Emerson a Thoreau, da Melville a Twain. Oggi questa sensibilità è notevolmente cresciuta, anche grazie all’impegno dei movimenti ambientalisti e animalisti a livello internazionale, in letteratura, nel cinema, nelle arti visive. Tra i quattro scrittori presi in considerazione da Iovino, di Annamaria Ortese è ben noto lo sguardo di solidarietà e compassione universale verso ogni forma di vita: animali, vegetali, esseri umani derelitti, territorio deturpato. La consapevolezza della sofferenza che accomuna tutti, è ben evidente nel suo romanzo più celebrato, L’iguana, del 1965, in cui un animaletto surreale, metà rettile metà donna, impersona la natura stessa nei suoi aspetti più inquietanti, e insieme la ribellione a una società patriarcale che opprime gli indifesi.

La stessa idea del femminile come complessità perturbante anima le pagine del romanzo La passione secondo G.H. della brasiliana Clarice Lispector, in cui la protagonista schiaccia volontariamente una blatta, interrogandosi poi sull’essenza dell’individualità umana nella sua differenziazione con il mondo animale. Entrambe le opere delle due scrittrici mettono in discussione l’autoreferenzialità tipica dell’homo sapiens, riconoscendo negli abissi dell’animalità e di ciò che viene comunemente considerato inferiore, abietto o disgustoso, la radice di una realtà originaria, in cui materia e fisicità rivelano il profondo legame sia con il limite sia con il superamento del limite, nella ricerca di una trascendenza e di un rapporto con il divino che liberi dalle catene di una tracotanza ottusamente compiaciuta della propria unicità.

Del provenzale Jean Giono, che nel 1980 ha pubblicato il bestseller L’uomo che piantava gli alberi, Serenella Iovino mette in luce il messaggio pacifista di speranza sociale, attuato da chi generosamente dedica tempo e lavoro a salvare la vegetazione dall’incombere della cementificazione e desertificazione del suolo, in una visione bio-comunitaria che accomuna il destino delle persone a quello delle piante, delle erbe, dei corsi d’acqua e di chi li abita, prendendosi cura dell’altro da sé.

Ma sorprendente e originale è soprattutto il capitolo dedicato a Pier Paolo Pasolini, della cui sensibilità ecologica in pochi sembrano aver tenuto conto. Esempio alternativo all’intellettualità monoculturale, Pasolini ha praticato negli scritti narrativi, poetici, saggistici e nel ruolo di straordinario sceneggiatore e regista, una particolare educazione allo sguardo inclusivo, sia sul piano sociale e politico, sia sul piano linguistico. Se quindi per ecologia si intende l’attenzione alle differenze, la volontà di “far emergere le diversità come essenziali alla vita del tutto”, ecco che lo si può definire a pieno titolo “ecologista”. Ha infatti sempre valorizzato la ricerca di narrative periferiche e marginali, dal punto di vista sia geografico sia culturale (i dialetti, le borgate, il proletariato o il mondo rurale); si è identificato con la diversità sessuale senza fariseismi o censure; ha esaltato la bellezza dei paesaggi più lontani e stratificati nella storia (India, Africa, Palestina) evitando di ricadere nel conservatorismo; si è opposto a ogni livellamento culturale e ai condizionamenti consumistici della società neocapitalistica. Il paesaggio raccontato da Pasolini ha, nella sua elaborazione storica, una “scandalosa forza rivoluzionaria”, poiché nelle realtà locali e ancora incorrotte si contrappone all’industrializzazione sregolata delle campagne, all’inquinamento delle acque, al disordine urbanistico delle città, all’orrenda trasformazione omologante imposta dal potere economico su luoghi e popolazioni.

“Se la natura muore, travolta dallo sviluppo, muore anche l’arte”, e con essa ogni interpretazione vitale del presente. Impartendoci questo prezioso ammonimento, Serenella Iovino conclude la sua interessante e provocatoria indagine critica sulla narrativa ecologica.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 29 giugno 2021

RECENSIONI

PANARESE

ROSSELLA PANARESE, COMUNICAZIONE SCIENTIFICA – TRECCANI, TORINO 2021

L’e-book Comunicazione scientifica (dal prezzo inferiore a 1 euro) raccoglie quattro interventi di Rossella Panarese pubblicati nell’Appendice X dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Rossella Panarese (Roma 1960-2021), entrata giovanissima in Rai come redattrice a Radio3, di questo canale è diventata un’autorevole, stimata e infaticabile curatrice e conduttrice, soprattutto di trasmissioni riguardanti vari rami della scienza: Palomar, Futura, On the road, Duemila, Labanof.

Dopo una parentesi professionale come responsabile dell’Ufficio stampa del Comune di Roma, nel 2002 è rientrata in Rai, progettando, curando e in seguito conducendo per diciotto anni il programma Radio3 Scienza (“Non volevamo spiegare cos’è un bosone o una cellula staminale, o almeno non solo. Volevamo parlare di politica, di etica, di salute, di tecnologia, di scuola, di ricerca e di ambiente partendo dai temi dell’impresa scientifica”). Impegnata anche nella didattica come insegante e conferenziera in diversi master, seminari, festival organizzati in varie località italiane, la sua morte avvenuta in aprile ha lasciato grande rimpianto tra i collaboratori e il pubblico radiofonico.

In piazza Bainsizza, vicino alla sede di Radio3 a Roma, le è stata dedicata una quercia rossa su cui è infissa una targa riportante le sue parole: “Saper raccontare vuol dire avere a cuore l’ascoltatore, farsi carico dell’attenzione dell’altro, creare un filo comune tra chi parla e chi ascolta. Insomma, costruire una relazione. È quello che la radio può fare meglio di tutti. A me piace usare la metafora del ballo di coppia, che è tale se – e solo se – ognuno dei ballerini è concentrato sui suoi passi, ma in contatto con quelli dell’altro”.

