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RECENSIONI

MAJORINO

MILANO E UN POETA: GIANCARLO MAJORINO

Milano ha molto amato un suo poeta, Giancarlo Majorino, che l’ha molto amata, vissuta, raccontata. Majorino, nato nel 1928, è morto qualche giorno fa, a 93 anni, dopo un’esistenza vivace, impegnata, ricca di interessi e di esperienze. Laureato in Giurisprudenza, aveva svolto diverse professioni: bancario, rappresentante, bookmaker, professore di liceo, docente di Estetica alla Nuova accademia di belle arti, firmando una ventina di libri di poesia, testi teatrali, pamphlet politici, e fondando riviste, curando collane editoriali.

Dal primo volume di versi (La capitale del Nord, 1959) all’ultimo (La gioia di vivere, 2018), intramezzati da un poema la cui elaborazione era durata decenni (Viaggio nella presenza del tempo, 2008), la sua opera è stata coerentemente ispirata a una strenua ricerca sul linguaggio – interprete di una sperimentazione formale lontana dalle convenzioni e dalle mode – e a un’esplorazione attenta e critica dell’attualità, insofferente di compromessi politici, polemico con le maggioranze silenziose, solidale con gli ultimi.

Il Sindaco Beppe Sala lo ha così ricordato: “Poeta, cantore della Milano industriale, delle sue contraddizioni e delle lotte sociali del Novecento. Fondatore e presidente della Casa della Poesia di Milano e Ambrogino d’Oro nel 2007, la sua arte è storia della nostra città”.

Avevo conosciuto Giancarlo all’ultimo anno di università, quando generosamente e con lo spirito di maestro che sempre lo animava, aveva ideato una serie di incontri con alcuni studenti interessati alla poesia, che teneva nella saletta di un bar davanti alla Statale: ci proponeva testi di lettura, incoraggiandoci a scrivere e a sottoporgli i nostri tentativi di produzione di versi. In quelle occasioni, commentava con indulgente benevolenza anche le mie prime recensioni su “Il quotidiano dei lavoratori”. L’ho rivisto a Verona alcuni anni fa, insieme alla sua dolce compagna di sempre, Enrica, e mi aveva raccontato con ironia del loro matrimonio avvenuto dopo quasi cinquant’anni di convivenza, e del suo tardivo incontro con il web. Vorrei allora ricordare qui il poeta, attraverso alcuni versi tratti da tre sue composizioni, scandite nel tempo, rintracciabili tutte su internet.

La prima, da La capitale del Nord (Schwarz, 1959), è dedicata appunto a Milano, e alla sua trasformazione umana e industriale negli anni del boom economico:

O mia città vedo le porte gli archi / che un tempo limitavano il tuo cauto / intrecciarsi di case strade parchi / oggi spezzarti come una frontiera / o come una catena di pontili / congiungere le tue zone più vili / rivali o consociate in busta chiusa / dan vita o morte in crediti d’usura / legate col cordone ombelicale / del capitale e in loro trasformate / e quelle in queste ritmica simbiosi / le sedi razionali dell’industria / con l’asino alla mola e i nuovi impianti / la rapida salita la discesa / più rapida la sedia dei trent’anni / intorno curve schiene di negozi / la Galleria col tronco fatto a croce / in fondo oltre la Scala la gran piazza / Cavour congestionata la questura / la pietra dell’Angelicum trapassi / violenti e luminosi in via Manzoni / il tufo è ancora base ai grattacieli?”.

La seconda fa parte della raccolta Gli alleati viaggiatori (Mondadori 2001), ed è la visione immaginosa e disperante delle tragiche migrazioni contemporanee, assimilate a quelle che nei millenni hanno costretto un’impaurita e affamata “acqua umana e animale” a cercare scampo dagli agguati del male:

andavamo tutti come fosse un’emigrazione / chi per acqua chi per terra, allarmati / notammo che un leone ci oltrepassava / ma era come quando nella tundra incendiata / fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi / cos’era cosa poteva esser stato nulla ricordo / non fatti precisi non odor di bruciato migravamo / in ratti gusci motorizzati e caschi a piedi scalzi / da chi sa che mossi transitavamo nel piano sembrante discesa / così potevamo saremmo riusciti a scampare a arrivare ansando entro / quando? in tempo e non contavano orario e luogo transitare / occorreva, altro corpo! snello basso e tozzo su quattro sciolte zampe / quasi una lotta di molte zampe gambe / una testa bianca tra colli di giraffe / sandali orme zoccoli nella sabbia / con famiglia a fianco bimbo su bici / gara di motocicli chiatte e scafi accanto / una universale processione forte respirante / sbandata ma diretta senza macchine da presa / o per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa / eravamo dentro pure per noi scorreva noi fissi davanti / cosa preoccupava il rinoceronte con intorno il vuoto? / la mandria pelosa che panicata quasi s’ingoiava? / la coppia remante arti e respiro sotto forte ipnosi? / il caduto rischiava tutto ma / capitava e dopo un grido d’aiuto / quasi tranquillizzato si chetava / trafitto schiacciato / trafitto schiacciato, per le mosche / i fastidiosi insetti non v’era tempo / di notarli, né i canterini uccelli / dardeggianti vi saranno stati / non era il momento di ricercarli non era il momento / andava come l’acqua un’acqua umana / e animale a non si sa che pozzo tentando / abbandonando non si sa che male”.

Infine la terza, compresa in La gioia di vivere (Mondadori, 2018), ancora esprime un netto e severo giudizio politico e morale sulle differenze di classe, sui soprusi patiti da chi chiede aiuto e non lo riceve:

davvero bell chiaro troppo / di non so quanto / e soltanto chi sta sotto / potrà comprendere rivivere / sia Gesù sia Marx l’han detto // e poesie non notizie (dopo, dopo) / nonché ’l cervello di uno dei ceti medi / come qui può cominciare a scrivere / chi sta sopra non può dirigere niente / chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile // ma poi quando un uomo grida aiuto / un uomo una donna una vecchia un bimbo / è come se il mondo si fermasse / case mute zitte finestre chiuse / tutto ciò parla o urla o tace sale s’agita”.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 22 maggio 2021

 

RECENSIONI

ARPINO

GIOVANNI ARPINO, LA SUORA GIOVANE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2017

In un romanzo del 1959, La suora giovane, Montale intravide “tutta l’aria di un capolavoro”. Quando mia figlia, scoprendolo sulla scrivania, mi ha chiesto “Arpino, chi era costui?”, mi sono sentita ancora più vecchia di quello che sono. Sì, perché Giovanni Arpino (Pola 1927-Torino 1987) è stato un importante narratore, poeta, critico letterario, giornalista, premiato con il Campiello, il Super Campiello, il Premio Strega, di cui avevo letto con entusiasmo al liceo Il buio e il miele (1969), da cui Dino Risi aveva tratto il film Profumo di donna con Vittorio Gassman, divenuto poi celebre in un remake con Al Pacino. Dapprima Dalai, quindi Minimum Fax e infine Ponte alle Grazie hanno meritoriamente ripreso a pubblicare le opere di Arpino, uscite negli anni ’60 presso i più importanti editori italiani.