I sette brevissimi saggi compresi sotto il titolo Comunicazione scientifica vertono appunto sulla necessità di trasmettere la cultura, anche nei suoi aspetti più ostici, al maggior numero di persone possibile, in termini chiari, comprensibili, ma non ridimensionati o spianati artificiosamente ai fini di ottenere una facile audience. Come scrive Chiara Valerio nella prefazione, la scrittura di Panarese mantiene una “forma interlocutoria”, nel convincimento che qualsiasi argomentazione debba permettere e incoraggiare l’intervento attivo del fruitore della conoscenza, pretendendone tuttavia anche l’ascolto attento e curioso, in un processo reciproco di costruzione comunicativa.

La prima domanda che si pone l’autrice riguarda la definizione del pubblico di non-esperti cui si rivolge la comunicazione scientifica. Essendo sempre più diversificato per età e preparazione scolastica, ad esso devono essere offerte soluzioni narrative, educative e informative originali, stimolanti e, ovviamente, qualificate e rigorose, che tengano conto del contesto in cui avvengono e offrano la possibilità di creare relazioni interattive adeguate. Agli scienziati e ai ricercatori va chiesto di diffondere i risultati del loro lavoro uscendo dalla “torre d’avorio” del sapere specialistico in cui sono rinchiusi, per contribuire all’alfabetizzazione scientifica della popolazione, sconfiggendone lo scetticismo e il senso umiliante di inadeguatezza culturale. Se la scienza è sotto attacco per la carenza di fondi destinati alla ricerca, per competizioni interne, per il proliferare di fake news, falsi scoop giornalistici, pubblicità ingannevoli e commercializzazione di prodotti medici e industriali inefficaci o fraudolenti, spetta al mondo politico e mediatico la responsabilità di riportare chiarezza e trasparenza nella popolazione.

“A emergere è il tema della cittadinanza scientifica, ossia del diritto di ognuno di noi a partecipare alle scelte che derivano dall’impresa scientifica, e di condividere le opportunità derivanti dallo sviluppo delle scienze e della tecnologia”. Diritto dei cittadini a essere informati con competenza, dunque, cui corrisponde però il dovere di approfondire con serietà le proprie fonti e nozioni.

Su alcuni temi molto delicati la discussione tra scienziati e pubblico è molto sensibile: vaccini, OGM, medicina ufficiale, intelligenza artificiale. In particolare, con lo scoppio della pandemia di Covid-19, si è sviluppata un’enorme richiesta di partecipazione popolare al dibattito scientifico, alimentata da paura e sofferenza personale: si chiede alla scienza di rivestire il ruolo che le compete, di guida prudente ed esperta dei comportamenti individuali e collettivi.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Comunicazione-scientifica-Panarese

24 giugno 2021

 

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RECENSIONI

MANDEL’STAM

OSIP MANDEL’STAM, QUADERNI DI MOSCA – EINAUDI, TORINO 2021

Einaudi ha da poco pubblicato nella sua collana bianca di poesia una raccolta di Osip Mandel’štam, Quaderni di Mosca, egregiamente curata e tradotta da Pina Napolitano e Raissa Raskina, con testo a fronte e un ricco apparato di note.

Mandel’štam (Varsavia, 1891-Vladivostok, 1938), appartenente a una famiglia di ebrei benestanti, studiò a Parigi, Heidelberg, San Pietroburgo; viaggiò con inquietudine attraverso tutta la Russia, in Italia e in Finlandia, dove si convertì al cristianesimo metodista pur rimanendo molto legato alla cultura ebraica. Esponente di spicco della corrente letteraria post-simbolista dell’acmeismo, insieme a Gumilëv e alla Achmatova, aderì inizialmente a una scrittura di stampo neoclassico, attenta al valore formale della versificazione. Ebbe rapporti tumultuosi con l’ufficialità letteraria sovietica (“Razza maleodorante… scrivono dietro autorizzazione preventiva”) che lo considerava un esempio di “esasperato individualismo borghese”. A causa della sua violenta critica al regime (in una delle poesie qui antologizzate definiva Stalin “il montanaro del Cremlino… dalle tozze dita grasse come vermi”) fu arrestato due volte, nel 1933 e nel 1938, finendo i suoi giorni deportato in un gulag: i testi scritti durante la detenzione vennero conservati clandestinamente dalla moglie Nadežda, che li aveva imparati a memoria.

Il volume einaudiano comprende versi eterogenei, composti a partire dal 1930 e appartenenti alla seconda stagione della sua produzione letteraria, caratterizzata da un abbandono della forma controllata e classicheggiante per l’assunzione di stili e contenuti innovativi, meno rigidamente costruiti, e invece aperti a toni più intimi, colloquiali, francamente autobiografici, o a riflessioni storico-letterarie, situate in tempi e luoghi diversi: dall’Armenia, a Leningrado, a Mosca.

Dopo cinque anni di silenzio poetico, Mandel’štam era tornato alla composizione in versi grazie a un ritrovato slancio vitale seguito a un soggiorno di alcuni mesi in Armenia, paese a lungo vagheggiato e idealizzato per le radici storiche e culturali che glielo rendevano caro: suggestioni bibliche ed echi di tradizioni ebraiche, un passato di invasioni e stermini di cui mostrava le cicatrici, e soprattutto una concreta estraneità all’invisa politica sovietica. La dozzina di poesie “armene” pubblicate in rivista nel 1931, furono accolte con freddezza dai critici per il loro eccesso di letterarietà. Eppure, il sincero entusiasmo che le anima non ha nulla di retoricamente studiato: “Paese di colori andati a fuoco / e di morte pianure di vasai”, “Ah, Erivan’, Erivan’! Non città – nocciola tostata, / amo i meandri storti, le bocche grandi delle tue strade”, “Stato di pietre urlanti – / Armenia, Armenia! Che rochi monti chiama alle armi – / Armenia, Armenia!”.

Rientrato con la moglie a Leningrado, il poeta patì il clima di freddezza e sospetto del mondo letterario, che lo rinsaldò nell’antica diffidenza verso la città in cui era cresciuto (“Sono tornato nella mia città, nota fino alle lacrime, / fino alle venule, alle gonfie ghiandole infantili”, “Vivere a Pietroburgo è come dormire nella bara”, “Perché dunque questa città domina ancora / per antico diritto i miei sentimenti e pensieri? / Per incendi e gelo ancor più sfacciata – / vanesia, maledetta, vacua, giovanile!”). Se ne allontanò dopo pochi mesi, spostandosi con Nadežda a Mosca. Qui compose la maggior parte delle poesie presenti nel libro di cui ci occupiamo, oscillanti tra l’insofferenza per la capitale (“Mosca sgualdrina”, “Mosca buddista”), vissuta miseramente in alloggi promiscui, e un’adesione più sciolta al dinamismo della metropoli, raccontata nelle sue strade, nei tram, nelle fabbriche e nei musei: “Pidocchi e squallore, silenzio e muffa – / mezza stanza da letto, mezza galera”, “ascolto sonate nei vicoli / a tutti i chioschi ho l’acquolina in bocca, / sfoglio libri nei profondi androni –, e non vivo, e tuttavia vivo”, “Amo gli scambi dei tram sfrigolanti //… Entro negli antri favolosi dei musei”, “La Moscova è avvolta nel fumo di quattro ciminiere / e davanti a noi si stende la città intera”.

La stessa ambivalenza ideologica e sentimentale nutrita verso i luoghi, viene manifestata da Mandel’štam nei riguardi del tempo storico: il disprezzo per la contemporaneità (“il secolo scannalupo”) lo induce a esaltare la cultura e la mitologia classica, oppure a rifugiarsi in un onirismo atemporale. Ma polemicamente viene sottolineata dall’intellettuale-poeta anche l’appartenenza al presente, la partecipazione attiva alle sorti della nazione e del popolo: “È tempo che lo sappiate: sono anch’io un contemporaneo, / un uomo dell’epoca di Moscatessile, – / guardate com’è informe la mia giacca, / e come so camminare e parlare! / Provate a strapparmi dal secolo, – lo giuro: vi ci romperete il collo!”, “Basta malcontento! Nel cassetto le carte! / Oggi mi assale un diavolo simpatico, / come se il parrucchiere François / mi avesse fatto uno shampoo vigoroso. // Scommetto che non sono ancora morto, / e, come un fantino, giuro sulla mia testa / che posso ancora combinarne delle belle / sulla pista da corsa al trotto”.

L’adesione culturale al momento storico vissuto è evidente nel poemetto Lamarck, dedicato alla ricerca scientifica, i cui progressi negli anni ’30 provocavano discussioni e polemiche accese: la sete ansiosa di avvicinamento a un nuovo e prima ignorato ramo della scienza, apriva al poeta l’immaginosa avventura dell’evoluzione nella direzione di uno sprofondamento tellurico verso l’animalità bruta (“ogni cosa viva è solo un refuso / per un breve giorno senza eredi”).

Oltre alla biologia, gli interessi culturali manifestati nella seconda parte dei Quaderni di Mosca vertevano sulla linguistica (un utilizzo storicamente stratificato del russo, e la padronanza sicura di tedesco e italiano), della pittura (l’impressionismo), della musica (Mozart e Schubert), dei classici greci, della letteratura europea (Shakespeare, Goethe, Petrarca, Ariosto, Tasso, e soprattutto la Commedia dantesca). Mandel’štam dichiarava con esaltazione di “ardere” per la poesia di Dante, non solo per una consonanza di destino (la persecuzione politica, l’esilio, la visione dell’inferno come condanna metafisica), ma principalmente per una sintonia formale: univa i due poeti lo stesso amore per la metafora, l’originalità dell’invenzione sperimentale, il movimento impetuoso delle immagini, la costruzione inventiva del lessico, il vulcanico metamorfismo delle situazioni narrate (“Poesia, ti fanno bene le tempeste!”). Al sommo poeta fiorentino dedicò alcuni saggi, appena ripubblicati da Adelphi (Conversazione su Dante).

L’ultimo ciclo compositivo mandel’štamiano, tradizionalmente considerato difficile, oscuro, provocatorio nei contenuti e oscillante, stratificato, frammentario nello stile, è in realtà un vero e proprio laboratorio multiforme di rimandi letterari e culturali (allusioni, echi, citazioni), di intersecazioni di differenti livelli storici, di polemica sociale e politica. Quanto più l’esistenza materiale dell’uomo veniva mortificata e ingabbiata da un regime ottuso e refrattario all’indipendenza di pensiero e alla generosa espansione sentimentale, tanto più i versi del poeta esibivano la loro natura febbrile e incandescente, polifonica e vibrante di slanci intellettuali.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 18 giugno 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TOMMASI

WANDA TOMMASI, LE PAROLE PER SCRIVERLO – MIMESIS, MILANO 2020

Nei quattro capitoli che compongono il volume “Le parole per scriverlo. La ferita e la parola”, la filosofa Wanda Tommasi (che per decenni ha indagato il pensiero della differenza sessuale, sia come docente all’Università di Verona, sia all’interno della comunità filosofica di Diotima) affronta da un punto di vista poco esplorato la produzione narrativa di cinque famose scrittrici, analizzando il tema della sofferenza e della trasformazione messa in atto per superarla, rendendola fruttifera e vitale.

Già nell’introduzione l’autrice esplicita la sua intenzionalità: “Questo libro nasce dalla convinzione che ci sia una grande capacità femminile di accogliere il dolore, di ospitarlo e di elaborarlo… Tuttavia, prima dell’elaborazione del dolore, dev’esserci la sua accoglienza, la sua accettazione a livello esistenziale”. Ascoltando attentamente il proprio sentire, percependolo inconsciamente e affettivamente prima ancora di comprenderlo razionalmente, e mantenendosi recettivi rispetto all’accadere, si può convertire anche la ferita più penosa in un varco, in un’apertura all’alterità: processo di crescita percorribile solo attraverso l’espressione della parola.