La suora giovane è uno smilzo e intenso libretto che racconta il rapporto non comune e intrigante tra un ragioniere quarantenne, Antonio Mathis, e una giovane novizia, Serena, entrambi in cerca di un ancoraggio esistenziale e di reciproco conforto sullo sfondo di una grigia Torino invernale, nell’arco del mese di dicembre del 1950. “Non ho coraggio”. Con questa frase lapidaria inizia ad apertura di pagina il monologo del protagonista, che successivamente ribadisce la scarsa considerazione di sé con altre due ammissioni: “Mi vergogno”, e “Mi sento ridicolo”. Narrando con pudore dell’abitudine di rimanere in piedi e in timoroso silenzio accanto a una giovane novizia, ogni sera alle sette sulla pensilina del tram 21, si interroga se sia il caso di approfondire la conoscenza con la ragazza, in cui nota il suo stesso sospeso e cauto interesse. Fidanzato da anni con una maestra elementare verso cui non nutre più alcun trasporto, Antonio trascina una vita priva di entusiasmi tra l’ufficio, il bilocale in cui vive, e qualche annoiata distrazione tra cinema e trattorie. L’incontro serale con la suorina, minuta e fragile, diventa improvvisamente il fulcro dei suoi pensieri e delle sue giornate, riempendogli la mente di fantasie, di interrogativi, di scrupoli morali.

Quando finalmente (dopo averla pedinata fino al convento in cui vive e in una chiesa in cui si rifugia a pregare) riesce a parlarle, intuisce in lei lo stesso trepido trasporto che anima le sue emozioni, e con gioiosa sorpresa accoglie quindi l’insperato invito a raggiungerla ogni notte dove lavora. Infermiera in un elegante palazzo del centro, si occupa infatti dell’assistenza a un anziano avvocato agonizzante: Antonio dovrà raggiungerla lì, sul pianerottolo dell’appartamento, e lei gli parlerà attraverso la porta appena socchiusa. Le conversazioni tra i due diventano in una settimana sempre più coinvolgenti e appassionate: Serena confida al ragioniere, con innocente scaltrezza, non solo la storia della sua imposta vocazione, il fastidio per le regole dell’ordine monastico, la vergogna per le origini della famiglia contadina, ma soprattutto la speranza e il desiderio che da mesi ripone nella persona di Antonio, vissuto come unica possibile liberazione dal proprio stato di soggiogamento. Il quarantenne si sente a sua volta investito di un ruolo di gratificante responsabilità, e accoglie con riconoscente sollievo questa inattesa svolta nella sua piatta esistenza. Rompe quindi tutti i rapporti sentimentali e di amicizia intrattenuti in precedenza, rifiuta stomacato la volgare compagnia della fidanzata e di alcuni amici in una tragica vigilia di Natale trascorsa sugli argini del Po, ma quando si presenta il giorno dopo al solito appuntamento con la novizia non la trova più.

Disperato, la cerca ovunque, spingendosi fino al vecchio casale agricolo di Mondovì dove vivono i genitori di lei: da loro viene a sapere dell’improvviso trasferimento volontario della ragazza a Ferrara, delusa dalle esitazioni di lui riguardo al loro futuro insieme. Le ultime pagine de La suora giovane si chiudono in maniera enigmatica, lasciando in sospeso la decisione di Antonio, se finalmente accettare la sfida coraggiosa propostagli dal destino, o invece ritornare alla sua abulica e irrisolta esistenza di prima.

Nel suo terzo romanzo, un Giovanni Arpino poco più che trentenne esibiva, con una prosa lucida e secca, un’assoluta abilità introspettiva nella caratterizzazione psicologica dei due protagonisti, una sapiente consapevolezza formale nella costruzione dei dialoghi e grande sensibilità nel ricostruire l’ambiente urbano e monotono di una gelida Torino agli albori del suo sviluppo industriale.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 20 maggio 2021

RECENSIONI

HAN

BYUNG-CHUL HAN, LA SOCIETÀ SENZA DOLORE, EINAUDI – TORINO 2021

Byung-Chul Han (Seoul, 1959), pensatore coreano-tedesco tra i più letti al mondo, sapientemente critico nei riguardi del neoliberalismo economico e delle derive ideologiche e sociali contemporanee, in Italia ha pubblicato con l’editore Nottetempo numerosi saggi, stimolanti e di facile lettura.

Einaudi propone oggi nella collana Stile Libero una sua concisa riflessione sulle modalità con cui le culture mondiali affrontano il male, in pratica rimuovendolo da ogni orizzonte etico e comportamentale. Con il sottotitolo “Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite”, La società senza dolore indaga come elemento caratterizzante delle società moderne l’algofobia, la paura di soffrire, per cui si tende a evitare qualsiasi circostanza conflittuale che preveda una partecipazione angosciante ad avvenimenti personali, collettivi o politici.

Sette capitoli del libro sono dedicati a una vera e propria ermeneutica del dolore , di cui si enuclea l’insensatezza, l’astuzia, la verità, la poetica, la dialettica e l’ontologia. Byung-Chul Han  ne cerca tracce definitorie nella letteratura e nella filosofia universale: Valéry,  Freud, Santa Teresa d’Avila, Andersen, Benjamin, Jünger, Weizsäcker, Butor, Celan, Heidegger, Nietzsche, Pearce.

Nel mondo attuale il dolore sembra aver perso il significato di catarsi, di conoscenza interiore, di preghiera, di riscatto dalla colpa, di relazione con Dio, di possibilità di racconto, di vincolo o desiderio, di legame solidale con il prossimo, di disciplina, di sensibilità artistica, di contatto con la realtà: è diventato semplicemente inutile, privo di giustificazione, intollerabile, fallimentare. “Non disponiamo piú di nessi di senso, narrazioni, istanze superiori o scopi in grado di abbracciare il dolore e renderlo sopportabile… Viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo”, imponendo una sorta di dittatura del benessere, della felicità e dell’ottimismo permanente, da perseguire in ogni campo. Il dolore, interpretato come segno di debolezza e passività, va nascosto o eliminato in nome dell’ottimizzazione delle prestazioni, perché non compatibile con le performance pretese dalla società.

Il dover piacere diventa un imperativo, il like assurge a emblema dell’approvazione generale. In tale nuova “cultura della compiacenza”, anche l’arte e la politica sono obbligate a conformarsi al gusto generale che ostracizza e condanna qualunque dissidenza o dissonanza, incoraggiando il conformismo e l’adeguamento alle esigenze dell’economia e del mercato. Invece proprio l’espressione artistica, che Adorno definiva “estraneità al mondo” dovrebbe offrire una narrazione antagonista rispetto all’ordine vigente: dovrebbe inquietare, disturbare, dare voce al tormento, e non servire da anestetizzante o edulcorante dei contrasti. Oggi, invece, perpetua l’Uguale, si è disciplinizzata. Come, appunto, il dolore, divenuto felpato e afono, richiuso in luoghi deputati quali carceri, ospedali, istituti che canalizzano il sapere e il lavoro produttivo. Nell’attuale regime neoliberista, il potere ha perso la sua forma disciplinare repressiva, assumendo in maniera più subdola e sottile l’abito del convincimento seduttivo: il cittadino subordinato viene convinto a realizzarsi positivamente e individualmente, in una pseudo-liberazione del proprio io,  e a occuparsi solo delle proprie esigenze fisiche e psicologiche al fine di raggiungere la felicità personale, senza interrogarsi su questioni di rilievo sociale. La sofferenza è privatizzata e psicologizzata, per impedire il diffondersi del malcontento e della rabbia politica.