Il primo tema preso in esame è tra i più dolentemente complessi da dipanare, perché archetipico e ineludibile: quello della relazione che lega madre e figlia, spesso conflittuale, colpevolizzante, ricattatoria. Tommasi ne approfondisce le dinamiche studiando le pagine di Irène Némirowsky e Marie Cardinal.  “L’oscuro materno”, il nodo “enigmatico, inquietante e intrattabile” che lega ogni figlia alla madre viene reso da Némirowsky con rancorosa e irrimediabile ostilità. “L’odio senza riparazione” nutrito dalla scrittrice ebrea russa, l’aveva indotta a tratteggiare un ritratto “abominevole” della genitrice: “affettivamente arida, avida di denaro, di gioielli e di amanti, preoccupata solo della propria bellezza”. Nel 1992, cinquant’anni dopo la morte di Irène avvenuta ad Auschwitz, è stata la figlia secondogenita di lei Élisabeth Gille ad assumersi il pesante compito di rielaborare il rapporto di sua madre con la nonna, attraverso il romanzo biografico Mirador, con una coraggiosa operazione che, rimuovendo il rimosso, non solo offriva una riparazione postuma a un irrisolto conflitto generazionale, ma riconciliava lei stessa con l’ingombrante figura materna.

A differenza della Némirowsky, Marie Cardinal riesce a superare l’avversità verso la madre (colpevole di aver tentato di abortirla e di non averla mai amata), non solo grazie a un lungo percorso di scavo psicanalitico, ma soprattutto servendosi della scrittura. “La carognata” di sua madre (non solo i ripetuti tentativi di aborto, ma soprattutto la sadica rivelazione fattane alla figlia adolescente), colpevole di averle procurato una serie di gravi malattie fisiche e psichiche, viene infine perdonata dopo la morte di lei, dapprima vissuta con sollievo, e in seguito accettata pietosamente, in una riconciliazione ottenuta riattraversando il nucleo più profondo della sofferenza.

La battaglia combattuta da Cardinal non si situa solo all’interno della sua storia personale, ma agita coraggiosamente le acque immobili del linguaggio patriarcale: “Se vinceremo questa battaglia […], potremo anche inventare delle parole per tappare gli spazi lasciati vuoti nella nostra lingua da quegli immensi dominii dell’inespresso, ed essenziale, che, guarda caso, sono dei dominii femminili. Dominii che appartengono da sempre all’umanità, e il fatto di arricchirli, e di occuparli, deve poter arricchire  tutti, uomini e donne”. Parlare e scrivere, quindi, per rimarginare ferite, inventando spazi simbolici da occupare, nella fantasia e nel sogno, nella pratica politica, filosofica, artistica.

Lo ha fatto egregiamente Ágota Kristóf, ungherese riparata in Svizzera, che attraverso la scrittura ha trovato modo di esprimere il dramma dello sradicamento dal paese nativo e dalla lingua materna (“Al di fuori della scrittura io non vivo”, diceva). A lei Wanda Tommasi, e al dolore di un sopruso “inassumibile”, dedica la seconda tappa della sua riflessione. Kristóf scrisse i suoi capolavori narrativi in francese, “una lingua nemica” imparata con sforzo e avversione, perché la allontanava inesorabilmente dall’infanzia, dai ricordi, dal modo con cui aveva imparato a nominare il mondo. Tornando sempre nei romanzi al trauma fondamentale dell’esilio, la scrittrice costeggiava la sofferenza senza mai liberarsene, facendo assumere ai suoi personaggi la propria solitudine, lo spaesamento, la rabbia.

Dalla scrittura esplorativa e mai catartica di Ágota Kristóf, Tommasi passa a raccontare l’esperienza esistenziale e intellettuale completamente diversa dell’americana Flannery O’Connor, “fiera claudicante”, costretta all’invalidità da una grave malattia reumatica, capace di accettare la menomazione fisica e la sofferenza che ne derivava in nome di un cattolicesimo in cui l’irruzione violenta e inaspettata della grazia riesce a sconfiggere l’agire malefico del diavolo. In questo senso, la malattia si rivela come evento salvifico, che non sminuisce il valore della persona, ma accentuandone la fragilità aiuta a condividere con gli altri il limite insito in ogni condizione creaturale.

O’Connor fa dell’imperfezione e della propria dolorosa claudicanza un punto di forza, uno stimolo a partecipare al processo creativo di Dio attraverso la scrittura: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia      è un luogo, più istruttivo di un viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa perde una benedizione del Signore”.

L’ultimo capitolo del volume, dedicato ad Anna Maria Ortese, “pensatrice del negativo”, invita a riflettere sulla possibilità di trasformare il rancore per la sofferenza innocente (l’indigenza, le ingiustizie sociali, l’abbandono, il lutto) in un sentimento di solidarietà e compassione universale e inclusiva verso ogni aspetto della vita. L’angoscia provata per la morte di un fratello amato poteva essere lenita dalla Ortese solamente utilizzando “parole di luce”: “Queste espressività, e solo queste espressività, mi calmavano. Dicendo la pena, la pena se ne andava.  Perciò sentivo lo scrivere come una benedizione”. “L’autrice si fa carico di una pietas femminile, sorretta da una ragione visionaria, capace di penetrare al di là dello schermo del visibile per scorgere i segni di  una realtà altra, più vera”. La sua “teologia della perdita” apriva all’interno della negazione spiragli di consapevolezza responsabile, incoraggiando in lei l’amore partecipe per tutti gli esseri umani, gli animali e la natura sfregiata da interessi economici miopi e distruttivi. Solo ac cogliendo fino in fondo il patire comune a tutti, con umiltà, tenerezza, empatia, si può riuscire a stemperare il male patito, a renderlo più sopportabile,