Si prescrivono in maniera massiccia analgesici per coprire le responsabilità sociali che conducono al dolore, riducendolo a un apatico torpore, spoliticizzandolo e impedendogli di rendersi arma critica. L’anestesia indotta attraverso la farmacologia o con la strumentalizzazione dei media (i social,  i videogiochi, la televisione) mette al riparo la società dalla contestazione: “Cosí, invece della rivoluzione, c’è la depressione”. Gli individui, egocentrici, infiacchiti e narcotizzati, imparano ad aspirare solamente alla propria confortevole sopravvivenza, che assume un rilievo assoluto, superiore alla stessa libertà personale.

La pandemia che stiamo vivendo ha reso evidente questo paradosso: si ha paura del dolore perché si ha paura della morte, fino ad ora rimossa e adesso diventata improvvisamente e minacciosamente visibile, concreta. L’unico valore riconosciuto e accettato, anche perché politicamente inoffensivo, è l’allungamento biologico della vita, aldilà di qualsiasi dimensione metafisica o puramente etica.

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 13 maggio 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

ARIOSTO

LUDOVICO ARIOSTO, SATIRE – EINAUDI, TORINO 2021

Era un Ludovico Ariosto maturo, quello che compose le Satire tra il 1517 e il 1525, ritoccandole fino al 1530. Aveva già scritto la prima versione dell’Orlando furioso, due commedie in prosa (La Cassaria, I Suppositi), e rivestiva l’incarico di sovrintendente ufficiale agli spettacoli di corte degli Estensi. Un Ariosto maturo e famoso, quindi, ma non sereno e pacificato nei suoi rapporti con il mondo, con i Signori di cui era alle dipendenze, con la diplomazia e con il Papato. Nelle Satire – profondamente innovatrici nella forma e nei contenuti rispetto alla sua precedente produzione letteraria – venne a esprimere dunque il suo disappunto, l’amarezza, l’ironia verso quella società cortigiana da cui si sentiva condizionato, pressato e sfruttato, economicamente e ideologicamente. Con toni tuttavia più bonari che bellicosi, e con una esplicita finalità etica.

L’editore Einaudi, che le aveva pubblicate nel 1987, le ripropone ora in una nuova edizione aggiornata, sempre con la stessa introduzione, le note, il commento e la bibliografia di Cesare Segre, che le aveva definite “opera con uno schema energicamente biografico, e un investimento morale altrettanto forte”.

Si tratta di sette componimenti epistolari in terzine dantesche, di impianto dialogico e teatrale, indirizzate a destinatari noti dell’ambiente familiare o amicale del poeta (fratelli, cugini, esponenti della nobiltà ferrarese, più il letterato Pietro Bembo), di cui non conosciamo le eventuali risposte o reazioni, né sappiamo se siano state effettivamente inviate, lette o diffuse, se non come manoscritti in circoli ristretti o tra privati. Pubblicate clandestinamente solo nel 1534, e quindi in via ufficiale nel 1550, sembra probabile che Ariosto abbia preferito non renderle pubbliche finché era in vita, temendo di inimicarsi gli ambienti ecclesiastici e principeschi che prendeva di mira, facendo apertamente nomi e cognomi di corrotti, arrivisti, traditori. In ogni satira l’autore si rivolge a diversi “tu” cui attribuisce commenti e obiezioni: in primo luogo interroga sé stesso, con riflessioni e analisi anche severe; quindi si confronta con l’effettivo destinatario della missiva e con altri personaggi a lui vicini, talvolta riportando le obiezioni di un contraddittorio anonimo e generico, da cui si trova a sua volta messo in accusa.

Il risentimento espresso nelle Satire è soprattutto verso quei potenti che, pretendendo da lui servigi in missioni diplomatiche lontane dalla città e dalla donna amata, gli impedivano di attendere alla sua opera come avrebbe voluto, coinvolgendolo in situazioni e in pratiche detestate e biasimevoli. Pur descrivendosi nei propri difetti e cedimenti, Ariosto non può fare a meno di confrontare la sua statura morale con quella dei personaggi che è costretto a frequentare, prede di orgoglio e ambizione smisurati, pronti a qualsiasi iniquità e scelleratezza pur di accaparrarsi benefici economici e di potere. Si dichiara quindi pronto alla rinuncia di ogni privilegio, pur di poter mantenere la libertà e la tranquillità: “Più tosto che arricchir, voglio quïete”, “Chi brama onor di sprone o di capello, / serva re, duca, cardinale o papa; / io no, che poco curo questo e quello”.

Ogni componimento alterna brevi episodi fiabeschi o apologhi alla narrazione di vicende biografiche e all’esposizione pacata di meditazioni personali, con lo scopo di rinforzare metaforicamente i messaggi più manifestamente polemici. Nella piacevolezza delle descrizioni naturali, nell’elogio della vita semplice e nel rifiuto di qualsiasi enfasi o pesantezza boriosa, le Satire rivelano il debito che Ludovico Ariosto nutriva verso la poesia di Orazio, sia nella scelta della forma epistolare, sia nella franchezza e linearità del tono colloquiale.

© Riproduzione riservata                            SoloLibri.net › Satire-Ariosto         11 maggio 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

GLÜCK

LOUISE GLÜCK, ARARAT – IL SAGGIATORE, MILANO 2021

L’Ararat è il monte su cui, secondo il racconto biblico, si fermò l’arca di Noè scampata al diluvio: in lingua turca il suo nome significa “montagna del dolore” Ararat è anche il titolo di una raccolta di poesie pubblicata da Louise Glück nel 1990, e oggi riproposta da Il Saggiatore con testo a fronte, nella limpida traduzione di Bianca Tarozzi.

Louise Glück (New York, 1943), premiata con il Nobel lo scorso anno, si inserisce con la sua produzione in versi nella scia della poesia confessionale di Robert Lowell, Sylvia Plath e Anne Sexton, rielaborando con un linguaggio semplice e scavato, e in toni meditati e malinconici, motivi ricavati dalla sua esperienza personale e familiare: figlia di emigrati ebrei ungheresi, due mariti e due divorzi, un figlio, un tracollo economico, lutti familiari, l’anoressia e anni di sedute psicanalitiche, l’insegnamento accademico a Yale, i numerosi premi letterari. I temi affrontati nella sua scrittura poetica non sono, comunque, solo autobiografici: la sua attenzione è rivolta sia alla mitologia classica, sia all’ambiente naturale, sia soprattutto ai fenomeni traumatici che segnano in modo indelebile l’esistenza delle persone. L’incubo della fine (“ho scritto della morte da quando so scrivere”, ha ripetuto recentemente in un’intervista), la perdita degli affetti e dei ricordi, il fallimento nelle relazioni interpersonali e lavorative, il desiderio represso e negato, sono gli argomenti che affronta nella sua scrittura con asciutta ma tagliente penetrazione.

In Ararat (nome di un approdo nella salvezza terrena, ma anche nome del cimitero in cui è sepolta la sorella di Louise Glück, a Long Island), si parla del lutto, di separazioni definitive e delle strategie messe in atto per sopravvivere all’angoscia. Secondo il critico Dwight Garner si tratta del “libro di poesia americana più brutale e più colmo di dolore pubblicato negli ultimi anni”. Raccoglie una trentina di poesie, che si confrontano con l’eterno tema del rapporto tra eros e thanatos, già dal celebre esergo platonico, che indica l’amore come desiderio e ricerca dell’intero. Ansia di una completezza affettiva che evidentemente alla poeta è mancata, cresciuta in un circolo familiare chiuso e compassato, con un padre debole e assente, e una madre troppo rigida: “Nessuno potrebbe scrivere un romanzo su questa famiglia: / troppi personaggi che si assomigliano. Inoltre, sono tutte donne; / c’era un solo eroe. // Ora l’eroe è morto. Come echi, le donne durano più a lungo; / esser tanto forti non può far loro del bene” (Un romanzo).

La poesia di apertura, Parodos, è emblematica a questo proposito: “Molto tempo fa, sono stata ferita. / Imparai / a esistere, come reazione, / fuori dal contatto / con il mondo: vi dirò / cosa volevo essere – / un congegno fatto per ascoltare. / Non inerte: immobile. / Un pezzo di legno. Una pietra. // Perché dovrei stancarmi a discutere, replicare? //… Ero nata con una vocazione: / testimoniare / i grandi misteri. / Ora che ho visto / e nascita e morte, so / che per la buia natura esse / sono prove, non / misteri –”.

L’accettazione della materialità dell’esistenza è quindi precoce, in Louise, scelta e voluta per evitare la sofferenza: “L’anima è come tutta la materia: / perché dovrebbe restarsene intatta, fedele a una sola forma, / quando potrebbe essere libera?” (Ninnananna). Ma il dolore incombe sempre e comunque, impietoso, con il susseguirsi di perdite e rinunce.

Vagare nel cimitero di Ararat, accostarsi alle tombe di persone conosciute, amate o detestate, esaminare la disposizione dei fiori, la cura o la trasandatezza delle sepolture, l’atteggiamento dei parenti, trasforma chi scrive in un osservatore implacabile delle emozioni proprie e altrui: “Sai cosa ti dico? Ogni giorno / c’è chi muore. Ed è soltanto l’inizio. / Ogni giorno, alle pompe funebri, nascono nuove vedove, / nuovi orfani. Se ne stanno seduti con le mani in grembo, / tentando di decidere come sarà la loro nuova vita. // Poi vanno al cimitero, alcuni / per la prima volta. Si vergognano di piangere, / o talvolta di non piangere. Qualcuno li affianca, / dice loro cosa devono fare, il che potrebbe essere / dire alcune parole, oppure / buttare della terra nella fossa aperta. // E dopo, se ne tornano tutti a casa, / che improvvisamente è piena di visitatori. / La vedova è seduta sul divano, molto solenne, / così le persone in fila le si avvicinano, / chi le prende la mano, chi l’abbraccia. / Lei trova una parola da dire a ciascuno, / li ringrazia, li ringrazia per essere venuti. // In cuor suo vorrebbe che andassero via. / Vuole tornare al cimitero, / nella stanza dell’ammalato, all’ospedale. Sa / che non è possibile. Ma è la sua sola speranza, / il desiderio di tornare indietro nel tempo. E soltanto di poco, / non fino al matrimonio, non fino al primo bacio” (Una fantasia).

L’attenzione alle reazioni di chi sopravvive al lutto (orfani, vedove) è controllata e formale, rispecchia l’atteggiamento di colei che narra in prima persona, e si è trovata a vivere più volte uguali situazioni cerimoniali. Il dolore di un individuo non trova corrispondenza nell’indifferenza degli altri: “È un anno esatto che mio padre è morto. / L’anno scorso era caldissimo. Al funerale, la gente parlava del tempo. / Com’era caldo per essere settembre. Un caldo fuori stagione. // Quest’anno, è freddo. // … Davanti alla casa, la figlia di mia sorella va in bici / come faceva l’anno scorso, // avanti e indietro sul marciapiede. Quel che vuole è / far passare il tempo” (Labour Day).

Nessun lirismo, nessuna retorica elegiaca: stilisticamente queste poesie si proibiscono anche l’addolcimento delle rime, preferendo scansioni ripetute, punteggiatura spaziante, pause ed enjambement, precisione lessicale.

In questa raccolta, differentemente da altre della Glück, non si trovano richiami alla mitologia e alla letteratura classica: fondamentale e assoluto è invece lo sguardo introspettivo tendente a universalizzare l’esperienza personale, in modo da renderla condivisibile con il lettore. Anche il paesaggio appare spersonalizzato e simbolico, puramente di sfondo alla caratterizzazione dei personaggi, che risultano sapientemente e crudamente scolpiti nell’accettazione del loro immodificabile destino, incapaci di comunicare gioia e leggerezza: “Senza rapporto con la terra”.

Nel severo resoconto di questo romanzo familiare, la secchezza emotiva ereditata da adolescente si perpetua anche negli atteggiamenti dell’scrittrice adulta (“Devo imparare / a perdonare mia madre, ora che non riesco / a risparmiare mio figlio”, “Mio figlio e io, siamo i più grandi / esperti viventi in fatto di silenzio”), confessati con analitica spietatezza poetica.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 8 maggio 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BALDINI

RAFFAELLO BALDINI, AD NÒTA – EINAUDI, TORINO 2021

Nata a Verona da genitori milanesi, sono cresciuta senza dialetto, sentendomi spesso defraudata di qualcosa, nella comunicazione quotidiana con l’esterno, in un Veneto in cui le parlate locali sono ancora veicolo privilegiato di relazione interpersonale. Ma il dialetto non ha solo una funzione di collante sociale e di recupero affettivo della tradizione: conserva infatti una superiorità espressiva e un’originalità di contenuti in grado di opporsi all’omologazione uniformante e inautentica del linguaggio ufficiale. Letterariamente gode in Italia di una tradizione antica e illustre soprattutto per quello che riguarda la poesia. Dagli autori più classicamente autorevoli (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa, Di Giacomo, Bovio, Totò, Barbarani, Tessa, Noventa, Giotti, Viviani), per arrivare ai moltissimi attivi dal dopoguerra a oggi (Loi, Giotti, Pasolini, Bertolani, Buttitta, Guerra, Pierro, Marin, Pedretti, Bandini, Zanzotto, De Vita, Calzavara, Giacomini, Franzin, Cecchinel, Sovente, Scataglini…), sono tante e diversificate le abilità espressive lontane dai binari stereotipati della formalità linguistica,  capaci di recuperare abitudini e atmosfere che rischiano altrimenti di illanguidirsi o addirittura di dileguarsi nell’indifferenza culturale e nel livellamento sociale.

Negli ultimi trent’anni, la poesia in dialetto ha conosciuto nel nostro paese una rinascita e uno specifico interesse anche da parte della critica più impegnata, che in passato l’accusava di utilizzare temi retorici o faceti, e di prediligere la descrizione di personaggi ridotti perlopiù a macchiette. Con l’affrontare argomenti etici e di costume, di responsabilità civile e di introspezione personale, è riuscita a riscattarsi dalla nomea di passatismo nostalgico e di folklorismo sentimentale.