Ciascuna delle autrici trattate in Le parole per scriverlo “percorre un itinerario personale, che attraversa il negativo elaborandolo e offrendogli uno sbocco nella scrittura”. Wanda Tommasi commenta i testi citati con puntuale competenza e sensibilità, proponendo in conclusione del volume una ricca bibliografia di riferimento.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 10 giugno 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PAVESE

CESARE PAVESE, LA SPIAGGIA – EINAUDI, TORINO 2017

Il romanzo breve La spiaggia, che Cesare Pavese scrisse nel 1941, fu pubblicato da Einaudi una prima volta nel ’56, e in seguito ristampato a più riprese, fino all’ultima edizione del 2017. Racconta del rapporto tra un professore trentenne e un ingegnere suo compagno di gioventù, Doro, che sposandosi con Clelia, aveva lasciato le colline piemontesi per trasferirsi a Genova. Chi scrive confessa sia il rancore per la mai perdonata fine dell’amicizia con Doro, sia la gelosia per la sua felicità coniugale. “Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po’ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: “Oh sì, è contento” e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile”.

Quando l’amico gli propone inaspettatamente una gita di alcuni giorni sulle colline che li aveva visti condividere da ragazzi lunghe passeggiate, conversazioni impegnate, litigi, donne, bevute e canzoni (“Avevamo allora l’età che si ascolta parlare l’amico come se parlassimo noi”), intuisce che forse nelle attuali esistenze di entrambi non tutto è sereno e invidiabile come sembra. E il ritrovato affiatamento tra loro lo riempie di emozione: “Ciò di cui sono certo è la gioia, l’improvvisa beatitudine, che provai tendendo la mano a toccare la spalla di Doro. Ne sentii il sussulto nel respiro, e improvvisamente gli volli bene perché dopo tanto tempo eravamo tornati insieme”.

Dopo aver raggiunto Doro e Clelia in vacanza sulla riviera ligure, il professore ha la conferma di una sofferta reciproca estraneità all’interno della coppia. Pur tentando qualche timida mediazione e incoraggiando la rivelazione di eventuali segreti, non riesce a comprendere i reali motivi del loro disaccordo. Inoltre, gli pesa l’atmosfera creatasi nel gruppo degli amici vacanzieri dei due sposi: “Provavo il mio solito piacere scontroso a starmene in disparte, sapendo che a pochi passi fuori dell’ombra il prossimo si agitava, rideva e ballava…”. Clelia, affascinante ed enigmatica, finge spensieratezza tra bagni di sole, futili pettegolezzi e flirt appena accennati, cercando vanamente di nascondere un’evidente malinconia e un timore sempre sospeso; Doro, silenzioso ed evasivo, si apparta dagli altri nuotando per ore, o dipingendo acquerelli marini. I due, circondati da comparse vanesie, volgari o smaniose, mantengono una loro signorile riservatezza, che affascina e insieme inquieta l’amico professore, il quale solo nell’ultimo capitolo arriva a comprendere, di fronte a un’imprevista e decisiva svolta nel rapporto tra marito e moglie, che i sentimenti altrui sono imperscrutabili, e vanno rispettati nella loro indefinibile segretezza.

Pavese offre il meglio della sua scrittura sia nella caratterizzazione psicologica dei tre protagonisti e degli altri personaggi, sia nella descrizione del paesaggio: “andai in cerca di una stanza, e la trovai in una viuzza appartata, con la finestra che dava su un grosso ulivo contorto, cresciuto inspiegabilmente proprio nel mezzo dell’acciottolato. Tante volte in seguito, rientrando solo, mi capitò di guardarlo sovrapensiero, che è forse la cosa che meglio rivedo di tutta l’estate. Visto dal basso, era nodoso e scarno; ma dalla stanza, quando m’affacciavo, era un sodo blocco argenteo di foglioline secche accartocciate”.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › La-spiaggia-Pavese 1 giugno 2021

 

RECENSIONI

OCAMPO

VICTORIA OCAMPO, 338171 T.E (Lawrence d’Arabia) – SETTECOLORI, MILANO 2021

“Ho già scritto un centinaio di pagine su quest’uomo che mi affascina. Vorrei farlo conoscere ai miei compatrioti e ci riuscirò! T.E.L. mi interessa profondamente perché arriva a conclusioni simili alle mie con un temperamento e per dei percorsi opposti ai miei”. Così scriveva nel 1942 Victoria Ocampo (Buenos Aires, 1890-Béccar,1979) all’intellettuale francese Pierre Drieu La Rochelle, uno dei molti protagonisti della cultura novecentesca mondiale con cui intratteneva rapporti di reciproca stima e amicizia. Il personaggio affascinante a cui si riferiva in quella lettera era Thomas Edward Lawrence, ufficiale ed esploratore inglese di cui stava completando la biografia, pubblicata nello stesso anno sia in Argentina sia in Francia e in Inghilterra. Con il titolo di 338171 T.E (Lawrence d’Arabia), il libro della Ocampo viene ora per la prima volta proposto ai lettori italiani dalla casa editrice Settecolori, nella traduzione di Fausto Savoldi.

Victoria Ocampo svolse un ruolo di primissimo piano nell’animare la vita culturale del suo paese come scrittrice-editrice-traduttrice-critica letteraria-conferenziera: nel 1931 fondò la rivista Sur, sulle cui pagine uscirono  contributi non solo di importanti scrittori argentini (Jorge Luis BorgesAdolfo Bioy CasaresErnesto Sábato e Julio Cortázar) ma anche di autori internazionali quali Ortega y Gasset, Virginia Woolf, André Malraux, Tagore. Nonostante le origini aristocratiche e un orientamento culturale conservatore ed elitario, fu un’accesa oppositrice del governo nazionalista e populista di Juan Perón fra il 1946 e il 1955, al punto da venire imprigionata nel 1953 per attività antigovernativa. Fondò uno dei più antichi movimenti femministi dell’Argentina, la Union de Mujeres (Unione delle donne), e fu la prima donna a entrare nell’Accademia Argentina delle Lettere. Membro dell’International PEN Club, ottenne una laurea honoris causa all’Università di Harvard.