Grande poeta, tra quelli che hanno scelto di scrivere nella lingua del loro paese d’origine, è stato senz’altro Raffaello Baldini, nato a Santarcangelo di Romagna nel 1924 e morto a Milano nel 2005. La sua produzione letteraria è iniziata tardivamente, verso i cinquant’anni, quando a Milano lavorava come redattore al settimanale Panorama. In un’intervista dell’ottobre 2000, così spiegava la sua scelta di comporre versi in romagnolo: “Dalle mie parti ci sono ancora cose, paesaggi, persone, storie, che succedono in dialetto. Raccontarle in italiano vorrebbe dire tradurle”, cioè perdere spontaneità, perché in termini militareschi “l’italiano è sull’attenti e il dialetto nella posizione di riposo, in italiano sei in servizio, in dialetto sei in libera uscita”.

Autore di diverse raccolte di poesia e di alcuni testi per il palcoscenico, Baldini ai è imposto all’attenzione nazionale con la pubblicazione da Einaudi di La nàiva-Furistír-Ciacri nel 2000 e di Intercity nel 2003. Oggi, per lo stesso editore, esce Ad nòta, con la prefazione che Pier Vincenzo Mengaldo scrisse nel 1995, quando il volume uscì per la prima volta da Mondadori.

Poeta dialettale “per necessità”, come lo definì appunto Mengaldo, l’uso che Baldini fa della sua lingua ha un fondamento più emotivo che letterario, nella volontà di riscoprire il rapporto vissuto con la comunità di appartenenza, con gli abitanti e l’ambiente naturale e urbanistico in cui essi agiscono. Santarcangelo viene raccontato coralmente, attraverso il parlato informale della gente, reso nella sua quotidianità, fatta di intercalari caratteristici, impulsi umorali, deviazioni irrazionali, formule linguistiche che hanno un carattere tra il narrativo e il teatrale, e procedono per accumulo, quasi estemporaneamente, a ruota libera. Lontani da ogni intellettualismo, i racconti in versi di Baldini sono veri e propri monologhi in cui la voce narrante si esprime con scarsa linearità, in maniera torrentizia o frammentata, ripetendo concetti, interrompendosi, inseguendo un groviglio di pensieri e sentimenti irrazionali, intessuti di spavalderia o rancore, paura o nostalgia.

Chi sono, dunque, questi paesani raccontati con tanta confidente solidarietà, affettuosa sintonia, premurosa comprensione?  Per lo più si tratta di individui defraudati nelle loro aspirazioni e nei loro diritti, che avendo patito umiliazioni, fallimenti e perdite, reclamano un credito dalla vita. Smarriti e sconfitti socialmente, ottengono tuttavia un risarcimento morale proprio per l’inoffensivo candore che li condanna alla marginalità. Così le loro confuse e inconcludenti requisitorie contro i costumi corrotti, le violenze e le ruberie, la ricchezza esibita, la vanità della moda, le chiacchiere giornalistiche e televisive, rivelano un’eticità ingenua e grottesca, provocando nel lettore commozione e istintiva simpatia.

Il giovanotto vissuto che si innamora di un’adolescente immaginandola inesperta, per rimanerne deluso la prima notte di nozze, l’anziano alle prese con i vuoti di memoria, la donna stufa di portare i tacchi bassi, l’impaziente che chiede sempre l’ora ricevendo risposte differenti, il misantropo rinchiuso in cantina, l’incolto che si interroga sul senso della vita e viene deriso da tutti, trovano nella conclusione imprevista del loro confessarsi il colpo d’ala della risata, dello sberleffo, del singhiozzo appena trattenuto, che li rende straordinari interpreti della commedia e della tragedia del vivere. Ognuno esibendo un nome o un soprannome di quelli che non si danno più: Secondo, Gepi. Tugnìn, Siro, Vergiglio, Doriana, Gardo, Micalètt, Nerio, Ivo, Carmen, Miranda, Angelina…

Gli esasperati recitativi in endecasillabi di Raffaello Baldini (con le incalzanti frasi nominali, gli elenchi ellittici, i martellanti punti interrogativi, gli intercalari plebei – porca putèna, ch’u t végna un azidént! –, i rumori sospesi nell’aria: bestemmie, litigi, motori, latrati…) restituiscono oralmente nella loro malinconia e comicità surreale il policromo e appassionato carattere di un intero paese, quale oggi purtroppo va perdendosi nell’anonimato urbano, impersonale e conformista.

Inevitabile e necessaria è la traduzione in italiano del dialetto romagnolo, riportata in calce a ogni composizione, fedelmente ricalcante la scrittura originale. Ma chi volesse appropriarsi dello spirito più genuino della poesia baldiniana, può recuperarlo nei quattro CD-audio del cofanetto Compatto, pubblicato nel 2019 da Off Edizioni, con la cura di Simone Casetta, in cui l’autore legge magistralmente i suoi testi, alcuni dei quali tratti proprio dal volume Ad nòta.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 27 aprile 2021

 

RECENSIONI

REMUZZI

GIUSEPPE REMUZZI, LA SALUTE (NON) È IN VENDITA – LATERZA, BARI-ROMA 2018

Da tempo assegno il 5 per mille della mia dichiarazione dei redditi all’Istituto Mario Negri, che sostengo anche con una donazione annuale, non solo per la stima che provo per la profonda competenza scientifica e l’impegno umano del suo fondatore, Prof. Silvio Garattini, ma anche per l’esperienza diretta che un mio conoscente ha avuto affidando ai ricercatori del Negri la diagnosi di una sua rara malattia genetica, male interpretata da centri medici europei di eccellenza.

L’attuale direttore dell’Istituto, Prof. Giuseppe Remuzzi, che abbiamo imparato a conoscere nei suoi frequenti interventi televisivi sulla pandemia, aveva pubblicato da Laterza nel 2018 un pamphlet appassionato sulla situazione della medicina nel nostro paese, che oggi suona amaramente profetico: La salute (non) è in vendita. Con fervore e autorevolezza, Remuzzi difende l’essenziale e insostituibile importanza del nostro Servizio Sanitario Nazionale, istituito nel 1978 e riformato nel 1992. Prima della sua creazione, in Italia esistevano le mutue, pubbliche e private, che non garantivano pari livelli di omogeneità sul territorio. Invece il SSN risponde a tre principi fondamentali: universalità, solidarietà e uniformità, confermando così il diritto civile enunciato dall’articolo 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure agli indigenti”. Si sancisce in tal modo il principio (che a tutt’oggi non viene riconosciuto nella maggior parte del mondo) che la salute non è un bene da lasciare alle dinamiche del mercato, ma va assicurata a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche e dallo stato sociale dei cittadini. Una grande conquista democratica del nostro paese, che anche oggi va assolutamente difesa e rafforzata.

Il Servizio Sanitario Nazionale implica per lo stato costi di finanziamento molto elevati (per quanto ancora ridotti rispetto a quelli di altre nazioni), e destinati a crescere in futuro, con l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle malattie croniche, il prezzo delle nuove terapie e degli strumenti diagnostici. Ma si possono già ideare e programmare soluzioni atte a contenere le spese. Il Prof. Remuzzi ne indica alcune:

1) La ricognizione delle esigenze dei territori per eliminare attività inutili o ridondanti, promuovendo solo le cure di provata efficacia, chiudendo i piccoli ospedali che disperdono risorse e accreditando gli istituti privati solo laddove l’intervento pubblico sia carente. 2) L’abolizione dell’intramoenia, l’attività privata dei medici dipendenti in ospedale, per mettere fine a corsie preferenziali tra chi può permettersi di pagare e chi no. 3) La creazione di strutture di lunga degenza, che consentano agli ospedali una migliore organizzazione e ricoveri più brevi e meno dispendiosi. 4) L’assunzione dei medici di medicina generale alle dipendenze del SSN, con uguali diritti-doveri-retribuzione degli ospedalieri. 5) L’investimento nella ricerca e nella formazione dei giovani da inserire a tempo pieno nella sanità pubblica.

L’OMS prevede che nel mondo tra dieci anni sarà necessario reclutare 40 milioni di addetti nel settore della salute: l’impiego di ognuno di loro genererà possibilità di lavoro per almeno altre due persone nel campo dell’amministrazione, delle assicurazioni, dell’informatica, dei trasporti e dei servizi. Una reale rivoluzione del mercato del lavoro a livello globale, che produrrà anche un notevole cambiamento nelle abitudini e nella mentalità delle persone. Ci sarà una presenza rilevante della robotizzazione di alcune funzioni all’interno dei laboratori di ricerca e degli ospedali, un massiccio incremento degli studi sulla genetica, sulla prevenzione delle malattie, sulla scoperta di nuovi vaccini. Ciò comporterà anche un’inevitabile modificazione ideologica e comportamentale rispetto a temi fondamentali quali la durata della vita, l’accanimento terapeutico, l’utilizzo di strumenti di informazione informatici, una consapevolezza scientifica sempre più diffusa tra gli utenti. Indispensabile è comunque preservare il mantenimento di un Servizio Sanitario Nazionale efficiente e democratico, che garantisca le stesse possibilità di cura al Nord come al Sud, evitando le differenziazioni economiche, gli sprechi di investimento, le lunghe liste d’attesa e la disorganizzazione cui oggi assistiamo ancora troppo spesso.

 

© Riproduzione riservata         SoloLibri.net › Salute-non-e-in-vendita-Remuzzi    21 aprile 2021

 

 

 

RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, PAESAGGIO – EDIZIONI DEL MEDITERRANEO, ROMA 2020

Con la silloge Paesaggio Dino Villatico ha vinto lo scorso anno il primo premio del Concorso di Poesia È un brusio la vita. Omaggio a Pier Paolo Pasolini, organizzato da EuroMed University. Le Edizioni del Mediterraneo hanno quindi pubblicato questa pregiata raccolta di dieci poesie, con la prefazione e l’icastica immagine di copertina di Paloma Criado,

Dino Villatico (Roma, 1941) è critico musicale e classicista, ed entrambe queste sue qualifiche rispecchiano la loro natura costitutiva nell’equilibrio armonioso ed elegante dei versi. Il paesaggio del titolo fa da sfondo a una pacata e malinconica meditazione sul trascorrere inclemente del tempo e sull’avvicinarsi del congedo dal mondo: dalle persone amate (“le mani, le carezze, i baci”), dagli oggetti cui si affidano le rassicuranti abitudini quotidiane, dallo spazio materiale che accoglie pensieri e gesti.

Nei dieci componimenti, l’atmosfera serena e rasserenante di ciò che attornia il poeta sembra avere vita autonoma, indipendentemente dal suo sguardo: “Eppure il sole brilla sul giardino, / scalda le foglie, e accarezza il dorso / del gatto che accucciato sul tappeto   /        del dondolo si gode il sonno lieve / degl’innocenti”. Una mosca che ronza sui vetri, il gatto “rosso, furbo e ladro”, gli uccelli che salutano nell’aria trasparente, sono creature innocue e ignare della precarietà dell’esistenza, cui aderiscono con spontanea e candida immediatezza. Esse godono del loro semplice esserci, diversamente da chi le osserva con incantato stupore, tristemente conscio di quello che perderà lasciando la propria forma mortale: “La vita che ci assedia si conclude / nel buio di un terrifico silenzio”.

Tutt’intorno, “quanta bellezza” (nelle colline verdi fuori, nei “troppi libri” dentro casa), gratuita e insieme crudele, perché rende più dolorosa l’idea del distacco. Alla visione ammirata del fulgore della natura, fa da contrappunto la meditazione sulla fine, non solo su quella personale – per quanto temuta e addolorante perché silenziosa, fredda e solitaria –, ma sulla morte cosmica di stelle e pianeti, che trascinerà nel nulla ogni respiro, sentimento ed espressione artistica a cui l’umanità intera aveva affidato il compito di preservare la sua grandezza. Musica, pittura, poesia e straordinarie opere architettoniche saranno assorbite nel buco nero del niente. La paura individuale si fonde con l’angoscia provocata dalla visione dell’inabissarsi dell’universo nel vuoto: “ma là fuori, e qua dentro, dappertutto,     /        mi terrorizza, imperturbata, sorda, / l’indifferenza stabile del tutto”. Buio e gelo, “inaffollato inferno” attendono anche chi ha sperato di lasciare traccia di sé nelle proprie opere: “Un tratto di cammino, qualche impronta / ricorderà per qualche tempo il tuo / passaggio, se la strada è di terriccio. / Ma un alito di vento, qualche goccia / di pioggia cancelleranno le impronte”.

La stessa attonita disperazione che anima la grande poesia mondiale, dai greci ai nostri Leopardi e Montale, vibra nella “calma densa / d’impreviste domande, e di risposte / impronunciate” di Dino Villatico, che in queste dieci composizioni offre, attraverso la composta dolcezza dei versi, un piccolo trattato filosofico sulla vanitas vanitatum dell’esistenza.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 20 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BONANNO

MARIO BONANNO, IL NEMICO NON È – PAGINAUNO, VEDANO AL LAMBRO (MB), 2021 p.148

L’editore PaginaUno ha da poco pubblicato Il nemico non è, volume in cui Mario Bonanno racconta come i più noti cantautori italiani si siano fatti portavoce della volontà popolare di impegno civile, di antagonismo di classe, di protesta politica, di pacifismo, negli anni appassionati in cui il conflitto sociale occupava le prime pagine dei quotidiani e le coscienze della gente. Bonanno (Catania, 1964) ha pubblicato diversi libri e saggi sulla canzone d’autore italiana.  Nel 2007 ha fondato il periodico Musica e Parole di cui è stato direttore fino al 2013, e oggi collabora a diverse testate giornalistiche, a blog e riviste.