L’oggetto della sua indagine, il colonnello T. E. Lawrence (1888-1935, numero di matricola nella RAF  338171) fu impegnato negli scavi archeologici sull’Eufrate dal 1910 al 1914, anni in cui poté familiarizzare con la lingua e le abitudini dei beduini, e allo scoppio della guerra mondiale venne inviato in Egitto, dove ispirò e guidò per tre anni la rivolta contro i Turchi insieme a Faisal, sceicco della Mecca, con cui penetrò in Palestina, spingendosi fino a Damasco e in Iraq. Sconfessato poi nelle sue operazioni militari sia dagli Arabi sia dal governo inglese, si arruolò come soldato semplice nel Tank Corps, auto-degradandosi, e si dedicò alla stesura delle sue memorie – di grande importanza per l’etnografia e la geografia del medio oriente –, pubblicate a Londra nel 1936 con il titolo I sette pilastri della saggezza. Fu proprio quest’opera, insieme al suo epistolario, a catturare l’interesse e l’ammirazione di Victoria Ocampo, che ne apprezzò il valore letterario e umano, restituendone con sensibilità e arguzia lo spessore documentario nella biografia di cui ci occupiamo.

Fabrizio Bagatti, profondo conoscitore della vita e della scrittura di Lawrence, nella colta ed empatica prefazione, commentando una frase dell’ufficiale inglese (“La storia di queste pagine non è quella del movimento arabo, ma di me in esso”) lo definisce “il più feroce indagatore del «sé» che la letteratura anglosassone abbia conosciuto in epoca moderna”: qualità che tanto lo rese interessante agli occhi della Ocampo, parimenti abituata a scandagliare la propria esistenza (si dedicò sei volumi di autobiografia…).

Altra sintonia tra i due intellettuali, quasi coetanei, era l’amore per lo spazio privo di confini: le pampas per la Ocampo, il deserto per Lawrence, “regioni popolate di assenze”. Ocampo si vantava di aver incontrato Lawrence senza averlo mai visto: “L’ho incontrato nei suoi libri, nella musica che preferiva. Ma soprattutto l’ho incontrato nella pianura, in quella pianura in cui cercava di volta in volta di perdersi e di ritrovarsi, e che divenne ben presto per lui il deserto”. La scrittrice argentina, nel presentare “l’uomo contraddittorio” che dichiarava “tutto quanto vediamo è illimitato come desideriamo che sia   la nostra anima”, riconosce nell’amore di lui per gli spazi liberi e vuoti la sua stessa ansia di infinito: amore per il mondo che si riflette in una esasperata auto-esplorazione dell’io. Nel libro, tra i capitoli che indagano vita e pensieri di Lawrence, quello dedicato all’ “io odioso” esibisce la duplice natura di Lawrence: inglese e arabo, soldato e studioso, celebratore e denigratore della propria persona.

Il fascino che la figura del colonnello esercitava sulla sua biografa era anche estetico, ammantato di romanticismo femminile: “Vestito di bianco come un arabo, con in testa una cordicella della Mecca di color oro e rosso e una daga dorata alla cin tura, T.E. Lawrence era imbevuto di deserto”. Tale fascino, riconosciuto da chiunque l’avesse incontrato, viene a più riprese sottolineato da Victoria: “Tutti concordano nel sottolineare in lui il culto della libertà, l’orrore per l’ingiustizia, il coraggio, la resistenza fisica, l’integrità morale; il genio critico, analitico e descrittivo in quanto scrittore; la rapidità decisionale e la lucidità nel combattimento come capo; il riserbo, l’ascetismo dei costumi, gli scrupoli di coscienza come persona… Angelo sterminatore alla testa di una banda di arabi lanciati contro i turchi e angelo sterminatore nei suoi stessi confronti… Io intendo soprattutto seguire in lui lo sviluppo di un conflitto morale il cui crescendo non fu interrotto che dalla morte…”. Non solo una venerazione entusiastica per l’uomo e il soldato, ma anche una ribadita stima per il prosatore, dallo “stile a tratti scespiriano”, lucido e drammatico insieme, mai retorico, mai falsamente autocelebrativo.

Gli incisivi e stringati ventun capitoli che compongono la biografia raccontano la vita avventurosa del protagonista secondo un preciso ordine cronologico, a partire dall’infanzia (già profeticamente segnata da forte ambizione, vigore fisico, curiosità intellettuale), attraverso gli studi superiori a Oxford, gli interessi archeologici, i primi passi nella carriera militare, la guerriglia contro i turchi condotta dal 1916 al 1918, la composizione del suo capolavoro di 660 pagine I sette pilastri della saggezza. Il titolo, tratto da una frase dei Proverbi della Bibbia, si riferisce alle fondamenta etiche su cui va costruita la propria dimora spirituale.

Se la narrazione ruota intorno alle atrocità e ai massacri della guerra, è il desiderio di restituire libertà e dignità al mondo arabo, e insieme di dare forma a un nuovo impero britannico, che nutre lo spirito della scrittura di Lawrence. Ma Victoria Ocampo non tralascia di sottolineare altre motivazioni più personali che lo avrebbero condotto all’impresa, mai espresse apertamente per pudore (“La paura di mostrare i miei sentimenti è il mio vero io”). L’autrice adombra, commentando la misteriosa dedica iniziale de I Sette pilastri, l’esistenza di un sentimento più intimo che lo avrebbe legato a un condottiero arabo morto prima di entrare trionfalmente a Damasco. Un’autodisciplina ferrea, la morigeratezza in ogni aspetto della vita materiale, il disprezzo per qualsiasi volgarità, assumevano in Lawrence i contorni di un ascetismo laico, basato sul proposito di mortificare il corpo, gli appetiti sessuali, le lusinghe artistiche, le ambizioni politiche e le gratificazioni economiche, per rispondere a un’ansia di elevazione spirituale.