Introducendo il suo saggio, sottolinea quanto sia cambiata la canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni del boom economico. Al paese depresso e sconfortato che tentava di risorgere moralmente ed economicamente servivano testi consolatori e incoraggianti, retorici, edulcorati, che offrissero modelli stereotipati di famiglia, amore, patria: Vola colomba, con cui Nilla Pizzi vinse a Sanremo nel 1952, era il prototipo del sentimentalismo più trito e inoffensivo. Ad esso si contrapponeva, già nel 1962, Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco, che raccontava di una relazione imperfetta, annoiata e vissuta con la consapevolezza sincera della relatività di ogni rapporto sentimentale. In seguito, sulla spinta delle canzoni di protesta provenienti da oltreoceano (Bob Dylan e Joan Baez), ma recuperando anche il repertorio popolare dei canti di lavoro di fine ottocento (la cui eco risuonava nella produzione di Pino Masi, Ivan Dalla Mea, Giovanna Marini, ecc.) e delle “canzoni della mala” (Strehler, Amodei, Fo, Svampa, I Gufi) portate al successo da Ornella Vanoni, iniziò a farsi strada la canzone d’autore, connotandosi come rappresentativa delle istanze politico-sociali di un intero decennio. Dopo il 1968, nuovi contenuti animarono testi e musiche di una schiera di cantautori che seppero trarre ispirazione e volontà di denuncia dalla storia contemporanea, aprendosi alla realtà circostante allora politicamente sensibile e attenta alle dinamiche di lotta e resistenza sia nei conflitti bellici internazionali, sia nello scontro esistente tra Potere e individuo.

La parte più corposa del volume di Mario Bonanno (il cui titolo è tratto da una canzone di Enzo Jannacci, Il monumento) riguarda i testi – riportati e commentati nella loro interezza – dei cantautori dichiaratamente schierati contro ogni tipo di violenza e ingiustizia.

Racconta quindi gli esordi corrosivi di Edoardo Bennato, violentemente antimilitaristici e polemicamente contrari a ogni indottrinamento ideologico impartito dalle istituzioni (famiglia, scuola, chiesa); l’insofferenza nei confronti di ogni  forma di sistema repressivo in Pierangelo Bertoli, fedele a un’accezione marxista di lotta di classe; l’umanesimo poetico di Massimo Bubola; l’ironia svagata ed evocativa di Mario Castelnuovo; il sarcasmo di Mimmo Cavallo; le rivisitazioni storiche di Edoardo De Angelis; la malinconica goliardia di Ivan Graziani; la vertiginosa dinamicità tra presente e storia di Mimmo Locasciulli; l’interesse per le aritmie sociali di Claudio Lolli, l’operaismo di Paolo Pietrangeli, il surrealismo di Gianfranco Manfredi.

Passa poi in rassegna il repertorio degli interpreti maggiori, illustrando le loro canzoni più agguerrite nel denunciare il sistema di potere che schiaccia, corrompe, disarma non solo attraverso lo schieramento di eserciti e l’armamentari bellico, ma anche con metodi educativi e repressivi che condizionano le esistenze dei singoli. Conflitti e soprusi che schierano “uomini contro altri uomini, idee contro altre idee, divise (mentali e non) contro divise”.

Il pacifismo di Fabrizio De André esprime forse il suo tratto ideologico preponderante: “L’idea di pace secondo De André è subordinata a una rivendicazione di libertà, di affrancamento, di presa di distanza dai (dis)valori borghesi. Passino essi da religione, guerre sante, governi e bandiere, di qualunque estrazione”. Il suo impegno pacifista, già esplicito in Fila la lana del 1965, anima canzoni diventate un simbolo dell’antimilitarismo: Girotondo, La ballata dell’eroe, La guerra di Piero, Fiume Sand Creek fino ad Anime salve, del 1996. Con lui, Francesco De Gregori ha rivestito un ruolo rivoluzionario nella nostra canzone d’autore, come portatore di un linguaggio formalmente inedito (“doppi e tripli sensi, ossimori, impennate, metonimie, simbologie palesi e/o sottese, sinestesie spiazzanti, apparenti nonsense”), attraverso cui veicolare contenuti di dirompente carica sovversiva, rileggendo memorie individuali e collettive senza alcuna pesantezza didascalica e restituendole al loro reale valore di testimonianza storica: 1940, Il cuoco di Salò, Pilota di guerra, La storia, Cercando un altro Egitto, Generale, Saigon, San Lorenzo. La ricca discografia di Eugenio Finardi lo indica come rappresentante di una generazione inquieta, alla ricerca di una propria identità, sia nell’ambito politico che in quello privato e familiare, avendo come elemento caratterizzante il rifiuto dell’autoritarismo e di ogni sopraffazione istituzionalizzata (Quando stai per cominciare, Giai Phong, Soweto). Di Ivano Fossati Bonanno mette in luce la sensibilità priva di declamazione con cui si suggeriscono stati d’animo interiori più che avvenimenti esterni (Dieci soldati, Poca voglia di fare il soldato, Speakering, L’abito della sposa, Bella speranza, Treno di ferro). Speculative, filosofiche più che politiche sono le ballate di Francesco Guccini (Amerigo, Eskimo, Auschwitz, Primavera di Praga, Il matto, Noi non ci saremo, L’atomica cinese, Il caduto), in cui il cantautore emiliano si interroga “sull’ambiguità che fa da    sfondo all’esistenza umana”. Con Vincenzina e la fabbrica Enzo Jannacci (“ossimoro vivente”) scriveva una poesia di epica quotidiana, estendendo il concetto di guerra allo sfruttamento sul posto di lavoro, tema ripreso in La costruzione. In Matto e vigliacco, un outsider della nostra canzone come Gino Paoli fece dell’obiezione di coscienza l’atto di disobbedienza civile per antonomasia. Il disincanto e la protesta di Luigi Tenco diedero voce al rifiuto della guerra in Io vorrei essere là e in E se ci diranno. Filosofia e storia nutrono le narrazioni di Roberto Vecchioni (Waterloo, Aiace, Gaston e Astolfo, Millenovantanove, Tema del soldato eterno e degli aironi, Il cielo di Austerlitz, Shalom).  Epos e impegno si ritrovano anche nella prima produzione di Antonello Venditti (L’orso bruno, Le cose della vita, Brucia Roma, Ma che bella giornata di sole).

A questo esauriente e dettagliato capitolo sui testi pacifisti e antimilitaristici, Mario Bonanno fa seguire altre importanti sezioni dedicate agli anni di piombo e alle istanze movimentiste del ’77, quando la contestazione si fece più dura, gli scontri di piazza più pesanti, la divaricazione tra società civile e classe diri gente sempre più accentuata: anni di stragi, di tentazioni golpiste, di lobby occulte. Ancora una volta furono gli stessi cantautori sensibili al disagio sociale a interpretare la rabbia popolare e la voglia di partecipazione e di cambiamento dello status quo. Giorgio Gaber firmava con La presa del potere e Io se fossi Dio “una radiografia impietosa delle cancrene di una nazione in rovina”.