In quest’uomo dagli occhi azzurrissimi e dal sorriso aperto, dalla bassa statura e dalla costituzione minuta, la ferrea volontà e la delicatezza dei sentimenti derivavano da una severità morale cui Victoria Ocampo volle rendere un commosso e ammirato omaggio, edificando un monumento alla persona, al combattente e allo scrittore, accentuandone una disposizione al sacrificio ai limiti del martirio. Per ironia della sorte, dopo aver sfidato torture, minacce, malattie, angustie fisiche e morali, 338171 T.E.L morì nel suo Dorset, in un banale incidente stradale, in sella non a un cammello ma alla sua motocicletta.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 31 maggio 2021

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

VILLATICO

INTERVISTA A DINO VILLATICO

Dino Villatico (Roma, 1941), dopo aver trascorso l’adolescenza in Argentina, si è laureato in lettere a Roma, perfezionando gli studi musicali da autodidatta. Si è dedicato all’insegnamento di italiano e latino nei licei, e di storia della musica nei conservatori. Per 45 anni è stato critico musicale del quotidiano “La Repubblica”. Oggi collabora a “Il Manifesto” e a diversi blog online. Ha da poco pubblicato presso l’editore Giuliano Ladolfi il volume di versi Ecografia di un congedo. Dal 2013 vive a Fiano Romano.

 

In quale ambiente familiare e culturale è nato e cresciuto, e in che misura tale ambiente è stato    determinante per le sue scelte di studio e di lavoro?

 Sono nato a Roma, giusto 80 anni fa, e mi sembra ieri che bambino assistevo al bombardamento dell’aeroporto di Centocelle.  Mi sembravano fuochi di artificio. Un contadino mi trasse dentro casa. Eravamo andati a procurarci cibo alla borsa nera. Poi da quella visione si sviluppò invece la paura del rumore degli aerei, che durò a lungo, quasi fino al mio primo viaggio in aereo, nel 1970, verso gli USA. La mia famiglia era una bella mescolanza regionale e internazionale: mio padre napoletano, matematico, mia madre ciociara, ma di padre veneziano e madre calabrese, bisavolo scozzese. Rami della famiglia a Verona, a Parma. Fin da bambino dunque l’orecchio abituato a diverse parlate. Quando andavamo a Verona a trovare una sorella di mio nonno, facevo da interprete per mio padre che non capiva i veronesi. E anche mia zia parlava veronese. A Parma feci l’orecchio con la parlata emiliana, più tardi sarebbe stata una guida per imparare il milanese e leggere Porta. Sia mio padre sia mia madre, che aveva studiato l’arpa, amavano la musica. Mia nonna suonava il pianoforte, e ho sentito da lei, il mio primo Chopin, il mio primo Beethoven. Ma lei amava soprattutto Mendelssohn. Un suo modo, durante il fascismo, per dimostrarsi contraria alle leggi razziali. Ma l’episodio più importante della mia infanzia e adolescenza fu il trasferimento in Argentina. Mio padre era stato nominato professore di geometria analitica all’Università di La Plata, per aprire una succursale a Bahía Blanca, oggi Universidad del Sur. L’impatto con la lingua spagnola fu decisivo, mi aprì la strada ad altre lingue. Già avevo l’esperienza dei dialetti: ne capivo e parlavo tre, napoletano, romano, veneziano. Ma capivo anche l’emiliano e il milanese. In Argentina studiai, a scuola, anche l’inglese. Il francese e il tedesco vennero all’università. Intanto, tornato in Italia, al liceo avevo appreso il greco e il latino, che non ho abbandonato più. Anzi mi esercitavo a scrivere esametri latini.

 

La sua esistenza è stata segnata da due grandi passioni: musica e letteratura. Quale delle due ha privilegiato professionalmente, e in che modo si sono influenzate a vicenda?

 A Bahía Blanca cominciai a studiare il pianoforte. Che proseguii in Italia, affiancandovi gli studi di composizione. A lungo restai incerto se dedicarmi alla musica o alla letteratura. Vinse la letteratura, e non terminai gli studi musicali. Anche se in privato, da autodidatta, li completai.

 

Quali sono stati (e sono tuttora) i nomi di riferimento che più hanno contribuito alla sua formazione intellettuale e umana?

 Che domanda complessa, alla quale è difficile rispondere. Intanto musica e letteratura hanno proseguito a interessarmi con sempre maggiore insistenza. I miei idoli musicali giovanili furono Chopin e Beethoven. A 18 anni ci fu l’impatto con Stockhausen, che mi sconvolse. Era il suo primo concerto romano, forse in Italia, salii sul palco, volevo conoscerlo. Dopo anni, in un nuovo incontro mi riconobbe: sei quel pazzo che è salito sul palcoscenico a chiedermi l’autografo. Restammo in contatto. Ma ancora più radicale fu l’influsso di Boulez, di Nono, di Berio. Mi onoravano della loro amicizia. In letteratura fu decisivo l’incontro con Vittorio Sereni. Gli scrissi dopo l’uscita de Gli strumenti umani, libro che mi sconvolse. Mi rispose. E ci vedevamo ogni tanto. Ma l’impatto più forte fu, per il romanzo, con Proust, per la poesia con l’ultimo Montale, quello di Satura, per intenderci, e con Dylan Thomas. Da giovane ebbi una vera e propria passione per Alfieri. Che m’introdusse al teatro. Shakespeare! Accadde anche qualcosa di strano: Dante l’ho sempre letto come un poeta di oggi. Il suo lavoro sulla lingua mi è sempre parso un modello. La mia tesi di laurea la scrissi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, anche musicista. E scoprii il madrigale. Ma anche l’Ariosto, e il Tasso, mai più abbandonati.

 

Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi? 

Tutt’e due le cose. Spesso l’idea nasce da un’esperienza, un’emozione. Ma anche una lettura, un episodio politico. Non scrivo tuttavia di getto. Ho un quaderno che porto sempre con me, butto giù gi schizzi, le idee, spesso nascono già formalizzate in versi. Un tempo ero ossessionato dal sonetto. Nelle altre lingue se ne scrivono ancora. Perché gli italiani sembrano rifiutarlo? Ho scritto per anni versi liberi. Poi mi è venuto naturale scrivere endecasillabi, non devo nemmeno contare, nascono da sé. Forse ciò si deve al fatto che scrivo in versi anche il mio teatro. Non solo monologhi, ma anche monologhi. Due li ho recitati io stesso, e con successo. Emozionante recitare l’addio di Petrarca a Venezia, la sua ultima notte nella città, proprio a Venezia, al Teatro La Fenice. Era uno spettacolo della Biennale Teatro. La musica la composero alcuni miei cari allievi del conservatorio, oggi miei cari amici. Una commedia, anch’essa in versi, fu recitata al Teatro Belli, a Trastevere: Con il passare degli anni. La regia era di Marco Maltauro. Piacque. Il teatro era pieno tutte le sere.

 

Si considera debitore verso qualche poeta in particolare? La sua approfondita conoscenza di diverse lingue e culture, antiche e moderne, come ha arricchito la sua sensibilità verso la pratica di scrittura?

 Sono molti i poeti dei quali mi sento debitore. Antichi e moderni. Per esempio, Lucrezio mi ha insegnato che si può fare poesia anche con il pensiero, che la poesia non è solo, romanticamente, effusione di sentimenti. Orazio non mi piaceva da giovane, oggi lo adoro, per la sua abilità metrica e per l’uso disinvolto della sintassi. Ammiro molto la capacità costruttiva di poeta. Non a caso vado matto, come Dante, per Arnaut Daniel o per il catalano Ausiàs March e per lo stesso Dante. Ma ero ancora studente e mi colpì una poesia di Dylan Thomas composta di solo due lunghissime strofe di circa 30 versi ciascuna, in cui le rime procedono a specchio. La seconda strofa ripropone a specchio tutte le rime della prima. E sto parlando di un grandissimo poeta. Questo lavoro “artigianale” della scrittura nelle altre lingue è vivissimo. Borges scrive sonetti.  Clancier scrive bellissime chansons.

Che giudizio si sente di dare, oggi, del panorama letterario e musicale italiano contemporaneo? Quali sono le personalità che considera più rilevanti, e attraverso quali mezzi ritiene si possa incrementare l’interesse per questi due ambiti artistici?

Difficile rispondere. In linea generale la letteratura e la musica italiana di oggi mi deludono. Come mi deludono le canzoni, se paragonate a ciò che si ascolta fuori d’Italia. Per esempio quest’innografia di Battiato mi irrita. È un musicista mediocre e un poeta inesistente. Se ne parla e se ne scrive come fosse Bob Dylan, lui sì grandissimo. Così mi delude anche il cinema che si fa oggi. Ma ciò detto, esistono anche in Italia voci nuove, interessanti. Alcune pur troppo scomparse, come Ferruccio Benzoni. Sotto silenzio per decenni, ora lo si riscopre. Ci sono giovani narratori bravissimi, che non si lasciano appiattire dagli editor. Faccio due nomi a caso: Luciano Funetta e Massimiliano Felli. Ma in genere la letteratura è governata dagli editor, che tendono a banalizzare tutto ciò che leggono, con il risultato che si pubblicano romanzi tutti uguali, tutti scritti con la stessa prosa di una sciatteria che grida vendetta. Quanto alla poesia, ci si illude, in genere, che sciorinando pseudoversi, che sembrano versi solo perché si va a capo, versi banali e sciatti, si sfugga alla trappola delle neoavanguardie. Il verso libero non significa liberarsi di un ritmo. Del resto, nemmeno la prosa è senza ritmo. I veri poeti, come sempre, sono pochissimi. E ce ne sono, comunque.

 

Di cosa si sta occupando attualmente, e quali lavori inediti progetta di pubblicare nel prossimo futuro?

 Cominciamo dalla fine. Ho un romanzo, finito 20 anni fa. Il suo difetto è che il protagonista sia Aristotele. Gli editori mi rispondono sempre allo stesso modo: avvincente, scritto bene, ma troppo colto, non troverà lettori. In Francia, per Gallimard (Gallimard! Come dire Mondadori, Einaudi), Christoph Ono-dit Biot ha pubblicato un romanzo, affascinante, il cui protagonista è un filologo classico, e cita interi passi di Omero in greco. Non credo che il lettore medio francese sia più colto del lettore medio italiano (o sì?), ma l’editore gli dà fiducia. Il romanzo è tra i primi in classifica. Perché da noi non è possibile? Poi c’è una serie di racconti, due già pubblicati, ma mi piacerebbe raccoglierli in volumi. Mi si dice che il racconto non va. Poi ci sono le poesie, tante. Sto lavorando a un nuovo romanzo. Di argomento contemporaneo. Ma preferisco tacerne. Avevo in progetto anche di scrivere il processo che l’Inquisizione intentò al figlio di Monteverdi, per sua fortuna finito bene, ma che costò al padre grande angoscia, due decenni prima era stato bruciato Giordano Bruno, e non erano passati che pochi anni dal processo a Galilei. Leggendo quelle carte si è colti dallo sconforto. L’anima nera, buia, sotterranea degli italiani: delatori, bugiardi, persecutori, sempre pronti a perseguire qualcuno. Il fascismo non si è inventato niente. A denunciare il figlio di Monteverdi all’Inquisizione fu un suo compagno di studi all’Università di Bologna, che aveva scambiato libri di anatomia – allora proibiti in Italia – per libri di negromanzia. Sembra qualcosa successo ieri. Ma per il momento mi sono arenato alle pagine di disperazione di un padre. Che forse è la nostra disperazione per un mondo che sembra accanirsi proprio su chi è incolpevole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 26 maggio 2021