Non solo colombe che volano, io tu e le rose, tuca-tuca e cuori matti, quindi, nel repertorio della musica leggera del nostro paese. Il nemico non è offre un’ampia e documentata rassegna di canzoni che, con la poeticità dei loro testi, hanno saputo opporsi alle logiche del mercato, del facile consumo, del disimpegno di massa, rifiutando l’enfasi e la retorica degli anni cinquanta, e offrendo un degno contraltare al vuoto e alla futilità della produzione attuale. Le due interviste a Finardi e Lolli riportate da Mario Bonanno a conclusione del volume ne suggellano meritevolmente il messaggio di risoluto impegno intellettuale e politico.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 17 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KEUCHEYAN

RAZMIG KEUCHEYAN, I BISOGNI ARTIFICIALI – OMBRE CORTE, VERONA 2021

L’ultimo volume di Razmig Keucheyan pubblicato in Italia si intitola I bisogni artificiali, e riporta un sottotitolo esplicativo: Come uscire dal consumismo. Keucheyan, nato in Svizzera nel 1975, è docente di sociologia all’Università Paris-Descartes. Famoso in Francia per essere uno dei massimi conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci, è redattore delle riviste Contretemps e Actuel Marx, ha pubblicato numerosi testi di critica politica, di ecologia e di pratiche di resistenza sociale. Dal 2008 è membro del Nouveau Parti anticapitaliste. In Italia è stato pubblicato nel 2019 – sempre da Ombre Corte – il suo La natura è un campo di battaglia, che affronta il fenomeno del razzismo ambientale e della geo-strategia climatica, secondo cui il capitalismo internazionale concorre alla catastrofe ecologica grazie a strategie di profitto finanziario, localizzando le discariche di rifiuti tossici nelle aree povere del mondo, e adottando risposte militari per frenare le migrazioni dovute al surriscaldamento globale.

In quest’ultimo volume si analizza invece in maniera critica e appassionata il problema del consumismo che, corrompendo abitudini e coscienze degli abitanti del pianeta-Terra, induce in loro bisogni artificiali sempre nuovi, destinati a rimanere insoddisfatti e continuamente replicati. Già vent’anni fa Zygmunt Bauman indicava nella gratificazione dei desideri stimolata dal consumismo l’esigenza capitalistica di mantenere alta e sempre inappagata le domande degli acquirenti, pena la stagnazione economica del mercato internazionale. Razmig Keucheyan riprende ed estremizza le tesi del pensatore polacco, facendo proprie anche le istanze espresse da numerosi filosofi e sociologi contemporanei (Jean Baudrillard, Serge Latouche, Amartya Sen, Pierre Bourdieu, Bruno Latour …), polemicamente avversi alla sovrapproduzione delle merci e alla loro idolatria.

Scegliendo come esergo una frase di Karl Marx, “Una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali”, in otto capitoli (alcuni a tema, dedicati all’inquinamento luminoso, al consumo compulsivo e alla garanzia dei beni, altri più teoricamente collegati alla filosofia politica marxista), l’autore si propone di distinguere i bisogni legittimi, derivati da effettive necessità di mantenimento personale e sociale, da quelli egoistici e indifendibili dal punto di vista della salute pubblica e del sostentamento planetario.

“Chiamo artificiali i bisogni che, da un lato, non sono ecologicamente sostenibili, che danno luogo a un sovrasfruttamento delle risorse naturali, dei flussi energetici, delle materie prime; dall’altro, i bisogni che l’individuo o la collettività sentono che in qualche modo danneggiano la soggettività, i bisogni che non danno luogo a forme di soddisfazione duratura. Bisogni alienanti, in un certo senso. L’ossessione per l’ultimo ritrovato della tecnologia, per l’ultimo capo di abbigliamento, per l’ultimo modello d’auto, questa ossessione per la novità insita nel sistema capitalista è una delle dimensioni del carattere artificiale dei bisogni”. Esistono infatti bisogni biologici assoluti (mangiare, bere, ripararsi dal freddo), bisogni qualitativi e radicali (culturali, affettivi, sessuali) e bisogni standardizzati creati per rispondere alle richieste di consumatori divenuti essi stessi standardizzati nelle aspirazioni, nei gusti, nei modelli di vita.

Partendo dall’enunciazione delle attuali forme di alienazione individuale e di distruzione ambientale, Keucheyan ricostruisce il percorso storico dello sviluppo economico nelle società capitalistiche, con le relative interpretazioni critiche (Karl Marx, Antonio Gramsci, André Gorz, Agnes Heller), per passare quindi a un’analisi dei comportamenti soggettivi delle persone ostaggi di bisogni artificiali. Nel creare rapporti feticistici con gli oggetti di consumo, anche l’individuo-cliente viene trasformato in merce sfruttabile, illuso nel desiderio di prestigio sociale, di accettazione da parte della comunità di appartenenza, di adeguamento conformistico al lifestyle imposto dai media. “L’oniomania, vale a dire la mania dell’acquisto, compare nell’ultima versione del DsM (2013, il “DsM-5”) sotto la denominazione “disturbi del controllo degli impulsi”, assieme alla cleptomania, alla piromania e al gioco d’azzardo. Viene spesso stabilita una vicinanza con i disturbi ossessivo-compulsivi e i disturbi della personalità”. Una vera e propria malattia, quindi, alimentata prepotentemente dall’utilizzo di internet, che permette di comprare qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, senza uscire di casa, utilizzando forme di pagamento “astratte”, per potersi avvicinare nel momento del possesso a un sé idealizzato e a un mondo da cui ci si teme esclusi, ma entrando così in un circuito di sentimenti incontrollabili: eccitazione, senso di colpa, rabbia, euforia, frustrazione. Senza poi riuscire a godere affettivamente dell’acquisto, e venendone invece indotti a cercare articoli sostitutivi più nuovi e appaganti.

L’indagine dell’autore si sposta poi dalle abitudini degli utenti alla realtà oggettiva del mercato e alla produzione industriale oggi caratterizzata da serialità, livellamento, concorrenzialità, organizzazione gerarchizzata del lavoro intellettuale e manuale, tipiche di un cosmo-capitalismo produttivista e consumista, che per mantenere i propri livelli di profitto utilizza i canali della pubblicità, del credito finanziario, dell’obsolescenza dei prodotti da sostituire in continuazione. Molto interessante risulta l’excursus sulla nascita, lo sviluppo e le clausole legali del concetto di garanzia che si accompagna alla vendita dei prodotti.

In conclusione, gli effetti del consumismo esasperato sono numerosi e deleteri: l’aggravarsi della crisi ambientale, lo spreco di materie prime, la dequalificazione del personale addetto alla produzione e al commercio, la dipendenza psicologica dei clienti, l’alterazione dei rapporti interpersonali e il decadimento di valori fondanti nella vita comunitaria.

Per limitare le conseguenze negative di questo sfrenato accaparramento di “cose”, Razmig Keucheyan propone un progetto politico in grado di mobilitare grandi settori sociali e culturali (e in primo luogo le classi popolari), attraverso coalizioni di consumatori capaci – con interventi organizzati di discussione, educazione e dissuasione – di consapevolizzare le persone sulla disutilità di accumulare beni materiali che non rispondano a effettive esigenze vitali: sensibilizzandole a modificare le proprie abitudini di acquisto, e convincendole a scegliere prodotti durevoli ed “emancipati”, con requisiti di sostenibilità ambientale, eticamente attenti alle condizioni di produzione dei lavoratori e delle aziende.  “Si tratta di ripristinare il ‘repertorio d’azione’ delle associazioni dei consumatori più combattive: etichette sindacali, liste bianche, boicottaggio, buycott, denuncia della pubblicità ingannevole, testing ecc.”, solidarizzando con le maestranze della logistica, costrette a turni di lavoro massacranti per ottimizzare i profitti delle grandi multinazionali delle e-commerce.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 12 aprile 2021